lunedì 31 dicembre 2018

Cose fatte nel 2018...

Visto che siamo alla fine dell'anno, mi pare doveroso fare un breve bilancio di questo 2018.
Mi ero dato alcuni obiettivi e sono contento di averli rispettati quasi tutti.


venerdì 28 dicembre 2018

Verba volant (607): carbone...

Carbone, sost. m. 

Il 21 dicembre 2018 è stata chiusa l'ultima miniera di carbone della Ruhr: adesso possiamo davvero scrivere che è finito il Novecento. Almeno qui in Europa. Perché, al di là delle ideologie e della propaganda, al di là delle scelte e delle alleanze politiche, il controllo di quel patrimonio minerario e della ricchezza che rappresentava è stato uno degli elementi che ha scatenato i conflitti mondiali che hanno segnato così drammaticamente il secolo che è appena finito. E si tratta di un ciclo storico che risale a molti secoli addietro, perché la storia dell'Europa è in sostanza la storia dei conflitti tra le potenze europee - e segnatamente la Francia e la Germania - per il controllo della valle del Reno, che è poi diventato il conflitto per il controllo del carbone e delle industrie della Ruhr.
E adesso quel carbone non c'è più e quindi viene a mancare la causa scatenante di ogni possibile conflitto futuro. O meglio, il carbone nella Ruhr c'è ancora, ma è troppo in profondità e quindi estrarlo è diventato se non impossibile - viviamo nel tempo in cui vogliamo che nulla sia impossibile - quantomeno diseconomico.
Peraltro la fine del carbone della Ruhr - un fenomeno che era ormai evidente da anni - è il motivo per cui noi siamo la prima generazione di europei che non abbiamo combattuto una guerra all'interno dei confini del continente in cui siamo nati. Spero che nessuno di voi creda alle favolette sulla buona volontà dei padri fondatori delle istituzioni comunitarie. Non c'è stata una nuova guerra in Europa non perché sono stati firmati i Trattati di Roma - che, come ogni trattato, poteva diventare carta straccia - ma perché non c'erano più le ragioni economiche per sostenere un tale conflitto. Perché in sostanza chi decide davvero le guerre sapeva già che il carbone della Ruhr stava per finire.
La chiusura dell'ultima miniera di carbone della Ruhr può essere usata come la data per sancire la fine del Novecento, proprio perché questo è il secolo delle guerre per il controllo del carbone, visto che è anche il secolo in cui l'energia è diventata l'elemento indispensabile per garantire e sostenere il progresso tecnico e scientifico. Il Novecento è il secolo delle scoperte, della velocità, del futuro, e il carbone è stato quello che ha dato l'energia a tutto questo, peraltro un'energia molto sporca, di cui ora paghiamo le conseguenze. Il secolo che è cominciato con le avanguardie artistiche che celebravano il movimento e con i cannoni dispiegati lungo il fronte della Somme, ossia con attività che avevano "fame" di carbone, era fatale che finisse una volta terminato questo combustibile.
Infine il carbone è così importante per la storia del Novecento perché in quelle miniere si trovava uno dei fronti più avanzati e combattuti della guerra di classe. Quando Eugène Pottier - l'autore dell'Internationale - deve dire chi sono i nemici dei lavoratori nella lutte finale, cita non a caso les rois de la mine et du rail. La chiusura dell'ultima miniera della Ruhr significa che allora è finita la guerra di classe? Ovviamente no, e questo è il motivo per cui io continuo ostinatamente a considerarmi un residuato bellico di quel secolo. Perché se i "re delle miniere" hanno deciso che estrarre il carbone nella Ruhr non è più conveniente è perché spendono molto meno - e quindi loro guadagnano molto di più - a farlo estrarre in altri parti del mondo, dove i lavoratori possono essere sfruttati senza che si lamentino, dove la terra e l'acqua possono essere inquinate senza che nessuno protesti. E anche noi, figli e nipoti dei minatori della Ruhr, che siamo diventati impiegati e lavoriamo in uffici con l'aria condizionata, seduti dietro lo schermo di un personal computer, sfruttiamo quei nostri fratelli che non vediamo, perché abbiamo bisogno di sempre più energia e vogliamo spendere sempre meno. Il Novecento è proprio finito, perché è finita anche la guerra di classe: hanno vinto les rois de la mine.

mercoledì 26 dicembre 2018

Verba volant (606): fabbro...

Fabbro, sost. m.

Quando i maschi decisero che il momento della fecondazione era più importante di quello del parto, e quindi che era finalmente arrivato il tempo di prendere il potere, togliendolo alle donne, avevano bisogno di nuovi dei: volevano smettere di venerare la Grande madre. Ed ecco allora questi due nuovi dei, figli di Era, i fratelli Ares ed Efesto, il dio soldato e il dio fabbro. Secondo una leggenda, arrivata a noi grazie a Esiodo, soltanto Ares era figlio anche di Zeus, perché il dio fabbro era stato concepito dalla sola Era: il mondo vecchio evidentemente faticava a essere sconfitto. E il dio fabbro era più antico del dio soldato, perché il fabbro era una creatura a suo modo magica. Quando ancora c'era la dea lunare, questa proteggeva, nella sua natura misteriosamente trina, i medici, i fabbri e i poeti, ossia quei "maghi" che sapevano fare le cose, che sapevano creare dal nulla.
Omero - le cui storie risalgono a tempi molto antichi, ai tempi della luna - non ama molto i due fratelli che dice siano entrambi figli di Zeus ed Era. Nel racconto omerico Ares è solo capace di combattere e non conosce la themis, la giustizia e la pietà; e soprattutto combatte sempre dalla parte di chi è destinato a vincere. Ares è certamente un dio molto moderno. Efesto era brutto, zoppo e aveva un pessimo carattere.
Sempre Omero racconta che Ares ed Efesto hanno non solo la stessa madre, ma "condividono" anche la stessa donna. Afrodite era la sposa del dio fabbro, ma gli preferiva di gran lunga il dio soldato. O forse il dio fabbro e il dio soldato non sono davvero due figure distinte, ma sono la stessa persona, perché il soldato per combattere ha bisogno di armi e solo il fabbro gliele può fabbricare. E il dio fabbro per continuare a lavorare ha bisogno che il dio soldato continui a combattere. Il dio fabbro vuole la guerra, ha bisogno della guerra per continuare a vendere spade e lance, scudi e armature. Il dio fabbro lo conosciamo bene e continuiamo ad adorarlo.
Le fucine di Efesto si trovano sotto l'Etna e quando la produzione di armi è a pieno regime le fiamme e il fumo arrivano fino alla cima del monte e i colpi risuono così forte da far tremare le terra. Gli uomini che vivono quella terra sanno bene che è sempre attiva l'officina di Efesto, in cui lavorano i ciclopi e misteriose donne, create dallo stesso dio, automi dotati di parola e capaci di creare qualsiasi cosa ordini il loro padrone. Quando il dio dei maschi prende il potere comanda su questo esercito di donne-robot, prive di volontà, la cui unica funzione è quella di produrre senza mai fermarsi. C'è qualcosa di terribile - e di profetico - in questo racconto omerico. Il dio fabbro non è più il "mago", la cui attività è affine a quella del poeta e del medico, ma un creatore di morte e di distruzione.
In questi giorni in cui nelle fucine di Efesto sotto l'Etna l'attività ferve con una tale intensità da spaventare gli uomini che vivono alle pendici di quella montagna, dobbiamo pensare che sarebbe ora di spodestare dall'Olimpo i due fratelli che, dopo aver sconfitto tutti gli altri dei, hanno ormai in pugno le nostre vite.

venerdì 21 dicembre 2018

Verba volant (605): ritorno...

Ritorno, sost. m.

Credo che prima o poi dovremmo interrogarci sulle conseguenze del fatto che la letteratura occidentale è fondata sulla storia di uno che, dopo aver combattuto lontano dalla sua patria per ben dieci anni, ne impiega altri dieci per tornare a casa - un viaggio che avrebbe potuto fare in alcune settimane - e quando torna pretende che tutto torni come prima. Peraltro in questi vent'anni - e specialmente nei dieci impiegati per tornare - ha sistematicamente tradito la propria sposa, esigendo che lei invece gli rimanesse fedele.
Naturalmente nei secoli successivi gli autori si sono sforzati di trovare una qualche giustificazione per Odisseo: voleva scoprire il mondo, conoscere nuovi popoli, era insaziabilmente curioso. Balle. A Odisseo non interessa affatto conoscere nuovi mondi, al massimo vuole poter raccontare di essere andato in moltissimi posti e in ognuno di questi di aver fatto sesso. Odisseo è solo un fanfarone che vuole avere molte storie da raccontare agli amici del bar.
E' un'altra la storia che dovremmo raccontare: quella di Penelope. La storia che non è mai stata raccontata.
Subito dopo che Odisseo è partito per quella guerra lontana, Penelope si è resa conto che adesso toccava a lei governare Itaca. Laerte era un vecchio sclerotico, un altro che passava il tempo a raccontare di quando era andato in guerra in Colchide insieme a Giasone. Telemaco era appena un bambino. Penelope non voleva fare la fine di sua cugina Elena, sempre in balia del marito di turno. O di sua madre che se ne stava chiusa in casa a tessere e disfare sempre la stessa tela, per realizzare il corredo perfetto per la figlia. Voleva essere lei a decidere della sua vita e aveva anche l'ambizione di cambiare in meglio quella che era diventata la sua isola.
Odisseo non aveva investito un soldo per migliorare la rete idrica di Itaca, mentre Penelope fece scavare pozzi e canali, in modo da rendere l'isola più fertile e meno faticoso il lavoro nei campi. Fece ampliare il porto e favorì chi voleva avviare nuovi commerci. Istituì delle scuole pubbliche e obbligò le famiglie a far studiare i bambini - e le bambine - perché voleva che tutti, proprio tutti, sapessero leggere e scrivere.
Per finanziare tutto questo aumentò le tasse ai cittadini più ricchi. Il governo di Penelope cominciò a dare parecchio fastidio ai notabili di Itaca e anche delle città vicine, che decisero che era giunto il momento di far smettere quella donna testarda e pericolosa. Misero fuori la voce che ormai Odisseo era morto, che non sarebbe più tornato; e comunque, anche se fosse scampato alla guerra, lo conoscevano abbastanza bene da sapere che si sarebbe fermato in ogni postribolo da Troia a Itaca. Dissero che Penelope avrebbe dovuto risposarsi, perché Itaca doveva tornare a essere governata da un re. Penelope resistette: disse che sentiva che Odisseo sarebbe finalmente tornato, che non poteva tradirlo e intanto chiese aiuto ai rappresentanti della camera di commercio affinché la sostenessero. E naturalmente loro non volevano tornasse un re aristocratico, visto che Itaca, grazie a Penelope, stava prosperando come non mai. Anche i contadini e gli artigiani si schierarono con Penelope: fu organizzata una grande manifestazione davanti al palazzo a cui parteciparono moltissime donne. I proci capirono che non era il caso di insistere e si ritirarono prima che Penelope decidesse di aumentare ancora le tasse sui loro beni.
Adesso l'unico problema per Itaca - e per Penelope - era il ritorno di Odisseo. I messaggeri che avevano annunciato che Troia era caduta, raccontarono che Odisseo era stato visto in Sicilia, e poi lungo le coste del Tirreno, che si era invaghito di una tal Calipso e che ne stava in un'isoletta tra l'Italia e l'Africa.
La regina sapeva che prima o poi anche Calipso lo avrebbe gettato via di casa - come aveva fatto Circe - e che alla fine il marito avrebbe voluto tornare. Non lo poteva permettere: aveva lavorato troppo per le giovani donne di Itaca e non voleva che Odisseo rovinasse tutto. E poi Penelope non voleva lasciare la sua amata Calliope, ed essere costretta a giacere con Odisseo in quello scomodissimo letto intagliato nel tronco di un vecchio ulivo, che ormai era diventato un pollaio. Mandò in segreto un messaggio a Calipso: che se lo tenesse, la camera di commercio di Itaca era disposta a pagarla ogni anno per quell'impegno. Ma - come Penelope aveva previsto - la donna rifiutò.
Allora Penelope inventò una storia a cui sapeva che il marito non avrebbe resistito. Alcuni finti mercanti giunti a Ogigia gli raccontarono che oltre le colonne d'Eracle c'era un'isola dove le donne erano bellissime, e la loro regina era la donna più bella del mondo. Odisseo - come Penelope aveva immaginato - non resistette e seguì la sua semenza.
Non sappiamo cosa sia poi successo a Odisseo, probabilmente fece naufragio. Sappiamo invece che Penelope fondò a Itaca anche una biblioteca e che alla fine abolì la monarchia, perché voleva che le donne e gli uomini studiassero e amministrassero la loro città. Morì felice. Le rimase un unico cruccio: aveva saputo che stava girando per la Grecia un vecchio cieco che inventava delle storie su suo marito.

martedì 18 dicembre 2018

Verba volant (604): assorbente...

Assorbente, sost. m.

Faccio parte di una generazione che ci ha messo un po' di tempo a sapere cosa succede alle donne ogni trenta giorni. Quando ero piccolo, c'erano giornate in cui mia madre non stava bene, ma ovviamente non potevo ricavarne una regola generale e poi c'erano questi pacchetti di colore blu scuro che acquistava quando faceva la spesa e che erano una delle cose che in casa non doveva mancare mai. Sinceramente non ricordo quando ho saputo cosa stava davvero succedendo, ma credo tardi e comunque in maniera confusa. Ci ho messo un po' di tempo - troppo tempo - per saperne abbastanza.
Non so cosa succeda adesso, ma credo che, nonostante la pubblicità affronti il tema certamente in maniera più esplicita rispetto agli anni Settanta, i giovani maschi abbiano per un bel pezzo della loro adolescenza una vaga idea di quella cosa lì. Perché mi pare che anche i maschi adulti non ne abbiano un'idea così precisa. Non è il periodo - come credono in tanti - in cui le nostre mogli, sorelle, colleghe, amiche sono particolarmente nervose: fosse questo basterebbe una camomilla.
Mi pare che gli uomini non si rendano conto di quello che succede, pur riguardando anche una questione di soldi, un tema di cui i maschi, giovani e adulti, amano occuparsi. Grazie a qualche inchiesta che finalmente si può trovare in rete, possiamo vedere che l'Italia è praticamente l'unico paese europeo in cui gli assorbenti e tutti gli altri articoli che possono essere usati durante il ciclo mestruale sono tassati con l'aliquota Iva più alta prevista, ossia il 22%. La Spagna la sta per portare al 4%, il Regno Unito l'ha abbassata al 5% nel 2000 e la Francia al 5,5% nel 2015. In Belgio e in Olanda è al 6%, mentre in Irlanda è stata azzerata. So che l'Europa non va più di moda e neppure io sono un gran sostenitore delle istituzioni comunitarie, ma francamente fare i sovranisti sugli assorbenti mi pare piuttosto stupido.
E poi c'è una questione più generale che riguarda la povertà delle donne. Immagino ricorderete il bel film di Ken Loach Io, Daniel Blake. Sono proprio assorbenti ciò che Katie cerca di rubare dal supermercato, perché sono prodotti che non hanno alla food bank; e da questo furto comincia per lei la discesa che la porterà a prostituirsi. Nei paesi dell'Africa sub-sahariana almeno una ragazza su dieci non va a scuola quando ha il ciclo, perché le loro famiglie non hanno i soldi per comprare gli assorbenti o perché nelle loro scuole non ci sono gabinetti e acqua corrente. Nel mondo ci sono milioni di donne che hanno meno possibilità dei loro coetanei maschi solo perché hanno il ciclo mestruale e quindi non possono studiare e lavorare come loro. Mentre ovviamente potrebbero farlo, anzi potrebbero farlo meglio di loro.
Il tema non è soltanto l'aliquota su questi prodotti in Italia - e pure si tratta di una questione rilevante su cui occorre subito intervenire - o anche quello più drammatico della mancanza di questi prodotti per milioni di donne, ma più in generale sull'invisibilità delle donne. E un segno evidente del fatto che questa società non vede le donne è proprio il fatto che non spiega agli uomini cosa sia il ciclo mestruale. E quello che non si sa non è neppure possibile affrontarlo.
Sembra un paradosso, attorno a noi ci sono continuamente immagini di donne, ma si tratta per lo più di immagini dei loro corpi. E più appaiono i corpi delle donne più loro diventano invisibili. E irrilevanti i loro problemi. Oggi in Italia sarebbe più facile organizzare una mobilitazione per ridurre l'aliquota Iva sugli alimenti per gli animali che sugli assorbenti.
Sembra un paradosso, ma credo ne sapessero di più i nostri antenati nell'antica Grecia, anche se il ciclo mestruale era uno degli elementi del culto dei misteri, era qualcosa di cui non si poteva e non si doveva parlare. Nell'antica Grecia i misteri erano certamente segreti - e infatti noi ne possiamo solo intuire i temi dominanti - ma non erano invisibili. E con loro le donne. Duemilacinquecento anni dopo non vediamo le donne come Katie, non vediamo le ragazze che non vanno a scuola perché hanno il ciclo, non crediamo sia un problema se l'Iva per gli assorbenti è al 22%.

domenica 16 dicembre 2018

Verba volant (603): cometa...

Cometa, sost. f.

Ogni volta che da bambini, quando ci dicevano di disegnare il presepio, abbiamo fatto la lunga coda gialla della stella o abbiamo attaccato sulla capanna la cometa tagliata nel cartone e ricoperta di carta argentata, non sapevamo cosa nascondesse quel nostro gesto innocente.
E' Matteo che racconta della stella apparsa per annunciare la nascita di Gesù; e usa il termine greco ἀστὴρ - astèr - che indica proprio una stella, e non κομήτης - kométes.  Nei primi secoli della cristianità i padri della chiesa pensavano - sulla scorta di Platone - che le stelle potessero avere un'anima e quindi, come diceva Giovanni Crisostomo, che fossero angeli. E un angelo avrebbe potuto prendersi la briga di guidare i magi fino a Betlemme. Non tutti erano d'accordo con questa tesi, ad esempio Origene di Alessandria diceva che le stelle non erano angeli e che quindi quella di Betlemme era stata un fenomeno naturale, per quanto miracoloso. Non era una di quelle questioni per cui gli antichi erano disposti a scannarsi, ma ci volle un concilio, il secondo di Costantinopoli del 553, per risolvere la diatriba: in quella sede infatti si stabilì che le stelle erano cose e quindi non avevamo un'anima. Il problema di cosa fosse quella stella rimaneva - anzi diventava più difficile da risolvere - perché Matteo dice che la stella "precedeva" i magi e che a un certo punto "si fermò". C'era decisamente qualcosa di strano in quella stella.
Se oggi noi disegniamo una coda a quella stella è per colpa di un usuraio. Agli inizi del Trecento Enrico Scrovegni, erede di una ricchissima famiglia di Padova, decise che era il momento che la sua famiglia fosse ricordata non solo per il modo in cui erano diventati così ricchi. Acquistò da un nobile decaduto l'area dell'antica arena romana della città, ci fece costruire un bellissimo palazzo con annessa una cappella privata e la fece affrescare al pittore più famoso e quotato del suo tempo, il fiorentino Giotto, che fortunatamente per Scrovegni in quei mesi era già a Padova per eseguire dei lavori nella basilica del Santo. Bisogna dire che questa operazione di marketing familiare riuscì solo in parte a Enrico, visto che pochi anni dopo un altro fiorentino avrebbe messo suo padre Rinaldo all'Inferno, proprio tra gli usurai. 
Comunque sia Giotto si gettò nell'impresa e realizzò uno dei capolavori assoluti dell'arte europea. Il pittore fiorentino decise di raccontare tutta la vita di Gesù. A noi interessa un affresco del secondo registro della parete a sud, l'Adorazione dei magi. Ci sono tutti quelli che ci devono essere - e quelli che ci sono ancora nei nostri presepi - Maria, Giuseppe e il bambinello, i magi, i cammelli e i servi che li conducono, gli angeli - anzi di uno di loro non si vede il viso perché è coperto dalla trave che sorregge il tetto della capanna, un tocco di geniale realismo. La vera novità di questo affresco è la cometa, con la sua coda luminosa.
Giotto aveva "inventato" la cometa. Dipinge gli affreschi della Cappella degli Scrovegni tra il 1303 e il 1305 e nell'ottobre 1301 aveva certamente visto la cometa di Halley, visibile sulla terra circa ogni settantasei anni. E' per questa ragione che noi ancora oggi mettiamo la cometa sul nostro presepio: potere dell'arte.
Ogni passaggio di questa cometa ha di volta in volta terrorizzato e affascinato gli uomini. Nel 989 molti di quelli che la videro pensarono che annunciasse l'imminente fine del mondo. Nel 1456, visto che la sua coda sembrava una scimitarra, si pensò che annunciasse un nuovo attacco dei turchi che solo tre anni prima avevano conquistato Costantinopoli. Giovanni Pascoli nel 1910 scrisse una poesia dedicata al passaggio della cometa. Sono versi cupi, carichi di presagi funesti: sa per scoppiare la guerra, Pascoli lo sente, e sa che non è colpa della cometa.
Pensa probabilmente alle storie raccontate su questa cometa, Giacomo Leopardi quando scrive:
Ma le comete che cosa hanno di spaventevole per sé, più ch'altro corpo celeste, o che la via lattea? E volendole pigliare per segni e presagi, perché non di bene?
Perché siamo uomini, perché sappiamo bene quello che facciamo e quello che stiamo per fare. 

giovedì 13 dicembre 2018

Verba volant (602): pianto...

Pianto, sost. m.

Non prego; visto che non credo, mi sembra naturale non pregare. Rispetto chi prega; è una cosa che fatico a capire, ma sono tante le cose che non capisco. Non rispetto chi fa finta di pregare. Ovviamente è difficile per noi sapere se qualcun'altro crede veramente a quello che dice quando sta pregando; in qualche caso posso avere dei sospetti, ma - come si dice in questi casi - è la mia parola contro la sua. Certo quando uno va a pregare in una chiesa che non gli appartiene o davanti a un dio che non è il suo, qui mi pare che i sospetti si facciano un po' più fondati.
Ho visto in questi giorni un noto politico italiano, che professa in maniera molto veemente la propria fede religiosa cattolica, raccogliersi in preghiera davanti al Muro del pianto. Non è ovviamente il primo e immagino non sarà neppure l'ultimo: indossare una kippah e pregare in quel luogo sacro è una photo opportunity a cui un politico - e non solo italiano - difficilmente sfugge, indipendentemente che creda o meno o in che cosa creda. Perché gli ebrei votano - e in Italia votano molto a destra - perché molti ebrei sono ricchi e ai politici piace fare contenti i ricchi, perché così si fa vedere che si condanna l'Olocausto, senza tirare in ballo i tedeschi, perché, secondo un'efficace campagna mediatica di lungo periodo - in cui ovviamente gli intellettuali e i propagandisti ebrei hanno avuto una parte molto considerevole - questa è una cosa che si deve fare quando si va a Gerusalemme.
Quei mattoni squadrati davanti ai quali tanti pregano con sincerità e altrettanti - se non di più -ostentano una fede che non hanno, sono ciò che rimane del tempio di Gerusalemme, distrutto dalle truppe romane guidate dal generale Tito nel 70. A dire il vero non è che fosse proprio il muro del tempio, ma è una parte del muro di contenimento del colle su cui era costruito il tempio, che rimase in piedi perché attorno si erano accumulate le macerie e quindi non poteva essere raggiunto e perché a Tito parve giusto che rimanesse quel manufatto a ricordare la vittoria di Roma. A dire il vero quando Tito lo fece distruggere quel muro di contenimento era stato costruito da pochi anni e si trattava di fatto di un'opera dell'architettura romana, che i romani distrussero.
Quindi chi va a Gerusalemme davanti al Muro di pianto va a vedere prima di tutto il ricordo di un attacco militare. E penso che, indipendentemente da quello che ciascuno di noi crede, sia importante farlo: è un esercizio di memoria. Se andrò ad Hiroshima immagino che mi fermerò in silenzio - non prego, ma penso sia un luogo in cui chi lo fa lo debba fare - di fronte al Gembaku Dome, la costruzione rimasta in piedi, per quanto danneggiata, più vicina a dove è caduta la bomba, e che è diventata il Memoriale della pace. Naturalmente fermarsi in quel luogo, provare dolore per quello che è successo, pregare per chi crede, non deve farci dimenticare cosa fecero i giapponesi negli anni precedenti e durante tutto il secondo conflitto mondiale, che regime terribile è stato sconfitto anche grazie a quell'ordigno.
Ai presidenti degli Stati Uniti che hanno fatto la loro sfilata elettorale sotto il Muro del pianto mi piacerebbe ricordare che quella guerra antichissima, di cui ora osservano un rudere, fu scatenata da una superpotenza contro un piccolo paese, in mano a una casta di fondamentalisti religiosi, che era considerato un covo di terroristi. Tito aveva avuto il compito di "esportare" l'ordine di Roma fino a quella lontana e ribelle provincia dell'impero. Lo fece con una ferocia spietata, ma anche con risultati assai scarsi in prospettiva; infatti, nonostante, sia riuscito a distruggere il tempio, non ha certo debellato il fondamentalismo ebraico. Non credo che Trump o Obama o Bush o Clinton amino ricordare troppo questa storia, quando pagano il loro tributo alla potente comunità ebraica statunitense e al loro più fedele alleato in Medio oriente.
Io non amo le superpotenze che vogliono imporre il loro ordine al mondo, ma neppure i fondamentalisti religiosi e quindi fatico a riconoscere in quel muro un simbolo che mi è caro. Anche perché, in nome della storia che parte da quella distruzione e facendosi scudo dell'intoccabile Olocausto, il governo israeliano ha creato e sostiene un regime di apartheid, in cui esistono cittadini con pieni diritti e cittadini che ne hanno meno, sempre meno, a base etnica e religiosa, in cui ci sono cittadini che possono prendere la terra ad altri cittadini, sempre in nome di quella purezza etnica e di quella fede che ostentano davanti al Muro del pianto.
Ovviamente non pretendo che Salvini capisca queste cose, lui ha preso i suoi voti dall'Unione delle comunità ebraiche e tanto gli bastava. Ma voi quando dovete trovare un posto per piangere - o eventualmente per pregare - credo possiate trovarne qualcuno di meglio.

mercoledì 12 dicembre 2018

Verba volant (601): basta...

Basta, interiez.

Leggo che Gionata Boschetti è nato il 7 dicembre 1992: potrebbe essere mio figlio. Anzi è mio figlio, perché, al di là del dato strettamente biologico e anche un po' casuale di chi fornisce il fatale spermatozoo, tutti quelli della generazione venuta dopo la nostra sono nostri figli. Tutti noi abbiamo insegnato loro quello che volevamo e potevamo e quindi tutti noi siamo responsabili di quello che sono diventati e di quello che diventeranno quelli venuti dopo di noi. E Gionata Boschetti è diventato Sfera Ebbasta.
Adesso ci fa schifo quello che è diventato nostro figlio? Pare di sì a leggere quello che scriviamo su di lui. Questa storia mi ricorda un po' Il ritratto di Dorian Gray: arriva un momento in cui la differenza tra quello che Dorian è e quello che vede rappresentato nel quadro appare insopportabile, ma questa differenza è solo apparente, perché Dorian è davvero invecchiato, si è solo illuso di non farlo. E così noi quando guardiamo nostro figlio che su palco dice quello che dice, sentiamo una differenza che ci pare incolmabile, eppure quel ragazzo siamo noi.
Non siamo stati noi che per anni gli abbiamo insegnato che la cosa più importante è il denaro? Che abbiamo ostentato i nostri soldi, anche quando non ne avevamo, soprattutto quando non ne avevamo, e che abbiamo trasformato in eroi alcune persone solo perché sfacciatamente ricche? Non siamo noi che per anni abbiamo inseguito i marchi e le mode? Non siamo stati noi che per anni gli abbiamo spiegato che una donna vale solo per quello che appare e che le abbiamo considerate tutte "troie", perché pensavamo di poterle comprare e usare? Non siamo stati noi che per anni gli abbiamo mostrato che la prepotenza, l'egoismo, la falsità vincono sempre? Sì, siamo stati noi e adesso Sfera Ebbasta ce lo rigetta in faccia, ripetendo con poca fantasia e nessun talento quello che noi per anni abbiamo detto.
Ripensando al film Bohemian rhapsody, ho controllato quando è nato Farrokh Bulsara. Ecco, lui poteva essere mio padre: tra e me e lui c'è più o meno la stessa differenza d'età che c'è tra me e Gionata Boschetti. Io naturalmente non sono il figlio segreto di Freddy Mercury, sono il figlio noto di Luigi Billi: immagino che mio padre non abbia mai ascoltato Bohemiam rhapsody e, se lo avesse fatto, non gli sarebbe piaciuta. Però era uno che mi ha insegnato, tra le altre, questa cosa: se credi che quello che stai facendo sia la cosa giusta da fare, devi ostinatamente perseguire quel tuo obiettivo, anche se ti dicono che una canzone di sei minuti è una follia che non passerà mai in radio e con cui non venderai mai un disco.
Evidentemente io non ho capito molto di quello che mi hanno insegnato mio padre e i Queen, se mio figlio è quella roba lì. O forse a noi hanno insegnato soprattutto altre cose - e noi non abbiamo avuto la forza di opporci. Ci hanno insegnato la sopraffazione, la volgarità, la violenza, l'esaltazione dell'ignoranza, tutto quello che vediamo quando ci guardiamo intorno, se alziamo un po' la testa dagli schermi dei nostri smartphone e di cui fingiamo di scandalizzarci quando lo notiamo in rete. Ed è quello che vedono i nostri figli, che immagino capiscano esattamente quello che dice Sfera Ebbasta, mentre noi ormai lo consideriamo una serie di sillabe messe a caso.
Secondo la Crusca basta è un composto che viene da bene stare. Sinceramente non mi sembra di poter dire che stiamo bene. Gli etimologisti Diez e Littré dicono invece che in questa parola c'è una radice che indica colmo: probabilmente siamo davvero arrivati al limite. Ma non so quanto ne siamo consapevoli.

domenica 9 dicembre 2018

Verba volant (600): disgrazia...

Disgrazia, sost. f.

Il tema non è chiedersi perché agli adolescenti di oggi piaccia della musica di merda - in linea di massima ogni generazione pensa che la musica di quella venuta dopo faccia schifo - o interrogarsi sulla capacità genitoriale delle madri che accompagnano i propri figli in discoteca all'età in cui le nostre ci permettevano al massimo di guardare la televisione fino alle dieci e mezza. E non mi concentrerei neppure troppo sul ragazzo che ha fatto un gesto stupido, molto stupido, probabilmente per una bravata di cui non poteva certo immaginare le conseguenze: una delle poche cose che impariamo invecchiando è che la stupidità umana è un fattore ineliminabile dalle nostre vite. Almeno quanto la sfortuna.
Dovremmo invece riflettere seriamente sul fatto che una cosa del genere potrebbe succedere anche a noi - anche se non andremo mai a uno spettacolo di questo rapper volgare e ignorante - perché a ciascuno di noi può capitare di incontrare uno particolarmente stupido che non si rende conto della propria stupidità. Mi dispiace dirlo con questa brutalità - soprattutto perché si tratta di morti giovanissimi e ovviamente innocenti, pensando ai quali siamo naturalmente addolorati - ma le persone morte a Corinaldo in quella tragica notte sono state particolarmente sfortunate e contro questa casualità noi uomini non possiamo fare nulla.
Una cosa del genere può succedere a ciascuno di noi, perché noi - tutti noi - frequentiamo locali, pubblici e privati, che non sono a norma, che non possono neppure essere messi a norma. Lo facciamo sempre e spesso anche consapevolmente. Quando abbiamo voglia di andare a vedere uno spettacolo e riusciamo a infilarci negli ultimi posti - posti che magari sono stati aggiunti all'ultimo proprio per soddisfare le richieste del pubblico pagante - siamo contenti e non scriviamo vibranti post su Facebook contro l'avidità del gestore della sala. Quando andiamo in un bar molto affollato - e anzi ci siamo andati proprio perché ci vanno tutti - non pensiamo a dove sono le uscite di sicurezza e a dove scappare se qualcuno fa lo stupido. Ci lamentiamo, spesso anche rumorosamente, quando dobbiamo aspettare perché vengono fatti dei controlli di sicurezza. E potrei raccontarvi molti altri casi, perché - come noto - noi amiamo le regole solo quando vengono fatte applicare agli altri.
Se chi gestisse locali, ristoranti, spazi dedicati al divertimento, applicasse alla lettera la miriade di regole - tra l'altro spesso contraddittorie - che ci sono in questo paese probabilmente non aprirebbe nemmeno. Vale per questo, come per quasi tutto il resto in Italia. Da una parte c'è un corpus di regole farraginose e complicate, che tendenzialmente vengono riscritte in maniera sempre più vessatoria a seguito di una disgrazia. In Italia le leggi sul pubblico spettacolo, almeno dall'incendio del cinema Statuto in poi, sono sempre state varate in occasioni del genere e immagino che, sull'onda dei commenti dei social, neppure questa volta mancherà una nuova legge perché "non vogliamo che si ripeta una nuova Corinaldo". In mezzo c'è un sparuto drappello di controllori che non ha le risorse, le competenze e che al massimo si può far rilasciare una bella dichiarazione autografa del gestore che tutto è stato fatto a norma, in modo da non dover pagare per i mancati - e spesso materialmente impossibili - controlli. E dall'altro lato c'è il mondo vero, in cui in mezzo a quelli che lavorano bene, ci sono quelli che lavorano male, che ovviamente tendono sempre a crescere. Sinceramente non so se il gestore della Lanterna azzurra sia uno dei primi o dei secondi. Certo, se avesse rispettato la norma che gli impone poco più di quattrocento persone a sera, avrebbe ricevuto un mare di critiche da quelli che non avevano avuto la "fortuna" di vedere Coso-e-basta. O forse è stato solo troppo avido e ha riempito quella sala più del limite che lui conosce e che è comunque superiore a quello che gli "impone" la legge. Qualcuno forse indagherà e qualcun altro, forse, pagherà. In genere in Italia non avviene né l'una né l'altra cosa. In attesa della prossima disgrazia. Perché contro la stupidità non si può far nulla. E perché non facciamo mai nulla affinché non si ripeta una nuova disgrazia.

venerdì 7 dicembre 2018

Verba volant (599): spada...

Spada, sost. f.

Attila è una delle opere risorgimentali di Giuseppe Verdi, una di quelle per cui il Maestro di Busseto è stato celebrato come uno dei padri dell'Italia unita. E certamente in quest'opera - che debuttò a Venezia il 17 marzo 1846, nel pieno delle temperie politica e culturale che portò al Quarantotto - Verdi vuole raccontare la nascita di una "nuova" Italia, che non è più Roma e il suo impero ormai morente, rappresentati dal generale Ezio, che di fronte al re degli unni che sta per sottomettere l'intero paese, non sa fare altro che proporgli un patto politico - prenditi tutto il resto del mondo, ma lascia a noi l'Italia - che noi definiremmo proprio da "basso impero". E mentre l'imperatore fugge in fretta e furia da Roma invece che guidare la difesa del paese - è qualcosa che succederà anche in tutt'altra epoca - rimane solo il vecchio papa a difendere l'Urbe. La cosa più significativa è che questa "nuova" Italia nasce per opposizione a un condottiero venuto dal nord dell'Europa, in ultima istanza tedesco. Chissà come dovevano vibrare gli animi dei patrioti veneziani a sentire raccontare quella storia di "resistenza" al nemico invasore, tanto più che nell'opera si fa preciso riferimento alla nascita della loro città da parte dei profughi fuggiti dalla conquistata Aquileia.
I nostri animi non possono più vibrare così, visto che l'Italia è poi stata fatta, in qualche modo. Ed è stata fatta non prima degli italiani - come lamentava D'Azeglio - ma nonostante gli italiani.
Non so cosa abbia spinto la Scala a scegliere proprio questa opera per inaugurare la nuova stagione - probabilmente ragioni di carattere musicale e artistico di cui non sono competente e quindi non posso commentare - ma mi piace pensare che sia stata scelta Attila perché la vera protagonista è una donna, anzi la protagonista - ossia Odabella, figlia del signore di Aquileia - è l'unico personaggio veramente positivo di questo dramma. Attila è il conquistatore, il "nemico" sanguinario e crudele. Ezio è il rappresentante di un mondo in declino e condannato a essere travolto. Rimane la coppia dei "nuovi" italiani, Odabella e Foresto, ma tra i due non c'è confronto. Foresto è - nelle parole dello stesso Verdi - il "perfetto cornuto", colui che, pur professando a ogni piè sospinto il proprio amore per Odabella, non sa riconoscere che lei è più forte e coraggiosa di lui. Foresto è tanti di noi, che abbiamo paura del valore delle nostre compagne, non lo sappiamo accettare, lo sentiamo come un pericolo alla nostra supposta virilità. Invece è Attila che riconosce la forza e l'energia di Odabella, e si invaghisce di lei; probabilmente Attila è un don Giovanni che non riesce ad amare, ma di fronte alla giovane italiana vacilla e rischia di essere sincero.
Giuseppe Verdi quando deve raccontare la nascita della "nuova" Italia ci dice che sta avvenendo grazie a una donna. E una donna che ama il suo nemico. Perché Attila è soprattutto una storia d'amore.
Odabella entra in scena all'inizio del dramma. Di fronte ad Attila che ha conquistato Aquileia, facendone uccidere tutti gli uomini, tra cui il padre della giovane, vengono condotte queste coraggiose guerriere, che hanno combattuto con grande valore. Il re rimane ammirato in particolare dal coraggio di Odabella, che gli chiede, con un atto temerario, le sia resa la spada per poter continuare a combattere. Attila, con un gesto che vuol esser galante, le dona la propria spada e da questo momento Odabella diventa una sorta di "prigioniera" volontaria nel campo degli unni. C'è qualcosa di strano - e di apparentemente inverosimile - in questa combattente, in questa "nemica" che, armata, gode di una notevole libertà a corte e che può seguire Attila nel corso delle sue scorrerie per l'Italia, fino alle porte di Roma. La spada è il legame tra i due amanti che non si dichiarano. Teoricamente lei continua a stare vicino ad Attila per ucciderlo, ma il momento adatto pare non arrivare mai; anzi a un certo punto, gli salva la vita, impedendogli di bere la coppa di vino che Foresto aveva avvelenato. Giustifica questo gesto con la volontà di essere lei quella che deve vendicare il padre e la sua città. C'è qualcosa che però non torna nella storia. Alla fine del dramma sarà Odabella a uccidere Attila, ma il suo è ancora un atto d'amore: il re è perduto e accerchiato, per questo vuole essere lei a toglierli la vita.
Verdi e Piave - che sistemò il libretto di Solera, che non aveva convinto il Maestro - non ci dicono cosa succede dopo la morte di Attila, ma francamente è difficile immaginare Odabella che, nella sua casa in un'isola della laguna, fa la "brava" moglie di Foresto, magari cucendo merletti. Se avessero già inventato le Americhe, forse Odabella avrebbe potuto andare a combattere in quelle terre lontane, a continuare là la sua lotta, come Garibaldi, oppure sarebbe potuta diventare un pirata e magari trasformarsi in una leggenda, come l'Olandese volante.
Chissà come sarebbe stata la "nuova" Italia se Odabella fosse diventata, anche ufficialmente, la regina degli unni, grazie a quelle nozze di cui nell'opera si celebra solo la vigilia? E se l'Italia fosse nata grazie a questo matrimonio tra nemici, tra stranieri? Dovremmo fidarci di più di quello che fanno le donne.

mercoledì 5 dicembre 2018

Verba volant (598): ragazza...

Ragazza, sost. f.

Scriviamo sempre perché qualcuno ci legga. Se qualcuno vi dice che lo fa solo per sé, senza curarsi dei potenziali lettori, vi sta mentendo o, peggio, sta mentendo a se stesso. Certamente nell'antica Grecia non c'era questa ipocrisia romantica: chi scriveva voleva che gli altri conoscessero quello che aveva scritto. E soffriva quando questo non accadeva o quando non gli veniva riconosciuto il valore che pensava di meritare. E' quello che è successo a Euripide: ebbe scarso successo mentre era vivo. Magari era apprezzato negli ambienti letterari, ma il grande pubblico non lo amava e per questo ottenne pochi riconoscimenti. Per questa ragione se ne andò, ormai vecchio, da Atene, pur continuando ostinatamente a scrivere, sperando di ottenere finalmente la fama. Che arrivò con l'ultima opera, che neppure terminò e che fu allestita da un suo nipote. Come successe a Puccini con Turandot, anche per l'Ifigenia in Aulide ci fu qualcuno che si incaricò di completare l'opera, aggiungendo un finale, per renderla rappresentabile, ma in entrambi i casi possiamo benissimo fare a meno di quell'aggiunta posticcia.
Le navi che da tutta la Grecia si sono radunate nel porto tebano di Aulide per salpare verso Troia sono bloccate da giorni: non tira un alito di vento. L'indovino Calcante spiega che Artemide impedisce alla flotta di partire, irata con Agamennone: l'unico modo per placare la dea è il sacrificio della primogenita del re, Ifigenia.
Agamennone vorrebbe resistere, spera che prima o poi il vento ricomincerà a soffiare, ma le truppe rumoreggiano: loro vogliono partire, Ifigenia deve essere sacrificata. Così, su consiglio di Odisseo, Agamennone scrive alla moglie Clitennestra, dicendo che Achille non partirà se prima non si sono celebrate le sue nozze con Ifigenia. La regina non sta nella pelle: la propria figlia sta per sposare il più valoroso degli eroi greci, e così le due donne raggiungono il prima possibile il campo greco. Qui comincia una specie di commedia degli equivoci, perché Ifigenia non capisce il motivo della tristezza del padre alla vigilia delle nozze e Clitennestra non comprende l'esitazione del futuro genero, ma Achille non sta esitando, semplicemente non sa nulla del matrimonio. Caduto l'inganno delle nozze, è presto svelato il vero motivo per cui Ifigenia è stata convocata al campo dei greci.
E qui Euripide mette in scena tutta la meschineria dei "grandi" eroi, dei padri fondatori della civiltà ellenica. Agamennone esita di fronte alla rabbia della moglie e alle lacrime della figlia, ma alla fine accetta il sacrificio, perché è l'unico modo per garantire il proprio potere. Euripide ci fa capire che non è in gioco la spedizione: il sacrificio di Ifigenia non serve a far partire le navi, ma a farle partire sotto il comando di Agamennone. I capi greci vogliono partire, hanno già individuato un possibile sostituto, Palamede, che tra l'altro è più popolare presso le truppe dell'altezzoso signore di Micene. Il sacrificio di Ifigenia è inutile, basterebbe un passo indietro di Agamennone, la sua rinuncia a guidare la spedizione. Odisseo è il solito bugiardo, il cui unico obiettivo è ritagliarsi una fetta di potere il più grande possibile. Anche Achille non fa una gran figura in questa tragedia: quando capisce l'inganno, non si adira con Agamennone perché questi vuole uccidere la propria figlia, ma solo perché ha sfruttato il suo nome, perché gli ha fatto fare una brutta figura. E anche quando si erge a difensore della giovane, lo fa non per vera convinzione, ma per alimentare la propria leggenda, tanto sa che il destino di Ifigenia è segnato e che anche lui potrà finalmente andare a Troia a prendere quello che gli spetta.
Di fronte a tutte queste meschinità, a questi uomini schiavi della loro ambizione, della loro avidità, della loro vanità, del loro egoismo, Ifigenia fa un gesto di libertà: è lei che decide di sacrificarsi, risolvendo una situazione di stallo che tutti quei "grandi" uomini non riescono a sbloccare. I critici hanno spesso trovato inverosimile questa decisione così matura - e improvvisa - di Ifigenia, che era poco più di una bambina, un'adolescente, all'inizio entusiasta per le nozze e poi atterrita dalla morte. Ma, come ho detto, Euripide non concorre per il "premio della critica", vuole dire una cosa al suo pubblico e quel pubblico sappiamo che l'ha capita.
Come la possiamo capire ancora noi. Se solo volessimo. Ma naturalmente, al di là di qualche lacrima di circostanza, di qualche frase ipocrita, noi stiamo dalla parte di Agamennone, di Odisseo, di Achille, perché sono loro che fanno la storia - e che scrivono le storie - non certo da quella di Ifigenia. 
La tragedia scritta da Euripide si chiude con la giovane donna che lascia la scena per recarsi sull'altare dove sarà sacrificata, pronunciando questi versi:
Ahimè, o fulgida luce, o raggio di Zeus,
un'altra vita avrò, un'altra sorte.
O cara luce, addio!
Queste sono le ultime parole scritte da Euripide. Chi si è assunto l'onere di continuare l'Ifigenia in Aulide ha raccontato la versione più rassicurante del mito: nel momento in cui il pugnale sta per violare la ragazza, appare Artemide che mette sull'altare una cerva bianca e porta con sé Ifigenia, facendola diventare una sua sacerdotessa. Mentre l'araldo racconta a Clitennestra il miracolo a cui ha assistito, il vento comincia a soffiare: la spedizione può finalmente prendere il mare per andare a fare la guerra. Come vedete, un inutile lieto fine.
Euripide sa - e noi sappiamo - che Ifigenia è morta, uccisa da quegli uomini che dicono di amarla, ma che, quando devono fare una scelta, scelgono sempre se stessi. Perché non hanno capito niente. E a noi rimane l'immagine di quella giovane donna che cammina, sola e consapevole, verso la luce. Perché ha capito tutto.

sabato 1 dicembre 2018

Verba volant (597): infedeltà...

Infedeltà, sost. f.

Chissà cosa avevano in mente gli insegnanti di alcune scuole medie di Ascoli Piceno che hanno deciso di non portare i loro alunni alla rappresentazione aperta delle scuole di Così fan tutte di Mozart? Forse hanno controllato su Wikipedia e hanno incautamente letto che questa opera ha "ispirato" l'omonimo film di Tinto Brass, interpretato da una splendente Claudia Koll. Voglio rassicurare quegli insegnanti: il collegamento tra le due opere è assai labile. E comunque credo che i loro studenti abbiano già visto cose ben più osé rispetto a quel film del '92, per non parlare dell'opera di Mozart.
Certo l'opera, scritta da Lorenzo Da Ponte, non è per educande. Si parla di infedeltà e di tradimenti, con esplicita e disinvolta allegria.
Le protagoniste sono due giovani sorelle, Dorabella e Fiordiligi, fidanzate con due ufficiali, rispettivamente Ferrando e Guglielmo. L'azione comincia per la provocazione di don Alfonso, un vecchio filosofo - fanno sempre danni questi filosofi - amico dei due giovani, che spiega loro che
è la fede delle femmine come l'Araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa!
I giovani protestano: le loro fidanzate sono, e saranno sempre, fedeli. Don Alfonso, scettico, propone loro di verificarlo: fingeranno di doversi recare al fronte, lasciando quindi temporaneamente le loro giovani dame, e travestiti da ufficiali albanesi arriveranno in città e tenteranno di conquistare uno la fidanzata dell'altro. En passant, pare ci sia stato un tempo in cui farsi passare per albanesi in Italia fosse un titolo di merito. Don Alfonso trova un'alleata in Despina, la cameriera delle ragazze, che, cinica come lui sul tema dell'amore e della fedeltà, spiega che i loro fidanzati al fronte non saranno certo fedeli e quindi le esorta a
far all'amor come assassine,
approfittando dell'assenza di Ferrando e Guglielmo.
Il piano di don Alfonso alla fine funziona. Le ragazze, dopo qualche iniziale tentennamento, cedono alla corte dei loro nuovi spasimanti, perché appunto
così fan tutte.
E' una favola - e le favole devono finire bene - e così, ancora su suggerimento di don Alfonso, i due giovani "tornano" e si riprendono le "legittime" fidanzate.
L'opera si chiude con tutti i personaggi che cantano
fortunato l'uom che prende / ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa.
Ecco la parola che è mancata fino a ora e che è la morale di questa storia. E che ci fa capire che non è una storia di corna, o un frivolo divertissiment. Siamo nel pieno dell'epoca dei Lumi: Così fan tutte viene rappresentata a Vienna il 26 gennaio 1790, non sono passati neppure sei mesi dalla presa della Bastiglia e l'imperatore Giuseppe II non immagina cosa succederà alla propria sorella andata in sposa a Luigi XVI.
Ma è davvero la ragione che domina questo gioco intellettuale, che Mozart accompagna con la sua musica scintillante e razionalmente misurata? L'illuminismo è qualcosa di più complesso e Mozart è testimone - come vediamo anche nel Flauto magico - di questa complessità.
Aleggia su questa storia di tradimenti veri e immaginati il ghigno di Voltaire, che guarda disilluso il mondo che crede di aver raggiunto la ragione. Perché le vere coppie, le coppie che potrebbero funzionare, non sono quelle della realtà, ma quelle della finzione. Dorabella, quando può scegliere uno dei due ufficiali albanesi, sceglie Guglielmo e Fiordiligi sente l'amore, forse per la prima volta, nelle parole di Ferrando. I quattro giovani sono stati veramente loro solo quando hanno finto di essere altri, ma la società non vuole che siano loro stessi, ma le maschere che qualcuno ha imposto loro.
I travestimenti sono l'altro elemento di questa opera. Sono ovviamente mascherati Guglielmo e Ferrando, ma basta davvero un turbante per cambiare aspetto? Succede ai due giovani quello che capita a Clark Kent, che diventa irriconoscibile solo perché indossa calzamaglia e mantello. Anche Despina si maschera, per ben due volte: prima si finge medico e "guarisce" i due ufficiali albanesi che hanno tentato il suicidio, dopo essere stati inizialmente respinti, e poi diventa il notaio davanti a cui redigere i contratti matrimoniali tra le giovani e i due "nuovi" pretendenti, in un gioco che sembra ormai scoperto. Tutto è finzione: forse l'unica vera è quel contratto notarile, quella transazione commerciale,  che è la vera essenza del matrimonio. Anche Fiordiligi si traveste da ufficiale per raggiungere il fronte e vedere se davvero Guglielmo le è ancora fedele, si mette il cappello da uomo e non si riconosce più, ma è proprio così che la scopre Ferrando, dichiarandole il suo amore. Ferrando che non è più Ferrando si dichiara a Fiordiligi che non è più Fiordiligi.
Questo continuo cambiare di maschere ci dice che la vita è una convenzione, che non prevede la nostra felicità. Forse è qualcosa che non dobbiamo svelare alle ragazze e ai ragazzi che frequentano la scuola media.

venerdì 30 novembre 2018

Verba volant (596): zitta...

Zitta, agg. f.

Non è sempre facile leggere le commedie di Aristofane, perché questo genere teatrale vive nell'attualità più di quanto lo faccia la tragedia. Aristofane scrive pensando ai suoi spettatori, partecipa alla politica di tutti i giorni con le sue battute, ma siccome è un grande autore riesce sempre a dire qualcosa anche a noi. Se solo abbiamo la capacità di ascoltarlo.
E' il 411 a.C.: Atene è in guerra da vent'anni contro Sparta. Non è solo il confronto tra due città, ma tra due alleanze che coinvolge tutto il mondo che parla greco. Non c'è posto per i "non allineati": o si sta con Sparta o con Atene, con i valori della tradizione o con quelli dei tempi nuovi, con il governo dei pochi o con la democrazia. Dopo vent'anni quasi interrotti di conflitto, Atene è una città molto provata, quasi prostrata. E soprattutto è agitata al suo interno da un conflitto: anche nella città dell'Attica si confrontano i due schieramenti che si stanno combattendo al di fuori delle Lunghe mura. Da sempre ad Atene c'è una minoranza che odia la democrazia, che detesta quello che Atene è diventata e che vorrebbe farne una sorta di "novella" Sparta. Per molti anni questo gruppo è rimasto nell'ombra, ha avuto paura di dichiararsi, ma più la guerra si fa cruenta, più la condizione della città si fa dura, più queste posizioni trovano inaspettato consenso. A questo punto ormai questa fazione non ha più paura di mettersi in mostra, un colpo di stato oligarchico è ormai sentito come imminente. E da tanti cittadini è auspicato come una liberazione.
Aristofane sa cosa sta per succedere, sa che gli oligarchici - a cui si oppone - stanno per conquistare il potere e allora tenta il tutto per tutto, una mossa apparentemente disperata: mette in scena un colpo di stato, ma lo fa condurre da qualcuno che non è - e non è mai stato e, secondo lui, mai sarà - un soggetto politico, ossia le donne. E così scrive e mette in scena Lisistrata, una delle sue commedie più famose e fortunate.
La protagonista è una donna energica e coraggiosa che convince la sue concittadine a prendere il potere; le donne occupano l'acropoli e si impossessano del tesoro pubblico: è un colpo di stato vero e proprio, in tutta la sua drammaticità. Aristofane però scrive commedie e quindi immagina che questo colpo di stato sia condotto attraverso uno sciopero del sesso, che gli permette di fare le battuttacce che tanto divertivano il suo pubblico e che assicurano alla commedia un successo anche moderno, visto che con il sesso si fa sempre cassetta.
La commedia si conclude con la vittoria di Lisistrata perché anche a Sparta è nato uno stesso "movimento", il #MeToo è diventato globale. L'arrivo ad Atene di un ambasciatore spartano in evidente crisi di astinenza sessuale indica che le donne di tutta la Grecia hanno vinto e che finalmente si farà la pace.
Con questa commedia Aristofane lancia una sfida aperta ai leader democratici ateniesi: siate voi a trattare la pace con Sparta, togliete questo argomento dalle mani degli oligarchici. Il commediografo fu inascoltato e dopo pochi mesi ci fu il colpo di stato, che sancì la fine della democrazia ateniese.
Al di là di quello che è successo - o che sarebbe potuto succedere - nell'Atene del 411 a.C., di questa commedia a noi rimane una suggestione molto forte: cosa potrebbe succedere se qualcuno che non è mai stato un soggetto politico all'improvviso lo diventasse e prendesse il potere?
C'è un illuminante scambio di battute tra le donne che spiegano cosa sta succedendo al rappresentante degli uomini che le ha raggiunte sull'acropoli.
Lisistrata
Dunque, dall'inizio della guerra abbiamo sopportato con pazienza tutto quel che voi uomini avete combinato. Di voi non eravamo nient'affatto contente, però guai ad aprir bocca! Ma spesso, stando in casa, sentivamo che avevate deciso male su un affare importante. E pur addolorate dentro di noi, sorridendo vi chiedevamo…
Ismene
"Oggi, in assemblea, che cosa avete deciso di iscrivere sulla stele riguardo alla tregue?"
Lisistrata
E lui, l’uomo…
Critilla
[facendo voce da uomo] "Che ti riguarda? Vuoi star zitta?"
Lisistrata
E io zitta.
Ismene 
Ma io, zitta non ci sarei stata.

E in qualche modo è ancora una sfida che Aristofane ci lancia. Quelli - e naturalmente quelle, perché il tema dell'emarginazione di genere rimane ancora quasi tutto, a due millenni abbondanti dalla Lisistrata - devono cominciare a parlare. Abbiamo bisogno che non stiate zitte.

giovedì 29 novembre 2018

Verba volant (595): fertile...

Fertile, agg. m. e f.

Ormai se pensiamo a quella vasta regione che - con uno smaccato residuo di eurocentrismo britannico - chiamiamo ancora Medio oriente, immaginiamo il deserto: ci viene in mente la sabbia rovente del film Lawrence d'Arabia o al massimo una distesa di pozzi di petrolio cresciuti in un paesaggio altrimenti brullo. Eppure in prima media ci hanno spiegato - nel libro c'era anche un disegno per farcelo capire meglio - che lì si trovava la cosiddetta "mezzaluna fertile", come viene definita dagli storici quella vasta regione che si estende dalla Mesopotamia alla valle del Nilo, passando per la valle del Giordano. Proprio la presenza di questi grandi fiumi e la loro particolare vocazione agricola hanno fatto sì che in queste terre si sviluppassero le prime grandi civiltà dell'uomo: noi siamo anche i lontanissimi pronipoti di quegli antichissimi popoli.
Mi è tornata in mente questa espressione, leggendo che le sponde dell'Eufrate sono invase da pesci morti. Secondo alcuni studiosi questa moria è stata provocata dallo sversamento di sostanza tossiche nel fiume, mentre altri sostengono che si tratti di una malattia partita da alcuni allevamenti di itticoltura della regione. Comunque sia, questo avvenimento ha di fatto bloccato una delle attività più importanti della regione.
L'Iraq - il cui territorio coincide con la "terra in mezzo ai fiumi", ossia la regione in cui è nata la civiltà sumera, poi quelle assira e babilonese - deve importare dall'estero circa l'80% del grano e del riso necessari per sfamare la sua popolazione. Come probabilmente per quello che riguarda la moria dei pesci, la responsabilità di questa situazione è dell'uomo. L'Eufrate arriva dalla frontiera con la Siria con una portata di 250 metri cubi al secondo: un record negativo. Mentre il Tigri ha una portata dimezzata rispetto al 2003, da 1.680 a 836 metri cubi al secondo. La decisione della Turchia di costruire una serie di grandi dighe sull'alto corso dei due fiumi è un elemento che rende questa situazione sempre peggiore. La mancanza d'acqua ha fatto aumentare la salinità dei terreni, rendendoli di fatto inutilizzabili per scopi agricoli: il 40% delle terre agricole dell'Iraq sta subendo questo processo di salinizzazione. La mancanza d'acqua e il sempre più diffuso bisogno di tagliare gli alberi per avere legna da ardere ha provocato la desertificazione del 50% della terra che era produttiva negli anni Settanta. Il continuo stato di guerra, le lotte tribali, lo stato di insicurezza, la scelta di investire unicamente sull'industria petrolifera hanno provocato i mancati investimenti nell'innovazione e nella meccanizzazione dell'agricoltura e così, per colpa dell'uomo - unicamente per colpa dell'uomo - una delle terre più fertili del mondo è diventata poverissima e costretta a vivere con le importazioni straniere, naturalmente pagate a caro prezzo. Un terzo della popolazione irachena vive nelle aree rurali e naturalmente sono queste persone quelle che stanno soffrendo di più; secondo i dati delle organizzazioni internazionali il 69% della popolazione irachena definita in "povertà estrema" vive proprio in queste aree.
E la stessa cosa sta succedendo in Palestina, visto che ormai si sta prosciugando il Giordano, di cui la Bibbia esalta la ricchezza di acqua e la capacità di portare fertilità. Nel Libro di Giobbe è scritto che il fiume "durante tutti i giorni della mietitura è gonfio fin sopra tutte le sponde": oggi il fiume è perennemente in secca e il Mar morto si ritira di un metro ogni anno. 
Anche il Nilo sta sparendo. Alla continua riduzione della portata del fiume che per millenni ha nutrito il "granaio del mondo" - per questo combatterono Ottaviano e Antonio, non certo per la bellezza di Cleopatra - potrebbe causare un danno inimmaginabile e drammatico la costruzione della diga Renaissance in Etiopia. Riempire in tre anni un bacino idrico di oltre settanta miliardi di metri cubi d'acqua distruggerebbe il 51% dell’agricoltura egiziana, che impiega un quarto della popolazione del paese.
Questo è quello che succede davvero nel mondo. Quando ci sono queste condizioni di sussistenza, francamente credo che qualunque altra analisi debba essere ricondotta a questo. Per anni abbiamo letto articoli e saggi sullo scontro di civiltà o analisi geopolitiche sulla situazione mediorientale, ma continuiamo a dimenticare, più o meno scientemente, questo dato di fatto: in una regione fertile, in una delle regioni potenzialmente più fertili del mondo, si soffre la fame, per responsabilità precise e definite degli uomini.
Desertum fecerunt et pacem appellaverunt: così dicevano i nemici di Roma. Guardando alla condizione di quelle terre, quei popoli non possono neppure dire questo. Abbiamo fatto un deserto e lo abbiamo chiamato guerra.

martedì 27 novembre 2018

Verba volant (594): rapsodia...

Rapsodia, sost. f.

Nell'antica Grecia i rapsodi erano artigiani, che andando di città in città, di villaggio in villaggio, cucivano insieme - è questo il significato etimologico di questa parola - versi che avevano raccolto lungo i loro viaggi. Spesso inventavano loro stessi le storie che cantavano, ma preferivano attribuirle a qualcun altro ed è per questo che le due grandi rapsodie giunte fino a noi da quei tempi lontanissimi sono state attribuite a un uomo che non è mai esistito.
Confesso che, per le mie passioni musicali, se dico la parola rapsodia io penso immediatamente a Gershwin, al trillo del clarinetto che introduce quel brano che per me è capace di raccontare musicalmente il Novecento, nelle sue speranze e nelle sue ansie, nella sua velocità, e anche nella sua pazzia. In questi giorni però, complice un film che porta lo stesso titolo, voglio associare questa parola a uno dei brani più famosi dei Queen. E forse l'antica definizione di rapsodo ben si adatta al genio di Freddy Mercury.
Le continue sorprese musicali che ci riservano i sei minuti di Bohemian Rhapsody rischiano di mettere in ombra un testo capace di raccontarci una storia che è allo stesso tempo personale e universale, proprio come quelle dei rapsodi. Noi siamo costretti a leggere il drammatico duello tra Achille ed Ettore, che è il culmine drammatico dell'Iliade, ma quello non era un testo destinato alla lettura: sono versi che devono essere cantati e aver perso la musica di Omero è una delle più gravi perdite della storia della cultura umana. Speriamo non succeda lo stesso a chi abiterà questo pianeta tra mille anni, speriamo non siano costretti a leggere solo i libretti del grande melodramma italiano, senza poter ascoltare la musica di Verdi. E speriamo possano ascoltare la musica di Bohemian Rhapsody, mentre cercano di capirne il testo.
E lo capiranno, perché anche tra mille anni, le donne e gli uomini che vivranno in questo pianeta soffriranno perché Achille non può non uccidere Ettore, perché Ettore ha ucciso l'uomo che egli amava, anche se sa che dopo toccherà anche a lui inevitabilmente morire, anzi Achille vuole morire, perché ha perso Patroclo, e per questo vuole uccidere Ettore. E allo stesso modo quelle donne e quegli uomini soffriranno sentendo il drammatico racconto di un giovane uomo che ha ucciso una parte di sé e che non è pentito di quello che ha fatto, solo preoccupato per le persone che si lascia dietro, per sua madre prima di tutto. Sentiranno il coraggio e l'orgoglio che sta dietro quel gesto estremo, quell'uccisione, perché "tutti lo possono vedere", anzi tutti lo devono vedere.
Achille, se Omero avesse immaginato i suoi versi accompagnati dalla forza della chitarra di Brian May, avrebbe potuto cantare:
Just gotta get out, just gotta get right out of here.
Nothing really matters,
anyone can see,
nothing really matters,
nothing really matters to me.

domenica 25 novembre 2018

Verba volant (593): volontaria...

Volontaria, sost. f.

Silvia Romano è una giovane donna, laureata da poco, che fa l'istruttrice in una palestra e che ha deciso di dedicare una parte della propria vita, facendo la volontaria per un'organizzazione, la Africa Milele onlus, che sta gestendo alcuni progetti umanitari in Kenya. Questa sua esperienza di vita l'ha già portata due volte in Africa e questa volta purtroppo è stata rapita, presumibilmente da una banda armata che ha l'obiettivo di chiedere un riscatto per la sua liberazione. Di Silvia abbiamo imparato a conoscere il sorriso, grazie alle foto che ha condiviso sui social, come fanno gran parte delle sue coetanee - e come facciamo troppo spesso anche noi, che invece abbiamo l'età per essere i suoi genitori. Di Silvia conosciamo qualche frase, presa qua e là sempre dai social, frasi che probabilmente non ci parrebbero così degne di nota, se non fosse stata rapita. 
A questo punto occorre fare di tutto affinché Silvia torni il prima possibile a casa. Se è necessario pagare, pagheremo, come abbiamo già fatto e come faremo in futuro in casi simili. Quello però che non dovremmo fare è parlare di Silvia per dire cose che con Silvia non c'entrano nulla. Non ho letto quello che un noto e mi dicono arguto giornalista - uno di quelli che vanno per la maggiore e che piacciono tanto a voi "spiriti belli" - ha scritto su di lei; non l'ho letto perché non leggo mai quello che scrive quel tizio. E non ho letto quello che tanti hanno scritto pro e contro quello che ha scritto quel giornalista; non ho letto nulla di questa polemica perché semplicemente non me ne frega un cazzo. E perché invece secondo me bisogna parlare di quella ragazza, di quello che pensa, di quello che fa, e anche dei rischi che ha corso e che corre per fare quello che fa. E' la stessa differenza che c'è tra leggere un romanzo e tutti i commenti a quel romanzo. Puoi anche leggere tutto quello che è stato scritto su un romanzo, ma questo non significa che tu conosca il romanzo.
E francamente trovo che sia anche una forma di paternalistica violenza parlare di Silvia per parlare d'altro. E chissà perché questa cosa la facciamo noi maschi alle spalle di una donna, di una giovane donna. Chi siamo noi per dire quello che Silvia doveva o non doveva fare, che titolo abbiamo per giudicare sulle sue scelte. Dovremmo forse prima giudicare le scelte che abbiamo fatto noi, le cose che abbiamo e quelle che non abbiamo fatto, e, visto che spesso il bilancio è impietoso, dovremmo cominciare a tacere e lasciare che le giovani donne come Silvia facciano le loro scelte. Commetteranno degli errori? Mi pare sia inevitabile: è la vita che è fatta così. Forse siamo solo invidiosi perché faranno qualcosa di meglio di quello che abbiamo fatto noi.

mercoledì 21 novembre 2018

Verba volant (592): muro...

Muro, sost. m.

Dopo più di un mese di viaggio, dopo più di 4.500 chilometri percorsi a piedi, la prima parte della carovana di donne e di uomini - ma sono in grande maggioranza donne - partita dall'Honduras a metà ottobre, è arrivata a Tijuana, al confine con la California, a soli ventisette chilometri da San Diego. Sono duemila persone, e presto ne arriveranno almeno tre volte tante. Non sappiamo di preciso quanti siano quelli che si sono messi in cammino dall'America centrale: le stime oscillano tra 10 e 17mila, ma certamente sappiamo che ormai quella massa è partita e non ha alcuna intenzione di tornare indietro. Non fermi un popolo che si è messo in marcia.
A Tijuana hanno trovato il "muro" costruito da Trump, i 5.700 soldati inviati lungo il confine meridionale degli Stati Uniti per fermare l'"invasione", come l'ha chiamata il presidente, che ha usato questo tema nella campagna elettorale di metà mandato, riuscendo a vincere quelle difficili elezioni. Sono più uomini di quanti quel paese ne stia schierando in Iraq. E hanno trovato il "muro" costruito dalla burocrazia: chi vuole chiedere asilo negli Stati Uniti deve presentarsi a un posto di frontiera, senza tentare di entrare di nascosto, pena la perdita di ogni diritto presso le autorità statunitensi. Ossia devono aspettare il verdetto dell’agenzia per l'immigrazione, che può arrivare anche dopo molti mesi.
Ma il "muro" più solido contro cui si sono imbattuti in questi giorni le donne e gli uomini dell'Honduras non l'ha costruito Trump, non l'hanno eretto gli Stati Uniti: sono i più poveri tra i cittadini di Tijuana, sono i 2.500 profughi che aspettano già da mesi in quel varco della frontiera, sono quelli che già c'erano e che non vogliono i "nuovi" arrivati. A Tijuana sono già cominciati gli scontri, dentro e fuori i campi di accoglienza dei migranti, scontri fomentati anche dai cartelli del narcotraffico, che hanno evidentemente tutto l'interesse a concentrare in quell'area i disordini e a mantenere il loro controllo su un confine che per loro è vitale. Paradossalmente questo muro sarà reso ancora più solido da quelli che sono arrivati in questi giorni, in queste ore, che a loro volta vedranno quelli che arriveranno domani e dopodomani come terribili concorrenti. Quando la meta era lontana era facile essere solidali, ma ora che il traguardo è lì vicino, apparentemente a portata di mano, il rischio che si scatenino gli istinti peggiori della massa è molto forte. E' la lotta dei penultimi contro gli ultimi e siccome gli ultimi sono destinati a crescere - ci saranno sempre dei "nuovi" ultimi - questo è un conflitto destinato ad aumentare in maniera esponenziale. Agli Stati Uniti basterà stare a guardare: sarà sufficiente farne entrare pochissimi, per rendere quelli rimasti fuori ancora più cattivi, ancora più spietati. Trump ha già vinto la sua battaglia: perché non esiste muro più solido - e più economico per lui - della cattiveria degli uomini.
E' tragico il destino di quelle donne e quegli uomini, che sono fuggiti per entrare in nuova prigione.
All in all it was just a brick in the wall
All in all it was just bricks in the wall

martedì 20 novembre 2018

Verba volant (591): pozzo

Pozzo, sost. m.

Diogene Laerzio attribuisce a Democrito questa massima:
In verità nulla sappiamo, giacché la verità sta in fondo al pozzo.
Questa frase risuonava nella mente del pittore Jean-Léon Gérôme quando nel 1896 dipinse una delle sue opere più famose, intitolata La Verità che esce dal pozzo.
La Verità è una bellissima donna che esce nuda da un grande pozzo, parzialmente coperto di foglie, ma il tuo sguardo non cade sul suo corpo perfetto, sulla sua pelle chiarissima, che pure illumina il quadro, ma ti colpisce prima di tutto il suo urlo: la Verità sta chiamando, anzi sta chiamando proprio te, ti sta rimproverando con tutto il fiato che ha in gola perché hai permesso che rimanesse intrappolata laggiù. E poi vedi il suo piede uscito dal pozzo, rappresentato nell'istante prima in cui lo sta per mettere a terra e su cui evidentemente farà leva per uscire del tutto e quindi per raggiungerti. Capisci che si avventerà su di te con un balzo e solo a questo punto noti la frusta con cui ti colpirà. La Verità di Gérôme ti spaventa, perché ne vedi la furia, ma soprattutto perché sai di essere in colpa.
Siamo nella Francia che si sta dividendo sull'affare Dreyfus e certamente con questo quadro Gérôme prende posizione, indicando con chiarezza da che parte sta, ma francamente mi sembra riduttivo leggere solo in questa maniera così contingente l'opera. Bisogna interpretare questo quadro partendo dal frammento di Democrito che, nella sua icastica concisione, ci toglie ogni speranza: la verità è laggiù e là rimarrà. Anzi è in qualche modo rassicurante sapere che la verità è confinata in fondo a quel pozzo, è qualcosa con cui non saremo costretti a fare i conti. Finché la verità starà nel pozzo noi possiamo continuare a vivacchiare qui sopra. Gérôme ci dice però che non potremo più stare tranquilli, che alla fine, prima o poi, la verità verrà fuori e allora la sua vendetta contro la nostra meschineria sarà spietata.
Ogni giorno dobbiamo decidere da che parte stare, se continuare a credere che la verità non troverà la forza per risalire o fare come se potesse essere qui accanto a noi da un momento all'altro. Se far finta di nulla e sperare di cavarcela o prendere posizione. Qualcuno ha la forza d'animo e l'onestà intellettuale di dire la verità semplicemente perché è giusto così, noi "normali" abbiamo probabilmente bisogno di sapere che un giorno da quel pozzo potrà uscire una nostra sorella - o una nostra figlia - che sarà veramente furiosa per quello che non abbiamo fatto.

domenica 18 novembre 2018

Verba volant (590): gilé...

Gilé, sost. m.

Vedo alcuni entusiasmarsi - immagino in buona fede - per la protesta dei gilet gialli che sabato 17 novembre hanno fermato la Francia, per protestare contro il presidente Macron e il rincaro del prezzo dei carburanti.
Io detesto Macron, la politica ultracapitalista del suo governo e tutto quello che lui rappresenta nella politica francese ed europea. E credo anche che sarebbe finalmente necessaria una forma di protesta un po' più violenta di quella a cui ci siamo abituati in questa epoca dell'ipocrita "politicamente corretto": una protesta che non danneggia, che non fa male, soprattutto economicamente, al nostro nemico, è assolutamente inutile. Poi capisco che protestare non pacificamente può comportare dei costi, ma - come diceva qualcuno che se ne intendeva - la rivoluzione non è un pranzo di gala. Nonostante tutto questo, io non voglio indossare un gilet giallo, perché in politica non vale la regola che il nemico del nostro nemico è nostro amico.
Sabato è scesa in piazza una Francia reazionaria, di destra, vandeana, che si è unita su un obiettivo di carattere assolutamente egoista e privato, ossia la riduzione, per sé, del prezzo della benzina. Naturalmente il movimento si è affrettato a dire che questa battaglia è apartitica, né di destra né di sinistra, ma solo nell'interesse dei cittadini. Se vi viene in mente qualcun altro che dice le stesse cose in qualche altro paese europeo, non è un caso, perché questo è il mantra che ci sentiamo ripetere da ormai diversi anni da parte delle destre nei paesi occidentali. La Francia di destra che è stata orgogliosamente e violentemente vandeana e monarchica, che ha sostenuto a viso aperto il fronte dei nemici di Dreyfus e il regime di Vichy, che ha votato con una certa spavalderia guascona una destra smaccatamente fascista come quella di Le Pen padre, adesso preferisce imbellettarsi in questo modo. E con buoni risultati mi pare.
La cosa curiosa di questa vicenda è che questa destra che si finge apartitica si scontra contro un personaggio che è diventato presidente in nome di questa stessa ipocrisia: Macron è un esponente della destra finanziaria che descrive se stesso come una specie di superamento delle categorie di destra e di sinistra. E anche questo è qualcosa che abbiamo già sentito da qualche altra parte, se la memoria non mi inganna nel discorso di fondazione di un partito italiano sedicente democratico. Quindi in Francia un governo di destra - ma che finge di non esserlo - deve fare i conti con la protesta di un movimento rurale di destra - che finge di non esserlo. Praticamente tutta la politica si svolge da una parte dello schieramento, data l'irrilevanza culturale e politica dell'altro.
Proprio la Francia ci ha insegnato che le rivoluzioni si cominciano - e hanno un qualche successo - quando i cittadini hanno fame: la povertà è una molla potente per scatenare la rabbia delle persone. Ma le rivoluzioni hanno successo quando oltre a combattere la povertà, oltre a essere contro la crisi economica, si pongono un obiettivo politico e si propongono di cambiare la società e il mondo. La protesta dei gilet gialli chiede solo di abbassare il prezzo della benzina, ma ovviamente, essendo un movimento conservatore e di destra, sostenuto e finanziato dalle forze del capitale, non si pone l'obiettivo di sovvertire l'ordine che permette ai padroni del petrolio di lucrare su questo bene e di distruggere il pianeta. La protesta dei gilet gialli è l'arma che una parte del fronte conservatore usa contro l'altra parte per condizionarla, per dire: guarda che ci sono anch'io, che devi fare i conti con me.
La rivoluzione è un'altra cosa. La rivoluzione è togliere il loro potere economico e politico ai padroni del petrolio, rinunciando per sempre a questo combustibile. Questo sarebbe il motivo per bloccare - finalmente con un po' di violenza - un paese.       

sabato 17 novembre 2018

Considerazioni libere (427): a proposito di Mickey Mouse...

Novant'anni non sono poi tanti: noi possiamo ragionevolmente sperare di arrivare a quel traguardo (anche perché per avere la pensione dovremo lavorare fino agli ottanta). Però pensate a com'era il mondo novant'anni fa, quando all'Universal's Colony theatre di New York venne proiettato per la prima volta Steamboat Willie, un cartone animato di appena sette minuti che due giovani non ancora trentenni, Walt Disney e Ub Iwerks, avevano realizzato nelle settimane precedenti in un garage. Steamboat Willie fu il primo cartone animato a presentare una colonna sonora con musiche, effetti sonori e dialoghi, anche se non intelligibili, completamente sincronizzata; fu un successo e grazie a quel successo è nato il mito di Mickey Mouse, che proprio con quel cartone animato fece il suo esordio sul grande schermo e cominciò una fortunata carriera che continua ancora. E per questo proprio oggi festeggiamo i novant'anni di Topolino, come chiamiamo in Italia quel personaggio.
Nel mondo del 1928 non era così comune vivere fino a novant'anni, dovevi essere molto ricco o molto sano. E comunque ci pensava la guerra a ucciderti. Quando Mickey Mouse cominciò il suo lungo viaggio la Grande guerra era finita da appena dieci anni ed era un ricordo ancora molto vivo. 
E una nuova guerra stava covando sotto le ceneri delle macerie di quel terribile conflitto. Un anno dopo sarebbe crollata la borsa di Wall street, dando il via a una crisi economica su larga internazionale che segnò in maniera drammatica, specialmente in Europa, i decenni successivi. I fascismi in Europa prendevano vigore e portavano il mondo a un nuovo conflitto.
Mickey Mouse non lo sapeva mentre fischiettava, fingendosi il capitano del battello a vapore su cui faceva il mozzo e mentre corteggiava Minni "suonando" una capra. Solo per pochissimi anni gli fu possibile essere un monello scapestrato: in fretta dovette mettere la testa a posto e diventare un detective. Poi naturalmente partecipò anche alla seconda guerra mondiale e poi alla "guerra fredda" e alla corsa allo spazio, insieme al suo amico Eta Beta. Certamente Mickey Mouse nel 1928, mentre era sul battello a pelare patate, non poteva immaginare che dall'altra parte dell'Atlantico una scrittrice geniale aveva pubblicato proprio quell'anno un piccolo libro intitolato Orlando, la storia incredibile di un personaggio che invece non metterà mai la testa a posto.
Forse anche Mickey Mouse, come Orlando, un giorno si è chiesto
Siamo dunque fatti in modo tale da dover prendere la morte a piccole dosi, giorno per giorno, per continuare ad affrontare l'impresa di vivere?
Ma poi non ha avuto tempo, ha dovuto attraversare il Novecento, diventando anche lui quello che dovevano diventare i miti del "secolo breve", uno strumento per far vendere ogni genere di prodotto, un ambasciatore del consumismo capitalista tra i bambini. Il topo ribelle e anarchico di Steamboat Willie è diventato il testimonial di un'azienda di telefonia.
Alla fine novant'anni sono tanti: come siamo invecchiati male, Topolino.

giovedì 15 novembre 2018

Verba volant (589): giornalista...

Giornalista, sost. m. e f.

In questi giorni ho visto molti amici esibire con orgoglio il proprio tesserino dell'ordine dei "pennivendoli". Vi capisco, amici giornalisti, umanamente e professionalmente vi capisco. Io sono stato un funzionario di partito e ora sono un impiegato comunale, due categorie che non godono di una buona stampa, e quindi mi sono sempre incazzato - e mi incazzo ancora - quando si fanno generalizzazioni sulla categoria a cui appartengo, perché ho conosciuto funzionari di partito molto seri e conosco impiegati pubblici che lavorano molto. Quindi quando vi dicono che siete delle "puttane" avete ragione di arrabbiarvi.
Ma proprio perché solidarizzo con la vostra incazzatura, permettetemi di sottolineare due cose. Voi fate un lavoro molto particolare, così particolare che se chi è al governo non si arrabbia con voi, significa che lo state facendo male. Ovviamente so che le parole sono pericolose come le pietre, ma un conto è dirvi che siete "puttane" e un altro conto è impedirvi di fare il vostro lavoro. Non difendo quelli che oggi sono al governo - sono ormai molti anni che non difendo quelli che sono al governo - e sono convinto che siano capacissimi non solo di insultarvi, ma anche di limitare la vostra libertà: e su questo tutti noi dobbiamo vigilare e non dobbiamo lasciarvi soli nella battaglia. L'altra nota che vorrei farvi è che, come io mi arrabbio di più con i miei colleghi fancazzisti piuttosto che con quelli che ci chiamano genericamente "fannulloni", credo che anche voi dovreste essere molto arrabbiati con i vostri colleghi che fanno le "puttane", e mi pare non siano pochissimi.
Tra l'altro una vostra battaglia seria e non corporativa contro le "puttane" potrebbe aiutare tutti noi a riflettere sulla libertà di stampa, che è un tema vitale per la società. E lo è tanto di più oggi che non esiste più la stampa e in cui la libertà scarseggia. Viviamo in una società in cui sono spariti - anzi in cui qualcuno ha fatto sparire - i cosiddetti corpi intermedi, e in cui vengono sempre più drammaticamente ristretti gli ambiti democratici, in cui chi è al potere cerca un contatto diretto e plebiscitario con il "popolo" e in cui le libertà democratiche sono compresse, magari a favore di quelle civili. In questo quadro i giornalisti possono o difendere i corpi intermedi e i i cittadini o diventare strumenti di quel collegamento plebiscitario tra potere e popolo. Mi pare che molti di voi abbiate scelto questa seconda opzione, anche perché avete partecipato con accanimento a distruggere i corpi intermedi, ad esempio i partiti, anche perché pensavate di prenderne il posto. C'è un quotidiano in Italia, uno dei più importanti - non ne farò il nome, ma è facilmente intuibile - che si è dedicato con abnegazione - e con successo - a distruggere la sinistra politica di questo paese, pensando di diventarne in una fase successiva il soggetto egemone, fatto salvo che invece la sinistra è morta, anche per colpa di quel giornale, e ora quei giornalisti temono giustamente per l'insorgere di una destra sempre più pericolosa.
E così in Italia assistiamo a una riduzione della libertà - anche di stampa - che si accompagna a una riduzione drammatica della stampa. In poco più di un decennio i due maggiori quotidiani italiani sono passati da 960mila copie vendute a 370mila e una riduzione analoga hanno avuto tutti gli altri quotidiani italiani. So bene che in questo decennio sono cambiate molte cose, c'è la rete, ci sono i social, c'è una diffusione incredibile di free-press, che spesso è l'unica carta stampata che il popolo legge. Ma questo crescere di strumenti non ha fatto aumentare la libertà di informazione. Tutt'altro.
Un'altra piccola cosa: è giusto protestare quando il potere cerca di limitare la libertà di azione dei giornalisti, ma cosa succede quando è il mercato che limita questa libertà, quando sono i padroni dei giornali a mettere dei paletti? Io scenderei volentieri in piazza a fianco dei giornalisti italiani se cominciassimo a farci anche queste domande. Non pretendo nemmeno di avere delle risposte, anche perché immagino che le mie sarebbero un po' troppo radicali per molti di voi, ma credo sarebbe già sufficiente condividere domande e preoccupazioni. Oppure possiamo far finta che ci vada bene così, che tanto passeranno anche questi - in fondo è passato anche Napoleone - e che voi resisterete avvinghiati ai vostri tesserini.