domenica 30 marzo 2014

Verba volant (78): rifiuto...

Rifiuto, sost. m.

Il rifiuto che mi interessa e che è l'oggetto di questa definizione non è quello che fece un tempo, per viltade - almeno a sentir Dante - il povero Celestino V, ma quella cosa che noi tutti giorni scartiamo, buttiamo, non utilizziamo più. In italiano infatti il rifiuto è sia l'atto di scartare sia ciò che viene scartato, anche se in questo valore più concreto si preferisce in genere il plurale rifiuti: evidentemente già la morfologia della nostra lingua ci dice che noi abbiamo la cattiva abitudine a buttare troppo.
Aprendo un bidone o un cassonetto dei rifiuti possiamo trovare davvero di tutto, anche dal punto di vista etimologico. A Bologna si usa comunemente il termine rusco, parola di origine celtica; in italiano rusca è propriamente la scorza della sughera e da qui è probabilmente venuto il significato di cosa da gettare. Permettetemi un piccolo inciso. Quando facevo un altro mestiere, mi capitava di fare incontri con compagni di altre regioni per dare indicazioni su come mettere in piedi una festa campestre. In una di queste assemblee, a Napoli, ricordai che, tra i vari adempimenti, gli organizzatori delle Feste dell'Unità dovevano informarsi anche sul regolamento comunale della tassa del rusco; i miei ascoltatori ovviamente non capirono, a parte alcuni compagni pugliesi che, avendo studiato a Bologna, avevano dovuto subito imparare le due espressioni base dello slang bolognese: "dammi il tiro" e, appunto, "porta giù il rusco".
Un po’ in tutto il nord Italia le parole che indicano i rifiuti hanno la stessa radice. Noi a Parma lo chiamiamo rudo, a Milano lo chiamano rüff (peraltro in milanese rusca è la buccia), in Liguria invece rumenta, che viene probabilmente dal latino ramentum, che significa scheggia e anche scarto della piallatura. Ovviamente scrivetemi per dire come si dice rusco nella vostra città e nella vostra regione.
So che i veneti invece chiamano i rifiuti scoassa: con tutta evidenza, in questo caso l’azione dello scuotere - scossare dice anche il Pascoli - indica chiaramente anche quello che viene gettato via.
Abbastanza consueta è anche la parola pattume; si tratta di una forma toscana, che deriva dal latino pactus, compatto, e indica la roba sudicia e inutile che si raccoglie spazzando, o che si ammassa per terra. Immondizia e monnezza hanno evidentemente la stessa radice, ma curiosamente arrivano allo stesso punto, partendo da due aggettivi opposti; immondizia, parola che deriva dall’aggettivo latino immundus, indica propriamente la cosa sporca, sudicia; il romano monnezza deriva invece dall’aggettivo mundus, perché è inteso ciò che si porta via spazzando, facendo pulizia, ossia si guarda al risultato finale.
Di rifiuti noi parliamo continuamente. Da qualche anno sui rifiuti i politici fanno le loro campagne elettorali; a Parma, ad esempio, la promessa di non far partire l’inceneritore è stata una dei cavalli di battaglia del grillino Pizzarotti e adesso il fumo dell’inceneritore, nonostante tutto entrato in funzione, è una delle sue spine nel fianco). Con i rifiuti si fanno enormi affari, leciti e meno leciti e non per caso le mafie si sono gettate in questo lucroso traffico. Per la gestione dei rifiuti si prendono tangenti: l’ultima vicenda di questo genere è recentissima.
Noi tutti ci lamentiamo quando ogni anno dobbiamo pagare la tassa sui rifiuti - pare che quest’anno si chiamerà Tari, le cambiano spesso nome per renderla più sopportabile - ma siamo piuttosto riottosi quando ci viene chiesto di fare la raccolta differenziata. Anzi la raccolta differenziata ci piace, la troviamo un grande segno di civiltà, auspichiamo che aumenti, ma vorremmo sempre che cominciassero gli altri. Non ci piacciono gli inceneritori, figuriamoci le discariche, specialmente quelle che vengono fatte vicino a casa nostra e non ci curiamo che ci siano paesi del mondo in cui arrivano tutti i nostri rifiuti.
Noi giustamente ci indigniamo per quello che avviene nella Terra dei fuochi, dove le industrie del nord hanno portato i loro rifiuti, spesso tossici, facendo un accordo con la camorra. Ma ci sono paesi in cui questa è la regola. Uno degli asset - come dicono quelli che parlano bene - dell’India è proprio il mercato dei rifiuti. Il governo di quel paese ha deciso di eliminare ogni regola e di liberalizzare le importazioni di rifiuti. Questo crea danni all’ambiente e alla salute di chi lavora? Probabilmente, ma quello che avviene là a noi non interessa troppo, questa forma estrema di riciclaggio ci permette di avere oggetti a prezzi sempre più bassi, che quindi potremo buttare via prima, per comperarne dei nuovi. E così via
Saramago, in suo celebre romanzo, La zattera di pietra, immagina che la penisola iberica si stacchi dall’Europa e si metta a navigare per l’oceano: fantasie di un poeta.
Nell’oceano Pacifico da diversi anni si trova il cosiddetto Pacific trash vortex, noto anche come Great Pacific garbage patch, ossia la grande chiazza di immondizia del Pacifico: un accumulo galleggiante, formato prevalentemente di plastica, che “naviga” tra il 135° e il 155° meridiano ovest e tra il 35° e il 42° parallelo nord. Secondo alcune stime quest’isola avrebbe un’estensione di 700mila kmq - ossia sarebbe più grande della penisola iberica - per un totale di 3 milioni di tonnellate di plastica. Ma ci sono scienziati che danno numeri ben più preoccupanti, perché non è facile misurarla.
L’accumulo di rifiuti in quella zona è cominciato a partire dagli anni ’50, per effetto di una corrente oceanica che provoca un movimento a spirale in senso orario, che fa sì che i rifiuti tendano ad aggregarsi. Naturalmente la corrente era presente ben prima degli anni ’50 e probabilmente c’erano anche prima dei rifiuti, ma solo dalla metà del secolo scorso esiste la plastica, che non è biodegrabile e continua a galleggiare sull’oceano. I rifiuti arrivano per l’80% dalla terraferma, ossia dalla costa occidentale dell’America del nord e dalle coste orientali dell’Asia e per la restante parte dai rifiuti delle navi e delle piattaforme petroliferee dalla perdita di container.
La “fortuna” del Pacific trash vortex è quella di essere abbastanza lontano dalla terraferma perché nessun governo se ne preoccupi troppo e così può continuare a navigare indisturbato.
Ovviamente è giusto fare la raccolta differenziata, è necessario riciclare, è doveroso trovare dei modi di raccolta e distruzione dei rifiuti che siano il più possibile compatibili con l’ambiente, affinché le nostre città non facciano la fine di Leonia, come racconta Italo Calvino nelle Città invisibili, travolta dai suoi stessi, incombenti, rifiuti. Ma dovremmo anche cominciare a fare meno rifiuti, a gettare via meno, e su questo mi pare che il lavoro sia tutto da cominciare.

mercoledì 26 marzo 2014

Verba volant (77): moschea...

Moschea, sost. f.

Questa parola è arrivata in italiano dal francese mosquée, che deriva a sua volta dallo spagnolo mezquita; gli spagnoli coniarono questa parola dall'arabo màsgid - in cui si trova la radice del verbo sagiad, prosternarsi - arrivato ai crociati nell'adattamento armeno mzkith. Nell'italiano antico troviamo anche la parola meschita - con tutta evidenza arrivata direttamente dallo spagnolo, senza il passaggio attraverso il francese. Dante usa questa parola per indicare le alte torri della città di Dite, nell'VIII canto dell'Inferno:
già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno / vermiglie come se di foco uscite / fossero
Ariosto invece la usa comunemente con il significato di moschea:
Ardea palagi, portici e meschite.
La moschea è l'edificio del culto musulmano che, secondo la tradizione, deriverebbe la sua prima forma architettonica dalla casa di Medina in cui Maometto era solito riunire i suoi proseliti per discutere questioni religiose; in origine la moschea era usata anche a scopi profani, come luogo di riunione di fedeli, sede della maggiore autorità politica e militare, luogo di ricovero e alloggio, mentre ora si tratta prevalentemente di un luogo riservato alla preghiera e all'insegnamento religioso.
Ho deciso di affrontare questa definizione non solo per l’etimologia interessante, che chiama in causa almeno altre quattro lingue - prova ulteriore della mescolanza della nostra lingua e, di conseguenza, della nostra cultura - ma soprattutto perché alcuni giorni fa sul blog LaboratoriopoliticaBologna è stato pubblicato un articolo intitolato 10 (buone) ragioni per non costruire la moschea a Milano.
Alcune di queste dieci ragioni lasciano oggettivamente il tempo che trovano e anzi mi pare indeboliscano un articolo che fornisce invece degli spunti molto interessanti. Il fatto che la presenza di una moschea farebbe crollare i prezzi degli immobili vicini e che un minareto, con la sua altezza, sarebbe un’ostentazione della presenza dell’islam in città - come un Pirellone qualsiasi - sono motivi che rischiano di ritorcersi contro chi non vuole la moschea. Se i costruttori della moschea si impegnassero a valorizzare un’area abbandonata della città - come fanno quelli che propongono la realizzazione di un centro commerciale o di una multisala - monetizzando il “disturbo” con opere infrastrutturali utili all’intera città, come una strada, e si impegnassero a tenere basso il minareto, allora non ci sarebbero più seri argomenti per negare l’autorizzazione: la costruzione di una moschea diventerebbe una questione puramente economica ed urbanistica.
Al termine della ragione nr. 8 l’autore si chiede: “Milano è forse in vendita?“. Una domanda retorica, evidentemente, di una persona che pensa che una città non dovrebbe esserlo. Su questo sono d’accordo con lui. Il problema è che Milano, come ogni altra città - piccola e grande - di questo paese è in vendita già da molti anni. Altrimenti non ci spiegheremmo come mai continuino a sorgere nuovi e brutti palazzi assolutamente inutili, dal momento che altre abitazioni non servono, ma basterebbe sistemare quelle che già ci sono, continuino a nascere nuovi e brutti centri commerciali, insomma continuino a venir fuori nelle nostre periferie nuovi e brutti edifici che non servono, solo per alimentare un’industria edilizia che non sa fare altro che costruire - peraltro male - per soddisfare la megalomania di ingegneri ed architetti, e soprattutto per tenere in piedi un sistema di tangenti che fa vivere una parte consistente della politica e della pubblica amministrazione.
Curioso che la critica a questo sistema, adesso in nome di valori etici e religiosi, la faccia chi in Lombardia ha sempre governato male - con camicie bianche, azzurre, verdi (lo hanno fatto anche quelli con le camicie rosse o rosa, purtroppo) - e, come si legge nelle cronache di questi giorni e di queste settimane, ha sempre attinto a piene mani da quelle casse. Quindi Milano l’avete già venduta e adesso non potete fare le anime candide, in nome della difesa della cattolicità.
Ha poco senso anche la critica che la moschea sarebbe un pericolo per la città perché non sarebbe solo un luogo di culto, ma “un centro dove la comunità si raduna per affrontare questioni culturali, sociali e politiche”. Pensate se le “vostre” chiese fossero soltanto luoghi di culto, peraltro sempre meno frequentati, e non ci fossero intorno oratori, strutture sportive, asili e ospizi, se non fossero il centro di una rete di forte ed organizzato associazionismo, da cui peraltro molti di voi prendono i voti - non quelli sacri, ma quelli più profani, che a voi interessano. Peraltro siete sempre voi che avete inventato la sussidiarietà, proprio per finanziare con i nostri soldi questa rete di servizi privati, mentre da amministratori smantellavate quelli pubblici. Come vedete anche su questo tema credo fareste meglio a tacere: fate miglior figura.
Come ho detto, non sono queste le parti più interessanti dell’articolo, che invece - al di là di un evidente e manifesto pregiudizio e di un latente razzismo – pone all’inizio una questione vera. L’autore dell’articolo dice infatti
L’Islam non è, formalmente, una religione. L’articolo 8 della Costituzione sancisce, sì, che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, ma precisa che quelle diverse dalla cattolica non possono andare in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano. […] E qui i problemi sono due: il primo è che nessuno è ancora riuscito a dimostrare formalmente che l’Islam sarebbe compatibile con i valori costituzionalmente sanciti; il secondo è che non c’è rappresentanza, nel senso che, non essendoci una gerarchia piramidale, nell’islam vige l’autoreferenzialità.
Come probabilmente avrete capito, io sono uno di quelli che spera che a Milano nasca una moschea e che ha ritenuto uno dei limiti dell’amministrazione di Cofferati non essere andata avanti con più determinazione nella decisione di costruirne una a Bologna.
Peraltro io non ho grandi simpatie per la religione islamica - non ne ho neppure per la vostra, se è per quello - ma credo sia un diritto che tutti - sia voi che loro - abbiano dei luoghi in cui pregare. Ricordo che ci abbiamo messo alcuni secoli per far sì che la religione cattolica non continuasse ad essere in contrasto con i diritti individuali delle persone, ossia con i valori che successivamente sono stati espressi dalla nostra Costituzione del ’48. E’ stata una lotta durissima, in cui voi avete ucciso molti di noi, ma non vi serbiamo rancore. Per fortuna adesso chi professa la religione cattolica - quasi tutti, perché qualche talebano rimane ancora tra di voi - accetta i principi costituzionali. E’ stato un cammino lungo, ma ci siete riusciti, perché non dovrebbero riuscirci i musulmani? Ovviamente mi auguro che la lotta con l’islam sia meno lunga e meno cruenta di quella che abbiamo dovuto ingaggiare contro di voi.
Il principio basilare è quello che è giustamente scritto nell’articolo e che ribadisco ancora una volta: la religione islamica, nelle sue varie forme, non può entrare in contrasto con i principi della Costituzione. Si tratta, come è evidente, di un percorso di crescita culturale - allo stesso modo in cui lo è stato per la vostra religione - che non sarà semplice, ma su cui è necessario tenere la barra diritta e su cui è necessario investire, perché la presenza di persone di religioni diverse all’interno della nostra società è un dato ormai ineliminabile.
Personalmente penso che questo percorso di crescita sarà più semplice se ci saranno luoghi in cui tale confronto sia possibile, per questo auspico che nascano moschee, non solo a Milano. So che non ci sarà un Vaticano II della religione islamica né ci sarà un papa Francesco con cui dialogare - sarebbe stato più semplice - ma dovremo forse fare percorsi più complicati, individuali. Credo che anche in questo l’educazione e la formazione - come ho scritto nella definizione di integrazione - possano fare tantissimo e, alla lunga, saranno determinante per vincere questa sfida.

giovedì 20 marzo 2014

"L'esperienza letteraria: un dialogo delle culture" di Ezio Raimondi

All'inizio del Novecento, poco prima che l'Italia si destasse dai sogni rosei della belle époque nell'incubo insanguinato del primo conflitto mondiale, Renato Serra, nel volgere lo sguardo a Carducci, un protagonista della vita culturale che non aveva mai cessato di testimoniare il passato, aveva già la chiara percezione del distacco irrimediabile che separava le "lettere" novecentesche dalla tradizione, proprio mentre rilevava la necessità di continuare a ricercare il confronto con un tempo lungo alle nostre spalle per non cedere alle facili liquidazioni del passato che la "volgarità" del "nuovo a ogni costo" sembrava imporre. Alla maniera di Kraus e Benjamin, avvertiva la pericolosa inerzia di una lettura ridotta a consumo, del libro come attualità commerciale, e della lingua avvilita nella frase fatta, in particolare dalla parola dei giornali (i mass-media di allora) che tende alla violenza dell'istante senza più concedere spazio al silenzio, e quindi a una possibile conversazione.
Come la sua, anche altre intuizioni negli stessi anni videro che la tradizione non poteva essere l'oggetto di un superamento o di una liquidazione, quanto piuttosto un luogo di confronto, anche per via dei crescenti contatti del mondo occidentale con gruppi umani per i quali essa è una forza viva, ancora vigorosamente in azione. In verità tutte le rivoluzioni, anche quelle scientifiche e tecnologiche, pongono in un modo o nell'altro il problema della tradizione e del passato, e del resto dallo stesso orizzonte franto del moderno - lo testimoniano scrittori come Joyce, Eliot, Valéry, Hofmannsthal - veniva il richiamo ai segni del passato nell'archivio dei tempi, fra nomi, concetti, figure cui restava legato un senso più alto. La scelta del viaggio verso i padri poteva valere tanto un'iniziazione a un magistero formale, quanto un'iniziativa assunta in nome di un nuovo presente, da pionieri di un nuovo giorno della cultura. Anche quando la tradizione si frantumava in un museo di rovine, non si cessava ancora di inventarla: certo essa non aveva nulla d'uniforme o d'inerte, e nel suo strutturarsi in una spazialità orizzontale definiva in sostanza lo sfondo su cui si stagliavano, più nitide e intense, le figure fuori serie dell'originalità e dell'anomalia. Se la tradizione può dunque essere in determinate circostanze ricordo fedele ma anche lacerante rottura, non già a segno di una contraddizione, ma coerentemente a un'idea di memoria come «energia», aperta nella sua stessa omogeneità a un flusso erratico di urti, fratture, antagonismi, si capisce perciò come il passato tenda ad assumere la figura di una pluralità mobile e sincronica.
Questa è la concezione che emerge, poco prima della metà del secolo, dalle pagine di Ernst Robert Curtius, il grande studioso appartenente alla generazione di Gottfried Benn, che nella cultura della retorica, ossia la teoria delle forme profondamente radicata nella tradizione letteraria, veniva scoprendo una "morfologia della tradizione letteraria" che era insieme una "biologia della letteratura", simile, per esempio, alla "immaginazione creatrice" di Bergson, allo studio della sopravvivenza di stereotipi figurativi pagani nei nuovi cicli della cultura occidentale di Aby Warburg, e alle "immagini arcaiche originarie dell'inconscio collettivo" rivelate dalla psicologia del profondo di Jung. Attraverso tali pagine cominciava ad affermarsi la percezione che la cosiddetta "letteratura nazionale" avesse bisogno di una prospettiva più ampia entro cui darsi ragioni più complesse: quella stessa Europa di cui parlava Thomas Mann nelle Storie di Giuseppe, allorché evocava l'immagine del "pozzo del passato". Era insomma un'Europa che veniva dalla solidarietà di generazioni francesi, italiane, inglesi e tedesche e da una trama di significati condivisi, non troppo lontana dal quadro della Weltliteratur proposta da Goethe, perché proprio già in essa si dava l'ampliamento della significatività e della forza espressiva come una sorta di dilatazione dell'orizzonte, nella quale ogni voce, ogni tradizione e ogni testo, pur restando se stesso, attraverso il confronto sapeva diventare anche altro.
La letteratura del primo Novecento scopre infatti, nel quadro del suo peculiare enciclopedismo, di essere essa stessa uno spazio del molteplice, dove ragioni differenti coesistono con storie e ritmi variabili. Verrebbe quasi da dire, ricordando un pensiero di Virginia Woolf, che in ogni pagina si schiude una finestra, un'apertura, uno scorcio sulla realtà che ci sta intorno. Molteplice e sorprendente anche quando ci è familiare, ciò che si ricrea di continuo è un panorama di stratificazioni della memoria e di sedimentazioni della materia. Restando con lo sguardo all'Inghilterra, intorno a quegli stessi anni T.S. Eliot, in uno dei capitoli delle sue Note per la definizione della cultura, affermava poi che un uomo dovrebbe sentirsi non semplicemente un cittadino di una particolare nazione, ma di una parte particolare di questo paese, della sua "cultura", della sua tradizione "caratteristica": però tutt'altro che chiusa in se stessa, perché pronta al dialogo con altre tradizioni.
Ma tra Otto e Novecento la storia letteraria poteva ancora essere definita da una dimensione nazionale specifica, oggi dobbiamo invece iscriverla in un insieme più ampio, in un confronto interculturale e interstorico che muove di continuo di esperienza in esperienza, di ragione in ragione, come un grande dialogo che si svolge nel tempo con protagonisti sempre diversi e in cui gli scambi sono straordinariamente vivi e frequenti. E può essere che nel nostro compito nuovo, di fronte a un sistema letterario che anche dietro la spinta del mercato si costituisce strutturalmente all'incrocio fra mondo globale e mondi locali, finiamo col riconoscere motivi e caratteri che hanno radici lontane. Forse anche una letteratura come quella italiana, se interrogata in modo adeguato, alla luce dei nuovi problemi e delle nuove prospettive, potrebbe insegnare come un certo dialogo fra le tradizioni sia stato possibile anche in altri tempi. Pensiamo alla Divina Commedia: è chiaro che nel suo quadro prodigiosamente organico si determina una sorta di impulso all'universalità, in cui affluiscono, al positivo e al negativo, diverse culture e diversi codici mentali. E' un poema dove l'enciclopedia del sapere rinvia alla vita universitaria di Parigi così come, sebbene implicitamente, all'Inghilterra, e dove addirittura è compresente il mondo musulmano con ragioni, come è stato ipotizzato, che forse entrano persino nella stessa costruzione dell'opera, nel suo disegno vertiginoso dal razionale al metarazionale. In verità, è sempre avvenuto che le letterature si siano mescolate tra loro, come emerge palese quando ci si metta in rapporto anche con altre letterature nazionali. Si ricordava l'idea della Weltliteratur di Goethe, di una letteratura mondiale nella quale entravano nuove tradizioni e in cui assumeva un ruolo cruciale, alla base del dialogo delle nazioni, il problema della traduzione. E uno degli esempi veniva proprio da lui, che riscopriva la poesia persiana e ne faceva parte integrante della propria tradizione occidentale. D'altro canto quando Madame de Stäel scriveva De l'Allemagne scopriva nella cultura romantica tedesca una nuova entità che compariva a livello europeo. Pensiamo al grande slancio del Romanticismo tedesco: la Germania era un Paese sino ad allora apparentemente ai margini, che scopriva la modernità e immetteva uno straordinario flusso di energie nel contesto della cultura europea e finanche extraeuropea, non appena coinvolgeva gli Stati Uniti e l'America meridionale. Certo oggi il fenomeno si presenta in forme molto più radicali, su una scala incomparabilmente più vasta, in cui entrano in gioco tanto il mondo latino-americano quanto il mondo orientale, con l'India, l'Australia, la Cina, il Giappone, per tacere di Israele, dei paesi arabi o del Sudafrica. E sono proprio quelle che, in un lessico tradizionale, chiameremmo le periferie. Ma anche la dialettica tra centro e periferia, oggi, esige di essere rivista nel profondo, col riconoscimento dei processi fluidi che modificano di continuo le relazioni date e le dignità precostituite, tanto più nel contatto ineludibile con gruppi umani per i quali la tradizione autoctona continua a costituire una forza viva, entro i ritmi di un divenire che non si può adeguatamente intendere secondo il metro dello sviluppo occidentale.
Certo è un dato di fatto, come ha riconosciuto più di uno scrittore, che la letteratura oggi trova espressioni talora più vitali proprio alle periferie, che nell'atto stesso di riscoprire la letteratura e la sua tradizione le investono con il senso vivo dei propri problemi e con la freschezza delle proprie esperienze. E' come una metamorfosi di prospettive, ove il presente di popoli un tempo conquistati e oppressi, con il dramma di una cultura vinta, assume la letteratura e la sua tradizione come strumento di riscatto della propria identità e della propria dignità per poi farvi deflagrare la vitalità sovversiva e la forza di metamorfosi di una esperienza inalienabilmente originale, che chiede di essere riconosciuta nella sua differenza e nella sua eccentricità. Così, in un singolare movimento, gli scrittori delle periferie, che conoscono bene la letteratura istituzionalizzata e che talvolta si servono di una lingua altra da quella d'origine, si portano sin dentro il centro e lo traducono nella propria periferia, rivitalizzandolo a contatto con un universo di cose nuove da testimoniare e di nuove parole da trattenere. Più che di periferie, a questo punto, si deve parlare di nuovi centri, diversi da quelli tradizionali. Il policentrismo si rivela più che mai un'altra faccia del nostro universo globale e plurale.
Ma è poi vero, anche in questo caso, che la memoria del passato continua a rifluire nel presente. Quando si legge un romanzo come Paradiso del cubano Lezama Lima, quasi non si riesce più a distinguere tra medioevo, barocco e il presente dilacerato della realtà postcoloniale dei Caraibi. E' tutta la letteratura che viene messa in gioco. Ma questo, in un ordine più generale, è anche uno dei caratteri della letteratura del Novecento, che nel momento stesso in cui qualche volta sembra rompere drasticamente con il passato, lo mette in gioco per intero. Si è parlato, a questo proposito, di nuove opere-mondo. Diciamo piuttosto che il passato tende sempre più ad assumere la figura di una pluralità mobile e sincronica, ordinandosi non più secondo paradigmi selettivi e teleologici, ma alla stregua di una biblioteca o di un'enciclopedia paradossalmente aperta, forse anche di un grande bazar. Vero è che le tradizioni singole non si riescono più a isolare, sono inestricabilmente intrecciate fra loro, proprio come poliglottismo e creolizzazione definiscono i fenomeni emergenti nel nuovo ordine antropologico della società multietnica. Certo anche questa diversa "giovinezza" delle tradizioni e delle letterature deve diventare una parte della nostra esperienza. Si tratta di un compito straordinariamente arduo che va poi definito e assolto, fuori da ogni enfasi, nella dimensione umile e paziente del lavoro quotidiano, là dove si determina nel concreto il nostro modo di porci di fronte al mondo, ossia dinanzi agli uomini. Va da sé che il multiculturalismo susciti poi nuovi problemi: qualcuno parla di relativismo totale, altri invece, forse più a ragione, invitano a riconoscere che il multiculturalismo non significa relativismo dei valori, perché alla fine determina proprio dei valori umani comuni, differenziati ma insieme solidali. Come è stato acutamente osservato, proponendosi come un assoluto il relativismo non può alla fine che negare se stesso, perché se fosse valore assoluto non sarebbe più relativismo. Proprio negli scrittori delle periferie, invero, il sentimento profondo del luogo e del suo retaggio remoto non vanifica ma anzi avvalora la ricerca eticamente vincolante di un denominatore comune di umanità. E in realtà la letteratura si è sempre portata dentro, anche nel rivolgersi a tradizioni profondamente diverse come quella orientale, indiana o cinese, un proprio impulso a una dimensione globale, tutt'uno con il sentimento di un insieme più ampio, di cui veniva a far parte, acquistando il suo significato più autentico, anche il testo nuovo con la sua sfida inventiva. La varietà deve comportare anche un elemento comune, una ragione umana senza la quale non potrei intendere l'altro e riconoscere in lui, proprio in quanto diverso, un compagno della mia stessa avventura.
Nell'universo contemporaneo della complessità rientra senza dubbio il fenomeno di una sconfinata molteplicità di tradizioni che si trovano a convivere in un mondo che, per un altro dei paradossi del nostro presente, sentiamo più vasto e nello stesso tempo, con i nuovi strumenti informativi, straordinariamente rimpicciolito. Ma l'economia planetaria non elimina il dissidio anche sanguinoso degli interessi e delle visioni del mondo, l'ansia travagliata e talvolta intransigente dell'identità. Ciò che si profila è dunque un sistema culturale strutturalmente aperto e fluttuante, in cui confluiscono canoni, valori, comportamenti anche molto differenti e spesso in conflitto e in cui non si può fare a meno di un pluralismo autentico, fondato sullo scrupolo pensoso di ritornare di continuo sulla propria prospettiva parziale, senza abdicare alla propria singolarità ma impegnandola al confronto con il diverso, al gioco molteplice e spregiudicato delle relazioni, arricchita anche attraverso il dissenso. In un libro dedicato alla "società individualizzata", a quella che altri definisce "società orizzontale", un sociologo di severa e penetrante acutezza come Zygmunt Bauman può osservare che con la globalizzazione e la trasmissione elettronica dell'informazione si produce una "svalutazione del luogo", una perdita di significato dello spazio, mentre alla prospettiva dello "stanziale" sembra sostituirsi quella del "nomade". Ma più che un'alternativa irreversibile questo significa un nuovo rapporto tra "globale" e "locale", come afferma Roland Robertson, un veterano in materia, per il quale la globalizzazione produce non solo l' "uniforme" ma anche il "diverso" e diviene il contesto necessario entro cui si colloca anche la cultura differenziata del "luogo". Ne nasce allora la consapevolezza attiva di una pluralità di storie e tradizioni, il principio negoziato del confronto, la costruzione di un'identità attraverso la presenza dialogante dell'altro.
Ora la letteratura, con il suo spazio di figure visibili e invisibili, introduce ed educa esattamente a questa conoscenza, a questa compresenza di verità differenti nella pluralità libera delle coscienze. E il tema dell'altro, oggi così vivo nel discorso filosofico e in tante riflessioni avvertite di ordine sociologico, viene ineludibilmente in primo piano, nella vocazione della letteratura a riconoscere e a capire la diversità, ad assimilarla senza cancellarla o farle violenza. Ed anche la scuola, nel mondo della multiculturalità e della globalizzazione che crea, come sappiamo, nuove forme di etnia, ha il compito di salvaguardare il senso profondo della parola come dialogo, come rapporto tra un soggetto e un altro dove è l'altro che conta, in quanto è colui attraverso il quale anche il soggetto scopre qualcosa di sé.

Verba volant (76): precario...

Precario, agg. e sost. m.

Questo è uno dei non rari casi in cui l'etimologia è tutto, basta da sola a raccontare una parola. Questo aggettivo ha la stessa radice di preghiera: deriva infatti dal latino prex, precis e significa propriamente ottenuto con preghiere, concesso con grazia. In seguito ha assunto il significato attuale ed è diventato sinonimo di incerto. Precario è ciò che da un momento all'altro può subire un cambiamento, in genere in negativo; quando vi dicono che una situazione è precaria, vuol dire che è destinata, inesorabilmente, a peggiorare.
In questi ultimi anni precario - e naturalmente anche la forma femminile precaria - sono poi diventati sostantivi; precario indica una persona che ha un rapporto di lavoro temporaneo, senza garanzie di continuità e di stabilità, in genere legato a un contratto a termine. E qui, con tutta evidenza, torna il significato etimologico del termine, perché si tratta in genere di un lavoro concesso con grazia e ottenuto con preghiere.
In questi anni i teorici dell'ultraliberismo, dall'alto del loro sapere accademico - e comunque garantiti dalla loro bella cattedra a tempo indeterminato - ci hanno spiegato, con dovizia di particolari, che questa precarietà non deve essere considerata negativamente, ma anzi deve essere apprezzata, specialmente dai giovani, che la devono vivere come una grande opportunità loro concessa.
Le giovani e i giovani devono ringraziare di non essere più prigionieri di un lavoro fisso, a tempo indeterminato - la “sciagura” capitata ai loro genitori - e di avere la possibilità di cambiare molti lavori durante la loro vita. Questa precarietà, questo stare sempre sul filo, serve a mantenerli sempre giovani, come una sorta di elisir di lunga vita. Per questo motivo si cerca ora di estendere la precarietà, dimetterla a disposizione anche di altre generazioni, fino agli anziani, proprio con questo spirito terapeutico, per farli tornare ad essere giovani.
Proprio grazie a questi nuovi contratti - che una volta chiamavamo atipici, ma che adesso sono diventati molto tipici - i giovani non devono più sobbarcarsi onerosi mutui, non devono più avere la preoccupazione di acquistare casa, non devono più avere il pensiero di costituire una famiglia e di avere figli, con tutte le complicate e costose conseguenze di questa antica istituzione, figlia del Novecento. La precarietà favorisce l’amore libero e non è certo un caso che una parte di questi teorici dell'ultraliberismo si siano formati proprio nel Sessantotto, ai tempi della libertà sessuale.
Un altro grande vantaggio dei precari è quello che non si ammalano mai, diventano immuni a qualsiasi malattia, dal raffreddore alla malaria, visto che i loro contratti non prevedono che uno di loro si ammali. E vedete quindi quali benefici questa precarietà porti alla salute pubblica.
E il precario, proprio in forza della sua duttilità e della sua flessibilità, sa fare di tutto, non ha bisogno di formazione. Mi hanno raccontato di un posto di lavoro in cui tutti i dipendenti sono apprendisti e non c’è nessuno che insegni. Non so voi, ma a me questa cosa ha entusiasmato: finalmente vedo realizzata una forma di socialismo utopico.
Il precariato, come vedete, è una bella cosa, sono proprio fortunati i giovani d’oggi a vivere in un mondo così. Bisogna dunque favorire il lavoro precario e per fortuna il nuovo governo, così attento ai problemi dei giovani, ha deciso di affrontare fin da subito il tema. Senza tentennamenti.
Infatti, a causa di una norma liberticida, chi assumeva doveva spiegare per quale motivo il lavoratore veniva assunto a tempo determinato e non a tempo indeterminato, doveva giustificarsi. Vedete la bizzarria: è come chiedere a san Gennaro perché ha fatto la grazia a Ciro e non ad Antonio. Ora finalmente questa causale non serve più: il datore di lavoro ha la possibilità di assumere a tempo determinato e non deve dare nessuna giustificazione; ci mancherebbe altro.
Il fantoccio di Rignano è riuscito a fare quello che Monti e Fornero avevano solo cominciato, senza convinzione. E non solo. In cambio di questa riforma il governo ha graziosamente offerto 80 euro mensili in busta paga a chi lavora già. Vedete il genio dell’uomo, non per niente nato nella terra di Leonardo: chi lavora già riceve un premio affinché chi non lavora ancora non possa mai avere un posto fisso.
Il precario è quindi qualcuno che sa di dover cominciare a pregare: prima prega il datore di lavoro, chiedendogli di essere assunto, poi prega di essere pagato - come ho spiegato nella definizione di “retribuzione” non è affatto scontato che chi lavora sia anche pagato - e infine, alla scadenza del contratto, prega di essere riassunto. Una persona così disposta alla preghiera sarà sicuramente un ottimo lavoratore. E se non sarà riassunto, un altro al suo posto avrà quell'opportunità e lui potrà cominciare una nuova avventura in una nuova azienda.
Ora et labora.

lunedì 17 marzo 2014

Verba volant (75): obiettore...

Obiettore, sost. m.

Il termine - è corretta, per quanto meno usata, anche la forma obbiettore - deriva dal latino tardo obiector, -oris, che significa oppositore. Si tratta di uno dei derivati del verbo obicere, il cui primo significato è quello gettare avanti; l'obiezione è infatti l'argomento che si "getta" nella discussione per contrapporsi a un'opinione altrui e l'obiettore è colui che si "getta" contro qualcosa che egli considera sbagliato.
Oggi mi voglio occupare di quei medici che si definiscono obiettori di coscienza e che si rifiutano di praticare, negli ospedali pubblici italiani, l’interruzione volontaria della gravidanza. Sono ormai la maggioranza: secondo i dati forniti dal Ministero della salute in Sicilia, in Campania, in Basilicata, in Molise e nella provincia di Bolzano oltre l'80% dei ginecologi non praticano l'aborto, appunto per obiezione di coscienza. In Calabria, in Lazio, in Abruzzo e nel Veneto, la percentuale si attesta tra il 70 e l'80%. In tutte le altre regioni – ad eccezione della Valle d’Aosta – la percentuale è tra il 50 e il 70%. In Emilia-Romagna ad esempio i ginecologi obiettori sono il 51,5%, gli anestesisti il 32,6% e e il personale infiermeristico il 29,4%.
Al di là del recente e drammatico caso di Roma, in Italia la Legge 194/78 è largamente disattesa e poco applicata, almeno nel settore pubblico, proprio per la presenza massiccia di questi sedicenti obiettori. Magari qualcuno di loro è disponibile a praticare l’aborto nelle cliniche private - i casi ci sono stati e sono stati provati - ma si sa che di fronte al denaro anche la coscienza più salda spesso fa un passo indietro.
Torniamoci comunque a questa benedetta coscienza. Ora se queste percentuali testimoniassero davvero una profonda fede religiosa e si estendessero ad altre categorie professionali - perché tra i commercialisti e tra gli idraulici ci dovrebbero essere meno cattolici in percentuale che tra i ginecologi? - nel nostro paese dovrebbero esserci le chiese sempre piene e i nostri cari vescovi non dovrebbero sempre dolersi della perdita di spirito cristiano nella società.
Evidentemente i medici obiettori fanno un po’ storia a sé. Anzi, immagino che l’unico consesso dove sia altrettanto alta la percentuale di bigotti baciapile sia la direzione nazionale del Pd. Ovviamente nessuno di noi può indagare nella coscienza di questi medici - e infatti nessuno fa una verifica, non c’è un’autorità indipendente incaricata di vagliare i motivi di questa scelta e di decidere se accettare o meno queste dichiarazioni di coscienza, come c’era ad esempio per chi faceva obiezione di coscienza al servizio militare - ma qualche sospetto nasce, anche tra chi sia meno maligno e cattivo di quanto sia io.
Alla fine l’obiettore di coscienza viene pagato come gli altri e lavora meno, non si assume rischi; magari gli toccherà recitare qualche rosario e tenere in tasca qualche santino pronto all’uso, ma comunque sia nulla di paragonabile a quello che fanno i colleghi che ogni giorno si devono confrontare con donne che fanno scelte drammatiche.
Peccato che quei medici imbelli abbiano fatto un giuramento, in nome del medico più famoso dell’antica Grecia, Ippocrate di Cos, in cui si impegnano - come fanno tutti i medici - a
curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica.
Mi pare ci sia qualcosa che stride tra questo impegno e la decisione oltranzista di non applicare una legge delle Stato e soprattutto di non curare delle donne.
Ovviamente chi scrive questo vocabolario ha un’idea molto diversa sul tema dell’aborto rispetto a quella sostenuta dai sedicenti obiettori di coscienza. Io credo occorra tutelare la salute fisica e psichica delle donne e che occorra prima di tutto rispettare le loro scelte, nella consapevolezza che per una donna un aborto non è mai un passo lieve. Le donne che fanno questa scelta hanno bisogno di aiuto e non di essere lasciate sole per opportunismo o per menefreghismo, magari mascherato da scelta etica.
Ogni volta che parlo di aborto io non posso fare a meno di citare anche un altro aspetto della questione. Perché un conto è vedere cosa succede in Italia, in Europa, nei paesi occidentali - dove possiamo permetterci perfino di avere un’anomalia come i medici obiettori - e cosa succede nel resto del mondo. Ogni giorno in Cina, in India, nei paesi dei Balcani e del Caucaso, ma anche in alcune comunità degli Stati Uniti avviene, nel silenzio dell’opinione pubblica, una strage di bambine che o non vengono fatte nascere o vengono uccise immediatamente dopo il parto. Amartya Sen calcolò che nel 1990 queste donne non nate fossero già cento milioni, oggi sono certamente moltissime di più: un’enorme risorsa di intelligenza, di forza, di amore che l’umanità ha perso per sempre.
Ci sono ragioni economiche, sociali e culturali che portano a questa strage; in gran parte dei casi, la cultura, l’educazione e la diffusione di una cultura dei diritti sono l’unico modo per combattere questo fenomeno. L’aborto è sempre una scelta sofferta, anche quando è consapevole. Anche in questi paesi la soluzione non è vietare l’aborto - sia in Cina che in India l’aborto selettivo è formalmente vietato, ma non cambia i termini della questione. Anzi vietare l’aborto causerebbe l’aumento degli aborti illegali e delle uccisioni dopo il parto. Bisogna far crescere una nuova generazione di donne e uomini che abbiano valori diversi dai loro padri e delle loro madri.
L’espressione non è mia, ma di Bill Clinton e credo riassuma alla perfezione quello che è la mia posizione sul tema, alla faccia di qualsiasi obiettore: in coscienza dovremmo far sì che, in ogni parte del mondo, l’aborto sia “sicuro, legale e raro”.

giovedì 13 marzo 2014

Verba volant (74): sfondo...

Sfondo, sost. m.

Lo sfondo è nel linguaggio degli antichi architetti e pittori lo spazio incassato e riquadrato di volte, archi e pareti, che, proprio perché vuoto, appariva come sfondato; in seguito questa parola ha indicato la parte di un dipinto o di un disegno prospetticamente più lontana e infine la parte più distante del campo visivo rispetto a chi guarda.
Di solito, quando arrivo a casa dopo il lavoro, mangio qualcosa e guardo il notiziario di Rainews24. E' più o meno indecente come gli altri, ma almeno lo si può vedere appunto tutta la giornata, senza i vincoli degli orari, e sotto scorrono le notizie più importanti, per quanto scritte con frequentissimi errori ortografici, spesso imbarazzanti. In quei venti/trenta minuti sono meno reattivo del solito e non tengo vicino il telecomando, per cui tendo a vedere e sentire tutto. In altri momenti della giornata, e specialmente la sera, invece il telecomando lo uso molto, ad esempio è più di un anno che tolgo il volume quando parla l’inquilino del Quirinale o c’è un servizio su di lui e spesso cambio proprio canale quando partono i servizi di cronaca nera, che sono per me la parte più bassa di quel telegiornale. Questa troppo lunga premessa per dire che oggi mi è capitato di vedere tutto il servizio sulle tre bambine uccise dalla madre a Lecco, una cosa che di solito non farei appunto.
Il giornalista di Rainews - come immagino quelli di tutte le altre testate - ha fatto il suo scialbo e svogliato discorsetto - di solito è uno che sta a Roma a fare la cronaca politica ed evidentemente questo lo gratifica di più che parlare di morti ammazzati - avendo sullo sfondo il palazzetto dove viveva quella sventurata famiglia.
A un certo punto, per completezza di informazione, ha indicato a noi spettatori ignoranti, nel senso che ignoriamo, addirittura la scala - la vedete? ci chiedeva - dove è corsa la madre omicida. Ovviamente è una cosa consueta: abbiamo visto centinaia di volte il cancello della casa di Avetrana dove viveva Sarah Scazzi o il portoncino della villetta di Garlasco dove è stata ritrovata Chiara Poggi o decine di altre case altrettanto anonime che la morbosità perversa della televisione ha fatto conoscere all’Italia intera, facendole diventare perfino le mete di un “turismo criminale” sempre in voga, i cui cultori andrebbero puniti con severità implacabile.
Perché lo fate? Perché ci costringete a vedere ogni sera, su ogni canale televisivo, le stesse case, le stesse porte, le stesse finestre? E non vi accontentate, cercate anche i particolari: un pezzo di bravura è l’inquadratura dei campanelli con la zoomata su quello della vittima e dell’assassino. Non sarebbe meglio avere come sfondo una parete bianca e non potreste provare a raccontare un po’ meglio cosa è successo, senza copiarvi gli uni con gli altri?
Un’immagine vale più di mille parole, recita un adagio popolare. Non è vero. Un’immagine inutile non dice nulla e lo sfondo della “casa degli orrori“, come in genere i giornalisti chiamano, con supremo sforzo di fantasia, il luogo del delitto, non serve a nulla. Come non ci serve a nulla vedere le finestre di un ospedale, mentre il solito giornalista, da fuori, ci racconta le condizioni di salute di una persona che è là dentro ricoverata. La cosa divertente è che questi sventurati - dico i giornalisti, non i ricoverati - si sentono grandi reporter proprio perché se ne stanno là fuori, perché fanno i servizi in esterna, con sommo sprezzo del pericolo; pare che una volta uno del Tg2 abbia preso l’influenza, per dire l’eroismo
Quando abbiamo cominciato ad essere obbligati a vedere queste immagini inutili e volgari? Tra l’altro fare questi sfondi brutti è costoso e disturba le persone normali. Se uno mediamente importante, mediamente amato, viene ricoverato in ospedale, le troupe di tutti i telegionali locali e nazionali si piazzano lì davanti e non se vanno finché il paziente esce, con le proprie gambe e con i piedi davanti:decine di mezzi, chilometri di cavi, uno spreco esagerato di energia per far vedere tutti lo stesso fermo immagine.
Questo abuso dello sfondo dal vivo ha poi offerto ad alcuni la possibilità di farsi vedere in televisione. I primi, ormai molti anni fa, sono stati ignari passanti, persone assolutamente inconsapevoli e innocenti, donne e uomini che davvero erano passati da lì per caso, che, notati altrettanto casualmente da qualche amico e familiare, si sono sentiti dire “sai che ti ho visto in televisione“. Poi qualcuno più intraprendente ha fatto in modo di essere al posto giusto al momento giusto; li riconosci, li vedi che telefonano non appena si accende la spia della telecamera: è il segnale convenuto con quelli a casa, che hanno finalmente l’occasione di vedere il proprio caro nel piccolo schermo. Ci sono infine quelli che di questa presenza hanno fatto un mestiere, per quanto vilipeso. Uno fortunatamente è già stato arrestato, purtroppo non per questo fatto, che non costituisce ancora reato, ma per qualche altro vizio non proprio commendevole, ma altri sono ancora a piede libero. Preoccupa in particolare il caso di un giovane grassoccio, rosso di capelli, che ha ancora tanti anni davanti a sé per questo lavoro; speriamo che la giustizia faccia presto il suo corso, anche per lui.
Eppure sarebbe interessante vedere dove vivono le persone protagoniste loro malgrado di fatti di cronaca: un giornalista dovrebbe fare questo. Uno serio dovrebbe farci vedere le periferie dove spesso capitano questi delitti, mostrare il degrado dell’ambiente in cui vivono le vittime.
Questo naturalmente non giustifica chi commette un delitto, ma potrebbe farci capire un po’ meglio il dramma di una madre che per le sue tre figlie non voleva un avvenire in case brutte, in una brutta periferia di provincia, il dramma di una madre che per le sue figlie non voleva una vita come la sua. La gelosia e l’odio che Medea provava giustamente per il fedifrago Giasone non la giustifica, ma ci racconta un dramma. Certo in quel caso c’era un poeta grandissimo come Euripide, nel nostro caso ci sono quattro o cinque giornalisti malpagati, eppure ci sarebbe il modo, se lo volessero, per raccontare, anche con le immagini, le cose in maniera diversa, se non per fare poesia, almeno per fare buona cronaca.

martedì 11 marzo 2014

Verba volant (73): integrazione...

Integrazione, sost. f.

Per questa definizione non parto, come al solito, dall'etimologia, ma da un episodio successo a Modena pochi giorni fa. In quella città, come in molte altre, il Pd ha organizzato le primarie per scegliere il proprio candidato sindaco. Fin qui nulla di particolarmente interessante: lo scontro tra un ex-bersaniano e una renziana, una delle consuete prove di forza - o dovrei dire di debolezza - di quell'infelice partito. I votanti sono stati 12.600, circa la metà rispetto ai 21.000 che avevano partecipato alle primarie per scegliere il segretario nazionale. Francamente pensavo sarebbero stati anche di meno, ma evidentemente la lotta tra le due fazioni è riuscita a mobilitare un po' di persone, più o meno "cammellate" dagli esponenti locali del partito.
Alle primarie del Pd possono partecipare anche i cittadini stranieri e qui è sorto un problema: i votanti stranieri sono stati circa 1.400 contro i 366 che avevano partecipato l’altra volta. Questa crescita in controtendenza ha destato un qualche sospetto, anche perché pare che qualcuno di questi nuovi cittadini, folgorati dalla foga primarista del Pd, abbia ricevuto un qualche “incentivo” per partecipare al voto. Purtroppo qualcosa di analogo, anche se in proporzioni meno appariscenti e soprattutto meno determinanti per l’esito finale, è successo anche in altre realtà del nostro paese; in alcune regioni italiane è tutto il sistema delle primarie a essere condizionato da brogli e imbrogli, ma non è questo il punto.
Non mi interessa tanto l’episodio in sé: il mio giudizio su quel partito è già così negativo che non può peggiorare neppure se queste gravi accuse si rivelassero fondate. Non so se una parte di quegli elettori siano stati effettivamente comprati, ma evidentemente c’è qualcosa che non va se sul 10% dell’elettorato ci sono sospetti di questo genere. Mi interessa ragionare invece sull’idea di integrazione: ho l’impressione che in questa vicenda abbiamo sì integrato i cittadini stranieri, ma nei nostri vizi, nelle nostre pratiche peggiori, abbiamo insegnato a loro che le cose in Italia vanno così: è meglio che lo capiscano in fretta e che si adattino all’andazzo generale. In sostanza non la citerei come una buona pratica di integrazione.
L’integrazione è propriamente l’azione di rendere intero, pieno, perfetto in senso etimologico, ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo. Sempre più spesso nel linguaggio corrente - anche per l’influenza dell’inglese integration - indica l’incorporazione, l’assimilazione di un individuo o di una categoria o di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società già costituite.
In Italia, per qualche mese, abbiamo perfino avuto un ministro dell’integrazione, i cui risultati sono stati - com’era prevedibile - inconsistenti. Per altro il ministro Kyenge è stata nominata solo per appuntare una medaglia al petto del II governo Napolitano, un ministro utile per le foto di rito del Quirinale. Se non fosse stato per la canea rozza e volgare della Lega ci saremmo presto dimenticati di lei.
Probabilmente uno dei problemi dell’integrazione sta proprio nella definizione di questo termine. E’ bene che gli stranieri si assimilino ai nostri usi e costumi, che sono quello che sono? E’ bene che, insieme alla nostra lingua - che peraltro gli italiani parlano sempre peggio - imparino a essere “italiani”? Ho qualche dubbio. Oppure noi abbiamo bisogno di loro per raggiungere l’intero, il pieno? E a cosa servono? A riempire le nostre case malandate, che noi affittiamo a loro, regolarmente in nero? O ci servono per garantire una quota sempre maggiore di lavoratori ricattabili, sfruttati e sfruttabili? Oppure ci servono delle nuove prostitute, perché ci siamo stancati di quelle di casa nostra?
Non voglio girare troppo intorno all’argomento e quindi faccio un esempio di quelli che divide, su cui le contrapposizioni sono più nette: l’integrazione dei rom. Sul tema si fronteggiano, quasi con la stessa enfasi, due minoranze. Da una parte ci sono i “cattivi“, quelli che dicono che i rom non lavorano perché non vogliono lavorare e preferiscono rubare, che è inutile spendere risorse per loro visto che non sono recuperabili, che le case andrebbero date agli italiani e così via. Dall’altra parte ci sono i “buoni“, quelli che, con la stessa incrollabile sicurezza dei primi, trovano una giustificazione per qualunque cosa facciano i rom, che imputano alla nostra società le loro difficoltà a trovare un lavoro, a inserirsi, che pensano che di fronte all’integrazione debba essere sacrificato ogni altro principio. Né con gli uni né con gli altri si può risolvere il problema. In mezzo a questi due poli opposti c’è la maggioranza delle persone, quelli che guardano ai rom con sospetto e paura, che dicono che il problema è troppo complesso e che in fondo ci sono problemi ben più gravi. Questi sono la maggioranza - siamo la maggioranza - e quindi inesorabilmente il tema si elude, si tralascia. Tanto c’è sempre altro di cui parlare.
Io credo che bisognerebbe cominciare a trattare questa questione non in maniera manichea, ma partendo dal complesso rapporto che esiste nelle nostre società - per brevità le definisco europee, anche se ci sono profonde differenze le une dalle altre - tra la maggioranza e le diverse minoranze, spesso anche numericamente consistenti, con culture, stili di vita, religioni differenti.
Questa presenza di culture diverse è un dato di fatto della nostra società: è una convivenza complessa, delicata, pericolosa a volte, ma è ineliminabile. A dire la verità questa convivenza c’è sempre stata, fin dall’antichità: Alessandria, Gerusalemme, Atene e Roma erano città multiculturali, ben prima che qualcuno inventasse questa parola. Di fronte alle domande che ci pone questa complessità l’integrazione è la risposta sbagliata: che vantaggio potremmo mai trarre dalla costruzione di un’unica società globalizzata, senza identità? Nessuno, né chi si dovrebbe integrare né chi finirebbe per subire l’integrazione. La risposta giusta è confronto, nel quale ciascuno non deve avere paura di comunicare i propri valori , di cui deve essere fiero - senza fondamentalismi, naturalmente - e soprattutto non deve avere paura di perdere la propria identità. Confronto ed educazione viaggiano all’unisono, perché solo l’educazione e la conoscenza profonda della propria cultura, ci permettono di confrontarci con quelle degli altri.

venerdì 7 marzo 2014

Verba volant (72): bellezza...

Bellezza, sost. f.

Premetto che questa non è una recensione del film di Paolo Sorrentino. Non lo avevo visto al cinema, l’ho visto solo stasera, in televisione, martirizzato come al solito dalla pubblicità. Nei prossimi giorni, se vi interessa, vi dirò la mia opinione, un po’ più approfondita; per ora vi dico che non so se non mi sia piaciuto. Poi, ha vinto l’Oscar e chi vince ha sempre ragione.
In latino l’aggettivo bellus ha la stessa radice di bonus, e in qualche modo ne costituisce un antico sinonimo. Infatti dall’antica forma benus, equivalente di bonus, è stato tratto il diminutivo benulus, quindi benlus e infine bellus. Per gli antichi i due concetti sono sempre andati di pari passo. Gli antichi Greci coniarono infatti l’espressione kalokagathia per indicare l’ideale di perfezione umana; questo termine è la crasi degli aggettivi kalòs e agathòs, rispettivamente bello e buono. In sintesi è l’unità nella stessa persona di bellezza e di valore morale, partendo dall’idea che ciò che è bello deve necessariamente essere buono e, specularmente, ciò che è interiormente cattivo sarà anche fisicamente brutto. Si tratta di un’idea che ebbe particolarmente fortuna nelle arti, in letteratura e poi nel cinema. Solo per fare alcuni esempi, il Riccardo III di Shakespeare è moralmente ripugnante quanto il suo corpo è deforme e nell’età d’oro del cinema hollywoodiano gli eroi erano tutti belli.
Noi viviamo in un tempo in cui la bellezza è diventata una sorta di feticcio.
Nel settembre del 2009 stavo cercando un lavoro e mi capitava di scorrere quotidianamente, anche se con poche speranze, le varie offerte di impiego pubblicate in rete. Mi capitò di leggere questo annuncio:
Società seleziona ingegneri architetti bella presenza figure femminili. Società di consulenza di prestigio, centro storico Bologna, cerca figura professionale femminile (Ingegnere o Architetto) da inserire nel proprio organico.
In un primo momento sono passato oltre, non avendo evidentemente nessuna delle caratteristiche richieste dall’annuncio, poi mi è tornato in mente e mi sono arrabbiato. Molto. Ne scrissi allora sul mio blog - fu una delle mie prime “considerazioni libere” - e mi è capito in seguito di citarlo più volte.
Nella sua prosa asettica e convenzionale, questo annuncio è emblematico di tutti gli stereotipi sul ruolo della donna nella nostra società, su cosa gli uomini si aspettano dalle donne. Dovrebbe essere ovvio che un ingegnere o un architetto venga assunto in base alla competenza, al curriculum scolastico e universitario, alle precedenti esperienze professionali. E questo dovrebbe valere per qualsiasi altro lavoro. Poi sappiamo che in genere non è così, che è più facile essere assunti se qualcuno ci conosce o ci raccomanda: in fondo è un criterio anche per questo, per quanto poco commendevole e decisamente ingiusto.
Eppure di tutto questo non si fa menzione nel testo dell’annuncio - neppure per inciso - perché la selezione avviene tra donne e quindi il requisito unico richiesto è quello della bella presenza. Pensate come deve essere mortificante per una ragazza che ha raggiunto un traguardo difficile, come la laurea in ingegneria e in architettura (dove le cose bisogna saperle bene e non ci si può improvvisare con le parole, come tendiamo a fare noi laureati in filosofia) leggere che quel lungo e faticoso percorso viene valutato soltanto in base a quanto sono slanciate le sue gambe o quanto sono luminosi i suoi occhi. Naturalmente non deve esserci neppure lo stereotipo contrario, ossia non possiamo considerare poco preparata un’ingegnere solo perché ha un bel seno.
Evidentemente chi ha scritto quell’annuncio - credo sia un uomo - sapeva esattamente di cosa aveva bisogno per qualificare l’organico della “società di consulenza di prestigio“. Evidentemente i clienti di quella società, anch’essi sicuramente prestigiosi e uomini, preferiscono che i loro progetti di prestigio siano illustrati da ingegneri e architetti donne di bella presenza. Evidentemente tutti loro leggono riviste prestigiose, dirette in genere da uomini, in cui quasi per ogni pubblicità serve l’immagine di una bella donna (anche i pubblicitari sono in genere uomini). E’ la bellezza usata, sfruttata, comprata e venduta come un prodotto tra altri prodotti.
C’è una ricerca ossessiva di questa bellezza, sempre più uniforme e sempre più standardizzata. Questa ricerca c’è ovviamente anche tra gli uomini, ma è un fenomeno ormai preoccupante tra le donne. Credo nessuno di noi abbia nostalgia delle atlete dai tratti mascolini e dai muscoli minacciosi della Ddr e degli altri paesi del blocco sovietico, ma è difficile ormai non notare che tra le campionesse dello sport sembrano scomparse le donne che non si adattano a certi canoni estetici. Le cantanti liriche sembrano scelte spesso più per la loro avvenenza che per la qualità del canto. Le attrici, le cantanti e i personaggi televisivi tendono sempre di più ad assomigliarsi. Le giornaliste televisive sono sempre più belle, così come le donne che fanno politica. Io naturalmente non ho nulla contro le donne belle, ma il mondo è fatto in genere da persone - donne e uomini - normali. Di donne e uomini normali ci innamoriamo, per lo più ci sposiamo tra persone normali, a qualcuno normale capita di amare, riamato, una persona bella; sono le cose della vita. Una persona bella può essere intelligente o stupida, capace nel lavoro o fancazzista, e così via; esattamente come una persona che bella non è.
Inoltre questa ricerca parossistica della bellezza, oltre che essere mortificante, a volte rischia di finire nel ridicolo, basti pensare alle “maschere” di certe donne che non accettano che il loro viso invecchi e si sottopongono a cure invasive quanto pericolose.
C’è poi un tratto paradossale in questa nostra epoca, in cui la bellezza del corpo viene enfatizzata, cercata, costruita. Non abbiamo alcuna cura per la bellezza che c’è fuori. Noi viviamo in un paese bellissimo, eppure questa bellezza è tutti giorni stuprata da interventi che la snaturano, che la deturpano, che la sviliscono. Le bellezze - in questo caso sì, è lecito parlare di “grande bellezza” - della natura e dell’arte vengono vendute e svendute, mai considerate come un patrimonio da preservare e da trasmettere a chi verrà dopo di noi. In fondo però non è un paradosso: in tutti i casi, nella ossessiva ricerca della bellezza fisica e nell’incuria in cui lasciamo la bellezza naturale e artistica, emergono prepotenti i disvalori della nostra società: l’ossessione per il successo e l’apparire, l’avidità di ricchezza, la sete di potere.
Ha ragione Alessandro Bergonzoni:
Io sono per la chirurgia etica: bisogna rifarsi il senno.

giovedì 6 marzo 2014

Verba volant (71): guerra...

Guerra, sost. f.

Ecco un’altra parola che arriva alla nostra lingua dall’antico germanico. Infatti quei popoli barbari chiamavano wërra quello che i Romani definivano bellum e i Greci antichi polemos, e - visto che la lingua, come la storia, è fatta da chi vince - noi adesso usiamo la parola guerra, come gli inglesi usano war, mentre la radice del termine latino è rimasta soltanto nell’aggettivo bellico e nei suoi derivati. Solo alla metà del Novecento - un secolo tragicamente segnato dalle guerre - il sociologo francese Gaston Bouthoul ha coniato il termine polemologia, per indicare lo studio, dal punto di vista militare, della guerra e dei fenomeni sociali e politici ad essa legati.
Il Pianigiani spiega che è prevalso il termine di origine tedesca in quanto descriveva con più efficacia la mischia, la “zuffa alla mescolata”, come dice Francesco Guicciardini quando parla della battaglia di Fornovo del 1495, ossia il combattimento disordinato proprio dei Germani, contrapposto alla guerra ordinata, legione contro legione, squadrone contro squadrone, propria dei Romani. E infatti la parola duello deriva da bellum. Non so se sia andata effettivamente così, anche perché la guerra è sempre terribile, anche quando viene combattuta in maniera ordinata, secondo le regole. Ammesso e non concesso che queste regole poi esistano davvero.
Quando io ero bambino, i vecchi della mia famiglia - e in generale quelli che conoscevo - usavano ancora l’espressione “l’ultima guerra” per riferirsi alla seconda Guerra mondiale. Ovviamente questo aggettivo aveva prima di tutto un valore strettamente cronologico: quella era l’ultima delle guerre che loro e le loro famiglie avevano conosciuto. Per chi era giovane durante la seconda Guerra mondiale, il ricordo della Grande guerra era ancora qualcosa di vivo, anche se ovviamente non avevano preso parte a quel conflitto; e in mezzo c’erano state altre guerre: in Africa e in Spagna. Immagino però che quell’aggettivo avesse una sorta di inconscio valore apotropaico, fosse in sostanza un auspicio, un augurio, una speranza: volevano che quella fosse davvero l’ultima guerra che erano stati costretti a vedere, a vivere. Non è andata così naturalmente: dopo l’ultima guerra ce ne sono state molte altre, una terribile anche nel cuore dell’Europa, a pochi chilometri dai nostri confini. E forse un’altra, mentre io scrivo e voi leggete, sta per scoppiare ai confini del nostro continente, in Ucraina.
La seconda Guerra mondiale è stata probabilmente anche l’ultima guerra in cui è stato facile decidere da che parte stare, visto che dall’altra parte c’erano i regimi nazista e fascista, visto che dall’altra parte c’era il male assoluto di Auschwitz; in quel caso è stato tutto sommato facile tracciare la linea tra il bene e il male. E abbiamo accettato le atrocità della guerra - perché la guerra lo è sempre, anche quando è combattuta per la ragione migliore del mondo - proprio perché bisognava sconfiggere quei regimi. Dopo è sempre stato più difficile tracciare quella linea, è stato certamente meno unanime. Adesso è diventato quasi impossibile, lo è in Siria, lo è in Ucraina.
Ad esempio, due anni fa abbiamo ricordato i cinquant’anni della crisi dei missili di Cuba; in quei giorni è stato ripetuto spesso che si apriva allora un periodo di speranza di pace, di cui erano protagonisti, insieme al papa della Pacem in terris, il presidente degli Stati Uniti Kennedy e il segretario del Pcus Krusciov. Effettivamente questa tesi è un tema ricorrente nelle storiografia e è condiviso nella memoria storica diffusa: però è anche un mito che ci siamo costruiti in questi cinquant’anni. Certo Kennedy e Krusciov ebbero la capacità e la forza di fermare la guerra che stava per scoppiare, ma - per onestà intellettuale - bisogna dire che furono proprio quei due leader a spingere i loro paesi a un passo dalla guerra nucleare. Perché la storia è sempre molto più complessa di come siamo tentati a volte di semplificarla. Il merito storico di Krusciov di aver condotto l’Unione Sovietica fuori dagli anni della dittatura di Stalin non può cancellare il fatto che fu lo stesso Krusciov a volere la costruzione del Muro di Berlino e che, appunto, portò il suo paese e il mondo a un passo dalla guerra, a causa della decisione di installare batterie di missili a Cuba. Allo stesso modo, il mito di Kennedy e la tragedia della sua morte non possono farci dimenticare la sua durezza in questa vicenda e il fatto che fu quell’amato presidente a cominciare la guerra in Vietnam. Sarebbe stato necessario “Tricky Dick” Nixon a chiudere quel conflitto. Forse ci sarebbe piaciuto di più che Nixon l’avesse cominciata e Kennedy finita, ma non è così.
Forse c’è stato un tempo, anche recente, in cui era più facile scegliere da che parte stare. Io sono uno di quelli che si è praticamente sempre schierato contro l’intervento degli Stati Uniti, anche se troppe volte i governi che nascevano da quelle sacrosante spinte indipendentiste e anticolonialiste hanno preso il peggio dei regimi che avevano sostituito. Adesso è diventato semplicemente impossibile farlo.
In Siria non sto dalla parte degli Assad e anzi voglio stare con chi vuole rovesciare quella famiglia: purtroppo non sono riusciti a farlo perché quel regime non solo è armato dalla Russia di Putin, ma anche perché Israele (e quindi gli Stati Uniti) preferisce avere ai suoi confini dei nemici che si combattono tra di loro. In Siria e, di conseguenza in Libano, si gioca una partita molto complicata tra Arabia Saudita, Iran e Turchia. Naturalmente non sto neppure dalla parte di chi vuole sostituire quel regime con uno nuovo, islamico e fanatico - i due termini non sono sinonimi naturalmente, se non per i profeti di crociata, dell’una e dell’altra parte - ben armato, anche con armi chimiche, gentilmente offerte dai governi occidentali. Per antica abitudine e per inveterata posizione politica, sto dalla parte delle siriane e dei siriani che non vogliono un regime e che vorrebbero poter immaginare un futuro diverso per i propri figli.
In Ucraina si contendono il potere due bande di ladri, una capeggiata da Viktor Janukovyče l'altra da Julija Tymošenko, che sovvenzionati da oligarchi locali e sostenuti rispettivamente da aziende russe il primo e multinazionali occidentali la seconda, cercano di avere il controllo sulle risorse - a partire da quelle basilari: terra e acqua - di quel paese e sui suoi gasdotti. Non c’entra nulla la democrazia, non c’entrano nulla i diritti umani; chi qui da noi crede alle dimostrazioni di piazza Maiden o è in malafede o è di un'ingenuità imbarazzante. Però in Ucraina si combatterà e ci troveremo ancora una volta di fronte ad una guerra civile in Europa. Perché l’Ucraina, la patria di Gogol’e di Bulgakov, è Europa. Curioso paradosso semantico della nostra lingua: la guerra civile, ossia dei cittadini, gli uni contro gli altri armati, è sempre di inaudita brutalità, è tutt’altro che civile.
Non so quale banda di ladri vincerà la guerra in Ucraina, se la “nostra” o quella di Putin, anche se credo che alla fine troveranno un accordo - i ladri in genere si “fiutano” e sanno quando è il tempo di fermarsi - e comunque gli oligarchi e le multinazionali che li finanziano troveranno sempre una via d’uscita, cadranno in piedi. In tutti i modi, qualunque sarà la soluzione che i nostri volonterosi governi sapranno trovare, saranno sconfitti i cittadini di quel paese. Anche in questo caso, una politica estera diversa dovrebbe partire dal dolore delle donne e degli uomini dell’Ucraina.
Immagino non sarà così.

martedì 4 marzo 2014

Verba volant (70): espellere...

Espellere, v. tr. 

Il verbo latino expellĕre - da cui deriva per facile analogia quello italiano oggetto di questa definizione - è composto di ex, che significa fuori, e pellĕre, ossia battere, scacciare. Per inciso il verbo pellĕre ha la stessa radice di pilum, il giavellotto usato dai soldati dell'esercito romano nei combattimenti a breve distanza, e di palla, due oggetti dalla forma molto diversa, che però condividono il fatto di dover essere lanciati, gettati, spesso a lunga distanza.
In questi giorni assistiamo a una nuova pratica sportiva: il lancio del senatore. Campione indiscusso di questo sport è Beppe Grillo.
Le regole sono piuttosto semplici: si prende un senatore, si aspetta un suo cenno di dissenso dalla linea del partito decisa dal Capo - a volte basta davvero un nonnulla, un sopracciglio aggrottato, una smorfia involontaria - e il Capo decreta la sua espulsione, con successivo lancio nella fossa dei leoni. Dal momento che anche il popolo ha diritto alla sua dose di divertimento - come sapevano bene gli imperatori romani - si sottopone l’espulsione alla decisione inappellabile del web e, siccome il popolo è in genere vendicativo e rancoroso, questa viene immancabilmente ratificata tra il plauso generale. Attorno all’espulsore supremo si muove poi una pletora di felloni, che, contenti di aver scampato il pericolo, si accaniscono contro il malcapitato di turno. A qualcuno degli scampati, per un sussulto di dignità, può sfuggire una parola di pietà: ecco trovate le nuove vittime, quelli pronti ad essere espulsi in un giro successivo. In questo modo il gioco può riprendere tra il tripudio urlante dell’arena.
Immagino che, a questo punto, i miei già scarsi lettori Cinque stelle abbiano smesso di leggere questa definizione, denunciandomi al loro tribunale supremo. Su di me penderà un provvedimento di espulsione, una sorta di fatwa grillesca, di cui mi potrò vantare in società.
Leggo che, secondo alcuni analisti, queste espulsioni danneggerebbero il movimento di Grillo. Personalmente non credo, anzi penso servano a Grillo, in vista della prossima campagna elettorale. Quando qualcuno gli farà notare che in fondo in questa legislatura i suoi “cittadini” non hanno combinato poi molto, nonostante il numero permettesse loro di svolgere un’azione parlamentare incisiva, Grillo potrà sempre dire che i risultati non sono arrivati perché il Movimento ha dovuto lottare non solo contro la partitocrazia tentacolare - tanto potente che basta un Renzi qualunque a spaventarla e a metterla all’angolo, come si è visto in questi giorni - ma soprattutto contro gli infiltrati, quelli che hanno tradito la causa, per incassare tutti i rimborsi. E funzionerà, molti continueranno a crederci. Almeno fino a quando non verrà un nuovo Grillo a prendere il posto di quello che abbiamo adesso.
Il problema è che non è stato fatto nulla per espellere - in questo caso il verbo è molto adatto - il marcio che c’è nelle istituzioni. E finché quello ci sarà, ci saranno populisti che di questo si faranno forti, inneggiando alla pulizia. O al repulisti generale.
La cosa curiosa e, a suo modo paradossale, di Grillo e del suo movimento è che, nonostante l’uso invasivo e massiccio di uno strumento come la rete, ossia qualcosa di estremamente moderno, si tratta di qualcosa di assolutamente antico, già visto, che ripete schemi e cliché di movimenti populisti di inizio Novecento, quando va bene. Non c’è alcuna novità politica in questo tribuno che aizza le folle, facendosi forza di argomenti vaghissimi e generici - che coprono uno spettro amplissimo, dall’estrema destra all’estrema sinistra – sfruttando il malcontento verso la corruzione delle classi dominanti, usando un linguaggio artificialmente rozzo e volgare.
Ho l’impressione che molti sottovalutino ancora quello che Grillo ha scatenato, confondendo il Movimento Cinque stelle e l’antipolitica tout court. Pensano che l’assedio sia finito, che il pericolo dell’antipolitica sia ormai scampato; si illudono naturalmente, ma oggettivamente in questi anni questi analisti non hanno mai dato dimostrazione di grande lungimiranza.
Si è arrestata la “spinta propulsiva” del Movimento Cinque stelle, dopo aver raggiunto il proprio apice alle elezioni politiche dell’anno scorso. Proprio quel successo determinerà alla lunga la caduta di Grillo. Gli elettori avevano dato a Grillo e ai suoi - forse in maniera avventata, ma d’altra parte la situazione era disperata - la possibilità di incidere davvero sulla vita politica e istituzionale di questo paese; però la possibilità era una e una soltanto. Quell’opportunità - come noto - è stata gettata al vento - per un calcolo errato - e Grillo, i suoi consiglieri più o meno occulti, i giovani eletti - qualcuno di loro è anche una persona per bene - ne pagheranno le conseguenze.
Purtroppo la pagheremo anche noi. Temo che alla fine, forse anche tra poco tempo, li rimpiangeremo, non certo Grillo naturalmente, ma magari gli eletti di quel partito - quelli non supinamente schierati - o quelli come il sindaco di Parma, quando salterà fuori un nuovo movimento di protesta, molto più populista, molto meno idealista e velleitario, molto meno di sinistra, ma soprattutto molto meno rassicurante degli innocui giovani grillini. Quando avremo la nostra Alba dorata nelle strade e in parlamento saremo qui a preoccuparci più seriamente, ma ormai sarà troppo tardi.
Naturalmente la situazione in cui ci troviamo ora non è responsabilità solo della stupidità e dei bassi calcoli di Grillo, ma soprattutto di chi ha fatto sì che un personaggio del genere avesse argomenti, perché di argomenti ne ha; e su questo purtroppo non vedo davvero la voglia di incidere. Troppo vecchio è il giovane Renzi.

lunedì 3 marzo 2014

Lettera di Mario Lodi agli insegnanti

21 settembre 2010

Care maestre e cari maestri,

mi è capitato spesso, in questo periodo, di ricevere lettere o telefonate da qualcuno di voi. La domanda che mi viene rivolta con maggiore insistenza è: “Come facciamo a insegnare, in tempi come questi?”. I sottintesi alla domanda sono molti: il ritorno del “maestro unico”; classi sempre più affollate; bambini e bambine che provengono da altre culture e lingue e non sanno l’italiano etc.
Anch’io, come voi, soprattutto nei primi anni della mia attività di maestro, mi ponevo interrogativi analoghi. Ho cominciato ad insegnare subito dopo la guerra. Le classi erano molto numerose. Capitava anche di avere bambini e bambine di età diverse.
Forse qualcuno di voi ha la brutta sensazione di lavorare come dopo un conflitto: in mezzo a macerie morali e culturali, a volte causate dal potente di turno – ce n’erano anche quando insegnavo io – che pensa di sistemare tutto con qualche provvedimento d’imperio. I vecchi contadini delle mie parti dicevano sempre che i potenti sono come la pioggia: se puoi, da essa, cerchi riparo; se no, te la prendi e cerchi di non ammalarti e, magari, di fare in modo che si trasformi in refrigerio e nutrimento per i tuoi fiori.
Il mio augurio per il nuovo anno scolastico è questo: non sentitevi mai da sole e da soli! Prima di tutto ci sono i bambini e le bambine, che devono essere nonostante tutto al centro del vostro lavoro e che, vedrete, non finiranno mai di sorprendervi. Poi ci sono altre e altri che, come voi, si stanno chiedendo in giro per l’Italia quale sia ancora il senso di questo bellissimo mestiere. Capitò così anche a me, anche a noi. Cercammo colleghe e colleghi che si ponessero le nostre stesse domande e fu così che incontrammo Giuseppe Tamagnini, Giovanna Legatti, Bruno Ciari e altre e altri con i quali costruimmo il Movimento di Cooperazione Educativa. Poi ci sono anche i genitori e le zie e i nonni dei vostri alunni e delle vostre alunne, che possono darvi una mano, se saprete, anche insieme a loro, rendere la scuola un luogo accogliente e bello, in cui ciascuno abbia il piacere e la felicità di entrare e restare assieme ad altri.
Non dimenticate che davanti al maestro e alla maestra passa sempre il futuro. Non solo quello della scuola, ma quello di un intero Paese: che ha alla sua base un testo fondamentale e ricchissimo, la Costituzione, che può essere il vostro primo strumento di lavoro.
Siate orgogliosi dell’importanza del vostro mestiere e pretendete che esso venga riconosciuto per quel moltissimo che vale.

Un abbraccio grande.

"Filastrocca dei mestieri" di Mario Lodi


C'è chi semina la terra,
c'è chi impara a far la guerra,
chi ripara le auto guaste,
e chi sforna gnocchi e paste.
C'è chi vende l'acqua e il vino,
chi ripara il lavandino,
c'è chi pesca nel torrente
e magari prende niente.
C'è chi guida il treno diretto
e chi a casa rifà il letto,
chi nel circo fa capriole
e chi insegna nelle scuole.
C'è chi recita, chi balla
e chi scopa nella stalla.
Così varia è questa vita
che la storia è mai finita.
Ma la vita finirà,
se il lavoro cesserà.

domenica 2 marzo 2014

Verba volant (69): successore...

Successore, sost. m.

Semplice è l'etimologia di questo sostantivo che deriva dal verbo latino succedere, ossia venire dopo, sottentrare. Il vocabolario Treccani attesta anche la forma femminile succeditrice, pur riconoscendo che si tratta di una forma per lo più evitata. Probabilmente perché nella storia in genere a un uomo è sempre successo un uomo e le donne sono rimaste escluse da questi scambi e lasciti di troni, cariche e prebende varie. Con tutta evidenza, le quote rosa non si applicano alle cariche e agli organi monocratici.
Spesso accade che il successore non abbia occasione di incontrare e di dialogare con il proprio predecessore: se in un paese ci sono due re o due presidenti allora è facile ci sia anche la guerra civile.
Di norma nelle monarchie, nelle dittature e nei regimi autocratici il successore entra in carica quando il predecessore o è morto o è stato - più o meno cortesamente - allontanato dal potere; la Russia contemporanea costituisce la classica eccezione che conferma la regola, pur essendo una dittatura di fatto, in quanto Putin, a cadenze regolari, lascia la presidenza a un burattino all’uopo istruito, in attesa di ritornare nelle sontuose stanze del Cremlino.
Questa regola vale ovviamente anche per i papi, infatti, come dice l’antico adagio, “morto un papa, se ne fa un altro“. Verosimilmente Bonifacio VIII non incontrò il proprio predecessore Celestino V, e anzi si era premunito di tenerlo in carcere. Questa regola secolare è stata interrotta proprio un anno fa, dal momento che il papa allora regnante ha deciso di dimettersi, prima dell’irreparabile.
Sappiamo così che il successore Francesco incontra regolarmente il precedessore Benedetto. Pare anzi che i rapporti tra i due anziani prelati siano piuttosto buoni, anche se naturalmente nessuno può sapere veramente quello che pensano l’uno dell’altro e l’ovattato e curiale stile d’Oltretevere non lascia trapelare alcun retroscena. Comunque sia, da quello che si intuisce dalle immagini forniti dagli agit-prop vaticani, i due si vedono, si salutano con cordialità, si scambiano santini, pregano insieme. In sostanza questo primo anno con due papi è andato piuttosto bene, e l’apocalisse pare ancora lontana (a meno di non dare un giudizio eccessivamente severo sul governo appena nato).
In una democrazia le cose vanno in maniera piuttosto diversa e spesso sono più complicate: è normale che predecessore e successore si incontrino, anzi è previsto un momento in cui i due devono vedersi e parlarsi per il passaggio delle consegne. Ovviamente questo passaggio non sempre avviene con serenità.
In Italia il protocollo istituzionale prevede che il presidente del Consiglio che lascia la carica consegni al suo successore la campanella dorata con cui dirige i lavori del consiglio. Si tratta di un appuntamento formale, a cui si suppone segua il passaggio delle consegne vero e proprio, che però viene fatto dagli sherpa dei due politici, che così non hanno più bisogno di vedersi, almeno fino a un successivo passaggio di consegne, magari a ruoli invertiti.
Questa piccola cerimonia negli ultimi anni è diventata un rito, ad uso dei fotografie delle televisioni. Da quando c’è nel nostro paese questo sgangherato maggioritario i passaggi della campanella sono stati l’occasione per i leader politici di esercitare una sana forma di ipocrisia. Berlusconi e Prodi si detestano con rara acrimonia - a dire il vero Prodi detesta molte persone, ma questo è un tratto peculiare del suo essere cattolico - eppure sono stati costretti a due cerimonie: il primo ha consegnato la campanella al secondo, che è stato costretto a restituirgliela dopo circa due anni, anche perché il leader del centrodestra aveva comprato, a prezzi stracciati, alcuni senatori del centrosinistra. Nonostante questo, in entrambe le occasioni hanno dimostrato grande fair play. Anzi l’intrattenitore di Arcore ha sempre dato il meglio di sé in questi passaggi, anche quando è stato costretto a cedere la campanella a personaggi che odiava, come il professor Monti: con lui non sono mai mancati simpatici siparietti.
Questa tradizione, come avete visto, si è interrotta con il passaggio della campanella tra Letta e Renzi. La campanella è formalmente passata di mano e quindi la forma è salva, ma si è trattato di un gesto fulmineo, senza una parola e senza uno sguardo. La stretta di mano è stata più che formale, strascicata, con Letta che guardava palesemente altrove e Renzi che non riusciva a trattenere il godimento per aver scalzato il rivale. Evidentemente il giovane Letta ha ancora da imparare dallo zio alcune basilari regole del bon ton democristiano. E anche Renzi ha ancora da scarpinare, per adesso è stato solo bravo a tradire - ma a far quello ci riescono tutti, perfino Franceschini - ma la politica richiede di tradire con garbo.
E pensare che sarebbe stata un’occasione perfetta. La campanella che passava di mano tra due giovani esponenti della Democrazia cristiana. Come fossero Moro e Fanfani, ma a colori e su Facebook.