lunedì 30 aprile 2018

Verba volant (516): rete...

Rete, sost. f.

Il 30 aprile 1993 - solo venticinque anni fa - il Cern mise gratuitamente a disposizione del pubblico il codice sorgente di un programma scritto qualche anno prima da un suo ricercatore laureatosi in fisica a Oxford, il britannico Tim Berners-Lee: era il codice del world wide web. Oggettivamente quel giorno ha cambiato le nostre vite.
La rete sta cambiando il nostro modo di pensare? Non lo so, non ho le competenze per rispondere a questa domanda e probabilmente per ora è impossibile avere una risposta, dal momento che la cosiddetta rivoluzione digitale è troppo recente per poter aver influito sulle caratteristiche della nostra specie. Però è un tema che mi affascina.
Io trascorro parecchio del mio tempo libero su internet: da settembre del 2009 ho un blog - che qualcuno ha perfino la pazienza di leggere - ho amici con cui parlo e condivido idee attraverso Facebook, leggo i quotidiani on line, cerco informazioni su Wikipedia, ascolto musica grazie ad Accuradio, e così via. Mi dà ancora un certo senso di ebbrezza la possibilità di avere a disposizione una massa così incredibile di notizie, di foto, di video, di poter condividere le cose che scrivo con persone che vivono in ogni parte del mondo. Sinceramente penso che senza la rete la mia vita sarebbe meno interessante: conoscerei meno persone, saprei meno cose, avrei meno opportunità.
Credo che la rete stimoli la mia intelligenza. Perché leggo di più. E scrivo di più. Anzi, grazie al blog ho anche ricominciato a scrivere a mano, con la penna su un foglio di carta. Il desiderio di mantenerlo il più possibile aggiornato e l'impossibilità di essere davanti al computer quando ho qualcosa da raccontare, mi ha spinto a recuperare la manualità dello scrivere, che lavorando avevo perduto, perché scrivevo quasi esclusivamente al computer.
Certo navigare nella rete, porta a distrarsi, a passare in maniera non sempre logica da un argomento all'altro, a scartare, più o meno consciamente, i testi troppo lunghi, a evitare gli approfondimenti. Non so se questo influisce anche in qualche modo sull'intelligenza o sulle capacità di attenzione e di memoria; forse lo scopriremo tra qualche tempo. Ma certamente è una grande fonte di opportunità. Penso che se avessi un figlio non avrei timore a insegnargli a navigare.
C'è comunque un aspetto che mi preoccupa molto. Nonostante quanto dicono molti, internet è uno strumento molto meno democratico di un libro o di un giornale. O meglio, è molto democratico per coloro che ne usufruiscono, ma comporta anche un gran numero di persone che ne sono escluse. Per accedere alla rete non serve soltanto saper "leggere, scrivere e far di conto", ma occorre un computer, l'energia per alimentarlo e i cavi attraverso cui far passare il collegamento. Per troppe persone internet rischia di rimanere un miraggio. Dovendo rendere attuale la definizione di Marx sul socialismo che deve essere "pane e rose", io aggiungerei anche la rete, libera, gratuita e per tutti.

domenica 29 aprile 2018

Verba volant (515): rudere...

Rudere, sost. m.

Ricorderete una delle scene iniziali del film Assassinio sull'Orient Express - il primo, quello di Sidney Lumet - quando sulla banchina della stazione arriva, impartendo ordini e guardando tutti con la sua aria aristocratica, la principessa Dragomirof; Poirot chiede a Pierre: "Chi è quel maestoso rudere?". A me fa un po' lo stesso effetto la Repubblica popolare democratica di Corea, che noi conosciamo semplicemente come Corea del nord: il relitto di un mondo che non esiste più.
Il paese di Kim Jong-un è rimasto ormai l'ultima testimonianza della storia che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, con il mondo diviso in due blocchi: da una parte gli Stati Uniti e il capitalismo e dall'altra l'Unione sovietica e il comunismo. Non era ovviamente così semplice neppure allora, ma almeno è così che il mondo in cui siamo nati e cresciuti rappresentava se stesso e soprattutto è in quel mondo lì che per tanti anni abbiamo fatto politica, facendo una convinta scelta di campo, scegliendo una parte, anche se spesso la criticavamo, proprio perché era la "nostra".
E la Corea, con la sua divisione artificiale lungo il 38° parallelo, rappresentava plasticamente quel mondo lì. A dire la verità nessuno, quando la seconda guerra mondiale stava per finire, pensava che sarebbe andata così: secondo gli accordi della conferenza del Cairo, la penisola coreana, una volta sconfitti gli invasori giapponesi, sarebbe dovuta diventare uno stato indipendente, ma nelle fasi concitate di quei giorni d'estate, quando si capì che, sconfitti i fascismi, stava per cominciare una nuova guerra, le truppe statunitensi e quelle sovietiche iniziarono a occupare il paese, arrivando rispettivamente da sud e da nord. Si incontrarono al 38° parallelo che così divenne, con un tratto di penna su una vecchia cartina del National Geographic inviata a Stalin dagli americani, il confine tra le due Coree.
Poi attorno a quel confine posticcio ci fu una guerra vera - dal 1950 al 1953 - la prima in cui si trovarono di fronte, anche se non in maniera formale, le truppe sovietiche e quelle americane. Noi imparammo a conoscere quella guerra con MASH, il film di Robert Altman del 1970, ma evidentemente il regista voleva raccontare un'altra storia, quella della guerra del Vietnam, di cui non poteva ancora parlare direttamente. Ma il Vietnam era un'altra guerra, anche se sempre dentro la logica bipolare: era il "piccolo" - e rosso - Vietnam contro la potenza degli Stati Uniti, era Davide contro Golia. La Corea fu un'altra cosa: nel '53 le armi nucleari impedirono che lo scontro tra le due potenze potesse davvero scoppiare e fu necessario trovare un accordo: e nella penisola coreana, ancora una volta, fu trovato grazie a quel confine inventato e nel sostegno a quei due paesi che formalmente non firmarono mai la pace.
Il mondo però non è più quello, il capitalismo ha vinto e ha issato le proprie bandiere colorate sulle torri del Cremlino e in piazza Tiananmen. La Corea del sud è una delle potenze economiche del turbocapitalismo, il tablet su cui ho scritto questo post e molti dei dispositivi su cui ora voi lo state leggendo sono stati fabbricati in quel paese. Mentre la Corea del nord è diventata un regime dinastico e militare, in cui il potere è saldamente in mano a un rapace gruppo di potere, che ambisce a diventare un protagonista del trionfante capitalismo, come i loro amici del sud.
Scoppierà la pace? Certamente sì. Perché il mondo ha bisogno dell'obbediente manodopera nordcoreana, così abituata ad avere un padrone: basterà sostituire le immagini di Kim Il-sung con il logo Samsung. Perché ai padroni non serve più quel rudere asiatico, testimone di un mondo in cui loro avrebbero potuto essere sconfitti.
E noi faremo finta di essere contenti di quelle strette di mano a uso dei fotografi, fischiettando, come i personaggi di Altman, le note di Suicide is painless.

sabato 28 aprile 2018

Verba volant (514): prescia...

Prescia, sost. f.

Una leggenda ben radicata nella politica italiana è che il Pci fosse una sorta di chiesa, in cui le decisioni venivano assunte alle Botteghe oscure e da qui, attraverso una ben oliata catena di comando, giungevano fino alle più periferiche sezioni della penisola, dove i compagni si limitavano a ratificare, magari neppure capendole, scelte prese in un'altra sede e poi le sostenevano con ottusa testardaggine. Peraltro questa storia non era diffusa solo dagli avversari, ma è stata successivamente alimentata anche da persone che in quel partito avevano militato.
Non è proprio così. Prendiamo una delle scelte politicamente più rilevanti degli anni Settanta, una delle più foriere di conseguenze, ossia quello che è storicamente conosciuto come compromesso storico, anche se i comunisti preferivano la definizione alternativa democratica. Come noto, la prima formulazione di questa idea fu fatta da Enrico Berlinguer in tre lunghi articoli, usciti su Rinascita il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre del 1973: si tratta di testi articolati - brevi saggi più che articoli - complessi perché scritti nella prosa politica di quel tempo. Il primo governo in cui venne messa in pratica questa tesi nacque nell'agosto del 1976: si tratta del monocolore Dc di solidarietà nazionale, conosciuto anche come il governo della "non sfiducia".
Ci sono voluti quasi tre anni per far diventare quell'idea una pratica di governo. Non voglio qui discutere su quella fase politica, con tutte le sue potenzialità e pure con i suoi fortissimi limiti e i suoi strascichi negativi; mi limito a ricordare che contro quell'esperienza si scatenò una reazione furibonda da parte di tutta la destra internazionale e delle forze del capitale, che portò all'uccisione di Aldo Moro e quindi credo di poter dire che forse non era poi così sbagliata, come tanti soloni della sinistra adesso teorizzano. Comunque sia a me interessano quei tre anni in cui l'idea fu diffusa nel partito, spiegata, discussa, parzialmente modificata, quei tre anni in cui quell'idea divenne patrimonio delle compagne e dei compagni del partito, pur con molte resistenze, perché si trattava di qualcosa che non era comunque semplice da accettare. Perché in quel partito, pur fortemente inquadrato, pur con un leader carismatico come Berlinguer, pur con una fortissima impronta ideologica, bisognava convincere i militanti, che conoscevano bene la politica, e proprio perché la conoscevano, erano disposti ad accettare - e quindi a sostenere - solo quello di cui erano davvero convinti. E quindi serviva tempo per prendere una decisione, e ancora più tempo per cambiarne una molta radicata. Non si poteva fare in fretta, anche se Berlinguer e i compagni di quella stagione erano ben consapevoli dell'urgenza che spingeva a prendere quella decisione, nata, tra l'altro, per la paura - non teorica - di un colpo di stato sul modello cileno.
Ho fatto questa riflessione perché in queste settimane pare sia destinato a nascere un nuovo governo, anche se non è chiaro da chi sarà composto; anzi sono in campo alcune diverse opzioni, apparentemente tra loro alternative. In questi giorni, davvero pochi giorni, siamo repentinamente passati da una all'altra formula. Evidentemente la cosa importante è fare, e fare in fretta. Curiosamente il fatto che le forze politiche si siano prese alcuni giorni - non tre anni - per discutere della cosa, è visto da molti come un'inutile perdita di tempo. E in questi pochi giorni forze politiche che fino all'altro ieri erano avversarie decideranno se fare o non fare un governo di coalizione, anche se non si capisce in base a che cosa.
O forse si capisce benissimo, perché l'unico vero tema di cui si discute in questi giorni è chi guiderà questo governo. Tra le forze politiche è in corso una sorta di lotta di resistenza per imporre il proprio candidato. Ovviamente è importante sapere chi guiderà il prossimo governo, se questo o quell'altro esponente politico, ma questo non può esaurire la discussione, non può rispondere alle domande: per fare cosa? in nome di quali interessi? per difendere quale blocco sociale? A queste domande non c'è risposta, perché i governi che ci vengono via via proposti non sono diversi l'uno dall'altro, al di là del nome di chi sarà chiamato a guidarlo.
Mi rendo conto che oggettivamente oggi la politica ha gli strumenti per essere più veloce di quanto fosse quarant'anni fa - e magari il Pci di Berlinguer, se ci fosse stata la rete, avrebbe impiegato qualche mese in meno per decidere il compromesso storico - ma non si può neppure pensare che una riunione di un organo dirigente convocata nel giro di una settimana o una consultazione on line di poche ore possano esaurire una discussione. Se in un settimana si può tranquillamente passare da un governo M5s-Lega a uno M5s-pd significa che questi due esecutivi, al di là di qualche aspetto di folklore, sono destinati a essere la stessa cosa, a rispondere agli stessi poteri, a interpretare la stessa parte in commedia. La politica, almeno per come ce l'hanno insegnata, è un'altra cosa. E non le si può metter prescia.

giovedì 26 aprile 2018

Verba volant (513): scudo...

Scudo, sost. m.

Gli antichi greci raccontavano tante storie su Perseo, ma certamente quella che amavano di più, quella che li teneva avvinti quando l'aedo cominciava il suo canto, era quella in cui il figlio di Zeus e Danae, per ordine di un re cattivo - c'è sempre un re cattivo in queste storie - riusciva a tagliare la testa a Medusa, la terribile creatura che aveva delle serpi al posto dei capelli e rendeva di pietra gli uomini e gli animali che la guardavano negli occhi. E come al solito questa parte tocca a una donna, perché probabilmente in un tempo antichissimo, Medusa non era un mostro, ma una divinità benigna - e il suo nome significa infatti colei che protegge - al tempo in cui comandavano le donne; ma poi le donne furono sconfitte dagli uomini, che presero il potere con i loro dei maschi. E le antiche divinità divennero streghe.
Comunque sia questa storia aveva un tale successo da spingere gli aedi a creare perfino un prequel - come diremmo noi - ossia il racconto delle avventure di Perseo per trovare tutte le armi necessarie a sconfiggere la Gorgone, e naturalmente numerosi sequel, ossia cosa fece l'eroe con quella testa mozzata, che aveva ancora il potere di pietrificare chi la guardasse.
E' noto lo stratagemma che usò Perseo per avere la meglio su quella creatura mitica: le si avvicinò proteggendosi con uno scudo lucentissimo, che rifletteva le immagini, e in questo modo, guardando la Gorgone attraverso lo specchio, sfuggì all'incantamento e riuscì, con il falcetto adamantino dono di Ermes, ad assestare il colpo che le staccò la testa e che subito mise in un sacco, affinché non fosse per lui più un pericolo.
Non era quindi lo sguardo di Medusa capace di rendere di pietra gli esseri viventi, come spesso si racconta, banalizzando il mito: Medusa non aveva un superpotere, come se fosse un eroe della Marvel. Quando guardavano il suo viso gli uomini vedevano qualcosa che li terrorizzava, fino al punto di trasformarli in pietra. Ma cosa vedevano?
Una tradizione racconta che Medusa fosse un mostro, una sorta di strega, ma una più antica dice fosse una donna bellissima, tanto che la sua bellezza sfidava quella delle dee e per questo Atena, piena di invidia, le fu così ostile, tanto da armare, e qualcuno dice perfino materialmente guidare, la mano di Perseo. Gli artisti - pochi per altro - che hanno rappresentato la Gorgone hanno optato per questa seconda tradizione. Così come Chris Columbus, il regista di Percy Jackson and the Olympians - che è il mezzo in cui i nostri figli conoscono il mito - ha affidato questo ruolo a Uma Thurman.
Rubens dipinge una testa senza vita, con gli occhi chiusi, gettata a terra. Caravaggio fa una scelta diversa e dipinge la testa mozzata come l'aveva vista Perseo, ossia riflessa nello scudo. Ma quel viso di drammatica intensità, con gli occhi sbarrati, con la bocca ancora aperta in un grido interrotto, con il sangue che cola, ha lineamenti maschili, sembra il Bacchino malato, invecchiato di qualche anno, che lo stesso Caravaggio aveva dipinto tre anni prima, rappresentando se stesso. Anche Medusa è un suo autoritratto.
A me affascina questa idea del pittore lombardo. Gli uomini, quando guardano la Gorgone, vedono se stessi e ne rimangono terrorizzati, vedono fino a che punto di malvagità possono giungere, vedono l'orrore che sono capaci di compiere, vedono le atrocità che possono infliggere ai propri simili. Ed è un'immagine capace di paralizzarli.
Mi pare una riflessione utile da fare in questi giorni, in cui ricordiamo la liberazione del nostro paese dal regime fascista e la fine di un conflitto incredibilmente violento, durante il quale le donne e gli uomini di quel tempo videro il volto di Medusa nel suo aspetto più terribile e crudele.
Perseo vide se stesso quando rivolse il suo scudo verso Medusa e si salvò non perché l'immagine riflessa fosse meno spaventosa, ma perché non provò stupore, perché evidentemente sapeva già cosa avrebbe visto, sapeva che Medusa avrebbe avuto il suo volto ed era consapevole di quanto terribili potessero essere gli uomini. Allo stesso modo le donne e gli uomini che ebbero la forza di lottare contro il demone fascista, sapevano che quei regimi erano fatti da donne e da uomini come loro, indistinguibili gli uni dagli altri. Vittime e carnefici avevano lo stesso volto.
Per questo noi dobbiamo, come Perseo, avere la forza di guardare in faccia il male, pur sapendo che, ancora una volta, sarà il nostro volto ciò che vedremo riflesso in quello scudo lucentissimo.

martedì 24 aprile 2018

Verba volant (512): discesa...

Discesa, sost. f.

Non entro nel merito di quello che ha scritto Michele Serra: non mi interessa. Non lo leggo da tempo e non comincerò certo adesso, neppure per il gusto di parlarne male. Da quello che intuisco, leggendo i vostri commenti in rete, pare che abbia scritto una cosa violentemente e volgarmente di destra. Non mi stupisce. Non conosco personalmente Serra, ci siamo incrociati qualche volta, quando io facevo un altro mestiere e lui era già famoso, ma allora partecipavamo di un comune milieu, come diciamo noi che abbiamo fatto il classico. Immagino che oggi sia affetto da una certa dose di narcisismo - succede a noi che scriviamo tanto - e certo tutto questo parlare di lui gli sta procurando un gran godimento.
Però davvero a me non interessa Serra, vorrei capire come siamo finiti qui, Serra, io e tanti di voi: perché questo è un problema di tutti noi, donne e uomini di sinistra. E non pensiamo di rifarci una verginità lanciando strali contro il Serra di turno. Così come renzi non è la causa del suicidio della sinistra italiana, ma siamo noi che tanto abbiamo fatto - e tanto non fatto - per arrivare a questo punto e abbiamo dilapidato il patrimonio politico e culturale che ci avevano lasciato donne e uomini di ben altro spessore.
Noi siamo i protagonisti di questa discesa. Mentre la vivevamo non ce ne rendevamo conto, in fondo erano solo piccoli passi, la discesa ci sembrava impercettibile. Camminavamo tutti insieme, eravamo sicuri che quella fosse la direzione giusta. Adesso però ci siamo girati indietro e ci siamo resi conto, con angoscia e con sgomento, di quanto siamo scesi in basso, vediamo da dove siamo partiti, una cima ormai lontanissima e quella dolce discesa ora ci appare una salita inaffrontabile, tanto più che molti preferiscono andare avanti e continuano a scendere. Questo è il dramma di alcuni di noi: non sappiamo cosa fare e non possiamo far altro che stare fermi. Non vogliamo più continuare a scendere e siamo troppo scoraggiati per tornare indietro e affrontare la fatica di salire.
Abbiamo idee molto diverse sul motivo e sul momento in cui abbiamo cominciato questa inesorabile caduta: abbiamo litigato spesso su questo e francamente non mi importa tornarci sopra. Così come a questo punto non mi appassiona capire se sia stata una decisione che abbiamo preso da soli o se siamo stati spinti a farlo. So però che è stato un tragico errore, di cui siamo i soli responsabili, il fatto che abbiamo smesso di studiare; abbiamo pensato che fosse una perdita di tempo, che fosse più importante fare. E' la nostra ignoranza che ci ha spinto così in basso e studiare sarà l'unico strumento che permetterà a una nuova generazione di donne e di uomini di sinistra, quando noi finalmente ci saremo tolti di mezzo, di cominciare a salire.

sabato 21 aprile 2018

Verba volant (511): pulito...

Pulito, agg. m.

Omnia munda mundis: con queste parole fra' Cristoforo vince la resistenza di fra' Fazio, sagrestano del convento di Pescarenico, che non vorrebbe far entrare di notte quei fuggiaschi - e per di più due donne - nel convento, anche se accompagnati da un confratello come Cristoforo. Tutto è puro per chi è puro, fa dire Manzoni al suo buon frate, ma - come spesso fa - si diverte alle spalle dei suoi personaggi, e spiega che fra' Fazio non ha ceduto - compiendo quindi una buona azione - perché colpito dal profondo messaggio morale di quelle parole, ma semplicemente perché non conosceva il latino e quindi quella frase oscura, per di più pronunciata con tono duro e autoritario da un uomo dalla storia di fra' Cristoforo, gli sono suonate come una minaccia e un arcano ammonimento. E così fra' Cristoforo si è ritrovato come don Abbondio, che usava il suo latinorum per convincere Renzo a rimandare le nozze.
Ho ripensato a questa frase dei Promessi sposi, perché quell'aggettivo, mundus, ha anche un significato più letterale: non significa solo puro, ma anche pulito. E quindi potremmo tradurre la frase anche tutto è pulito per chi è pulito.
Nella notte del 19 aprile è morto in una fabbrica di Salassa, nel canavese, Salah Sehmani, un uomo di cinquant'anni, padre di due figli, che di lavoro faceva le pulizie: mentre faceva questo lavoro, il suo lavoro, da solo, di notte, in quel capannone, alcune balle di polietilene - ciascuna pesa otto quintali - gli sono cadute addosso. Salah è uno dei tanti invisibili che lavora con noi, ma che non vediamo, quelli che tolgono la polvere dalla nostra scrivania e ci svuotano il cestino, quando non ci siamo, quelli che ci puliscono i cessi, che spesso lasciamo più sporchi di quanto faremmo a casa nostra, perché tanto c'è qualcuno che ce li pulisce, qualcuno che non vediamo mai, perché arriva quando noi ce ne siamo andati e se ne va prima che arriviamo. 
Per un'amara ironia, nello stesso giorno un noto politico italiano, capace come pochi altri di dire in pubblico quello che la gente pensa e che si vergogna di esprimere, di raccontare la parte peggiore di noi, volendo insultare i propri avversari, ha detto che nella sua azienda potrebbero solo "pulire i cessi". Omnia munda mundis gli avrebbe risposto fra' Cristoforo e lui, a differenza di fra' Fazio, avrebbe certamente capito quello che gli voleva dire il frate, ma se ne sarebbe fregato, perché sa di parlare a nome di tanti come lui, di una maggioranza probabilmente, che considerano che ci sono lavori che valgono meno di altri, lavori che possono fare quelli come Salah, che anzi ci dovrebbero ringraziare che gli facciamo pulire i nostri cessi, visto da dove sono venuti. Certo non possiamo pretendere che siano i nostri figli a pulire i cessi, loro hanno studiato: abbiamo speso tanto per farli studiare per non far loro pulire i cessi. Ci pensino altri, e anzi la faccio anche fuori dal vaso - non metaforicamente - tanto non sono io che devo pulire. Omnia munda mundis.

venerdì 20 aprile 2018

Considerazioni libere (424): a proposito di un giornale e del suo fallimento...

Leggo che il Tribunale di Roma ha incaricato un perito di procedere alla valutazione di quello che rimane de l'Unità; quando la perizia sarà depositata, il giudice potrà vendere il giornale, attraverso un'asta pubblica. E' l'iter che si segue in ogni caso di fallimento.
Per il lavoro che ho fatto, per il ruolo che ho avuto nel partito che era il proprietario di quel giornale, mi considero responsabile di quel fallimento. Naturalmente posso invocare moltissime attenuanti: siamo in tantissimi a condividere questa responsabilità e certamente la mia è molto minore di quella di altri che, essendo stati dirigenti per molti più anni e con incarichi molto più importanti del mio, potevano capire cosa stava succedendo e cosa si poteva fare per non arrivare a questo punto. A mia parziale discolpa posso dire che quello che ho fatto io l'ho fatto per salvare l'Unità, anche se questo comportava sostenere piani di risanamento quanto meno fantasiosi e iniziative che invece hanno avuto un risultato ben diverso da quello che ci attendavamo, e di cui abbiamo convinto compagne e compagni, che hanno avuto fiducia in noi.
In nome di questa responsabilità faccio una proposta. Noi che abbiamo una qualche colpa, piccola o grande, e che siamo ancora vivi, siamo tantissimi, perché quel partito in cui abbiamo militato ha avuto una lunga storia e un gruppo dirigente vasto e ramificato. Ora non militiamo più nello stesso partito, quelli che fanno ancora politica hanno preso strade diverse, spesso contrapposte, in tanti abbiamo smesso. Capita sovente che ci guardiamo con ostilità, perché ci conosciamo bene. Se facessimo uno sforzo, anche minimo, e ciascuno di noi mettesse una piccola somma in un fondo, potremmo forse ricomprare l'Unità. Io ci starei. A un patto però, che noi nuovi proprietari consegnassimo questa testata alla storia. Non deve più nascere un giornale chiamato l'Unità, è un'esperienza finita, ma di cui noi dobbiamo preservare la memoria, affinché un giornale con questo nome non rinasca in altre forme, magari come un foglio scandalistico - come è successo a l'Avanti! - o perché non diventi l'organo di un qualche gruppo di destra. Compriamo tutti insieme il giornale e consegniamolo a un notaio con l'impegno a non farlo più nascere. Magari chiediamo che venga fatta una legge "salva Unità", che vieti l'impiego di quel nome per far un giornale. Per l'eternità.
E' uno sforzo economico? Magari per qualcuno di noi lo sarebbe anche, ma credo che sarebbe il modo per ripagare quello che il partito ha fatto per noi, quello che ci ha insegnato, quello che ci ha fatto diventare. Far parte di una comunità quando si ricordano i momenti belli è semplice, bisogna farlo anche quando ci sono dei problemi. Poi torneremo a votare in maniera diversa, torneremo a litigare, torneremo a guardarci con astio e a non parlarci. Appunto perché ci conosciamo bene. Ma almeno avremo onorato la memoria di un paio di generazioni di donne e di uomini del Partito Comunista Italiano, che hanno fatto la storia di questo paese, quella migliore. E di cui noi siamo stati così indegni eredi.

mercoledì 18 aprile 2018

Verba volant (510): forno...

Forno, sost. m.

Il profumo che esce da un forno la mattina è certamente uno dei piaceri della vita. Poi sai bene che dietro a quell'odore così gradevole e capace di attirarti, come il canto delle sirene, c'è il duro lavoro dei fornai, che di notte, mentre noi placidamente dormiamo, hanno preparato quel pane, ma intanto tu ti puoi perdere in quel profumo. Non so se chi è nato e cresciuto in una città ha avuto - e ha - la stessa opportunità, ma io che ho frequentato le elementari nei Settanta in un piccolo paese del contado bolognese e andavo a scuola a piedi, ricordo che ogni mattina sentivo quel profumo, perché il forno stava nel breve tragitto tra casa nostra e la scuola. E risento quel profumo anche ora, perché per arrivare in ufficio passo davanti al forno della famiglia Zalaffi.
Credo immaginerete - cari e fedeli lettori di Verba volant - che questa definizione non è dedicata solo alla nostalgia del profumo del pane appena sfornato, ma a una metafora di cui in questi giorni si fa largo uso - mi sembra un po' a sproposito - quella dei "due forni". Pare che l'abbia inventata Giulio Andreotti negli anni Sessanta e comunque, al di là di questa inutile questione di copyright, descrive bene la situazione politica di quel decennio, perché la Democrazia cristiana, grazie alla sua forza e alla sua capacità di essere molte cose contemporaneamente, aveva la possibilità di avere interlocutori sia alla propria destra, dai liberali ai missini, che alla propria sinistra, fino ai socialisti. E naturalmente sfruttò fino in fondo tutte queste possibilità, riuscendo a essere il dominus della politica italiana per tanti anni. Quella stessa metafora fu applicata in anni successivi anche al Psi di Bettino Craxi, anche se in questo caso si trattava di una possibilità più teorica che pratica. Certo i socialisti seppero sfruttare questa posizione in tante amministrazioni locali, riuscendo a governare sia con la Dc che con il Pci, magari ottenendo il sindaco, proprio grazie a questa possibilità, ma a livello nazionale non ci fu mai veramente l'opzione della nascita di un governo formato da Pci e Psi, con la Dc all'opposizione. Di questo erano consapevoli tutti gli attori della politica italiana. Bastava vedere cosa era successo nel '78 quando la Dc di Aldo Moro tentò un'apertura al Pci di Enrico Berlinguer: pensate cosa sarebbe successo se qualcuno avesse tentato di formare un governo senza la Dc. Comunque allora le insegne dei forni erano ben chiare.
Oggi mi pare che nella politica italiana non ci sia più nessuno capace di fare il pane né tanto meno qualcuno che abbia la voglia di svegliarsi la notte per farlo. Questi non hanno proprio la stoffa per fare i fornai, al massimo possono aprire delle botteghe in cui rivendono pane confezionato, preparato giorni prima da qualche altra parte. Senza nessun profumo. 
Francamente la politica dei due forni non mi è mai piaciuta, neppure quando c'erano quelli che sapevano fare il pane. Mi pare sia un'espressione di quell'opportunismo italiano, ben rappresentato dall'antico adagio "o Franza o Spagna purché se magna", attribuito in maniera malevola al Guicciardini.
Mi piacerebbe invece richiamare un altro uso antico, di cui però anch'io - e penso molti di voi - ho ancora memoria. Quando io ero bambino nessuna delle nostre famiglie faceva il pane in casa, lo acquistavamo al forno, però c'erano alcune occasioni in cui quel forno, pur rimanendo di proprietà del fornaio, diventava comunitario, ad esempio per cuocere il coniglio a pasqua. Ricordo che mia nonna, come altre donne della sua età, portavano le teglie a cuocere là, perché con i forni "moderni" che avevano in casa non veniva bene. Quell'uso comunitario del forno era una traccia, un ricordo, di un passato - che è il presente in tante realtà del mondo - quando le famiglie che vivevano in una stessa comunità condividevano alcune cose, come il forno appunto, che non potevano avere ognuna nella propria casa. E quel forno era di tutti, e tutti ne avevano cura, come se fosse il proprio.
Naturalmente quello che ogni famiglia sfornava rimaneva di sua proprietà, ma quando c'è un forno comune non è sempre facile dire cosa è mio e cosa è tuo e magari, in un momento di difficoltà, quel che sarebbe stato solo mio poteva diventare anche un po' tuo. Oppure se io quel giorno non potevo portare il pane a cuocere, tu potevi cuocere anche il mio, mentre lo preparavi per te. Ecco io alla politica dei due forni preferisco decisamente quella del forno comunitario, di un solo forno di cui tutti dovremmo prenderci cura e di una comunità che, intorno a quel forno, pratica una forma concreta di solidarietà.

venerdì 13 aprile 2018

Verba volant (509): mentire...

Mentire, v. intr.

Per un curioso paradosso, la più inverosimile delle fake news per giustificare una guerra è stata anche la più celebre, quella che ha goduto di maggiore fortuna: sinceramente nessuno può davvero credere che i re di tutte le città greche abbiano deciso di partecipare alla spedizione contro Troia, organizzata da Agamennone, solo per riportare a Sparta Elena, tanto più che avevano un pessimo giudizio su Menelao e che pensavano che quelle corna se le fosse proprio meritate. E non ci crede neppure Omero, che appare in imbarazzo quelle poche volte in cui è costretto a citare quell'episodio: per sua fortuna egli racconta quello che è successo in cinquantun giorni del decimo anno di guerra, quando tutti si sono ormai dimenticati delle menzogne che hanno raccontato per giustificare quel conflitto. E poi Omero è un poeta, che vuole raccontare una storia d'amore, quella di Achille e di Patroclo, destinata a concludersi in modo tragico.
Per questo forse non ha il coraggio di raccontare perché quella guerra era scoppiata: le città greche, che si stavano sviluppando, in cui stava crescendo una classe di mercanti sempre più intraprendenti e di uomini legati alla finanza, avevano bisogno di togliere a Troia il controllo dell'Ellesponto - quello che in altra epoca chiameremo stretto dei Dardanelli - e quindi della navigazione verso le terre che si affacciavano sul ponto Eusino, ricche di risorse minerarie e tra le zone di maggior produzione di cereali del mondo antico. Questo però non si poteva raccontare e con Troia non funzionava neppure la storia, sempre molto usata per giustificare una guerra, dello scontro tra civiltà. I troiani parlavano greco, la città era protetta da un'antichissima statua lignea di Atena, anzi erano quelli che attaccavano a essere culturalmente e artisticamente un passo indietro rispetto alla grande e antica città che dominava l'Ellesponto.
In questi giorni altre navi stanno solcando le acque del Mediterraneo, navigando verso oriente: sono molto diverse da quelle descritte da Omero, spinte dalla forza dei venti e da quella dei rematori. E sono molto diverse le bugie di Agamennone e mi pare che nessuno di quelli che si accingono a cantarne le gesta abbia la stessa ritrosia di Omero a diffondere le sue menzogne. Non appena Agamennone ha detto che l'esercito di Troia ha usato delle armi chimiche, in tantissimi gli hanno dato ragione, si sono fatti fotografare con una mano sulla bocca e hanno scritto elzeviri per dire che è proprio vero, che quelle armi sono state usate, i più audaci hanno detto di averne sentito perfino la puzza, a chilometri di distanza. Curiosamente, mentre le bugie sono così diverse, le ragioni, vere, sono così uguali. Agamennone e i re suoi alleati hanno deciso di organizzare questa spedizione, perché c'è una classe di banchieri, di mercanti, di industriali, che ha bisogno di quel conflitto, perché una guerra fa guadagnare soldi, molti soldi, a chi sa come sfruttarla. Ma questo è meglio non raccontarlo, toglie eroismo, toglie fascino alla guerra.
Omero non ci racconta molte morti, descrive tanti combattimenti, ma pochi morti, perché vuole raccontarci le morti importanti, quella di Patroclo per mano di Ettore e quella di Ettore per mano di Achille. E così sappiamo - come sapeva lo stesso Achille - che anche lui morirà, perché il suo destino è strettamente legato a quello dell'eroe troiano: morto Ettore, anche lui è destinato a soccombere, nonostante la sua invincibilità. Eppure tante donne e tanti uomini morirono quando Troia fu alla fine sconfitta, Omero non ce lo vuole raccontare, ma quella guerra fece soprattutto vittime tra i civili. Gran parte dei soldati greci partirono vivi dalla spiaggia di Troia, anche se tanti di loro non arrivarono mai a casa, come i compagni di Odisseo o vennero uccisi quando giunsero in patria, come Agamennone. Gran parte dei soldati di Agamennone tornerà a casa anche questa volta, anche perché la loro guerra è molto diversa da quella degli antichi, possono combattere rimanendo lontani dai loro nemici; torneranno a casa, ma sappiamo che tante volte il loro ritorno non sarà né semplice né felice, perché una guerra ti lascia dentro delle ferite, anche quando la combatti davanti a uno schermo, quando le persone che uccidi sono punti luminosi, come in un videogame. La cosa che invece è proprio uguale in questa storia è che quando Troia, ancora una volta, cadrà, rimarranno tra le macerie le donne e i bambini, quelli più deboli, quelli che non avrebbero voluto combattere, quelli che non avevano nulla da guadagnare dalla guerra. Come è sempre stato, saranno loro, solo loro, le vittime dalla guerra, anche quando sopravviveranno alla catastrofe, perché Troia non ci sarà più, dopo che l'avremo distrutta e non sarà più possibile ricostruirla. Ma anche su questo preferiamo ascoltare delle menzogne.

lunedì 9 aprile 2018

Verba volant (508): alabarda...

Alabarda, sost. f.

Sono passati quarant'anni e non sono sicuro di ricordarmi bene, anche perché allora non sapevo di stare vivendo un momento che quarant'anni dopo avrei dovuto in qualche modo celebrare. Però credo che nel tardo pomeriggio di martedì 4 aprile 1978 io fossi uno di quei ragazzini che guardarono la prima puntata di Atlas Ufo Robot.
Era uno degli orari in cui mi era consentito guardare la televisione e soprattutto era un orario in cui toccava a me scegliere il programma da vedere. A dire la verità non ero io che sceglievo - credo avessimo ancora la televisione in bianco e nero con la manopola per l'audio, quella della sintonia e i bottoni per cambiare canale, anche se c'era poco da cambiare - erano i miei genitori che sceglievano e forse è eufemistico anche usare questo verbo, visto che l'unica scelta era tra accendere e spegnere l'apparecchio; era la Rai che decideva cosa avremmo guardato. Comunque sia, quello era un orario in cui la televisione era in qualche modo dedicata a me, dopo tornava ai miei genitori. Alle otto c'era il telegiornale, che in quei giorni particolari i miei, come tutti gli italiani, guardavano con attonita apprensione: era stato rapito Aldo Moro e il timore che sarebbe stato ucciso era evidente a tutti. Era una sorta di tempo sospeso, in cui si aspettava una notizia che pure non si voleva che arrivasse. Poi c'era il programma della sera, di cui vedevo solo l'inizio prima di andare a letto.
Quel cartone animato - che subito chiamammo Goldrake, dal nome del suo protagonista - era diverso da tutti i cartoni che avevamo visto fino ad allora. Completamente diverso. Non ricordo davvero che impressione mi fece quella sera, ma certamente già nei giorni successivi, quando giocavamo durante la ricreazione con i miei compagni di scuola, divenne normale fingere di attaccarci a colpi di alabarda spaziale.
Certo Goldrake fu anche un fortunato fenomeno commerciale, che venne usato per venderci tanti prodotti, ma credo che ricordiamo ancora quella storia, e le altre che sono seguite in quegli anni, perché finalmente noi avevamo un'epica. Goldrake, Mazinga, Jeeg, erano i nostri Achille e Odisseo.
Il motivo per cui noi abbiamo amato quelle storie - e le ricordiamo con nostalgia - è che erano costruite esattamente con gli stessi elementi della grande epica popolare della Grecia antica. Non fatevi ingannare da quello che sarebbe successo dopo, da quello che vi hanno fatto studiare a scuola: le storie degli eroi, di cui noi conosciamo in forma completa solo l'Iliade e l'Odissea, erano ai tempi degli antichi greci racconti popolari, che gli aedi cantavano nelle piazze, durante le feste, erano storie per il popolo.
E chi le ascoltava sapeva benissimo cosa sarebbe successo, chi sarebbe morto e chi sopravvissuto. Così come noi sapevamo benissimo che Goldrake avrebbe vinto anche quel duello, anche se il suo nemico sembrava invincibile, sembrava il più forte contro cui avesse mai dovuto combattere. Ogni episodio era costruito allo stesso modo, perché l'epica ha bisogno della ripetizione, ma anche nella ripetizione, anche in una serie di episodi che sembrano tutti uguali, succedono delle cose e si sviluppa una storia. La vicenda raccontata in Atlas Ufo Robot, che a noi allora parve lunghissima, durò relativamente poco - sono in tutto 74 episodi - e si conclude con la sconfitta di Vega e il ritorno di Actarus e Maria sul loro pianeta. E così un ciclo si chiude e se ne apre un altro, così come Goldrake era il seguito de Il grande Mazinga e questo a sua volta di Mazinga Z, che invece noi vedemmo in ordine inverso da come era stata concepita la trilogia.
E poi c'è il gusto del fantastico: è lo stesso dell'epica classica. I nemici di Goldrake e in genere i "cattivi" di queste storie sono personaggi a loro modo affascinanti, creature strane, come quelle che incontra Odisseo nel suo lungo viaggio di ritorno a Itaca. E poi i conflitti legati alla paternità e alla patria, ossia al luogo in cui si è nati e per cui si è disposti a morire - anche se Actarus è disposto a morire anche per una patria, la terra, che non è la sua - sono altri temi che questa nostra epica dei robot riprende in pieno da quella degli eroi di Omero.
Manca in quelle prime serie che arrivarono in Italia le pulsioni sessuali che pure erano parte importante dell'epica classica. Non c'erano Elena e Calipso, non c'era Circe, c'erano solo vergini guerriere, tendenzialmente androgine, e probabilmente questo piacque ai funzionari Rai che decisero di trasmettere quei cartoni animati. Ma a placare gli ardori di noi adolescenti sarebbero arrivate altre serie, come L'imbattibile Daitarn 3, non a caso trasmesse sulle nascenti televisioni commerciali. Anche di questo si nutre l'epica.
Ma c'era in quella nostra epica dall'impianto così classico qualcosa che invece era solo nostro. Quei terribili conflitti di robot, quegli incredibili duelli del cielo, si concludevano praticamente sempre con una grande esplosione, raffigurata spesso come un fungo atomico. E non per caso quell'epica è nata nell'unico paese del mondo che aveva visto e subito la distruzione delle armi nucleari. E anche se le storie erano sempre le stesse, e lo stesso era il modo di raccontarle, tutto era cambiato, perché gli uomini erano riusciti a costruire un'arma capace di distruggere l'intero pianeta e la stessa umanità. E niente quindi sarebbe più stato come prima.     

giovedì 5 aprile 2018

Verba volant (507): fallire...

Fallire, v. intr. e tr.

Non so se Lula meriti davvero il carcere, se sia davvero colpevole dei reati per cui è stato condannato. Non conosco i dettagli di quelle vicende e credo sarebbe stupido azzardare un giudizio solo in base alle poche e viziate cose che ci raccontano i mezzi di informazione, che evidentemente non gli sono favorevoli, e ai miei "pregiudizi", visto che sono smaccatamente di parte. Prendo atto della sentenza del Tribunale supremo federale, ma come non ho alcuna fiducia nella magistratura italiana - un potere tra i poteri, che interpreta un proprio ruolo in commedia - ne ho ancora meno in quella brasiliana.
Il problema però non è quello del destino di una sola persona, pur rappresentativa e importante come è Lula, ma di una stagione durata almeno dieci anni all'inizio di questo secolo che ha interessato tutto il continente sudamericano. Durante questo decennio i grandi paesi di questa parte del mondo sono stati governati da donne e uomini della sinistra, anche nelle sue espressioni più radicali, donne e uomini che spesso avevano conosciuto il carcere o comunque erano vissuti in clandestinità nei loro paesi durante le dittature militari sostenute dagli Stati Uniti e finanziate dalle forze del capitale, donne e uomini dichiaratamente socialisti. Quella stagione è finita e soprattutto non ha segnato in quei paesi un vero cambiamento.
So bene che contro questo tentativo è stata scatenata da parte del finanzcapitalismo una guerra selvaggia, che per ferocia non ha nulla da invidiare ai regimi di Videla e di Pinochet, so che contro questi governi democratici sono stati usati in maniera spregiudicata gli organi di informazione: penso ad esempio a come è stata raccontata sui grandi giornali internazionali, quelli che contribuiscono a creare l'opinione pubblica mondiale, la presidente dell'Argentina Cristina Fernández de Kirchner, rappresentata a volte come una strega intrigante, capace di tutto per ottenere il potere, oppure come un'inetta trovatasi per caso in quel ruolo, che gestiva in maniera inadeguata. O ancora il modo in cui è stato rappresentato Hugo Chavez come il solito caudillo interessato unicamente al potere. In Italia poi contro la Kirchner c'è stata anche più ostilità, visto che tra i suoi avversari c'era anche un gesuita che ha fatto una bella carriera e, come noto, ai "sinistri" italiani puoi toccare tutto, ma non questo papa così progressista.
Nello stesso modo spregiudicato sono state usate le istituzioni e la magistratura: in Brasile c'è stato un vero e proprio colpo di stato, parlamentare e giudiziario, per estromettere dalla presidenza Dilma Rousseff e rimpiazzarla con il più malleabile Temer. E così in tutti questi paesi sono andati al potere uomini che, pur non richiamandosi più alla destra conservatrice e ultracattolica dei generali degli anni Settanta e Ottanta, ne hanno ereditato le teorie economiche ultraliberiste. Il "nuovo" presidente del Cile, che ha sostituito Michelle Bachelet, è il fratello del ministro del lavoro e delle miniere di Pinochet, un uomo educato dai Chicago boys nel "verbo" del capitalismo.
Ma anche questa reazione così violenta e sistematica non basta a capire perché il socialismo in America latina ha fallito, se anche in Uruguay la presidenza di Pepe Mujica non ha lasciato tracce evidenti, se non gli insegnamenti di questo grande combattente, che però è stato ridotto, nella vulgata a uso dell'informazione mainstream a una specie di santo pauperista ed ecologista, uno che andrebbe bene anche a Grillo. Mujica invece è un socialista anticapitalista, ma di questo nessuno ovviamente parla.
La sostanziale sconfitta di queste donne e di questi uomini, che hanno avuto - anche per il fatto di aver governato insieme negli stessi anni - la possibilità di cambiare l'America latina, interroga anche noi perché evidentemente c'è qualcosa che non funziona nel modo in cui abbiamo declinato il socialismo tra la fine del Novecento e l'inizio di questo secolo. Quindi non è un problema solo italiano, come ogni tanto qualcuno prova a immaginare, dando ai tristi demiurghi del pd un ruolo che non meritano. Sinceramente, se non c'è riuscito Lula, pensavate ci riuscisse Bersani?
Forse il problema sta proprio nel compromesso socialdemocratico che tutti - tranne Chavez, almeno esplicitamente - hanno accettato. Ossia tutti - e anche Chavez - hanno accettato di governare i loro paesi all'interno di un disegno costruito da altri. Nessuno di loro ha ribaltato il tavolo, ha detto che ci sono leggi politiche a cui il mercato deve piegarsi e adeguarsi, tutti invece hanno cercato un compromesso con il mercato e questo alla fine li ha fagocitati.
Ricordate La piccola bottega degli orrori? C'è il film di Roger Corman del 1960 e il musical dell'86. Il giovane Seymour, commesso in un negozio di fiori, ha una piccola strana pianta che, nonostante tutte le sue cure, sta morendo; accidentalmente scopre che la pianta si nutre di sangue umano e quindi comincia a tagliarsi per farla crescere. Tutto va bene, il negozio, grazie alla pubblicità legata a quella pianta dalle forme bizzarre, non deve più chiudere, Seymour salva la sua amata Audrey dalle grinfie del fidanzato dentista, ma la pianta ha bisogno di sempre più sangue e Seymour è costretto a uccidere. Finché uccide l'antipatico dentista non ci sono problemi, visto che picchiava Audrey, ma la pianta ha sempre più sete e Seymour non riesce più a fermarsi e alla fine la pianta uccide anche Audrey e lui.   
Ho l'impressione che noi abbiamo fatto lo stesso con il capitalismo, lo abbiamo nutrito, quando è cominciato a crescere ne abbiamo tratto dei vantaggi, ci siamo convinti di poterlo controllare, ma alla fine ci ha divorati.
La sconfitta di Lula e di tutto i socialismo dell'America latina è ancora più drammatico perché in quei paesi il finanzcapitalismo spiega la sua potenza in maniera violentissima, le differenze tra i pochi ricchissimi e la stragrande maggioranza dei poverissimi continua a crescere, le grandi compagnie depredano le ricchezze naturali di quelle terre, che sono anche nostre, perché tutto il pianeta ha bisogno della foresta amazzonica e il capitalismo la sta distruggendo. In America latina c'è un bisogno disperato di socialismo.
Fallire significa etimologicamente cadere, essere abbattuti. In America latina stanno abbattendo gli alberi, stanno uccidendo le persone, stanno facendo fallire le nostre speranze.

mercoledì 4 aprile 2018

Verba volant (506): consultare...

Consultare, v. tr.

Nascerà il primo governo della XVIII legislatura? Non so, certamente non in questi giorni, immagino che rimarremo in questa situazione di stallo ancora per un bel po'.
Prima di tutto perché i protagonisti della vita politica italiana - compresi molti dei commentatori e dei giornalisti che la raccontano - continuano a pensare come se il nostro paese fosse una repubblica presidenziale - o semipresidenziale - con una legge elettorale maggioritaria e un sistema bipartitico o bipolare. Invece si tratta di una repubblica parlamentare con una legge elettorale proporzionale e un sistema multipartitico.
Non so se sono in malafede o semplicemente stupidi - preferirei la prima ipotesi, perché i cretini mi fanno sempre una gran paura - ma tutte le dichiarazioni lette in queste settimane su chi avrebbe vinto le elezioni e le richieste, alcune perfino ultimative, di sedere a Palazzo Chigi di questo o di quello non tengono conto di questo semplice ed evidente dato di fatto. E infatti, per paradosso, il solo partito che avrebbe la forza di far nascere un governo, l'unico davvero determinante e quindi, alla fine, il vero vincitore delle elezioni, rappresenta se stesso come lo sconfitto e dichiara che il suo posto è l'opposizione, peraltro senza chiarire a cosa si opporrebbe. So bene che non si può mischiare il vino buono con l'aceto, ma nell'83 il Psi aveva meno deputati - sia in termini assoluti che in percentuale - di quanti ne abbia oggi il pd, eppure il suo segretario divenne presidente del consiglio, il primo socialista a ricoprire quella carica. Certamente il partito più forte della coalizione ebbe in cambio i ministeri più importanti e soprattutto riuscì a imporre la propria agenda politica - e, visti i rapporti di forza, non sarebbe potuto avvenire altrimenti - ma quel risultato ha segnato l'apice per il Psi, pur con tutte le conseguenze negative che ciò ha provocato, che però non furono predeterminate da quella scelta, derivarono da una serie di azioni concrete, di cui purtroppo i dirigenti, a molti livelli, di quel partito, furono colpevoli protagonisti. Questo è il proporzionale in una repubblica parlamentare. Capisco che Di Maio, Salvini e renzi avevano nel 1983 rispettivamente 3, 10 e 8 anni, ma questo non impedisce loro di studiare e poi c'è qualcuno nei loro partiti che quella stagione la ricorda assai bene.
Ma francamente credo che il problema non sia solo questo. In queste quattro settimane, dal 4 marzo, da quando in questo paese non c'è un governo - ovviamente uno formalmente è in carica per "il disbrigo degli affari correnti", come recita il curiale linguaggio del Colle - cosa è cambiato? Cosa è cambiato nelle vite di ciascuno di noi? Non parlo ovviamente di cose belle o brutte che vi possono essere successe in questi trenta giorni, perché naturalmente qualcuno è nato, qualcuno è morto, non dico questi avvenimenti che fortunatamente vanno avanti da soli. E' cambiato qualcosa per il fatto che il governo è dimissionario? No, alcuni di voi hanno continuato ad andare a scuola, qualcuno è dovuto ricorrere alle cure di un ospedale, i dipendenti pubblici hanno continuato a ricevere lo stipendio, i nostri ministri vanno ai vertici europei, abbiamo espulso un paio di presunte spie russe, abbiamo fatto un po' di ammuina con i francesi per la vicenda di Bardonecchia, qualcuno sta scrivendo il prossimo bilancio. Nulla di serio. Eppure il governo è dimissionario, sfiduciato politicamente visto che il partito che l'ha fatto nascere ha perso così tanti voti. Ma c'è una qualche differenza con quello che succedeva a gennaio? O a novembre? O ancora prima? Non sarà che alla fine un governo, un qualsiasi governo, non conta nulla - o conta molto poco - e tutto questo affannarsi che impegna tutti loro - e anche noi, che commentiamo e ci appassioniamo - sia sostanzialmente inutile?
Ovviamente non credo che viviamo in un regime di anarchia - anche se mi convinco che sarebbe forse auspicabile - penso semplicemente che viviamo in un tempo infelice, in cui la politica ha sempre meno peso. Eppure ce lo ricordiamo ancora il tempo in cui c'era la politica, alcuni di noi con una qualche nostalgia. Semplicemente i luoghi dove vengono prese le decisioni non sono i governi nazionali né tanto meno i parlamenti. Non c'è l'anarchia, perché noi siamo sottoposti a un governo, anzi lo siamo in maniera molto rigida, abbiamo sempre meno libertà, ma questo governo non è stato scelto da noi e soprattutto non abbiamo alcun strumento democratico per sfiduciarlo. Certo possiamo scegliere ogni quattro anni - o giù lì - il capocondominio, quello a cui sono delegate alcune scelte di poco conto, ma le decisioni vere, quelle che hanno un impatto nelle nostre vite, vengono prese altrove. Le decisioni di smantellare progressivamente la scuola e la sanità pubblica, di privatizzare i più importanti beni comuni, di rendere il lavoro più precario, più insicuro - sotto tutti i punti di vista - e soprattutto meno pagato, hanno cambiato la vita di tutti noi, e continueranno a cambiarla. Non c'è un governo che abbia esplicitamente presentato questo programma, semplicemente chi poteva ha cominciato a farlo, prima provando a convincerci che queste scelte erano fatte per far crescere il paese, per investire sul futuro, e poi, quando siamo diventati più deboli e più sottomessi, hanno continuato a farlo senza spiegazioni e senza tanti infingimenti. Ovviamente guadagnandoci, loro.
Per questo potere così dispotico, così violento, che ci sia questo governo dimissionario è un vantaggio, perché paradossalmente un governo che non risponde al parlamento è ancora più forte. Il governo Gentiloni non può essere sfiduciato, non può essere mandato a casa e quindi gli si può far fare di tutto. E soprattutto andare avanti senza governo convincerà sempre di più i cittadini che la politica non è necessaria, anzi che è dannosa. E poi se i politici sono questi, che non sanno fare una o con il bicchiere. In fondo senza un governo si sta anche meglio: perché dovremmo affannarci ad averne uno? Tanto ci pensano loro a noi; e poi un governo ruba, mentre loro sono "virtuosi".
Questa posizione di attesa potrebbe andare avanti ancora parecchie settimane, perché chi comanda davvero non ha interesse che questa crisi venga risolta. E magari, tra un po', quando sarà proprio inevitabile trovare un governo, vedrete che salterà fuori l'ipotesi di un "governo di tutti", che alla fine è come dire un governo di nessuno, perché un esecutivo del genere sarà composto dai soliti tecnici, quelli buoni per tutte le stagioni, quelli in servizio permanete effettivo del finanzcapitalismo. Lo abbiamo già visto e lo rivedremo, purtroppo.
Consultatevi pure, tanto sappiamo che non contate un cazzo.
E non disturbatevi a consultarci: abbiamo cose più serie da fare.

lunedì 2 aprile 2018

Verba volant (505): inferno...

Inferno, sost. m.

Esiste l'inferno? Grazie alla scienza possiamo dire che certamente non esiste quel vasto regno sotterraneo, con i suoi fiumi e le sue fonti, di cui ci parla Omero, a cui si poteva accedere da un ingresso misterioso nel paese dei Cimmeri, nella regione del Caucaso. E, con lo stesso rigore, possiamo escludere che esista sotto Gerusalemme un grande pozzo dalla forma a imbuto, digradante fino al centro della terra, di cui pure Dante Alighieri ci ha descritto con dovizia di particolari la topografia.
Anche se la scienza non può darci la stessa incontrovertibile certezza che non esista nessun altro tipo di inferno, personalmente non credo ci sia un luogo del genere, semplicemente perché non esiste un'anima destinata a sopravvivere alla nostra morte. In polvere ritorneremo e l'unica possibilità, per quanto effimera, di resistere dopo la morte è legata alla memoria delle persone che ci hanno voluto bene e alle cose, buone o cattive, che abbiamo fatto; ma anche tutto questo è destinato a scomparire.
Eppure l'inferno esiste. L'inferno sono le fabbriche della Cina in cui vengono costruiti i nostri telefoni, dove lavorano e vivono migliaia di persone, spesso per molti anni, a volte fino alla morte, in cui i lavoratori finiscono per diventare gli ingranaggi, facilmente intercambiabili, di una macchina sempre più complessa. L'inferno sono le case dove le donne sono violate e picchiate dai loro mariti, dai loro padri, dai loro fratelli, fino a essere annullate come persone. L'inferno sono le periferie di tante città in cui i corpi delle bambine e dei bambini diventano merce per ogni genere di traffico. L'inferno sono le ingiustizie, i soprusi, le torture, di cui il potere si serve per tenersi in piedi. L'inferno è Gaza, in quella terra dove comincia il racconto di Dante, la cui terra poverissima è contesa in nome di valori ipocriti e mendaci ed è teatro di uno scontro le cui vittime sono sempre i più deboli. L'inferno sono i consigli di amministrazione delle multinazionali e delle banche che considerano le donne e gli uomini come numeri su un grafico, come statistiche, come oggetti da vendere e da comprare, L'inferno sono le barche dei migranti che nel Mediterraneo ripercorrono le rotte di Odisseo e che, come lui, sono in balia di forze che non possono controllare, ma che alla fine sono destinati a soccombere e sono condannati all'oblio. L'inferno sono le miniere dell'Africa, gli enormi depositi di rifiuti dell'India, i latifondi dell'America latina strappati alle foreste e inquinati dai prodotti della Monsanto, le dighe che sommergono ettari di terreni in tutto il mondo, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di famiglie.
L'inferno è questa terra e lo sapevano bene anche Omero e Dante che, pur credendo - forse - all'inferno che stavano descrivendo, quando dovevano raccontare cosa c'era dentro, narravano le guerre, le viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, quello che gli uomini facevano agli altri uomini.
Non credere all'inferno di Omero e di Dante, all'inferno che ci raccontano i preti di tutte le religioni, credere solo all'inferno in cui viviamo, ci offre però un vantaggio. Ci spinge a combatterlo, a provare a cambiarlo, a rendere questo mondo un po' meno crudele e violento di come lo abbiamo trovato. Per lo più non ci riusciamo, quando non contribuiamo noi stessi a costruire questo inferno - succede anche questo - ma almeno ci offre un obiettivo per cui vale la pena vivere.