giovedì 31 dicembre 2020

Storie (XVI). "Arriveranno i gud taims..."

Sulla Sesta Avenue, tra la 43esima e la 44esima West, c'è un grande palazzo di uffici che si chiama The Hippodrome Building. Un nome curioso per un anonimo grattacielo, uno dei tanti di Midtown Manhattan. Non fatevi ingannare dal nome: dove adesso c'è quell'edificio non c'era un ippodromo, ma il più grande teatro del mondo. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

domenica 20 dicembre 2020

Verba volant (794): slitta...

Slitta, sost. f.

Anche se sono più vecchio di Cesare Cremonini, so quanto sia bello andare in giro in Vespa per i colli bolognesi. Invece non so proprio come sia andare in slitta sulla neve tirato da un cavallo al trotto. Pare sia divertente, anche se devo fidarmi di quello che racconta James Lord Pierpont. E comunque Cesare non me la racconti giusta: sappiamo tutti e due che la parte più divertente è quando vai in giro in Vespa con la tua ragazza seduta dietro, come Gregory Peck in Vacanze romane. Almeno James è più onesto: confessa che a lui piace andare in slitta proprio perché così può stare finalmente da solo con la sua Fanny. Certo c'è sempre il rischio di cadere e magari di fare una brutta figura di fronte a qualche damerino di passaggio. Ma - assicura James - se attacchi un baio veloce, carichi una ragazza e cominci a cantare, stai sicuro: è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi, se hai una slitta che ti toglie i problemi.
E poi è divertente ascoltare il suono delle campanelle attaccate alle briglie del cavallo, anche se le hai messe per far sentire agli incroci che stai arrivando. Meglio essere prudenti, una slitta sulla neve, a differenza della Vespa quando vai su per Casaglia, non fa praticamente nessun rumore. Quindi ragazzo, fa' suonare quelle campane.

A differenza di quello che succede con Cremonini, abbiamo un solo ritratto di James Lord Pierpont, un rispettabile signore di cinquant'anni in redingote con una folta barba nera. In quel momento James, sposato e padre di quattro figli, vive in Georgia, è l'organista della locale chiesa presbiteriana, insegna musica nella scuola della città e dà lezioni private di pianoforte. Anche se è nato a Boston, vive da tempo al sud, tanto che si è arruolato come volontario nell'esercito della Confederazione. È uno dei tanti reduci della guerra di secessione che cerca di adattarsi ai tempi nuovi. Sono lontani gli anni in cui si è imbarcato in una baleniera e poi è andato in California per partecipare, senza successo, alla corsa all'oro. Ha tentato anche di fare il fotografo, anche in questo caso senza fortuna. Però James ama la musica, sa suonare l'organo ed è capace di comporre canzoni. Scrive musica da ballo, ma soprattutto canzoni per gli spettacoli dei Minstrel, attori e cantanti bianchi con la faccia dipinta di nero, che rappresentano i neri in maniera stereotipata e offensiva. Però il pubblico si diverte e questi spettacoli di varietà hanno un certo successo negli Stati Uniti - a nord e a sud - negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento. E, nonostante il chiaro intento razzista, è il modo in cui i bianchi scoprono la musica dei neri. E quello che diventerà all'inizio del Novecento il jazz.
Non sappiamo di preciso né quando né dove James abbia composto la canzone intitolata The One Horse Open Sleigh, in cui racconta di quanto sia divertente portare una ragazza in giro con la slitta d'inverno. Sappiamo che è stata eseguita per la prima volta il 15 settembre 1857 all'Ordway Hall di Boston da John Pell, un popolare "menestrello" dalla faccia nera, in uno dei suoi spettacoli. E non sappiamo se sia piaciuta al pubblico, che probabilmente si è messo a ridere quando Johnny, cantando la terza strofa, quella dove si racconta la caduta, si è buttato a terra, fingendo di essersi fatto male al sedere. O ha fatto qualche gesto volgare per descrivere Fanny che finalmente ha deciso di accettare l'invito a fare quella corsa sulla slitta. In fondo si divertivano così. Gli spettatori probabilmente hanno trovato quel pezzo - il cui ritornello richiama il Canone di Pachelbel - piuttosto orecchiabile, anche perché simile a tante altri canzoni tradizionali che hanno già sentito o magari cantato proprio andando sulle slitte. Ma James ha bisogno di soldi, deve scrivere le sue canzoni in fretta e sfrutta il più possibile quello che c'è in giro. 
In quegli stessi mesi il fratello di James diventa reverendo della chiesa presbiteriana unitaria di Savannah in Georgia e lui lo segue per suonare l'organo e dirigere il coro. Per la Festa del Ringraziamento di quell'anno, James insegna al suo nuovo coro quella canzone sulle campane e sulle slitte. È una canzone che parla della neve e dell'inverno e poi è abbastanza facile da imparare in pochi giorni. Mentre suona l'organo della chiesa di Savannah - che sarà chiusa dopo due anni perché sostiene l'abolizione della schiavitù, un "dogma" che in Georgia in quegli anni ha scarsa fortuna - James non può certo immaginare che ha scritto una delle più famose canzoni di Natale del mondo, una canzone che tutti abbiamo cantato e storpiato, anche se non sappiamo l'inglese e non abbiamo idea che si parli di slitte. 

Non ci sono notizie precise su quando Jingle Bells sia diventata una delle più popolari canzoni natalizie di sempre. Rispetto alla versione di Pierpont quella che cantiamo noi - e che è una popolare suoneria di cellulare - ha un ritornello ancora più semplice e non sappiamo chi l'abbia scritta così, ma certo viene registrata in questo modo da Will Lyle il 30 ottobre 1889 su un cilindro Edison, anche se non si ha notizie di copie superstiti. La prima registrazione arrivata fino a noi è di qualche settimana dopo: l'Edison Male Quartette, sempre su un cilindro Edison, incide una parte della canzone in un medley natalizio - usavano già allora - intitolato Sleigh Ride Party. Nel 1902 i quattro artisti, che ormai si fanno chiamare Hayden Quartet, perché non cantano solo per la Edison, e sono il più popolare quartetto vocale di qua e di là dell'Atlantico dei primi anni del Novecento, incidono Jingle Bells
E da allora questa canzone è definitivamente una delle canzoni di Natale, anzi la più conosciuta e cantata canzone non religiosa di Natale. Nel 1935 la versione di Benny Goodman raggiunge il 18° posto della classifica dei dischi più venduti, mentre nel 1941 Glenn Miller ottiene il quinto posto. E durante le feste di Natale del 2006 la cantante Kimberley Locke, scoperta nella secondo edizione di American Idol, raggiunge il primo posto con la sua registrazione della canzone. Nel 1957 Bobby Helms ha riscritto la musica in stile rockabilly. E davvero tutti hanno registrato Jingle Bells, da Sinatra a Mickey Mouse, dai Beatles a Pavarotti. Oppure quel ritornello così famoso viene appena citato, come nella versione di Bruce Springsteen di Santa Claus Is Comin' to Town. E non mancano ovviamente le parodie, come quella famosa Jingle Bells, Batman Smells, scritta negli anni Sessanta, ma rimessa in auge da Burt Simpson. O, visto che la canzone è diventata internazionale, in qualche caso si decide di cambiare le parole. In Australia a Natale non c'è la neve e non si va in slitta, però puoi portare la tua ragazza su una vecchia Holden sollevando la polvere nel bush: il risultato non cambia
Il 16 dicembre 1965 gli astronauti della missione Gemini Tom Stafford e Wally Schirra, con delle campanelle e un'armonica portate sulla navicella all'insaputa della base di Cape Canaveral, hanno eseguito una loro versione di Jingle Bells, che quindi è diventata la prima canzone diffusa nello spazio.

E James?
Continua a fare la sua vita da gentiluomo del sud. Nel 1880 suo figlio Juriah, che è diventato un medico, rinnova il copyright sulla canzone, riuscendo, pur con notevoli sforzi, a mantenerla legata al nome del padre. Anche se non ne ricaverà mai molti soldi. James Lord Pierpont muore a Winter Haven - e uno che ha scritto Jingle Bells dove altro poteva trasferirsi? - in Florida il 5 agosto 1893. E anche se non ha goduto i benefici economici, nel 1970 il suo nome è stato inserito nella Songwriters Hall of Fame, proprio per aver scritto, copiando qua e là, quella canzone.
Forse gli avrebbe fatto più piacere sapere che nel 2006 un altro "menestrello" avrebbe usato la struttura del ritornello e le prime due righe della sua The Little White Cottage, una ballata del 1857 scritta proprio nello stesso anno di Jingle Bells, per la sua Nettie Moore, l'ottavo brano di Modern Times.

Quindi la prossima volta che sentite Jingle Bells non pensate al cenone e ai regali, e neppure al Natale, ma solo di essere su una slitta con la vostra Fanny e di andare veloci verso il tramonto.

lunedì 14 dicembre 2020

Verba volant (793): buio...

Buio
, sost. m.

Forse non siamo disposti ad ammetterlo, ma anche noi "grandi" abbiamo paura del buio.
Eppure noi non siamo mai al buio. Chi di noi vive in città, sa che le finestre lasciano filtrare le luci delle strade e dei palazzi vicini, ma anche chi vive in campagna, isolato dalle altre case, sa che il buio non esiste più. 
Ci sono quei piccoli punti rossi che ci dicono che i nostri televisori, anche se momentaneamente sono spenti, sono lì, pronti a trasmettere i programmi che stanno "custodendo" per noi, e che i nostri allarmi sono inseriti, perché altrimenti non ci sentiremmo sicuri neppure a casa, e le nostre caldaie e i nostri impianti di condizionamento sono accesi, perché vogliamo dormire al fresco d'estate e al caldo in inverno, sempre vestendo lo stesso pigiama di moda, e poi ci sono le luci degli schermi dei nostri telefonini e dei nostri tablet, che, mentre noi dormiamo, si "nutrono" di energia per permetterci la mattina successiva di essere nuovamente connessi con il mondo e che continuano a ricevere notifiche e informazioni, perché da qualche parte del mondo è sempre giorno, ma soprattutto non riusciamo ad avere paura del buio perché sappiamo che ci basta allungare un braccio fuori dalle coperte e fiat lux
Il buio è un lusso che non possiamo più permetterci, la luce accompagna sempre la nostra vita, a qualsiasi ora del giorno e della notte. 
Curiosamente, almeno da un punto di vista etimologico, il buio ha a che fare con il fuoco. Questa parola deriva infatti dal basso latino burus - e per questo nei dialetti di derivazione gallica, come quello di Bologna, noi diciamo ancora bur - e significa bruciato, arso. In sostanza il buio è il colore di quello che il fuoco ha distrutto. 
Come se l'etimologia volesse dirci che non dobbiamo avere paura del buio, ma della luce, di troppa luce. E infatti quelle piccole luci che riempiono le nostre case, per quanto siano il segno di un progresso a cui non possiamo - e non dobbiamo - più rinunciare, sono anche il segno di un pericolo, la perdita del senso del limite. E non possiamo dimenticare che per permetterci di stare nel tepore dei nostri letti, in attesa di svegliarci trovando sempre l'acqua calda e le ultime notizie sui nostri telefoni, è necessaria un'incredibile quantità di energia che mette a rischio l'equilibrio del nostro pianeta e spesso è fondata sullo sfruttamento di persone che non godono di questi stessi privilegi. 
E se tutti i quasi otto miliardi di donne e uomini che ci sono su questo pianeta potessero, come facciamo noi, e come naturalmente sarebbe auspicabile, avere una casa e tutte le luci che abbiamo noi, quanto resisterebbe il mondo? Sarebbe in breve distrutto. Il pianeta resiste perché noi privilegiati che non dobbiamo più temere il buio siamo una minoranza.  
Ho cominciato a scrivere questa definizione di Verba volant alla mattina del giorno che sul calendario è dedicato a santa Lucia e che nella credenza popolare segue la notte più lunga dell'anno. Una notte che nelle nostre case è ovviamente illuminata dalle lucette degli addobbi natalizi. Sappiamo che non è vero, che il solstizio d'inverno cade qualche giorno dopo, ma non importa: io continuo a credere che questa sia la notte più lunga dell'anno, perché così hanno creduto tante generazioni prima della nostra, quelle donne e quegli uomini che hanno conosciuto davvero il buio, perché la loro vita era regolata dal succedersi del giorno e della notte e dalla scansione delle stagioni. E provo una sorta di nostalgia per quel mondo che non ho mai conosciuto, e a cui mi posso aggrappare solo attraverso queste antiche tradizioni. Naturalmente - perché viviamo in un mondo di contraddizioni - sempre al caldo della mia casa e con tutte le luci accese, e scrivendo su un uno schermo illuminato.
E forse, se chiudiamo gli occhi, se proviamo a staccare tutte le nostre diavolerie che non si spengono mai - e non ci spengono mai - potremmo perfino intuire, anche se per un breve momento, cosa significa una notte che sembra non finire e la gioia di quel bagliore di luce quando annuncia che, nonostante tutto, un altro giorno sta per cominciare, anche dopo una notte così lunga, una notte senza fine. Pensate lo stupore con cui i nostri antichissimi progenitori vedevano ogni mattina sorgere il sole, il sospiro di sollievo perché anche quella notte era finita. Certo potevano legittimamente sperare che il sole sarebbe sorto, che la luce sarebbe tornata, perché era sempre successo, ma non ne erano proprio sicuri, in fondo ai loro cuori un po' di paura c'era sempre. Noi siamo sicuri che domani mattina il sole tornerà a sorgere, sappiamo con precisione a che ora la prima luce dell'alba toccherà le nostre città, ma credo che dovremmo riacquistare un po' di quella sana meraviglia, come se non lo sapessimo, come se temessimo che il sole non sorga anche domani.
Proviamo a stare davvero al buio: avremo certamente paura - è naturale averla - ma saremo anche consapevoli che il buio fuori di noi è in qualche modo rassicurante, a differenza del buio che è dentro di noi. Quello sì che deve farci paura. O forse anche in questo caso non è il buio che dobbiamo temere, ma il fuoco dentro di noi che ha la forza di distruggere gli altri e il mondo che ci sta intorno. Dobbiamo avere - come sempre - paura di noi.