Gradimento, sost. m.
Davanti ai parlamentari della commissione di vigilanza, interrogata sulla decisione della Rai di sottoscrivere un contratto così oneroso con un certo personaggio televisivo - il nome poco importa - la presidente Maggioni ha spiegato che se l'azienda non avesse accettato queste condizioni il personaggio in questione avrebbe firmato con una rete concorrente e che una tale decisione avrebbe rappresentato una perdita di spettatori, e quindi di sponsor, così ingente da mettere a rischio il livello occupazionale dell'azienda pubblica.
Francamente credo che Monica Maggioni abbia mentito: la perdita di quel personaggio non sarebbe stata così grave come ha voluto farci credere. Quel contratto così sostanzioso è stato un premio per chi in questi anni ha servito con prona dedizione la causa della maggioranza di governo ed è stato un segnale - vagamente mafioso - anche per gli altri: se fate i bravi verrete premiati, altrimenti potete tornare nelle televisioni locali a vendere pentole e materassi.
La scelta della bugia che si decide di raccontare è però sempre significativa e Maggioni, magari in maniera inconsapevole, ha detto una parte di verità. Chi determina le scelte della più importante azienda culturale di questo paese? La politica? Vorrebbe naturalmente, ma non ne ha la forza: la Rai di oggi non è né l'Eiar né la Rai della Dc. E' il mercato che decide cosa trasmettere e cosa no, cosa noi potremo vedere e cosa no. E il mercato, nonostante si qualifichi come libero, non accetta spazi di libertà. "La tua scelta libera" ci ricorda un noto gruppo televisivo privato dopo averci sciorinato i programmi della sera dei suoi canali; ma la nostra libertà, ogni sera, è piuttosto limitata.
Certo io posso scegliere di non guardare la televisione, ma comunque quello che viene trasmesso forma la cultura della società in cui vivo. Non ho letto i fortunati romanzi di Joanne Rowling né ho visto i film, eppure so benissimo chi sia Harry Potter, conosco la sua faccia e quella di Hermione e quella dei loro insegnanti di Hogwarts. In qualche modo il giovane mago è entrato nel mio bagaglio culturale. Se non siamo eremiti - e in qualche caso anche se lo siamo - noi respiriamo la cultura che abbiamo intorno e ne siamo plasmati. E la televisione, per la sua pervasività e la sua forza, è uno dei fattori che più contribuisce a determinare questa cultura.
E non è sempre un dato negativo. Pensate ad esempio che funzione per la diffusione di una diversa consapevolezza dei diritti civili hanno avuto alcuni telefilm americani - dai Jefferson a Will & Grace - o la pubblicità, dove le coppie omosessuali o quelle non sposate o quelle in qualche modo "irregolari" per l'ipocrita morale cattolica di questo paese sono diventate protagoniste quando ancora negli spettacoli erano ignorate, per non parlare dalla legge. Il mercato a volte diffonde messaggi positivi, ma rimane comunque il fatto che è il mercato che decide quando quel messaggio deve essere diffuso. E noi non siamo liberi di scegliere, ma solo di prendere quello che qualcuno ha deciso che possiamo "scegliere".
Naturalmente neppure la Rai della politica era libera, ma la politica per sua natura ha bisogno del consenso. Sappiamo che il consenso si costruisce - ormai ce lo hanno abbondantemente spiegato - ma non si crea dal nulla. Certo la Rai degli anni Sessanta e Settanta era un'azienda bacchettona e conservatrice, ma il paese era così - anche il Pci era così su tante questioni, proprio perché era un partito di massa - e in quella Rai c'era una censura rigida, per cui "certe" parole non si potevano neppure nominare, figurarsi se si potevano rappresentare certi comportamenti. Ma probabilmente c'era più libertà di scelta nei due - e poi tre - canali Rai rigidamente lottizzati che nella pletora di reti generaliste tutte uguali, sostanzialmente intercambiabili, perché in tutte vediamo gli stessi programmi e soprattutto la stessa pubblicità.
Probabilmente ve lo ricordate anche voi: una volta per decretare il successo di una trasmissione televisiva si diceva che aveva un alto indice di gradimento; adesso invece si parla solo di audience. Si tratta in entrambi i casi di dati spesso addomesticati e falsati, ma è interessante vedere come ora interessi solo il numero delle persone che stanno davanti all'apparecchio e non se a loro piace quello che viene trasmesso. Perché hanno già deciso cosa ci piacerà e a forza di farcelo vedere, sera dopo sera, finisce pure per piacerci. Ma la cosa importante è che non perdiamo neppure una pubblicità.
giovedì 29 giugno 2017
mercoledì 28 giugno 2017
Verba volant (403): civico...
Civico, agg. m.
Stai attento a quelli che oggi ti lodano, specialmente dalle parti del pd emiliano-romagnolo; Merola, Bonaccini e compagnia sono gente infida, pronta a venderti per un piatto di lenticchie al primo stormir di fronde. Essendo stati gli ultimi a salire sul carro di renzi saranno i primi ad andarsene. Confido tu sia meno ingenuo di come vuoi presentarti: dopo tutto hai sconfitto le guardie pretoriane della Casaleggio Associati, sono certo saprai resistere anche a queste mezze figure.
Comincia per te il periodo più difficile, quello in cui dovrai dimostrare chi sei e quello che vali. Nei cinque anni precedenti il tuo obiettivo poteva essere quello di vincere le elezioni. Ma adesso che ci sei riuscito e sai che tra cinque anni dovrai passare la mano, devi necessariamente fare una scelta. Probabilmente l'hai già fatta in cuor tuo, ma noi non la conosciamo.
Puoi avere deciso che Parma ti servirà come trampolino per una carriera nel sottobosco della politica nazionale e allora te ne fregherai dell'amministrazione e penserai a come gestire la tua immagine, a che alleanze fare, a come salvaguardare il tuo futuro. Insomma farai la fine di Tosi che ha candidato la moglie, in attesa di entrare nel pd. A parte queste meschinità - che comunque non hanno pagato - è una cosa che ho visto fare a tanti, specialmente dopo che è finito il partito: ciascuno per sé e dio per tutti. Anche per ragioni comprensibilissime: c'è il mutuo da pagare, e poi è difficile tornare in ufficio dopo che si è fatto il sindaco. Pensare alla tua carriera è quello che molti credono che tu farai, evidentemente anche i due figuri che sopra ho citato. E francamente lo temo anch'io, nonostante che comunque avrei votato per te, anche al primo turno. Ma io sono notoriamente un malpensante.
Spero invece che potrai stupirci e che ti dedicherai in questi cinque anni a Parma, senza pensare a quello che ti succederà alle prossime elezioni. Ovviamente non farai miracoli, perché ormai un sindaco può fare poco per la sua città, ma qualcosa ancora può fare. Soprattutto avrai dimostrato che ci sono persone che fanno politica perché hanno una personale ambizione - ho fatto politica per anni e so che senza ambizione non si fa politica, mente chi dice di non averne - ma anche perché hanno delle idee e vogliono provare a realizzarle. Avrai dimostrato che ci sono politici di cui fidarsi: con l'aria che c'è in giro è una roba quasi rivoluzionaria. Anche se tu proprio rivoluzionario non sei, sei un moderato parmigiano di centrosinistra che per una strana congiuntura è diventato sindaco. Capisco bene che non sarai il Corbyn italiano, non hai né la storia né il physique du rôle, ma se facessi così, se pensassi prima a Parma che a te stesso, allora potresti perfino diventare qualcuno.
lunedì 26 giugno 2017
Verba volant (402): siccità...
Siccità, sost. f.
In questi giorni noi che viviamo qui in Emilia guardiamo preoccupati al Po, al "grande fiume", sempre più basso, sempre più secco. sempre meno grande. Quando vivi vicino a un fiume come il Po, anche noi "moderni" possiamo capire perché per gli antichi i fiumi, come le fonti, come ogni altro aspetto della natura, fossero considerati alla stregua di dei. I nostri genitori ci hanno insegnato ad avere paura del Po, perché la sua forza può essere terribile, le sue acque possono distruggere case e stalle, possono devastare i campi, possono uccidere gli uomini. E ci hanno insegnato a sentirci fragili di fronte a questo fiume che, con la sua forza, può portare la morte. Eppure dobbiamo sentirci fragili anche oggi, che il Po è lì, fragile anch'esso, quasi un torrente, una lingua di acqua in mezzo alle sabbie.
Il nostro problema però è che non abbiamo memoria: se stanotte comincerà a piovere, non penseremo più al Po, anzi ci lamenteremo perché avevamo organizzato una cena in terrazza o perché dobbiamo andare al concerto di Vasco. La differenza con i nostri vecchi sta qui: che loro non si dimenticavano del Po, anche quando era benigno, quando non provocava disgrazie, quando non uccideva. I nostri vecchi non credevano più che il Po fosse un dio, anzi avevano imparato a sfruttarne le acque, a incanalarle, ci avevano costruito dighe e centrali, ma non dimenticavano che quel fiume era parte della loro vita e che la loro vita dipendeva dal Po. Noi ce ne dimentichiamo ogni volta che apriamo un rubinetto, che lasciamo scorrere l'acqua, che gettiamo via l'acqua, perché abbiamo imparato a fare anche questo, nella nostra mania di sprecare le risorse che ci hanno donato.
Ormai ci hanno spiegato che il caldo di questi giorni non è un fenomeno naturale, che siamo noi i responsabili di questo clima così innaturale, anche se facciamo finta che non sia colpa nostra. Adesso possiamo dare la colpa a Trump e stare in pace con la coscienza. Ma anche se la siccità di questi giorni fosse un fenomeno esclusivamente naturale, noi non sapremmo più come affrontarla, perché non sappiamo più come affrontare la natura. Perché abbiamo perso la memoria e il senso dell'equilibrio.
Nessuno vuole tornare al tempo in cui l'acqua corrente era appannaggio dei ricchi, anzi la storia di questo secolo è stata la storia di come i nostri padri hanno conquistato l'acqua - e non solo l'acqua - come l'hanno resa un bene pubblico. Tutti dobbiamo avere la possibilità di avere in casa l'acqua, anzi la nostra battaglia deve essere quella di far avere l'acqua in casa a tutte le famiglie che vivono su questa pianeta, perché per milioni di persone l'acqua è ancora un lusso. Il senso del nostro impegno politico deve essere quello di far sì che tutti abbiano le cose che abbiamo noi, anche se non per nostro merito. Invece noi, non solo non facciamo nulla affinché gli altri abbiano l'acqua, ma facciamo di tutto affinché non l'abbiano neppure i nostri figli. E, guardando il "grande fiume", sembra proprio che ci stiamo riuscendo.
sabato 24 giugno 2017
Verba volant (401): ardente...
Ardente, agg. m. e f.
Ardente è la traduzione della parola araba ramadam e infatti il ramadam è il mese caldo per eccellenza - e il giugno di quest'anno è stato decisamente ardente - il mese in cui le persone che professano la religione musulmana devono astenersi durante il giorno dal bere, dal mangiare, dal fumare, dal fare l'amore. Abbiamo anche noi imparato a sapere cos'è il ramadam, perché molte persone che vivono qui, insieme a noi, praticano questa lunga e difficile forma di devozione religiosa, che a noi sembra estrema, al limite del fanatismo, eppure che loro accettano con tenacia e passione.
Il vantaggio di essere atei - oltre al fatto che possiamo mangiare quello che vogliamo, quando vogliamo, anche la carne il venerdì - è soprattutto quello di provare a capire cosa le religioni, tutte le religioni, possano insegnarci. Come la morte di un innocente in croce, anche se non crediamo che quell'uomo sia il figlio di dio, ci interroga sul senso di quella morte, sull'ingiustizia che c'è nel mondo e sulla nostra volontà di lottare affinché sia sconfitta quell'ingiustizia, anche qui nella Gerusalemme terrena, perché di quello che avverrà in quella celeste nulla possiamo sapere e fare, così quelle privazioni autoimposte ci ricordano che nella vita dobbiamo imporci, tutti, una qualche forma di disciplina, se vogliamo rendere migliori noi stessi e il mondo in cui viviamo.
Poi il ramadam, come i digiuni prescritti dalla religione cristiana - per quanto poco frequentati dai cristiani - dovrebbero anche ricordarci un tempo, che ora a noi pare lontanissimo, in cui mangiare o non mangiare non dipendeva tanto dall'osservanza di precetti religiosi, ma dalla povertà delle nostre famiglie. Per quelle dei miei genitori - e immagino che anche molti di voi condividano questa esperienza - mangiare "di magro" era una necessità dettata dalla miseria, e mangiare la carne era un lusso, che potevi permetterti solo alcuni giorni, che appunto diventavano di festa.
Ora che noi possiamo mangiare la carne anche tutti i giorni - anche se non ci fa bene e anzi ci imponiamo bizzarre diete per diventare più magri e più belli - forse fatichiamo a capire quel mondo lì. E magari ricordarlo rispettando alcune consuetudini familiari - ad esempio mangiare di magro il venerdì - non ci fa poi così male, indipendentemente dal fatto che crediamo o no, indipendentemente se vogliamo dimagrire o no. E anche per tanti che oggi si sottopongono alle rigide restrizioni imposte dal ramadam quel sacrificio ricorda il tempo, non troppo lontano, quando mangiare e bere era un lusso, quando mangiare e bere durante le assolate ore del giorno - e non c'erano certo i condizionatori - poteva far male.
E la festa che ogni sera per un mese i nostri vicini musulmani fanno di fronte alle loro tavole imbandite ricorda anche a noi, atei, cristiani, variamente credenti, il valore del cibo, che siamo ormai così abituati a sprecare. Per mia madre risulta semplicemente inconcepibile che qualcuno possa buttare via il pane, quasi come l'arrivo degli alieni, semplicemente perché era stata educata così e così ha insegnato a me. Eppure ogni giorno in Italia buttiamo 13mila quintali di pane. E allora forse imporci una qualche disciplina nel modo in cui consumiamo non è poi così sbagliato.
Non so se si dice buon ramadam, come diciamo buon natale, ma credo dovremmo cominciare ad augurarcelo.
Ardente è la traduzione della parola araba ramadam e infatti il ramadam è il mese caldo per eccellenza - e il giugno di quest'anno è stato decisamente ardente - il mese in cui le persone che professano la religione musulmana devono astenersi durante il giorno dal bere, dal mangiare, dal fumare, dal fare l'amore. Abbiamo anche noi imparato a sapere cos'è il ramadam, perché molte persone che vivono qui, insieme a noi, praticano questa lunga e difficile forma di devozione religiosa, che a noi sembra estrema, al limite del fanatismo, eppure che loro accettano con tenacia e passione.
Il vantaggio di essere atei - oltre al fatto che possiamo mangiare quello che vogliamo, quando vogliamo, anche la carne il venerdì - è soprattutto quello di provare a capire cosa le religioni, tutte le religioni, possano insegnarci. Come la morte di un innocente in croce, anche se non crediamo che quell'uomo sia il figlio di dio, ci interroga sul senso di quella morte, sull'ingiustizia che c'è nel mondo e sulla nostra volontà di lottare affinché sia sconfitta quell'ingiustizia, anche qui nella Gerusalemme terrena, perché di quello che avverrà in quella celeste nulla possiamo sapere e fare, così quelle privazioni autoimposte ci ricordano che nella vita dobbiamo imporci, tutti, una qualche forma di disciplina, se vogliamo rendere migliori noi stessi e il mondo in cui viviamo.
Poi il ramadam, come i digiuni prescritti dalla religione cristiana - per quanto poco frequentati dai cristiani - dovrebbero anche ricordarci un tempo, che ora a noi pare lontanissimo, in cui mangiare o non mangiare non dipendeva tanto dall'osservanza di precetti religiosi, ma dalla povertà delle nostre famiglie. Per quelle dei miei genitori - e immagino che anche molti di voi condividano questa esperienza - mangiare "di magro" era una necessità dettata dalla miseria, e mangiare la carne era un lusso, che potevi permetterti solo alcuni giorni, che appunto diventavano di festa.
Ora che noi possiamo mangiare la carne anche tutti i giorni - anche se non ci fa bene e anzi ci imponiamo bizzarre diete per diventare più magri e più belli - forse fatichiamo a capire quel mondo lì. E magari ricordarlo rispettando alcune consuetudini familiari - ad esempio mangiare di magro il venerdì - non ci fa poi così male, indipendentemente dal fatto che crediamo o no, indipendentemente se vogliamo dimagrire o no. E anche per tanti che oggi si sottopongono alle rigide restrizioni imposte dal ramadam quel sacrificio ricorda il tempo, non troppo lontano, quando mangiare e bere era un lusso, quando mangiare e bere durante le assolate ore del giorno - e non c'erano certo i condizionatori - poteva far male.
E la festa che ogni sera per un mese i nostri vicini musulmani fanno di fronte alle loro tavole imbandite ricorda anche a noi, atei, cristiani, variamente credenti, il valore del cibo, che siamo ormai così abituati a sprecare. Per mia madre risulta semplicemente inconcepibile che qualcuno possa buttare via il pane, quasi come l'arrivo degli alieni, semplicemente perché era stata educata così e così ha insegnato a me. Eppure ogni giorno in Italia buttiamo 13mila quintali di pane. E allora forse imporci una qualche disciplina nel modo in cui consumiamo non è poi così sbagliato.
Non so se si dice buon ramadam, come diciamo buon natale, ma credo dovremmo cominciare ad augurarcelo.
venerdì 23 giugno 2017
Verba volant (400): privacy...
Ormai siamo tutti abituati a usare questo termine inglese, entrato di fatto - e anche di diritto, grazie al lavoro di molti giuristi - nella lingua italiana. Ma, come spesso ci succede, usiamo questa parola un po' a sproposito.
Ha suscitato una qualche eco - anche se non come avrebbe meritato, secondo me - la notizia che un'importante società di marketing degli Stati Uniti, la Deep Root Analytics, nei giorni scorsi, anche se per pochissimo tempo, ha pubblicato accidentalmente i dati di quasi duecento milioni di cittadini americani. Si trattava per lo più di dati sensibili: date di nascita, indirizzi, numeri di telefono, appartenenza religiosa, pregiudizi etnici e politici, prese di posizione su argomenti controversi come la legge sulle armi e l'aborto.
In questa informazione, per quanto così sommariamente riassunta, qual'è la vera notizia? Cosa sappiamo ora che prima non sapevamo? Credo che il fatto notevole sia che quella società per errore - o per dolo di un qualche concorrente - ha condiviso con il resto del mondo una serie di informazioni, ossia il proprio patrimonio; è come se una banca, per mezz'ora, aprisse il proprio caveau e non impedisse alle persone che passano per strada di entrare, prendere una mazzetta di banconote e uscire indisturbate senza dover rendere conto a nessuno. Da vecchio comunista poco mi importa di quell'azienda, anzi dovrei essere perfino contento: se la proprietà è un furto - e la proprietà di informazioni forse lo è anche di più - sono contento di questa falla, per altro subito riparata. Curiosa poi l'assonanza - immagino voluta - tra il nome della società e Deep throat, le cui gesta abbiamo da poco ricordato nell'avversario del Watergate.
C'è qualcosa di più, qualcosa che merita una nostra riflessione. E' una notizia che ci sono soggetti che raccolgono minuto dopo minuto ogni informazione che ci riguarda, le rielabora e poi le vende al migliore offerente? Evidentemente no, ormai dovremmo esserci abituati. Se mi viene la fantasia di visitare qualche sito dedicato all'Islanda, immediatamente cominceranno ad arrivarmi offerte di voli aerei diretti a Reykjavík, annunci di corsi di guida di slitte sul ghiaccio e ammiccanti proposte da biondissime ragazze islandesi. La Deep Root faceva questo lavoro per il Partito repubblicano che evidentemente ha bisogno di sapere chi sono i suoi potenziali elettori.
Quello che fa la Deep Root Analytics - e quello che fanno tantissime aziende simili - non costituisce affatto una violazione della nostra riservatezza, perché siamo noi che continuamente alimentiamo questo flusso di informazioni. Siamo noi che gratuitamente diamo alle società di questo tipo le informazioni che loro poi vendono. A proposito di plusvalore, chissà cosa avrebbe da dire Marx su questa particolare deriva del capitalismo. Noi scriviamo ogni minuto quello che facciamo, quello che compriamo, quello che pensiamo, sveliamo ogni nostro segreto, salvo poi invocare la privacy quando qualcuna delle informazioni che incautamente abbiamo divulgato, magari vantandoci in quel momento di quella cosa stupida che abbiamo detto, viene usata contro di noi. A volte, quando mi capita di chiedere informazioni - per dovere d'ufficio ovviamente - ai cittadini che vengono allo sportello, mi sento rispondere che c'è la privacy e magari quella stessa informazione che sono così reticenti a dare a un pubblico ufficiale l'hanno già condivisa su Facebook.
Possiamo smettere di alimentare questo mercato? Probabilmente no, perché avere dei luoghi, per quanto virtuali, dove poter dire quello che pensiamo e dove poter incontrare quelli che la pensano come noi è qualcosa a cui non siamo più disposti a rinunciare. Perché la rete permette di avere spazi di democrazia a persone che altrimenti ne sarebbero escluse. E questo comporta dei rischi, a volte dei pericoli. E soprattutto delle rinunce. Però dobbiamo esserne consapevoli, sia dei pericoli che delle rinunce. E su questo mi sembra che abbiamo ancora molto da imparare.
Possiamo smettere di alimentare questo mercato? Probabilmente no, perché avere dei luoghi, per quanto virtuali, dove poter dire quello che pensiamo e dove poter incontrare quelli che la pensano come noi è qualcosa a cui non siamo più disposti a rinunciare. Perché la rete permette di avere spazi di democrazia a persone che altrimenti ne sarebbero escluse. E questo comporta dei rischi, a volte dei pericoli. E soprattutto delle rinunce. Però dobbiamo esserne consapevoli, sia dei pericoli che delle rinunce. E su questo mi sembra che abbiamo ancora molto da imparare.
mercoledì 21 giugno 2017
"Pensatina dell'antimetafisicante" di Giorgio Caproni
Un'idea mi frulla,
scema come una rosa.
Dopo di noi non c'è nulla.
Nemmeno il nulla,
che già sarebbe qualcosa.
martedì 20 giugno 2017
Verba volant (399): maturità...
Maturità, sost. f.
Un giovane masai per entrare nell'età adulta doveva uccidere un leone, armato solamente della propria lancia. Invece i nostri giovani devono sostenere l'esame di maturità, armati solamente del proprio dizionario. Personalmente sono felice di non essere nato tra i masai: avrebbe certamente vinto il leone.
Nell'aggettivo maturus gli etimologisti riconoscono la stessa radice che si trova in matutinus, perché in entrambi gli aggettivi c'è l'idea del tempo come strumento di misura. Maturo significa propriamente ciò che è venuto presto, di buon'ora e quindi ciò che è giunto a compimento. Effettivamente occorre alzarsi molto presto sia per uccidere un leone che per sostenere l'esame di maturità.
Probabilmente uccidere un leone è un sistema più efficace per misurare la maturità piuttosto che scrivere alcune paginette di banalità, cercando di evitare marchiani errori grammaticali. Anche se nella parola maturità c'è la stessa radice che ritroviamo in metro, credo sia piuttosto complicato - se non impossibile - trovare un criterio oggettivo per misurare la maturità. Conosco - e certamente ne conoscete anche voi - persone che hanno superato brillantemente l'esame e che sono assolutamente immature e persone sagge e responsabili, persone mature sotto tutti i punti di vista, che non sono mai andate a scuola.
Quindi, care ragazze e cari ragazzi che state per affrontare la maturità, preparatevi a questa prova per quello che è e per quello che vale - non molto - e non per quello che noi "grandi" vi facciamo credere che sia. La nostra è invidia, perché vorremmo avere i vostri anni e quindi vi mettiamo questa inutile apprensione. Tra l'altro non correte alcun pericolo, anche se riconosco che alcuni commissari, per darsi un tono, vogliono sembrare feroci come dei leoni.
Certo l'esame è un rito di passaggio, anche se una volta fatto sarete assolutamente uguali a come eravate prima di farlo. Però vi assicuro che ne conserverete un bel ricordo, perché tra qualche anno avrete fortunatamente dimenticato le ansie, i consigli degli esperti, le anticipazioni sulle tracce e tutto il corredo che l'esame si porta dietro. Avrete dimenticato anche gran parte delle nozioni che in questi giorni avete affannosamente studiato. Ricorderete invece le cose belle: il sorriso di quella vostra compagna che vi fa battere il cuore, le risate con i vostri amici, insomma vi ricorderete di quando avevate diciott'anni. Se siete stati fortunati, se avete avuto insegnanti capaci di fare il loro lavoro, vi ricorderete perfino qualcuna delle cose che vi hanno insegnato: anche solo il verso di una poesia e sarà una cosa che vi aiuterà a essere più maturi, indipendentemente dal voto che avrete preso.
Poi la scuola dovrebbe avervi insegnato a pensare con la vostra testa, non sempre riesce a farlo e non sempre vuole farlo; dovrebbe avervi insegnato a rispettare le altre persone; dovrebbe avervi insegnato il senso della giustizia e la voglia di lottare. Ma queste sono tutte cose che non si possono misurare, tanto meno con un'esame; quindi dormite pure tranquilli la notte prima degli esami.
Per il resto, essere maturi - e pensare con la vostra testa, e rispettare gli altri, e avere il senso della giustizia e la voglia di lottare - sta a voi, magari cercando di non essere come noi, che maturi non lo siamo mai diventati. Nonostante il leone.
Un giovane masai per entrare nell'età adulta doveva uccidere un leone, armato solamente della propria lancia. Invece i nostri giovani devono sostenere l'esame di maturità, armati solamente del proprio dizionario. Personalmente sono felice di non essere nato tra i masai: avrebbe certamente vinto il leone.
Nell'aggettivo maturus gli etimologisti riconoscono la stessa radice che si trova in matutinus, perché in entrambi gli aggettivi c'è l'idea del tempo come strumento di misura. Maturo significa propriamente ciò che è venuto presto, di buon'ora e quindi ciò che è giunto a compimento. Effettivamente occorre alzarsi molto presto sia per uccidere un leone che per sostenere l'esame di maturità.
Probabilmente uccidere un leone è un sistema più efficace per misurare la maturità piuttosto che scrivere alcune paginette di banalità, cercando di evitare marchiani errori grammaticali. Anche se nella parola maturità c'è la stessa radice che ritroviamo in metro, credo sia piuttosto complicato - se non impossibile - trovare un criterio oggettivo per misurare la maturità. Conosco - e certamente ne conoscete anche voi - persone che hanno superato brillantemente l'esame e che sono assolutamente immature e persone sagge e responsabili, persone mature sotto tutti i punti di vista, che non sono mai andate a scuola.
Quindi, care ragazze e cari ragazzi che state per affrontare la maturità, preparatevi a questa prova per quello che è e per quello che vale - non molto - e non per quello che noi "grandi" vi facciamo credere che sia. La nostra è invidia, perché vorremmo avere i vostri anni e quindi vi mettiamo questa inutile apprensione. Tra l'altro non correte alcun pericolo, anche se riconosco che alcuni commissari, per darsi un tono, vogliono sembrare feroci come dei leoni.
Certo l'esame è un rito di passaggio, anche se una volta fatto sarete assolutamente uguali a come eravate prima di farlo. Però vi assicuro che ne conserverete un bel ricordo, perché tra qualche anno avrete fortunatamente dimenticato le ansie, i consigli degli esperti, le anticipazioni sulle tracce e tutto il corredo che l'esame si porta dietro. Avrete dimenticato anche gran parte delle nozioni che in questi giorni avete affannosamente studiato. Ricorderete invece le cose belle: il sorriso di quella vostra compagna che vi fa battere il cuore, le risate con i vostri amici, insomma vi ricorderete di quando avevate diciott'anni. Se siete stati fortunati, se avete avuto insegnanti capaci di fare il loro lavoro, vi ricorderete perfino qualcuna delle cose che vi hanno insegnato: anche solo il verso di una poesia e sarà una cosa che vi aiuterà a essere più maturi, indipendentemente dal voto che avrete preso.
Poi la scuola dovrebbe avervi insegnato a pensare con la vostra testa, non sempre riesce a farlo e non sempre vuole farlo; dovrebbe avervi insegnato a rispettare le altre persone; dovrebbe avervi insegnato il senso della giustizia e la voglia di lottare. Ma queste sono tutte cose che non si possono misurare, tanto meno con un'esame; quindi dormite pure tranquilli la notte prima degli esami.
Per il resto, essere maturi - e pensare con la vostra testa, e rispettare gli altri, e avere il senso della giustizia e la voglia di lottare - sta a voi, magari cercando di non essere come noi, che maturi non lo siamo mai diventati. Nonostante il leone.
domenica 18 giugno 2017
Verba volant (398): cantiere...
Cantiere, sost. m.
A tutt'oggi non sappiamo neppure se voteremo, figurarsi quindi se possiamo immaginare con quale legge. In queste condizioni è quantomeno azzardato fare dichiarazioni di voto, ma, comunque vada, io voterò affinché ci sia nel prossimo parlamento una rappresentanza di sinistra. Mi auguro di non essere costretto a votare una "cosa" in cui ci sia dentro anche Pisapia, spero di non votare per Bersani-D'Alema, ma voterò comunque, perché difficilmente ci sarà proprio quello chi io vorrei votare. Al punto in cui siamo, pongo un'unica condizione: mai con il pd, con tutto il pd. E' una condizione vincolante e quindi farò molta, molta attenzione prima di votare: se avrò anche solo il sospetto che il mio voto servirà a sostenere in qualche modo il pd o un governo con il pd, non voterò, disperderò il voto, annullerò la scheda piuttosto, ma non voterò per una sinistra complice.
Fatta questa doverosa premessa devo anche dirvi, con l'usuale franchezza, che non firmerò manifesti, non aderirò a comitati, non mi iscriverò a partiti nati o nascenti, non parteciperò a cantieri. Capisco che così faccio la figura del vecchio, che, mani dietro la schiena, osserva i lavori, scuotendo la testa in segno di sconforto e disapprovazione.
Confesso che pesa su questa decisione il mio cattivo carattere, Più passa il tempo più mi pesano le interazioni umane. E la politica ne ha invece assoluto bisogno. Lo so, l'ho fatta per anni e ricordo quanto sia importante il legame tra le persone. Anzi siamo a questo punto anche perché questo legame si è spezzato.
C'è poi un'altra considerazione che è più di carattere politico, anche se parte dalla mia esperienza personale. Proprio perché ho fatto politica per molti anni, sento pesare su di me una responsabilità. Siamo in tanti a portare questo peso, ma vedo che per molti questo non sembra essere un problema: continuano tranquillamente a fare politica, spesso dicendo le stesse cose che dicevamo vent'anni fa e che ci hanno portato al punto in cui siamo. Mi fa piacere che D'Alema - per dirne uno - abbia riscoperto il gusto della politica - sono fin contento per lui - ma lui, come me, vent'anni fa, pensava che Blair - schematizzo, ma mi avete capito - fosse la soluzione. Adesso, se vogliamo dire che è Corbyn il modello da seguire, dobbiamo anche riconoscere che sbagliavamo. E il fatto di aver commesso allora un errore così grave dovrebbe farci riflettere e soprattutto farci desistere da dare adesso lezioni.
C'è infine un ultimo tema che mi impedisce di riprendere qualcosa che ho interrotto anni fa, ossia il fatto che in questo paese sembra ormai impossibile definirsi radicalmente comunista. Leggevo l'altro giorno uno di questi sondaggi dei giornali italiani, in cui si chiedeva ai lettori di indicare un leader della sinistra prossima ventura. So che è poco di più di un gioco di società, ma l'esito mi ha lasciato comunque interdetto. In tanti, la maggioranza purtroppo, hanno indicato Roberto Saviano. Non ho nulla contro di lui come persona - mi sta antipatico, come mi stanno antipatici tanti - credo che il suo lavoro sia fondamentale per la crescita civile di questo paese, ma il fatto di aver denunciato il malaffare della camorra, a rischio della propria vita, non ti fa diventare un leader socialista.
Commentando le elezioni del Regno Unito tanti amici hanno scritto deplorando il fatto che non c'è un Corbyn italiano. Vero, non c'è, ma un leader così non si costruisce in laboratorio, come faceva il dottor Frankenstein con la sua creatura. Manca il Corbyn italiano, ma non è questo il problema, il dramma è che manca un partito, manca un sindacato, manca una cultura politica, manca una comunità che riconosca al proprio interno l'uomo - o la donna - che possa guidarla.
Sbaglierò, ma mi sembra che tutti questi cantieri partano con il piede sbagliato. Anzi siamo noi che li facciamo subito deragliare, perché ormai non riusciamo più a prescindere da una persona, da un leader. Sono certo ad esempio che Anna Falcone e Tomaso Montanari sono animati dalle migliori intenzioni, ma siamo noi che, letto il loro appello - condivisibile, per quanto generico, nella sua buona volontà - li abbiamo subito trasformati in leader. E' come se non ne potessimo fare a meno.
Francamente trovo pericolosa questa spasmodica ricerca di un leader, a prescindere da ogni altra considerazione. E' un fenomeno che mi preoccupa molto, che mi sembra il segno di una nuova forma di fascismo o comunque di un imbarbarimento della politica. Ne ho paura e non mi ci trovo più in questo mondo. E l'unica cosa che riesco a fare è scriverlo, scuotendo la testa.
A tutt'oggi non sappiamo neppure se voteremo, figurarsi quindi se possiamo immaginare con quale legge. In queste condizioni è quantomeno azzardato fare dichiarazioni di voto, ma, comunque vada, io voterò affinché ci sia nel prossimo parlamento una rappresentanza di sinistra. Mi auguro di non essere costretto a votare una "cosa" in cui ci sia dentro anche Pisapia, spero di non votare per Bersani-D'Alema, ma voterò comunque, perché difficilmente ci sarà proprio quello chi io vorrei votare. Al punto in cui siamo, pongo un'unica condizione: mai con il pd, con tutto il pd. E' una condizione vincolante e quindi farò molta, molta attenzione prima di votare: se avrò anche solo il sospetto che il mio voto servirà a sostenere in qualche modo il pd o un governo con il pd, non voterò, disperderò il voto, annullerò la scheda piuttosto, ma non voterò per una sinistra complice.
Fatta questa doverosa premessa devo anche dirvi, con l'usuale franchezza, che non firmerò manifesti, non aderirò a comitati, non mi iscriverò a partiti nati o nascenti, non parteciperò a cantieri. Capisco che così faccio la figura del vecchio, che, mani dietro la schiena, osserva i lavori, scuotendo la testa in segno di sconforto e disapprovazione.
Confesso che pesa su questa decisione il mio cattivo carattere, Più passa il tempo più mi pesano le interazioni umane. E la politica ne ha invece assoluto bisogno. Lo so, l'ho fatta per anni e ricordo quanto sia importante il legame tra le persone. Anzi siamo a questo punto anche perché questo legame si è spezzato.
C'è poi un'altra considerazione che è più di carattere politico, anche se parte dalla mia esperienza personale. Proprio perché ho fatto politica per molti anni, sento pesare su di me una responsabilità. Siamo in tanti a portare questo peso, ma vedo che per molti questo non sembra essere un problema: continuano tranquillamente a fare politica, spesso dicendo le stesse cose che dicevamo vent'anni fa e che ci hanno portato al punto in cui siamo. Mi fa piacere che D'Alema - per dirne uno - abbia riscoperto il gusto della politica - sono fin contento per lui - ma lui, come me, vent'anni fa, pensava che Blair - schematizzo, ma mi avete capito - fosse la soluzione. Adesso, se vogliamo dire che è Corbyn il modello da seguire, dobbiamo anche riconoscere che sbagliavamo. E il fatto di aver commesso allora un errore così grave dovrebbe farci riflettere e soprattutto farci desistere da dare adesso lezioni.
C'è infine un ultimo tema che mi impedisce di riprendere qualcosa che ho interrotto anni fa, ossia il fatto che in questo paese sembra ormai impossibile definirsi radicalmente comunista. Leggevo l'altro giorno uno di questi sondaggi dei giornali italiani, in cui si chiedeva ai lettori di indicare un leader della sinistra prossima ventura. So che è poco di più di un gioco di società, ma l'esito mi ha lasciato comunque interdetto. In tanti, la maggioranza purtroppo, hanno indicato Roberto Saviano. Non ho nulla contro di lui come persona - mi sta antipatico, come mi stanno antipatici tanti - credo che il suo lavoro sia fondamentale per la crescita civile di questo paese, ma il fatto di aver denunciato il malaffare della camorra, a rischio della propria vita, non ti fa diventare un leader socialista.
Commentando le elezioni del Regno Unito tanti amici hanno scritto deplorando il fatto che non c'è un Corbyn italiano. Vero, non c'è, ma un leader così non si costruisce in laboratorio, come faceva il dottor Frankenstein con la sua creatura. Manca il Corbyn italiano, ma non è questo il problema, il dramma è che manca un partito, manca un sindacato, manca una cultura politica, manca una comunità che riconosca al proprio interno l'uomo - o la donna - che possa guidarla.
Sbaglierò, ma mi sembra che tutti questi cantieri partano con il piede sbagliato. Anzi siamo noi che li facciamo subito deragliare, perché ormai non riusciamo più a prescindere da una persona, da un leader. Sono certo ad esempio che Anna Falcone e Tomaso Montanari sono animati dalle migliori intenzioni, ma siamo noi che, letto il loro appello - condivisibile, per quanto generico, nella sua buona volontà - li abbiamo subito trasformati in leader. E' come se non ne potessimo fare a meno.
Francamente trovo pericolosa questa spasmodica ricerca di un leader, a prescindere da ogni altra considerazione. E' un fenomeno che mi preoccupa molto, che mi sembra il segno di una nuova forma di fascismo o comunque di un imbarbarimento della politica. Ne ho paura e non mi ci trovo più in questo mondo. E l'unica cosa che riesco a fare è scriverlo, scuotendo la testa.
sabato 17 giugno 2017
Verba volant (397): cancello...
Cancello, sost. m.
La notte del 17 giugno 1972 - solo quarantacinque anni fa - furono scoperti e arrestati cinque uomini che si erano introdotti nella sede del Comitato nazionale del partito democratico, che occupava l'intero sesto piano di un grande e anonimo albergo di Washington. L'8 agosto 1974 si dimise il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Questo, in estrema sintesi, è stato lo scandalo Watergate, dal nome di quel brutto albergo. E, a causa di quello scandalo, i mezzi di informazione - con scarsissima fantasia - continuano a usare il suffisso -gate, che significa appunto cancello, per indicare ogni scandalo politico, fino al Russiagate, che potrebbe costare il posto all'attuale inquilino della Casa bianca.
Troverete molti libri sul Watergate e io non ho la competenza - né questa è la sede - per raccontarvi quello che è successo. C'è comunque su questo scandalo una lettura mitologica, legata al film di Alan J. Pakula Tutti gli uomini del Presidente, un film che abbiamo visto e rivisto, che ha rappresentato un punto importante della carriera dei due protagonisti Robert Redford e Dustin Hoffman e che soprattutto ha segnato in maniera definitiva il racconto di quella vicenda. La storia dei due giovani e fino allora sconosciuti reporter del Washington post che, indagando con tenacia, costanza e un po' di incoscienza, scoprono uno dopo l'altro gli anelli di una catena che porta fino a Nixon, certo è una storia bellissima, che ci emoziona ogni volta: la scena in cui si vedono i due giornalisti scartabellare tra i cartellini delle richieste degli uffici della Casa bianca alla biblioteca del Congresso ci fa scattare sulla sedia ogni volta.
Credo che dovremmo cominciare a guardare quel film come appunto un'opera di finzione e accettare l'idea che il Watergate sia stato lo strumento con cui un pezzo del potere ha tolto di mezzo un altro pezzo. E considerare tutti quei personaggi, da Woodward e Bernstein a Gola profonda, dei mezzi, più o meno consapevoli, per raggiungere uno scopo: togliere di mezzo Nixon e quelli che lo stavano sostenendo. Non so se lo scandalo sia scoppiato perché Nixon aveva smesso di obbedire agli ordini e si era convinto di avere davvero il potere di decidere in autonomia sulle grandi questioni di politica economica o perché alcune di quelle scelte, ad esempio la decisione di abrogare il sistema di Bretton woods e di togliere ogni freno al capitalismo più selvaggio, colpirono interessi che non avrebbe dovuto colpire o perché semplicemente era ora che si facesse da parte. Certo non potevano uccidere Nixon come avevano ucciso Kennedy - i grandi illusionisti sanno che un trucco perde efficacia quando lo si ripete troppe volte - e quale modo migliore di togliersi dalle scatole Tricky Dick se non un bello scandalo? Nixon non era amato come Kennedy e il popolo sarebbe stato felice di vederlo cadere. E così decisero di consegnare al popolo la testa di Nixon su un piatto d'argento.
Credo che dovremo ricordare la storia del Watergate e delle dimissioni di Nixon quando tra qualche settimana - o qualche mese - lanceremo i nostri evviva per l'avvio della procedura di impeachment contro Trump o festeggeremo le sue dimissioni. Avranno solo deciso di sbarazzarsi di un altro che non vuole obbedire o di uno che ha deciso di stare con la banda sbagliata, quella che perderà. Immagino si stiano già preparando le gole profonde e che troveranno i giornalisti - magari perfino qualcuno onesto, qualcuno che crede ancora al potere della stampa libera - per far dimettere il presidente. Un killer costa sempre troppo.
La notte del 17 giugno 1972 - solo quarantacinque anni fa - furono scoperti e arrestati cinque uomini che si erano introdotti nella sede del Comitato nazionale del partito democratico, che occupava l'intero sesto piano di un grande e anonimo albergo di Washington. L'8 agosto 1974 si dimise il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Questo, in estrema sintesi, è stato lo scandalo Watergate, dal nome di quel brutto albergo. E, a causa di quello scandalo, i mezzi di informazione - con scarsissima fantasia - continuano a usare il suffisso -gate, che significa appunto cancello, per indicare ogni scandalo politico, fino al Russiagate, che potrebbe costare il posto all'attuale inquilino della Casa bianca.
Troverete molti libri sul Watergate e io non ho la competenza - né questa è la sede - per raccontarvi quello che è successo. C'è comunque su questo scandalo una lettura mitologica, legata al film di Alan J. Pakula Tutti gli uomini del Presidente, un film che abbiamo visto e rivisto, che ha rappresentato un punto importante della carriera dei due protagonisti Robert Redford e Dustin Hoffman e che soprattutto ha segnato in maniera definitiva il racconto di quella vicenda. La storia dei due giovani e fino allora sconosciuti reporter del Washington post che, indagando con tenacia, costanza e un po' di incoscienza, scoprono uno dopo l'altro gli anelli di una catena che porta fino a Nixon, certo è una storia bellissima, che ci emoziona ogni volta: la scena in cui si vedono i due giornalisti scartabellare tra i cartellini delle richieste degli uffici della Casa bianca alla biblioteca del Congresso ci fa scattare sulla sedia ogni volta.
Credo che dovremmo cominciare a guardare quel film come appunto un'opera di finzione e accettare l'idea che il Watergate sia stato lo strumento con cui un pezzo del potere ha tolto di mezzo un altro pezzo. E considerare tutti quei personaggi, da Woodward e Bernstein a Gola profonda, dei mezzi, più o meno consapevoli, per raggiungere uno scopo: togliere di mezzo Nixon e quelli che lo stavano sostenendo. Non so se lo scandalo sia scoppiato perché Nixon aveva smesso di obbedire agli ordini e si era convinto di avere davvero il potere di decidere in autonomia sulle grandi questioni di politica economica o perché alcune di quelle scelte, ad esempio la decisione di abrogare il sistema di Bretton woods e di togliere ogni freno al capitalismo più selvaggio, colpirono interessi che non avrebbe dovuto colpire o perché semplicemente era ora che si facesse da parte. Certo non potevano uccidere Nixon come avevano ucciso Kennedy - i grandi illusionisti sanno che un trucco perde efficacia quando lo si ripete troppe volte - e quale modo migliore di togliersi dalle scatole Tricky Dick se non un bello scandalo? Nixon non era amato come Kennedy e il popolo sarebbe stato felice di vederlo cadere. E così decisero di consegnare al popolo la testa di Nixon su un piatto d'argento.
Credo che dovremo ricordare la storia del Watergate e delle dimissioni di Nixon quando tra qualche settimana - o qualche mese - lanceremo i nostri evviva per l'avvio della procedura di impeachment contro Trump o festeggeremo le sue dimissioni. Avranno solo deciso di sbarazzarsi di un altro che non vuole obbedire o di uno che ha deciso di stare con la banda sbagliata, quella che perderà. Immagino si stiano già preparando le gole profonde e che troveranno i giornalisti - magari perfino qualcuno onesto, qualcuno che crede ancora al potere della stampa libera - per far dimettere il presidente. Un killer costa sempre troppo.
venerdì 16 giugno 2017
Verba volant (396): censura...
Censura, sost. f.
Giulio Cesare è un uomo corpulento, gesticola molto e ha un ciuffo improbabile. Calpurnia indossa abiti elegantissimi e parla con un leggero accento sloveno. I senatori portano seriosi completi blu. I massicci agenti della sicurezza, con le loro armi e i loro auricolari, non riescono però a proteggere il console, che viene ucciso dai congiurati guidati da Bruto e Cassio. Vi posso tranquillamente raccontare cosa succede: non è uno spoiler, è Shakespeare.
Anche il pubblico che dal 23 maggio di quest'anno ha affollato il teatro all'aperto a Central park per il primo dei due spettacoli della storica rassegna Free Shakespeare in the park sapeva benissimo cosa sarebbe successo: che Cesare sarebbe stato ucciso, che Antonio - qui Elizabeth Marvel, Heather Dunbar di House of cards - avrebbe pronunciato il suo elogio funebre, riuscendo a sobillare la folla di Roma contro i congiurati, e che alla fine anche Bruto - qui Corey Stoll, un altro interprete di House of cards, lo sfortunato Peter Russo - sarebbe stato ucciso. Quello che il pubblico non sapeva è come il regista Oskar Eustis avrebbe raccontato ancora una volta quella stessa storia, così universalmente nota, tante volte messa in scena. E chiaramente Eustis ha scelto di ambientare il dramma ai giorni nostri, rappresentando Cesare come Donald Trump. Nelle note di regia ha scritto:
La forza di un classico sta proprio in questo. E pochissimi come Shakespeare hanno la capacità di raccontarci quello che noi siamo, anche a tanti secoli di distanza, con tale precisione. Personalmente la versione più bella di questa tragedia che ho avuta la fortuna di vedere è quella, al cinema, dei fratelli Taviani, che in Cesare deve morire, raccontano il laboratorio teatrale di un gruppo di detenuti di Rebibbia che mettono in scena l'opera di Shakespeare. Tra i congiurati ci sono uomini che hanno realmente ucciso, che hanno realmente tradito, che realmente si sono vendicati - e che pagano per questi loro atti - e quindi le parole scritte secoli fa nell'Inghilterra di Elisabetta I assumono un senso incredibilmente forte. E vero.
Non so se la scelta di Eustis sia stata altrettanto efficace, se quella buona idea sia stata poi effettivamente realizzata, questo lo deve decidere il pubblico che, per fortuna, è sovrano e sa benissimo cosa è buono e cosa no. Contro lo spettacolo si è però levata una campagna denigratoria orchestrata dalla Fox news e da una serie di siti che appoggiano il presidente: secondo loro rappresentare in quel modo l'assassinio di Cesare significherebbe raccontare - auspicare forse -l'assassinio del presidente in carica.
L'arte però non può essere censurata, almeno teoricamente. Però può essere fermata. Gli spettacoli di questo storico festival newyorchese sono gratuiti e quindi le produzioni vivono grazie agli sponsor e due dei più importanti, Bank of America e Delta air lines, hanno deciso di ritirare il proprio contributo allo spettacolo. Probabilmente questo spettacolo si salverà, ormai le repliche stanno per terminare, ma cosa succederà in futuro? Quanti registi, anche famosi come Eustis - figuratevi i giovani - si faranno condizionare dalla paura di perdere i finanziamenti? Quanti produttori accetteranno ancora di mettere in scena spettacoli di questo genere, sapendo che potrebbero fallire, con il ritiro degli sponsor?
E' un brutto segno quando il potere riesce a far tacere Shakespeare.
Giulio Cesare è un uomo corpulento, gesticola molto e ha un ciuffo improbabile. Calpurnia indossa abiti elegantissimi e parla con un leggero accento sloveno. I senatori portano seriosi completi blu. I massicci agenti della sicurezza, con le loro armi e i loro auricolari, non riescono però a proteggere il console, che viene ucciso dai congiurati guidati da Bruto e Cassio. Vi posso tranquillamente raccontare cosa succede: non è uno spoiler, è Shakespeare.
Anche il pubblico che dal 23 maggio di quest'anno ha affollato il teatro all'aperto a Central park per il primo dei due spettacoli della storica rassegna Free Shakespeare in the park sapeva benissimo cosa sarebbe successo: che Cesare sarebbe stato ucciso, che Antonio - qui Elizabeth Marvel, Heather Dunbar di House of cards - avrebbe pronunciato il suo elogio funebre, riuscendo a sobillare la folla di Roma contro i congiurati, e che alla fine anche Bruto - qui Corey Stoll, un altro interprete di House of cards, lo sfortunato Peter Russo - sarebbe stato ucciso. Quello che il pubblico non sapeva è come il regista Oskar Eustis avrebbe raccontato ancora una volta quella stessa storia, così universalmente nota, tante volte messa in scena. E chiaramente Eustis ha scelto di ambientare il dramma ai giorni nostri, rappresentando Cesare come Donald Trump. Nelle note di regia ha scritto:
Giulio Cesare può essere letto come un monito per coloro che vogliono lottare per la democrazia con mezzi non democratici. Combattere il tiranno non significa imitarlo.
La forza di un classico sta proprio in questo. E pochissimi come Shakespeare hanno la capacità di raccontarci quello che noi siamo, anche a tanti secoli di distanza, con tale precisione. Personalmente la versione più bella di questa tragedia che ho avuta la fortuna di vedere è quella, al cinema, dei fratelli Taviani, che in Cesare deve morire, raccontano il laboratorio teatrale di un gruppo di detenuti di Rebibbia che mettono in scena l'opera di Shakespeare. Tra i congiurati ci sono uomini che hanno realmente ucciso, che hanno realmente tradito, che realmente si sono vendicati - e che pagano per questi loro atti - e quindi le parole scritte secoli fa nell'Inghilterra di Elisabetta I assumono un senso incredibilmente forte. E vero.
Non so se la scelta di Eustis sia stata altrettanto efficace, se quella buona idea sia stata poi effettivamente realizzata, questo lo deve decidere il pubblico che, per fortuna, è sovrano e sa benissimo cosa è buono e cosa no. Contro lo spettacolo si è però levata una campagna denigratoria orchestrata dalla Fox news e da una serie di siti che appoggiano il presidente: secondo loro rappresentare in quel modo l'assassinio di Cesare significherebbe raccontare - auspicare forse -l'assassinio del presidente in carica.
L'arte però non può essere censurata, almeno teoricamente. Però può essere fermata. Gli spettacoli di questo storico festival newyorchese sono gratuiti e quindi le produzioni vivono grazie agli sponsor e due dei più importanti, Bank of America e Delta air lines, hanno deciso di ritirare il proprio contributo allo spettacolo. Probabilmente questo spettacolo si salverà, ormai le repliche stanno per terminare, ma cosa succederà in futuro? Quanti registi, anche famosi come Eustis - figuratevi i giovani - si faranno condizionare dalla paura di perdere i finanziamenti? Quanti produttori accetteranno ancora di mettere in scena spettacoli di questo genere, sapendo che potrebbero fallire, con il ritiro degli sponsor?
E' un brutto segno quando il potere riesce a far tacere Shakespeare.
da "Ulisse" di James Joyce
Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d'urina leggermente aromatica.
I rognoni erano nel suo pensiero mentre si moveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d'estate dappertutto. Gli facevano venire un po' di prurito allo stomaco.
I carboni si arrossavano.
Un'altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta interita girò attorno a una gamba del tavolo con la coda ritta.
- Mkgnao
- Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.
La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.
Mr Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia.
- Latte per la miciolina, disse.
- Mrkgnao! piagnucolò la gatta.
Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche.
Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre?
No, mi salta benissimo.
- Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura dei
pìopìo Mai visto una miciolina così
sciocchina.
Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.
- Mrkrgnao! disse forte la gatta.
Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l'avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s'avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.
Grr! esclamò lei e corse a lambire.
Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse.
Tese l'orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l'acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.
Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito.
Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina.
Forse però: una volta tanto.
Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:
- Vado qui all'angolo, torno tra un minuto.
Udita la sua voce dir questo soggiunse:
- Vuoi niente per colazione?
Un debole grugnito assonnato rispose:
- Mn.
No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d'ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano. Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po' di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l'ha pagato suo padre. Vecchio stile. Eh sì, naturalmente. Comprato all'asta del governatore. Venduto al primo colpo. Tenace nel contrattare, il vecchio Tweedy. Sissignore. Fu a Plevna. Vengo dalla gavetta, signore, e ne sono fiero. Eppure aveva abbastanza cervello da far soldi coi francobolli. Questo si chiama esser previdenti.
La sua mano tolse il cappello dal piolo, sopra il suo cappotto pesante con le iniziali, e l'impermeabile usato comprato all'ufficio oggetti smarriti. Francobolli: figurine dal retro adesivo. Direi che un sacco d'ufficiali siano nel giro. Naturale. La scritta sudaticcia nell'interno del cappello gli disse muta: Plasto i migliori capp. Sbirciò rapido all'interno della banda di cuoio. Cartoncino bianco. Bene al sicuro.
I rognoni erano nel suo pensiero mentre si moveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d'estate dappertutto. Gli facevano venire un po' di prurito allo stomaco.
I carboni si arrossavano.
Un'altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta interita girò attorno a una gamba del tavolo con la coda ritta.
- Mkgnao
- Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.
La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.
Mr Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia.
- Latte per la miciolina, disse.
- Mrkgnao! piagnucolò la gatta.
Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche.
Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre?
No, mi salta benissimo.
- Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura dei
pìopìo Mai visto una miciolina così
sciocchina.
Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.
- Mrkrgnao! disse forte la gatta.
Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l'avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s'avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.
Grr! esclamò lei e corse a lambire.
Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse.
Tese l'orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l'acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.
Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito.
Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina.
Forse però: una volta tanto.
Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:
- Vado qui all'angolo, torno tra un minuto.
Udita la sua voce dir questo soggiunse:
- Vuoi niente per colazione?
Un debole grugnito assonnato rispose:
- Mn.
No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d'ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano. Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po' di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l'ha pagato suo padre. Vecchio stile. Eh sì, naturalmente. Comprato all'asta del governatore. Venduto al primo colpo. Tenace nel contrattare, il vecchio Tweedy. Sissignore. Fu a Plevna. Vengo dalla gavetta, signore, e ne sono fiero. Eppure aveva abbastanza cervello da far soldi coi francobolli. Questo si chiama esser previdenti.
La sua mano tolse il cappello dal piolo, sopra il suo cappotto pesante con le iniziali, e l'impermeabile usato comprato all'ufficio oggetti smarriti. Francobolli: figurine dal retro adesivo. Direi che un sacco d'ufficiali siano nel giro. Naturale. La scritta sudaticcia nell'interno del cappello gli disse muta: Plasto i migliori capp. Sbirciò rapido all'interno della banda di cuoio. Cartoncino bianco. Bene al sicuro.
mercoledì 14 giugno 2017
Verba volant (395): bullo...
Bullo, sost. m.
Le battute verso quel nostro compagno di classe più grasso e goffo degli altri, verso quella nostra compagna bruttina, erano una forma di bullismo? Credo di sì, anche se allora non eravamo ancora abituati a usare questa parola. E tutti ne siamo stati responsabili, perché, anche se non abbiamo mai fatto quelle battute, abbiamo ridacchiato ascoltandole, abbiamo ammirato chi le faceva, perché non ci siamo resi conto che ferivano quelle persone. D'altra parte da ragazzini si è particolarmente stupidi.
Certo allora non c'era la rete ad amplificare queste offese e la gran parte di esse son fortunatamente svanite nell'aria. Non ce ne ricordiamo più. Speriamo non le ricordino più neppure loro. E magari crescendo ci siamo innamorati di quella bambina bruttina, divenuta donna, e siamo diventati amici di quel bambino che, da grande, ci ha aiutato in un momento di difficoltà: per fortuna la vita è una cosa piuttosto complicata, che ci fa crescere.
Il fatto che abbiamo cominciato a parlare di bullismo ci ha fatto diventare tutti più consapevoli o è il segno che quel fenomeno è diventato più grave? Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni.
Mi ha colpito una notizia letta in questi giorni. Durante una trasmissione televisiva diverse persone hanno scritto in rete dei messaggi offensivi rivolti alla giovane donna che la conduceva, perché, a loro dire, troppo grassa, e quindi non "degna" di apparire in televisione. Immagino che queste frasi violentemente offensive abbiano ferito Vanessa Incontrada, ma credo anche che sia abbastanza forte per non curarsene, per dimenticarle con un'alzata di spalle. Ma cosa può succedere a una persona che non è altrettanto forte? Che non gode, in forza della propria fama, di una solidarietà diffusa, come è avvenuto in questo caso?
Come eravamo responsabili da bambini, anche se non eravamo noi i bulli, anche ora da adulti, anche se continuiamo a non essere i bulli, siamo in qualche modo responsabili. Lo siamo, anche se non sorridiamo più per quelli grevi battute - spero che questo almeno non lo facciamo - perché noi abbiamo fatto così questa società. Perché questi bulli digitali sono figli nostri e abbiamo insegnato loro a non rispettare le altre persone, a ridere dei difetti degli altri, o peggio ad approfittarsi di quei difetti. Quella ragazzina è più brutta di mia figlia? Bene, farà più fatica a trovare un lavoro e la mia bambina avrà più possibilità di lei. Quel ragazzo è più grasso di mio figlio? Bene, avrà meno opportunità di lui. L'egoismo si insegna anche se non si esplicita.
Siamo responsabili - e siamo noi i bulli - perché non abbiamo loro spiegato che non esiste quell'unico tipo di bellezza che ci viene raccontato dalla pubblicità. E non abbiamo loro insegnato che è una forma di violenza costringere le persone a essere per sempre giovani, per sempre magre, per sempre belle, e soprattutto che le persone non si giudicano per come ci appaiono, ma per quello che sono. Non basta provare a spiegare quanto possa far male essere vittima di queste offese né serve vietare loro di usare la rete. Serve qualcosa di più e di meglio; serve che anche noi cambiamo.
Le battute verso quel nostro compagno di classe più grasso e goffo degli altri, verso quella nostra compagna bruttina, erano una forma di bullismo? Credo di sì, anche se allora non eravamo ancora abituati a usare questa parola. E tutti ne siamo stati responsabili, perché, anche se non abbiamo mai fatto quelle battute, abbiamo ridacchiato ascoltandole, abbiamo ammirato chi le faceva, perché non ci siamo resi conto che ferivano quelle persone. D'altra parte da ragazzini si è particolarmente stupidi.
Certo allora non c'era la rete ad amplificare queste offese e la gran parte di esse son fortunatamente svanite nell'aria. Non ce ne ricordiamo più. Speriamo non le ricordino più neppure loro. E magari crescendo ci siamo innamorati di quella bambina bruttina, divenuta donna, e siamo diventati amici di quel bambino che, da grande, ci ha aiutato in un momento di difficoltà: per fortuna la vita è una cosa piuttosto complicata, che ci fa crescere.
Il fatto che abbiamo cominciato a parlare di bullismo ci ha fatto diventare tutti più consapevoli o è il segno che quel fenomeno è diventato più grave? Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni.
Mi ha colpito una notizia letta in questi giorni. Durante una trasmissione televisiva diverse persone hanno scritto in rete dei messaggi offensivi rivolti alla giovane donna che la conduceva, perché, a loro dire, troppo grassa, e quindi non "degna" di apparire in televisione. Immagino che queste frasi violentemente offensive abbiano ferito Vanessa Incontrada, ma credo anche che sia abbastanza forte per non curarsene, per dimenticarle con un'alzata di spalle. Ma cosa può succedere a una persona che non è altrettanto forte? Che non gode, in forza della propria fama, di una solidarietà diffusa, come è avvenuto in questo caso?
Come eravamo responsabili da bambini, anche se non eravamo noi i bulli, anche ora da adulti, anche se continuiamo a non essere i bulli, siamo in qualche modo responsabili. Lo siamo, anche se non sorridiamo più per quelli grevi battute - spero che questo almeno non lo facciamo - perché noi abbiamo fatto così questa società. Perché questi bulli digitali sono figli nostri e abbiamo insegnato loro a non rispettare le altre persone, a ridere dei difetti degli altri, o peggio ad approfittarsi di quei difetti. Quella ragazzina è più brutta di mia figlia? Bene, farà più fatica a trovare un lavoro e la mia bambina avrà più possibilità di lei. Quel ragazzo è più grasso di mio figlio? Bene, avrà meno opportunità di lui. L'egoismo si insegna anche se non si esplicita.
Siamo responsabili - e siamo noi i bulli - perché non abbiamo loro spiegato che non esiste quell'unico tipo di bellezza che ci viene raccontato dalla pubblicità. E non abbiamo loro insegnato che è una forma di violenza costringere le persone a essere per sempre giovani, per sempre magre, per sempre belle, e soprattutto che le persone non si giudicano per come ci appaiono, ma per quello che sono. Non basta provare a spiegare quanto possa far male essere vittima di queste offese né serve vietare loro di usare la rete. Serve qualcosa di più e di meglio; serve che anche noi cambiamo.
lunedì 12 giugno 2017
Verba volant (394): affluenza...
Affluenza, sost. f.
Sapete che non riesco proprio ad appassionarmi al tema della legge elettorale. Ho due sole richieste: che sia costituzionale dal punto di vista giuridico e comprensibile dal punto di vista sintattico e grammaticale. Mi pare che le ultime non avessero queste caratteristiche e anche quella di cui si va discutendo ora sia piuttosto oscura. Poi credo che il sistema proporzionale sia quello più aderente alle caratteristiche della nostra Costituzione, ma se i padri - e le madri - costituenti non lo definirono come elemento vincolante immagino siano possibili delle varianti.
Detto questo le recenti elezioni che ci sono state in giro per l'Europa testimoniano che non c'è sistema elettorale che tenga: quando manca la politica mancano i voti, anzi quando manca la politica le persone non vanno proprio a votare. E viceversa.
I soloni, quelli che sanno sempre tutto, prima delle elezioni nel Regno Unito ci hanno spiegato che l'affluenza sarebbe stata bassa, perché si trattava del quarto turno elettorale in due anni. Invece l'affluenza è sta alta, più alta che nelle elezioni precedenti, grazie soprattutto alla capacità del Labour di mobilitare nuove fasce di elettori, specialmente giovani, molti disillusi dalla politica e dalla sinistra. Non ci si stanca della democrazia, ci si stanca di votare per persone e partiti che non ci rappresentano, che non rispettano gli impegni. E proprio grazie a questi "nuovi" elettori il Labour di Corbyn ha sfiorato la vittoria, pur con un sistema elettorale - il maggioritario di collegio - che favorisce da sempre l'elettorato conservatore, perché dà un peso maggiore alle campagne rispetto alle città, perché favorisce piccoli potentati locali rispetto ai grandi partiti di massa. Eppure gli esperti di numeri hanno calcolato che con poco meno di tremila voti, distribuiti nei collegi in cui i candidati laburisti sono arrivati secondi per pochi voti, adesso Jeremy Corbyn, il socialista Jeremy Corbyn, il repubblicano Jeremy Corbyn, sederebbe a Downing street; naturalmente la storia non si fa con i se e il Labour ha perso, ma non era impossibile che vincesse, proprio perché tante persone sono andate a votare.
In Italia i giornali di regime inneggiano alla vittoria di Macron in Francia. Certo il giovane rampollo del finanzacapitalismo ha sbaragliato, in un sistema maggioritario a doppio turno, gli altri partiti, ma grazie a un'affluenza bassissima: un francese su due non è andato a votare. Chi non vota perde sempre ovviamente, ma se milioni di persone non hanno votato significa che non c'era nessuno capace di rappresentarli. Mi rendo conto che è una banalità, eppure la regola in democrazia è sempre questa, ed è di una semplicità disarmante.
Bassa affluenza è quasi un ossimoro - un po' come brutta calligrafia, perché questa parola significa già bella scrittura - infatti affluenza significa venire in folla, abbondare. Infatti quando il popolo vota in massa, allora vince, ma quando lascia che altri votino per lui, è destinato a perdere. Ma affinché voti occorre non tradirne la fiducia e far capire che quel voto serve. Questa è l'unica riforma elettorale di cui la sinistra - in Italia, in Europa, nel mondo - abbia bisogno.
Sapete che non riesco proprio ad appassionarmi al tema della legge elettorale. Ho due sole richieste: che sia costituzionale dal punto di vista giuridico e comprensibile dal punto di vista sintattico e grammaticale. Mi pare che le ultime non avessero queste caratteristiche e anche quella di cui si va discutendo ora sia piuttosto oscura. Poi credo che il sistema proporzionale sia quello più aderente alle caratteristiche della nostra Costituzione, ma se i padri - e le madri - costituenti non lo definirono come elemento vincolante immagino siano possibili delle varianti.
Detto questo le recenti elezioni che ci sono state in giro per l'Europa testimoniano che non c'è sistema elettorale che tenga: quando manca la politica mancano i voti, anzi quando manca la politica le persone non vanno proprio a votare. E viceversa.
I soloni, quelli che sanno sempre tutto, prima delle elezioni nel Regno Unito ci hanno spiegato che l'affluenza sarebbe stata bassa, perché si trattava del quarto turno elettorale in due anni. Invece l'affluenza è sta alta, più alta che nelle elezioni precedenti, grazie soprattutto alla capacità del Labour di mobilitare nuove fasce di elettori, specialmente giovani, molti disillusi dalla politica e dalla sinistra. Non ci si stanca della democrazia, ci si stanca di votare per persone e partiti che non ci rappresentano, che non rispettano gli impegni. E proprio grazie a questi "nuovi" elettori il Labour di Corbyn ha sfiorato la vittoria, pur con un sistema elettorale - il maggioritario di collegio - che favorisce da sempre l'elettorato conservatore, perché dà un peso maggiore alle campagne rispetto alle città, perché favorisce piccoli potentati locali rispetto ai grandi partiti di massa. Eppure gli esperti di numeri hanno calcolato che con poco meno di tremila voti, distribuiti nei collegi in cui i candidati laburisti sono arrivati secondi per pochi voti, adesso Jeremy Corbyn, il socialista Jeremy Corbyn, il repubblicano Jeremy Corbyn, sederebbe a Downing street; naturalmente la storia non si fa con i se e il Labour ha perso, ma non era impossibile che vincesse, proprio perché tante persone sono andate a votare.
In Italia i giornali di regime inneggiano alla vittoria di Macron in Francia. Certo il giovane rampollo del finanzacapitalismo ha sbaragliato, in un sistema maggioritario a doppio turno, gli altri partiti, ma grazie a un'affluenza bassissima: un francese su due non è andato a votare. Chi non vota perde sempre ovviamente, ma se milioni di persone non hanno votato significa che non c'era nessuno capace di rappresentarli. Mi rendo conto che è una banalità, eppure la regola in democrazia è sempre questa, ed è di una semplicità disarmante.
Bassa affluenza è quasi un ossimoro - un po' come brutta calligrafia, perché questa parola significa già bella scrittura - infatti affluenza significa venire in folla, abbondare. Infatti quando il popolo vota in massa, allora vince, ma quando lascia che altri votino per lui, è destinato a perdere. Ma affinché voti occorre non tradirne la fiducia e far capire che quel voto serve. Questa è l'unica riforma elettorale di cui la sinistra - in Italia, in Europa, nel mondo - abbia bisogno.
domenica 11 giugno 2017
Verba volant (393): perdere...
Perdere, v. tr.
Ci sono molte ragioni che rendono Enrico Berlinguer incomprensibile a noi, che abbiamo la sfortuna di diventare vecchi in questi tempi bui e soprattutto a chi non ha avuto l'opportunità di vivere, anche solo per qualche tempo, quegli anni. C'è prima di tutto la tenacia - che qualcuno adesso chiamerebbe ostinata - di definirsi comunista, in un mondo in cui il comunismo realizzato già mostrava tutti i suoi terribili limiti. Poi c'è il suo modo di parlare, di scrivere: non è facile leggere quello che scriveva Berlinguer o ascoltare i suoi comizi, perché amava i pensieri lunghi, perché occorre prestare attenzione ai suoi ragionamenti; ma forse un uomo così intelligente avrebbe imparato a scrivere anche nello spazio ristretto e claustrofobico dei 140 caratteri di un tweet e questi suoi pensieri sarebbero stati comunque "lunghi".
La cosa però davvero incomprensibile di Berlinguer, la cosa che lo rende assolutamente inattuale, è il fatto che ha sempre perso. Ovviamente so bene che viveva in un'epoca in cui poteva solo perdere, in cui il suo partito era destinato a rimanere all'opposizione. Anche lui sapeva che avrebbero fatto di tutto per impedirgli di vincere. E fecero di tutto. Compreso attentare alla sua vita, come avvenne in Bulgaria nel '73. Comprese le stragi di persone innocenti, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Però Enrico Berlinguer ci mise anche del suo per perdere, commise errori, sbagliò valutazioni: fu sconfitto anche per sue responsabilità. Eppure, nonostante continuasse a perdere, continuò a essere il leader di una comunità grande, continuò a essere stimato e amato, come testimonia quella grande manifestazione di popolo - l'ultima grande manifestazione di popolo di questo paese - che furono i suoi funerali, il 13 giugno 1984.
Perché per quella comunità di donne e di uomini vincere era certamente importante, ma non era tutto. O almeno non avrebbero sacrificato alla vittoria gli ideali di una vita.
Cosa ci è successo? Quando siamo così radicalmente cambiati? E' difficile dirlo, quando vivi una trasformazione storica per lo più non te ne rendi conto. Eppure pensate quanto siamo diversi da allora, se abbiamo potuto accettare che vincere fosse più importante di qualunque altra cosa. E un leader che non vince sparisce dalla scena. Persone che piansero - sinceramente, non ho motivo di dubitarne - per la morte di Berlinguer, hanno accettato renzi perché "con lui avremmo vinto". Quante volte abbiamo sentito questa frase e quante volte, più o meno inconsciamente, ancora la ripetiamo. Sentiamo come una ferita il fatto che il Labour di Jeremy Corbyn non abbia vinto le elezioni nel Regno Unito, perché ormai siamo convinti che ci sia un solo risultato possibile: vincere. Guardiamo con ansia alle prossime elezioni politiche nel nostro paese perché sappiamo che saremo sconfitti e questo significa in qualche modo non essere. La stessa ansia - pasticciata e affrettata - con cui pensiamo a come presentarci comunque alle elezioni, con uno schieramento il più largo possibile, indipendentemente dalle cose che pensiamo - è figlia di questo bisogno spasmodico di vincere.
Enrico Berlinguer è per molti aspetti un uomo del suo tempo - ogni grande politico lo è - ma credo che alla fine ancora oggi ci insegni, tra le altre cose, anche questo: che vincere non è più importante che rimanere fedeli alle proprie idee e soprattutto che vincere non può farci dimenticare di cambiare il mondo.
giovedì 8 giugno 2017
da "La maschera dell'anarchia" di Percy Bysshe Shelley
Che cos’è la Libertà?
…potete dire ugualmente che cos’è la schiavitù…
Poiché il suo vero nome è cresciuto
fino ad un eco di voi stessi.
E’ lavorare e avere una paga tale
appena da menare la vita
giorno per giorno nelle vostre dimore,
come in una cella
per lasciare gli agi ai tiranni,
cosicché per loro voi vi riducete
telaio e aratro e spada e vanga
volenti o nolenti curvi
alla loro difesa e nutrimento.
E’ vedere i vostri figli gracili
con le loro madri languenti e sofferenti,
quando i venti invernali sono lugubri…
Essi stanno morendo mentre io parlo.
E’ bramare un pasto
quale il ricco nella sua gozzoviglia
getta ai cani che stanno rimpinzandosi sotto il suo sguardo.
E’ lasciare che lo Spettro dell’Oro
prenda dal Lavoro mille volte
più di quanto mai potè la sua ricchezza
nella tirannidi d’un tempo.
La carta moneta, questa contraffazione dei titoli di proprietà,
cui voi attribuite qualcosa del valore
dell’eredità della Terra
è sentirsi schiavi dentro
e non avere fermo controllo sul vostro volere,
ma essere come altri vi rendono.
E infine quando vi lagnate
con un borbottio debole e vano
è vedere la ciurma del Tiranno
schiacciare a cavallo le vostre spose e voi…
Il sangue ammanta l’erba come rugiada.
Allora è provare spirito di vendetta
ferocemente desiderando scambiare
sangue con sangue e torto con torto:
non fate questo se siete forti.
Questa è schiavitù. Uomini selvaggi,
oppure belve selvatiche dentro una tana
non avrebbero sopportato quanto voi.
Ma tali avversità quelli non conobbero mai.
Che cosa sei tu, Libertà?
Oh, potessero gli schiavi
rispondere dalle tombe in cui vivono
a questa domanda!
I tiranni fuggirebbero come vaghe immagini di sogno:
si faccia una grande Adunanza
degli intrepidi e dei liberi
da qualche parte su suolo inglese
dove le pianura si stendono ampie tutt’attorno.
Il cielo azzurro in alto,
la terra verde su cui camminate,
tutto ciò che è eterno
testimoni la solennità.
Voi che soffrite pene indicibili,
perché sentite o vedete
il vostro misero paese comprato o venduto
e pagato con sangue e oro…
Fate una vasta adunata,
che con grande solennità
dichiari con parole acconce che voi
siete, come Dio vi ha fatti, liberi.
E queste parole allora diverranno
come la tonante sorte dell’Oppressione
che rintocca in ogni cuore e cervello,
ancora…ancora…ancora.
Levatevi come leoni dopo il torpore
in numero invincibile,
fate cadere le vostre catene a terra
come rugiada che nel sonno sia scesa su di voi.
Voi siete molti, essi sono pochi.
…potete dire ugualmente che cos’è la schiavitù…
Poiché il suo vero nome è cresciuto
fino ad un eco di voi stessi.
E’ lavorare e avere una paga tale
appena da menare la vita
giorno per giorno nelle vostre dimore,
come in una cella
per lasciare gli agi ai tiranni,
cosicché per loro voi vi riducete
telaio e aratro e spada e vanga
volenti o nolenti curvi
alla loro difesa e nutrimento.
E’ vedere i vostri figli gracili
con le loro madri languenti e sofferenti,
quando i venti invernali sono lugubri…
Essi stanno morendo mentre io parlo.
E’ bramare un pasto
quale il ricco nella sua gozzoviglia
getta ai cani che stanno rimpinzandosi sotto il suo sguardo.
E’ lasciare che lo Spettro dell’Oro
prenda dal Lavoro mille volte
più di quanto mai potè la sua ricchezza
nella tirannidi d’un tempo.
La carta moneta, questa contraffazione dei titoli di proprietà,
cui voi attribuite qualcosa del valore
dell’eredità della Terra
è sentirsi schiavi dentro
e non avere fermo controllo sul vostro volere,
ma essere come altri vi rendono.
E infine quando vi lagnate
con un borbottio debole e vano
è vedere la ciurma del Tiranno
schiacciare a cavallo le vostre spose e voi…
Il sangue ammanta l’erba come rugiada.
Allora è provare spirito di vendetta
ferocemente desiderando scambiare
sangue con sangue e torto con torto:
non fate questo se siete forti.
Questa è schiavitù. Uomini selvaggi,
oppure belve selvatiche dentro una tana
non avrebbero sopportato quanto voi.
Ma tali avversità quelli non conobbero mai.
Che cosa sei tu, Libertà?
Oh, potessero gli schiavi
rispondere dalle tombe in cui vivono
a questa domanda!
I tiranni fuggirebbero come vaghe immagini di sogno:
si faccia una grande Adunanza
degli intrepidi e dei liberi
da qualche parte su suolo inglese
dove le pianura si stendono ampie tutt’attorno.
Il cielo azzurro in alto,
la terra verde su cui camminate,
tutto ciò che è eterno
testimoni la solennità.
Voi che soffrite pene indicibili,
perché sentite o vedete
il vostro misero paese comprato o venduto
e pagato con sangue e oro…
Fate una vasta adunata,
che con grande solennità
dichiari con parole acconce che voi
siete, come Dio vi ha fatti, liberi.
E queste parole allora diverranno
come la tonante sorte dell’Oppressione
che rintocca in ogni cuore e cervello,
ancora…ancora…ancora.
Levatevi come leoni dopo il torpore
in numero invincibile,
fate cadere le vostre catene a terra
come rugiada che nel sonno sia scesa su di voi.
Voi siete molti, essi sono pochi.
da "Canto general" di Pablo Neruda
Nostra terra, vasta terra,
solitudini,
si popolò di voci, braccia, bocche.
Una silenziosa sillaba ardeva
aggregando la rosa clandestina,
fino a che le praterie trepidarono
coperte di metalli e di galoppi.
Fu dura la verità come un aratro
Spezzò la terra, stabilì il desiderio,
affondò le sue propagande germinali
e nacque nella segreta primavera.
Fu ridotto al silenzio il suo fiore, fu rifiutata
la sua riunione di luce, fu combattuto
il lievito collettivo, il bacio
delle bandiere nascoste,
però si sollevò abbattendo le pareti
allontanando le carceri dal suolo.
Il popolo oscuro fu il suo calice,
ricevette la sostanza rifiutata,
la propagò nei limiti marini,
la pestò in mortai indomabili.
E uscì con le pagine ammaccate
e con la primavera sul cammino.
Ora di ieri, ora di mezzogiorno,
ora di oggi ancora, ora attesa
tra il minuto morto e quello che nasce,
nella irta età della menzogna.
Patria, nascesti dai taglialegna,
da figli senza battesimo, da falegnami,
da coloro che dettero come un uccello
strano
una goccia di sangue volante,
e oggi nascerai di nuovo duramente
da dove il traditore e il carceriere
ti credono per sempre seppellita.
Oggi nascerai dal popolo come allora.
Oggi uscirai dal carbone e dalla rugiada.
Oggi arriverai a scuotere le porte
con mani maltrattate, con pezzi
di anima sopravvissuta, con grappoli
di sguardi che la morte non estinse,
con attrezzi scontrosi
armati sotto gli stracci.
martedì 6 giugno 2017
Verba volant (392): resa...
Resa, sost. f.
Ci sono molte buone ragioni, di natura etica e giuridica. a sostegno della sentenza della Cassazione in cui si stabilisce il principio che una persona in gravissime condizioni di salute, prossima alla morte, possa essere scarcerata, anche se i crimini che ha commesso sono terribili e inemendabili. E' naturale e legittimo che le vittime di quei delitti siano contrarie a un tale provvedimento di clemenza, ma in uno stato di diritto non possono essere le vittime e le loro famiglie a determinare la natura della pena: per questa stessa ragione non ha senso il ragionamento che Totò Riina non ha mai mostrato alcuna pietà verso le sue vittime. Anzi una collettività si dimostra tanto più forte quanto più sa dosare la propria capacità di punire.
Nel caso specifico però ci sono solide ragioni politiche che dovrebbero far desistere da questo proposito, ragioni politiche che credo dovrebbero prevalere su quelle di carattere giuridico. E dovrebbe essere la politica a prendere una decisione in tal senso, non demandandola ai giudici, che possono solo applicare le leggi e i principi giuridici che le ispirano.
Totò Riina non è soltanto un malvivente che ha commesso molti delitti e su cui pesano molti ergastoli, ma è stato il capo di un'organizzazione eversiva in guerra contro le istituzioni democratiche del nostro paese. E in uno stato di guerra ci sono regole diverse, che ci piacciano o meno. Naturalmente anche verso i prigionieri di guerra si possono lanciare segnali di clemenza, quando questi sono stati sconfitti, e quando questi atti di generosità, e di forza, servono a segnare uno spartiacque tra un prima e un dopo. Giulio Cesare piange davanti alla testa mozzata di Pompeo che gli uomini del faraone gli recano in dono; se lo può permettere perché ormai Pompeo è stato sconfitto e con lui la "vecchia" Roma repubblicana.
Non è il caso di cui stiamo parlando. Totò Riina non è il vecchio capo degli sconfitti, per quanto crudele, per quanto sanguinario, verso cui potremmo dare un segno di forza liberandolo. E' il capo di quelli contro cui stiamo ancora combattendo, che hanno nuovi capi, ancora più crudeli, ancora più sanguinari. Anzi è stato il capo di quelli che stanno vincendo; purtroppo. E se stai per perdere non puoi permetterti il lusso della clemenza, non puoi dare loro ulteriori vantaggi. Lasciare libero uno come Riina, per quanto in agonia, per quanto non più riconosciuto come un capo - anche se su questo credo sia giusto nutrire qualche dubbio - rischia di apparire un ulteriore segnale di resa. E in questo paese già troppe volte ci siamo arresi a queste forze eversive, abbiamo creduto di poterle usare - mentre sono sempre state loro a usare noi - le abbiamo considerate, a seconda delle fasi storiche e delle convenienze politiche, come interlocutori. E quindi si sono fatte forti di queste nostre paure, di queste nostre furberie, di questi nostri continui raggiri.
In uno stato di guerra occorre garantire che i prigionieri ottengano le migliori cure possibili e di questo lo stato deve farsi assolutamente garante. Permettere a Totò Riina di uscire dal carcere, anche solo per morire, anche se giustificato da nobili intenzioni, anche se perfettamente legale e perfino eticamente giusto, sarebbe una sconfitta. L'ennesima.
Ci sono molte buone ragioni, di natura etica e giuridica. a sostegno della sentenza della Cassazione in cui si stabilisce il principio che una persona in gravissime condizioni di salute, prossima alla morte, possa essere scarcerata, anche se i crimini che ha commesso sono terribili e inemendabili. E' naturale e legittimo che le vittime di quei delitti siano contrarie a un tale provvedimento di clemenza, ma in uno stato di diritto non possono essere le vittime e le loro famiglie a determinare la natura della pena: per questa stessa ragione non ha senso il ragionamento che Totò Riina non ha mai mostrato alcuna pietà verso le sue vittime. Anzi una collettività si dimostra tanto più forte quanto più sa dosare la propria capacità di punire.
Nel caso specifico però ci sono solide ragioni politiche che dovrebbero far desistere da questo proposito, ragioni politiche che credo dovrebbero prevalere su quelle di carattere giuridico. E dovrebbe essere la politica a prendere una decisione in tal senso, non demandandola ai giudici, che possono solo applicare le leggi e i principi giuridici che le ispirano.
Totò Riina non è soltanto un malvivente che ha commesso molti delitti e su cui pesano molti ergastoli, ma è stato il capo di un'organizzazione eversiva in guerra contro le istituzioni democratiche del nostro paese. E in uno stato di guerra ci sono regole diverse, che ci piacciano o meno. Naturalmente anche verso i prigionieri di guerra si possono lanciare segnali di clemenza, quando questi sono stati sconfitti, e quando questi atti di generosità, e di forza, servono a segnare uno spartiacque tra un prima e un dopo. Giulio Cesare piange davanti alla testa mozzata di Pompeo che gli uomini del faraone gli recano in dono; se lo può permettere perché ormai Pompeo è stato sconfitto e con lui la "vecchia" Roma repubblicana.
Non è il caso di cui stiamo parlando. Totò Riina non è il vecchio capo degli sconfitti, per quanto crudele, per quanto sanguinario, verso cui potremmo dare un segno di forza liberandolo. E' il capo di quelli contro cui stiamo ancora combattendo, che hanno nuovi capi, ancora più crudeli, ancora più sanguinari. Anzi è stato il capo di quelli che stanno vincendo; purtroppo. E se stai per perdere non puoi permetterti il lusso della clemenza, non puoi dare loro ulteriori vantaggi. Lasciare libero uno come Riina, per quanto in agonia, per quanto non più riconosciuto come un capo - anche se su questo credo sia giusto nutrire qualche dubbio - rischia di apparire un ulteriore segnale di resa. E in questo paese già troppe volte ci siamo arresi a queste forze eversive, abbiamo creduto di poterle usare - mentre sono sempre state loro a usare noi - le abbiamo considerate, a seconda delle fasi storiche e delle convenienze politiche, come interlocutori. E quindi si sono fatte forti di queste nostre paure, di queste nostre furberie, di questi nostri continui raggiri.
In uno stato di guerra occorre garantire che i prigionieri ottengano le migliori cure possibili e di questo lo stato deve farsi assolutamente garante. Permettere a Totò Riina di uscire dal carcere, anche solo per morire, anche se giustificato da nobili intenzioni, anche se perfettamente legale e perfino eticamente giusto, sarebbe una sconfitta. L'ennesima.
lunedì 5 giugno 2017
Verba volant (391): parmigiano...
Parmigiano, agg. m.
E' un po' paradossale la vicenda politica di Federico Pizzarotti. Cinque anni fa è diventato sindaco di Parma perché era il candidato del Movimento Cinque stelle, ossia di una forza politica che si poneva in radicale alternativa ai partiti, considerati tutti - a ragione - responsabili dello sfacelo a cui era giunta l'amministrazione di quella città, quindi ha vinto perché in qualche modo "senza partito". In seguito è stato cacciato dal Movimento perché ha chiesto, con un'ostinazione che gli è stata fatale, che il Movimento si organizzasse come un partito, addirittura ha chiesto un congresso. Ossia Pizzarotti ha violato l'unico vero dogma di quel movimento, saldamente difeso dalla casta sacerdotale della Casaleggio Associati. E' impossibile violare la "linea" del partito, dal momento che una linea non esiste, è impossibile violare le regole, che, anche quando ci sono - come nel caso di cosa fare quando qualcuno è sotto indagine - sono sempre interpretabili a seconda del momento, ma non si può assolutamente chiedere che le decisioni vengano prese in modo democratico, attraverso un confronto politico, come ad esempio si potrebbe fare in un partito. Come qualcuno di noi si ricorda si faceva una volta.
Domenica Pizzarotti arriverà quasi certamente al ballottaggio e probabilmente lo vincerà, perché non è più il candidato del Movimento Cinque stelle, considerato ormai un partito tra i partiti, in sostanza perché anche questa volta è un candidato "senza partito". Secondo me, è stato anche un discreto sindaco, che ha fatto quello che poteva fare nella condizione data e nella situazione drammatica in cui sono costretti a operare gli amministratori locali in questa fase ipercentralista, ma certamente la possibilità di presentarsi senza l'ingombrante simbolo a Cinque stelle gli gioverà, credo in maniera determinante. Anche perché il suo unico vero sfidante - ossia quello che presumibilmente arriverà con lui al ballottaggio - è Paolo Scarpa, un altro "senza partito", che ha vinto le primarie del pd sconfiggendo il candidato sostenuto dai maggiorenti locali, se è lecito usare questa espressione per le mezze e tristi figure a cui mi riferisco. Il partito mal nato ha ovviamente fatto buon viso a cattivo gioco e ora sostiene abbastanza convintamente l'unico candidato che ha una qualche possibilità di sconfiggere Pizzarotti, perché è di Parma e perché, nonostante sia stato uno dei fondatori dell'Ulivo in città, non è iscritto al pd. Ovviamente a nessuno importa nulla dei programmi, tutti ugualmente generici, tutti ugualmente pieni di buoni propositi, tutti sostanzialmente disattesi una volta che il candidato che li ha stilati verrà eletto, perché di fatto impossibilitato a svolgere il proprio ruolo. Personalmente, vivessi a Parma, voterei Pizzarotti, al 50% perché ne sono convinto e per l'altra metà perché non voglio votare come quelli del pd: non esattamente un nobile obiettivo.
Il resto dei candidati è fuori concorso: quella della Lega, che riunisce un centrodestra che a Parma ha perso ogni opportunità di essere in gara - anche perché il suo elettorato di riferimento è ormai migrato da altre parti - corre per il terzo posto e poi c'è una eterogenea schiera di candidati di bandiera, tra cui anche quello "ufficiale" del Movimento Cinque stelle, portato in braccio dal bolognese Bugani; un errore madornale, visto che i cittadini della petite capitale hanno sempre guardato a noi provinciali bolognesi con non nascosto senso di superiorità. Sentimento peraltro ricambiato, tanto che i bolognesi dicevano di preferire Wagner pur di non rendere omaggio al genio di Verdi.
Quindi il prossimo sindaco di Parma sarà, ancora una volta, un "senza partito". Ovviamente nessuno lo è, neppure il povero Ubaldi che nel 1998 iniziò la stagione dei sindaci "civici". Ma piace far finta che sia così e vincerà chi meglio degli altri riuscirà a farlo credere.
La vicenda della città emiliana, pur nella sua peculiarità a cui i cittadini parmigiani sono così testardamente attaccati, racconta bene la crisi del nostro paese. Perché a fronte di una politica sempre più debole, volutamente resa sempre più debole, altri continueranno a governare davvero questa città, a governarla male come hanno fatto in questi vent'anni. E soprattutto continuerà a succhiare sangue dalla città; in questi anni, dal crac Parmalat dell'inizio del Duemila alla storia recentissima delle tangenti della sanità per cui si è dimesso il rettore, la città è stata via via sommersa da scandali in cui la cosiddetta società civile ha sempre fatto peggior figura della politica. Se Parma è così è colpa di industriali, magistrati, giornalisti, notabili e presunti tali, dame e presunte tali, che l'hanno resa così. Per spazzare via questa feccia ci vorrebbe la politica, invece vogliamo continuare a votare per un "senza partito".
sabato 3 giugno 2017
da "Il piacere dell'onestà" (atto I, scena VIII) di Luigi Pirandello
Baldovino (seduto, s'insella le lenti su la punta del naso e, reclinando indietro il capo)
Le chiedo, prima di tutto, una grazia.
Fabio
Dica, dica...
Baldovino
Signor marchese, che mi parli aperto.
Fabio Ah, sì, sì... Anzi, non chiedo di meglio.
Baldovino
Grazie. Lei forse però non intende questa espressione "aperto", come la intendo io.
Fabio
Ma... non so... aperto... con tutta franchezza... (e poiché Baldovino, con un dito, fa cenno di no) ... e come, allora?
Baldovino
Non basta. Ecco, veda, signor marchese: inevitabilmente, noi ci costruiamo. Mi spiego. Io entro qua, e divento subito, di fronte a lei, quello che devo essere, quello che posso essere - mi costruisco - cioè, me le presento in una forma adatta alla relazione che debbo contrarre con lei. E lo stesso fa di se anche lei che mi riceve. Ma, in fondo, dentro queste costruzioni nostre messe cosi di fronte, dietro le gelosie e le imposte, restano poi ben nascosti i pensieri nostri più segreti, i nostri più intimi sentimenti, tutto ciò che siamo per noi stessi, fuori delle relazioni che vogliamo stabilire. Mi sono spiegato?
Fabio
Si, si, benissimo... Ah, benissimo! Mio cugino mi ha detto che lei è molto intelligente.
Baldovino
Ecco, lei forse crede, adesso, che io abbia voluto darle un saggio della mia intelligenza.
Fabio
No, no... dicevo, perché... approvo, approvo ciò che lei ha saputo dire così bene.
Baldovino
Comincio io, allora, se permette, a parlare aperto. Provo da un pezzo, signor marchese, dentro, un disgusto indicibile delle abiette costruzioni di me, che debbo mandare avanti nelle relazioni che mi vedo costretto a contrarre coi miei... diciamo simili, se lei non s'offende.
Fabio
No, prego... dica, dica pure...
Baldovino
Io mi vedo, mi vedo di continuo, signor marchese; e dico: - Ma quanto è vile, ma com'è indegno questo che tu ora stai facendo!
Fabio (sconcertato, imbarazzato)
Oh Dio... ma no... perché?
Baldovino
Perché sì, scusi. Lei, tutt'al più, potrebbe domandarmi perché allora lo faccio? Ma perché... molto per colpa mia, molto anche per colpa d'altri, e ora, per necessità di cose, non posso fare altrimenti. Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto. Tutto sta, poi, se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione. Vada a persuader l'asino a non andare rasente ai precipizii: si piglia nerbate, cinghiate, strattoni; ma va lì, perché non ne può far di meno. E dopo che lei l'ha bastonata, pestata ben bene, le guardi un po' gli occhi addogliati: scusi, non ne sente pietà? Dico pietà. non scusarla! L'intelligenza che scusi la bestia, s'imbestialisce , anch'essa. Ma averne pietà è un'altra cosa! Non le pare?
Fabio
Ah, certo... certo. Vogliamo dunque venire a noi?
Baldovino
Ci siamo, signor marchese. Le ho detto questo, per farle intendere che, avendo il sentimento di quel che faccio, ho anche una certa dignità che mi preme di salvare. Non c'è altro mezzo di salvarla, che parlando aperto. Fingere, sarebbe orribile, oltre che laido, volgarissimo. La verità!
Fabio
Ecco, sì... chiaramente... vedremo d'intenderci...
Baldovino
E, allora, se permette, domanderò.
Fabio
Come dice?
Baldovino
Le farò qualche domanda, se permette.
Fabio
Ah, sì, domandi pure.
Baldovino
Ecco (trae di tasca un taccuino). Ho qua gli estremi della situazione. Dovendo fare una cosa seria. Meglio per lei, meglio per me. (apre il taccuino e lo sfoglia: intanto, comincia a domandare, con l'aria d'un giudice non severo) Lei, signor marchese, è l'amante della signorina...
Fabio (scattando per troncare subito quella domanda e quella ricerca nel taccuino)
Ma no! scusi... così...
Baldovino (calmo, sorridente)
Vede? Lei recalcitra fin dalla prima domanda!
Fabio
Ma certo! Perché...
Baldovino (subito, severo)
Non è vero? Dice che non è vero? E allora (si alza) mi scusi, signor marchese. Le ho detto che ho la mia dignità. Non potrei prestarmi a una trista e umiliante commedia.
Fabio
Ma come! Io credo che, anzi, così come vuol far lei...
Baldovino
S'inganna. La mia dignità - quella che può essere - posso salvarla solamente a patto che lei parli con me come con la sua stessa coscienza. O cosi, signor marchese, o non ne facciamo niente. Non mi presto a finzioni indecorose. La verità. Mi vuol rispondere?
Fabio
Ebbene... sì... Ma non cerchi in codesto taccuino, per carità. Lei vuole alludere alla signorina Agata Renni?
Baldovino (non transigendo, seguita a cercare; trova; ripete).
Agata Renni, precisamente. Ventisette anni?
Fabio
Ventisei.
Baldovino (guarda nel taccuino)
Compiti il nove del mese scorso: dunque, nel ventisettesimo. E... (guarda di nuovo nel taccuino) ci sarebbe una mamma?
Fabio
Ma scusi!
Baldovino
E' scrupolo, creda, nient'altro che scrupolo da parte mia; affidamento per lei. Mi troverà sempre cosi preciso, signor marchese.
Fabio
Ebbene, si, c'è la madre.
Baldovino
Quanti anni, scusi?
Fabio
Ma... non so... ne avrà cinquantuno... cinquantadue...
Baldovino
Soltanto? Ecco, perché... dico francamente: sarebbe meglio che non ci fosse. La madre è una costruzione irriducibile. Ma sapevo che c'era. Dunque, abbondiamo un poco... diciamo cinquantatré. Lei, signor marchese, avrà su per giù l’età mia... Io sono sciupato. Ne mostro di più. Ne ho quarantuno.
Fabio
Oh, ne ho di più io, allora. Quarantatré.
Baldovino
Ah, mi congratulo: li porta meravigliosamente. Sa? Forse anch'io, rimettendomi un poco... Quarantatré, dunque. Ora, scusi, debbo toccare un altro tasto molto delicato.
Fabio
Mia moglie?
Baldovino
Ne è separato. Per torti... lo so, lei è un perfetto gentiluomo e chi non è capace di farne, è destinato a riceverne. Per torti, dunque, della moglie. E ha trovato qua una consolazione. Ma la vita - trista usuraja - si fa pagare quell'uno di bene che concede, con cento di noje e di dispiaceri.
Fabio
Purtroppo!
Baldovino
Eh, l'avrei a sapere! Bisogna che ella sconti la sua consolazione, signor marchese! Ha davanti l’ombra minacciosa d'un protesto senza dilazione. Vengo io a mettere una firma d'avallo, e ad assumermi di pagare la sua cambiale. Non può credere, signor marchese, quanto piacere mi faccia questa vendetta che posso prendermi contro la società che nega ogni credito alla mia firma. Imporre questa mia firma. Dire: - Ecco qua: uno ha preso alla vita quel che non doveva e ora pago io per lui, perché se io non pagassi, qua un'onestà fallirebbe, qua l'onore d'una famiglia farebbe bancarotta; signor marchese, è per me una bella soddisfazione: una rivincita! Creda che non lo faccio per altro. Lei ne dubita? Ne ha tutto il diritto. perché io sono... - mi permette un paragone?
Fabio
Ma si, dica, dica...
Baldovino (seguitando)
... Come uno che venga a mettere in circolazione oro sonante in un paese che non conosca altro che moneta di carta. Subito si diffida dell'oro; è naturale. Lei ha certo la tentazione di rifiutarlo: no? Ma è oro, stia sicuro, signor marchese. Non ho potuto sperperarlo, perché l'ho nell'anima e non nelle tasche. Altrimenti!
Fabio
Ecco, bene! E allora, questo. Benissimo! Io non vado cercando altro, signor Baldovino. L'onestà! la bontà dei sentimenti!
Baldovino
Ho anche i ricordi della mia famiglia... Mi è potuto costare di sacrifizii d'amor proprio, d'amarezze senza fine, di ribrezzo, di schifo... - essere disonesto. Che vuole che mi costi l'onestà? Lei m'invita... sì, dico, doppiamente a nozze. Sposerò per finta una donna; ma sul serio, io sposo l'onestà.
Fabio
Ecco, si, e basta! Mi basta questo!
Baldovino
Basta? Le pare che le basti? Scusi, signor marchese; e le conseguenze?
Fabio
Come? Non capisco.
Baldovino
Eh. vedo che lei... - certamente perché soffre davanti a me e fa a se stesso una grande violenza per resistere a questa situazione penosa, pure d'uscirne, tratta con molta leggerezza la cosa.
Fabio
No, no: tutt'altro! Come, con leggerezza?
Baldovino
Permette? La mia onestà, signor marchese, dev'essere o non dev'essere?
Fabio
Ma sì che dev'essere! E’ l'unica condizione che le pongo!
Baldovino
Benissimo. Nei miei sentimenti, nella mia volontà, in tutti i miei atti. C'è. Me la sento. La voglio. La dimostrerò. Ebbene?
Fabio
Che ebbene? Le ho detto che mi basta questo!
Baldovino
Ma le conseguenze, signor marchese, scusi! Guardi: l'onestà, così come lei la vuole da me che cos'è? Ci pensi un po'. Niente. Un'astrazione. Una pura forma. Diciamo: l'assoluto. Ora scusi, se io devo essere cosi onesto, bisognerà pure che io la viva - per cosi dire - quest'astrazione; che dia corpo a questa pura forma; che io senta quest'onestà astratta e assoluta. E quali saranno allora le conseguenze? Ma prima di tutte, questa, guardi: che io dovrò essere un tiranno.
Fabio
Un tiranno?
Baldovino
Per forza! Senza volerlo! Per ciò che riguarda, la pura forma, intendiamoci! - Il resto non m'appartiene. Ma per la pura forma, onesto come lei mi vuole e come io mi voglio - di necessità dovrò essere un tiranno glielo avverto. Vorrò rispettate fino allo scrupolo tutte le apparenze, il che di necessità importerà gravissimi sacrifizii a lei, alla signorina, alla mamma; un'angustiosissima limitazione di libertà, il rispetto a tutte le forme astratte della vita sociale. E... parliamoci chiaro, signor marchese, anche per farle vedere che sono animato del più fermo proposito, sa che verrà fuori subito, da tutto questo? Ciò che s'imporrà tra noi e salterà agli occhi di tutti? Che, trattando con me - non si faccia illusioni - onesto com'io sarò, la cattiva azione la commettono loro, non io! Io, in tutta questa combinazione non bella, non vedo che una cosa sola: la possibilità che loro mi fanno - e che io accetto - d'essere onesto.
Fabio
Ecco... caro signore... capirà... - già lei stesso l'ha detto - non... non mi trovo in condizione di seguirla bene, in questo momento... Lei parla meravigliosamente; ma tocchiamo terra, per carità!
Baldovino
Io? terra? Non posso!
Fabio
Come non può, scusi? Che vuol dire?
Baldovino
Non posso, per la condizione stessa in cui lei mi mette, signor marchese! Io devo vagare per forza nell'astratto. Guai se toccassi terra! La realtà non è per me: se la riserba lei. La tocchi lei. Parli: io starò ad ascoltarla. Sarò l'intelligenza che non scusa, ma compatisce.
Fabio (subito, additando se stesso)
La bestia?
Baldovino
Scusi: conseguenza!
Fabio
Ma si! Ma si! Ha ragione! E’ proprio così! Dunque, parlo io, parla la bestia: terra terra, alla buona, sa? Lei ascolti e patisca. Proprio per intenderci...
Baldovino
Dice per me?
Fabio
Con lei, ma si! Con chi dunque?
Baldovino
No, signor marchese! Con se stesso bisogna che lei s'intenda. Io, per me, ho già bell'e inteso tutto. Ho parlato tanto - non soglio mica parlare molto io, sa? - ho parlato perché vorrei che lei si facesse capace di tutto, bene.
Fabio
Io?
Baldovino
Lei, lei. Per me, già ci sono. E’ facilissimo. Che debbo fare io? Nulla. Rappresento la forma. L'azione - e non bella - la commette lei: l'ha già commessa, e io gliela riparo; seguiterà a commetterla, e io la nasconderò. Ma per nasconderla bene, nel suo stesso interesse e nell'interesse sopratutto della signorina, bisogna che lei mi rispetti; e non le sarà facile nella parte che si vuol riserbare! Rispetti, dico, non propriamente me, ma la forma, la forma che io rappresento, l'onesto marito d'una signora perbene. Non la vuol rispettare?
Fabio
Ma sì, certo!
Baldovino
E non comprende che sarà tanto più rigorosa e tiranna, questa forma, quanto più pura lei vorrà che sia la mia onestà? Perciò le dicevo di badare alle conseguenze. Non per me, per lei! Io, guardi: ho buone lenti per la mia filosofia. E per salvare, in queste condizioni, la mia dignità, mi basterà vedere nella donna che di nome sarà mia, una madre.
Fabio
Ecco, già... benissimo!
Baldovino
E concepire i miei rapporti con lei a traverso la creaturina che verrà, cioè, a traverso l'ufficio che mi toccherà d'adempiere: candido, nobilissimo ufficio, tutto compreso dell'innocenza del nascituro o della nascitura, che sarà. Va bene così?
Fabio
Benissimo, sì sì, benissimo!
Baldovino
Per me, badi, non per lei benissimo! Lei, signor marchese, più approva e più va incontro a un mondo di guaj!
Fabio
Come... perché, scusi? Io non vedo tutte codeste difficoltà che vede lei!
Baldovino
Credo mio obbligo fargliele vedere, signor marchese. Lei è un gentiluomo. Necessità di cose, di condizioni, la costringono a non agire onestamente. Ma lei non può fare a meno dell'onestà! Tanto vero che, non potendo trovarla in ciò che fa, la vuole in me. Devo rappresentarla io, la sua onestà: esser cioè, l'onesto marito devo rappresentarla io, la sua onestà: esser cioè, l'onesto marito d'una donna, che non può essere sua moglie; l'onesto padre d'un nascituro, che non può essere suo figlio. E’ vero questo?
Fabio
Sì, si, è vero.
Baldovino
Ma se la donna è sua, e non mia; se il figliolo è suo, e non mio, non capisce che non basterà che sia onesto soltanto io? Dovrà essere onesto anche lei, signor marchese, davanti a me. Per forza! Onesto io, onesti tutti. Per forza!
Fabio
Come come ? Non capisco! Aspetti...
Baldovino
Lei si sente mancare il terreno sotto i piedi.
Fabio
Ma no, dico... se debbono mutare le condizioni...
Baldovino
Per forza! Le muta lei! Queste apparenze da salvare, signor marchese, non sono soltanto per gli altri! Ce ne sarà una, qua, anche per voi! Una che voi stessi avrete voluta e a cui io appunto dovrei dar corpo: la vostra onestà. Ci pensa lei? Badi che non è facile!
Fabio
Ma se lei sa!
Baldovino
Appunto perché so! Parlo contro il mio interesse; ma non posso farne a meno. La consiglio di rifletter bene, signor marchese!
(Pausa. Fabio si alza e si mette a passeggiare concitatamente, costernato. Si alza anche Baldovino e aspetta)
Fabio (passeggiando)
Certo che... comprenderà che... se io...
Baldovino
Ma sì, creda, sarà bene che lei ci rifletta ancora un poco, su quanto le ho detto, e lo riferisca - se crede - anche alla signorina. (guarda appena verso l'uscio a destra) Forse non ce ne sarà bisogno, perché...
Fabio (voltandosi di scatto, con ira)
Che cosa crede?
Baldovino (calmissimo, triste)
Oh... sarebbe in fondo naturalissimo. Io mi ritiro. Mi comunicherà, o mi farà comunicare all'albergo le sue decisioni. (fa per avviarsi; si volta). Può contare intanto, signor marchese, insieme con la signorina, su la mia intera discrezione.
Fabio
Ci conto.
Baldovino (lento, grave)
Sono carico, per conto mio, di ben altre colpe; e qui, per me, non c'è colpa, ma solo una sventura. Qualunque sia la decisione, sappia che resterò sempre gratissimo - in segreto - al mio antico compagno di collegio, d'avermi stimato degno d'accostarmi onestamente a questa sventura. (si inchina). Signor marchese...
Le chiedo, prima di tutto, una grazia.
Fabio
Dica, dica...
Baldovino
Signor marchese, che mi parli aperto.
Fabio Ah, sì, sì... Anzi, non chiedo di meglio.
Baldovino
Grazie. Lei forse però non intende questa espressione "aperto", come la intendo io.
Fabio
Ma... non so... aperto... con tutta franchezza... (e poiché Baldovino, con un dito, fa cenno di no) ... e come, allora?
Baldovino
Non basta. Ecco, veda, signor marchese: inevitabilmente, noi ci costruiamo. Mi spiego. Io entro qua, e divento subito, di fronte a lei, quello che devo essere, quello che posso essere - mi costruisco - cioè, me le presento in una forma adatta alla relazione che debbo contrarre con lei. E lo stesso fa di se anche lei che mi riceve. Ma, in fondo, dentro queste costruzioni nostre messe cosi di fronte, dietro le gelosie e le imposte, restano poi ben nascosti i pensieri nostri più segreti, i nostri più intimi sentimenti, tutto ciò che siamo per noi stessi, fuori delle relazioni che vogliamo stabilire. Mi sono spiegato?
Fabio
Si, si, benissimo... Ah, benissimo! Mio cugino mi ha detto che lei è molto intelligente.
Baldovino
Ecco, lei forse crede, adesso, che io abbia voluto darle un saggio della mia intelligenza.
Fabio
No, no... dicevo, perché... approvo, approvo ciò che lei ha saputo dire così bene.
Baldovino
Comincio io, allora, se permette, a parlare aperto. Provo da un pezzo, signor marchese, dentro, un disgusto indicibile delle abiette costruzioni di me, che debbo mandare avanti nelle relazioni che mi vedo costretto a contrarre coi miei... diciamo simili, se lei non s'offende.
Fabio
No, prego... dica, dica pure...
Baldovino
Io mi vedo, mi vedo di continuo, signor marchese; e dico: - Ma quanto è vile, ma com'è indegno questo che tu ora stai facendo!
Fabio (sconcertato, imbarazzato)
Oh Dio... ma no... perché?
Baldovino
Perché sì, scusi. Lei, tutt'al più, potrebbe domandarmi perché allora lo faccio? Ma perché... molto per colpa mia, molto anche per colpa d'altri, e ora, per necessità di cose, non posso fare altrimenti. Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto. Tutto sta, poi, se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione. Vada a persuader l'asino a non andare rasente ai precipizii: si piglia nerbate, cinghiate, strattoni; ma va lì, perché non ne può far di meno. E dopo che lei l'ha bastonata, pestata ben bene, le guardi un po' gli occhi addogliati: scusi, non ne sente pietà? Dico pietà. non scusarla! L'intelligenza che scusi la bestia, s'imbestialisce , anch'essa. Ma averne pietà è un'altra cosa! Non le pare?
Fabio
Ah, certo... certo. Vogliamo dunque venire a noi?
Baldovino
Ci siamo, signor marchese. Le ho detto questo, per farle intendere che, avendo il sentimento di quel che faccio, ho anche una certa dignità che mi preme di salvare. Non c'è altro mezzo di salvarla, che parlando aperto. Fingere, sarebbe orribile, oltre che laido, volgarissimo. La verità!
Fabio
Ecco, sì... chiaramente... vedremo d'intenderci...
Baldovino
E, allora, se permette, domanderò.
Fabio
Come dice?
Baldovino
Le farò qualche domanda, se permette.
Fabio
Ah, sì, domandi pure.
Baldovino
Ecco (trae di tasca un taccuino). Ho qua gli estremi della situazione. Dovendo fare una cosa seria. Meglio per lei, meglio per me. (apre il taccuino e lo sfoglia: intanto, comincia a domandare, con l'aria d'un giudice non severo) Lei, signor marchese, è l'amante della signorina...
Fabio (scattando per troncare subito quella domanda e quella ricerca nel taccuino)
Ma no! scusi... così...
Baldovino (calmo, sorridente)
Vede? Lei recalcitra fin dalla prima domanda!
Fabio
Ma certo! Perché...
Baldovino (subito, severo)
Non è vero? Dice che non è vero? E allora (si alza) mi scusi, signor marchese. Le ho detto che ho la mia dignità. Non potrei prestarmi a una trista e umiliante commedia.
Fabio
Ma come! Io credo che, anzi, così come vuol far lei...
Baldovino
S'inganna. La mia dignità - quella che può essere - posso salvarla solamente a patto che lei parli con me come con la sua stessa coscienza. O cosi, signor marchese, o non ne facciamo niente. Non mi presto a finzioni indecorose. La verità. Mi vuol rispondere?
Fabio
Ebbene... sì... Ma non cerchi in codesto taccuino, per carità. Lei vuole alludere alla signorina Agata Renni?
Baldovino (non transigendo, seguita a cercare; trova; ripete).
Agata Renni, precisamente. Ventisette anni?
Fabio
Ventisei.
Baldovino (guarda nel taccuino)
Compiti il nove del mese scorso: dunque, nel ventisettesimo. E... (guarda di nuovo nel taccuino) ci sarebbe una mamma?
Fabio
Ma scusi!
Baldovino
E' scrupolo, creda, nient'altro che scrupolo da parte mia; affidamento per lei. Mi troverà sempre cosi preciso, signor marchese.
Fabio
Ebbene, si, c'è la madre.
Baldovino
Quanti anni, scusi?
Fabio
Ma... non so... ne avrà cinquantuno... cinquantadue...
Baldovino
Soltanto? Ecco, perché... dico francamente: sarebbe meglio che non ci fosse. La madre è una costruzione irriducibile. Ma sapevo che c'era. Dunque, abbondiamo un poco... diciamo cinquantatré. Lei, signor marchese, avrà su per giù l’età mia... Io sono sciupato. Ne mostro di più. Ne ho quarantuno.
Fabio
Oh, ne ho di più io, allora. Quarantatré.
Baldovino
Ah, mi congratulo: li porta meravigliosamente. Sa? Forse anch'io, rimettendomi un poco... Quarantatré, dunque. Ora, scusi, debbo toccare un altro tasto molto delicato.
Fabio
Mia moglie?
Baldovino
Ne è separato. Per torti... lo so, lei è un perfetto gentiluomo e chi non è capace di farne, è destinato a riceverne. Per torti, dunque, della moglie. E ha trovato qua una consolazione. Ma la vita - trista usuraja - si fa pagare quell'uno di bene che concede, con cento di noje e di dispiaceri.
Fabio
Purtroppo!
Baldovino
Eh, l'avrei a sapere! Bisogna che ella sconti la sua consolazione, signor marchese! Ha davanti l’ombra minacciosa d'un protesto senza dilazione. Vengo io a mettere una firma d'avallo, e ad assumermi di pagare la sua cambiale. Non può credere, signor marchese, quanto piacere mi faccia questa vendetta che posso prendermi contro la società che nega ogni credito alla mia firma. Imporre questa mia firma. Dire: - Ecco qua: uno ha preso alla vita quel che non doveva e ora pago io per lui, perché se io non pagassi, qua un'onestà fallirebbe, qua l'onore d'una famiglia farebbe bancarotta; signor marchese, è per me una bella soddisfazione: una rivincita! Creda che non lo faccio per altro. Lei ne dubita? Ne ha tutto il diritto. perché io sono... - mi permette un paragone?
Fabio
Ma si, dica, dica...
Baldovino (seguitando)
... Come uno che venga a mettere in circolazione oro sonante in un paese che non conosca altro che moneta di carta. Subito si diffida dell'oro; è naturale. Lei ha certo la tentazione di rifiutarlo: no? Ma è oro, stia sicuro, signor marchese. Non ho potuto sperperarlo, perché l'ho nell'anima e non nelle tasche. Altrimenti!
Fabio
Ecco, bene! E allora, questo. Benissimo! Io non vado cercando altro, signor Baldovino. L'onestà! la bontà dei sentimenti!
Baldovino
Ho anche i ricordi della mia famiglia... Mi è potuto costare di sacrifizii d'amor proprio, d'amarezze senza fine, di ribrezzo, di schifo... - essere disonesto. Che vuole che mi costi l'onestà? Lei m'invita... sì, dico, doppiamente a nozze. Sposerò per finta una donna; ma sul serio, io sposo l'onestà.
Fabio
Ecco, si, e basta! Mi basta questo!
Baldovino
Basta? Le pare che le basti? Scusi, signor marchese; e le conseguenze?
Fabio
Come? Non capisco.
Baldovino
Eh. vedo che lei... - certamente perché soffre davanti a me e fa a se stesso una grande violenza per resistere a questa situazione penosa, pure d'uscirne, tratta con molta leggerezza la cosa.
Fabio
No, no: tutt'altro! Come, con leggerezza?
Baldovino
Permette? La mia onestà, signor marchese, dev'essere o non dev'essere?
Fabio
Ma sì che dev'essere! E’ l'unica condizione che le pongo!
Baldovino
Benissimo. Nei miei sentimenti, nella mia volontà, in tutti i miei atti. C'è. Me la sento. La voglio. La dimostrerò. Ebbene?
Fabio
Che ebbene? Le ho detto che mi basta questo!
Baldovino
Ma le conseguenze, signor marchese, scusi! Guardi: l'onestà, così come lei la vuole da me che cos'è? Ci pensi un po'. Niente. Un'astrazione. Una pura forma. Diciamo: l'assoluto. Ora scusi, se io devo essere cosi onesto, bisognerà pure che io la viva - per cosi dire - quest'astrazione; che dia corpo a questa pura forma; che io senta quest'onestà astratta e assoluta. E quali saranno allora le conseguenze? Ma prima di tutte, questa, guardi: che io dovrò essere un tiranno.
Fabio
Un tiranno?
Baldovino
Per forza! Senza volerlo! Per ciò che riguarda, la pura forma, intendiamoci! - Il resto non m'appartiene. Ma per la pura forma, onesto come lei mi vuole e come io mi voglio - di necessità dovrò essere un tiranno glielo avverto. Vorrò rispettate fino allo scrupolo tutte le apparenze, il che di necessità importerà gravissimi sacrifizii a lei, alla signorina, alla mamma; un'angustiosissima limitazione di libertà, il rispetto a tutte le forme astratte della vita sociale. E... parliamoci chiaro, signor marchese, anche per farle vedere che sono animato del più fermo proposito, sa che verrà fuori subito, da tutto questo? Ciò che s'imporrà tra noi e salterà agli occhi di tutti? Che, trattando con me - non si faccia illusioni - onesto com'io sarò, la cattiva azione la commettono loro, non io! Io, in tutta questa combinazione non bella, non vedo che una cosa sola: la possibilità che loro mi fanno - e che io accetto - d'essere onesto.
Fabio
Ecco... caro signore... capirà... - già lei stesso l'ha detto - non... non mi trovo in condizione di seguirla bene, in questo momento... Lei parla meravigliosamente; ma tocchiamo terra, per carità!
Baldovino
Io? terra? Non posso!
Fabio
Come non può, scusi? Che vuol dire?
Baldovino
Non posso, per la condizione stessa in cui lei mi mette, signor marchese! Io devo vagare per forza nell'astratto. Guai se toccassi terra! La realtà non è per me: se la riserba lei. La tocchi lei. Parli: io starò ad ascoltarla. Sarò l'intelligenza che non scusa, ma compatisce.
Fabio (subito, additando se stesso)
La bestia?
Baldovino
Scusi: conseguenza!
Fabio
Ma si! Ma si! Ha ragione! E’ proprio così! Dunque, parlo io, parla la bestia: terra terra, alla buona, sa? Lei ascolti e patisca. Proprio per intenderci...
Baldovino
Dice per me?
Fabio
Con lei, ma si! Con chi dunque?
Baldovino
No, signor marchese! Con se stesso bisogna che lei s'intenda. Io, per me, ho già bell'e inteso tutto. Ho parlato tanto - non soglio mica parlare molto io, sa? - ho parlato perché vorrei che lei si facesse capace di tutto, bene.
Fabio
Io?
Baldovino
Lei, lei. Per me, già ci sono. E’ facilissimo. Che debbo fare io? Nulla. Rappresento la forma. L'azione - e non bella - la commette lei: l'ha già commessa, e io gliela riparo; seguiterà a commetterla, e io la nasconderò. Ma per nasconderla bene, nel suo stesso interesse e nell'interesse sopratutto della signorina, bisogna che lei mi rispetti; e non le sarà facile nella parte che si vuol riserbare! Rispetti, dico, non propriamente me, ma la forma, la forma che io rappresento, l'onesto marito d'una signora perbene. Non la vuol rispettare?
Fabio
Ma sì, certo!
Baldovino
E non comprende che sarà tanto più rigorosa e tiranna, questa forma, quanto più pura lei vorrà che sia la mia onestà? Perciò le dicevo di badare alle conseguenze. Non per me, per lei! Io, guardi: ho buone lenti per la mia filosofia. E per salvare, in queste condizioni, la mia dignità, mi basterà vedere nella donna che di nome sarà mia, una madre.
Fabio
Ecco, già... benissimo!
Baldovino
E concepire i miei rapporti con lei a traverso la creaturina che verrà, cioè, a traverso l'ufficio che mi toccherà d'adempiere: candido, nobilissimo ufficio, tutto compreso dell'innocenza del nascituro o della nascitura, che sarà. Va bene così?
Fabio
Benissimo, sì sì, benissimo!
Baldovino
Per me, badi, non per lei benissimo! Lei, signor marchese, più approva e più va incontro a un mondo di guaj!
Fabio
Come... perché, scusi? Io non vedo tutte codeste difficoltà che vede lei!
Baldovino
Credo mio obbligo fargliele vedere, signor marchese. Lei è un gentiluomo. Necessità di cose, di condizioni, la costringono a non agire onestamente. Ma lei non può fare a meno dell'onestà! Tanto vero che, non potendo trovarla in ciò che fa, la vuole in me. Devo rappresentarla io, la sua onestà: esser cioè, l'onesto marito devo rappresentarla io, la sua onestà: esser cioè, l'onesto marito d'una donna, che non può essere sua moglie; l'onesto padre d'un nascituro, che non può essere suo figlio. E’ vero questo?
Fabio
Sì, si, è vero.
Baldovino
Ma se la donna è sua, e non mia; se il figliolo è suo, e non mio, non capisce che non basterà che sia onesto soltanto io? Dovrà essere onesto anche lei, signor marchese, davanti a me. Per forza! Onesto io, onesti tutti. Per forza!
Fabio
Come come ? Non capisco! Aspetti...
Baldovino
Lei si sente mancare il terreno sotto i piedi.
Fabio
Ma no, dico... se debbono mutare le condizioni...
Baldovino
Per forza! Le muta lei! Queste apparenze da salvare, signor marchese, non sono soltanto per gli altri! Ce ne sarà una, qua, anche per voi! Una che voi stessi avrete voluta e a cui io appunto dovrei dar corpo: la vostra onestà. Ci pensa lei? Badi che non è facile!
Fabio
Ma se lei sa!
Baldovino
Appunto perché so! Parlo contro il mio interesse; ma non posso farne a meno. La consiglio di rifletter bene, signor marchese!
(Pausa. Fabio si alza e si mette a passeggiare concitatamente, costernato. Si alza anche Baldovino e aspetta)
Fabio (passeggiando)
Certo che... comprenderà che... se io...
Baldovino
Ma sì, creda, sarà bene che lei ci rifletta ancora un poco, su quanto le ho detto, e lo riferisca - se crede - anche alla signorina. (guarda appena verso l'uscio a destra) Forse non ce ne sarà bisogno, perché...
Fabio (voltandosi di scatto, con ira)
Che cosa crede?
Baldovino (calmissimo, triste)
Oh... sarebbe in fondo naturalissimo. Io mi ritiro. Mi comunicherà, o mi farà comunicare all'albergo le sue decisioni. (fa per avviarsi; si volta). Può contare intanto, signor marchese, insieme con la signorina, su la mia intera discrezione.
Fabio
Ci conto.
Baldovino (lento, grave)
Sono carico, per conto mio, di ben altre colpe; e qui, per me, non c'è colpa, ma solo una sventura. Qualunque sia la decisione, sappia che resterò sempre gratissimo - in segreto - al mio antico compagno di collegio, d'avermi stimato degno d'accostarmi onestamente a questa sventura. (si inchina). Signor marchese...
Verba volant (390): studiare...
Studiare, v. tr.
Ovviamente non per mio merito, faccio parte di una generazione a cui è stato imposto di studiare; con la promessa, più o meno esplicita, che questo sforzo mi sarebbe servito per trovare un lavoro migliore di quello dei miei genitori, e meglio retribuito. Questo obbligo e questa promessa erano tanto più forti perché i miei genitori non avevano studiato, non ne hanno avuto la possibilità. Per i miei genitori garantire che io potessi studiare è stato un sacrificio, possibile - mentre per i loro genitori sarebbe stato impossibile - ma comunque un sacrificio. Sono grato ai miei genitori di quanto hanno fatto, perché studiare mi ha permesso di scoprire molte cose, mi ha permesso di essere quello che sono, al di là del lavoro che faccio. Naturalmente è una cosa che ho capito dopo aver studiato, quanto questo sia stato importante per la mia vita, ma non è questo di cui vorrei parlarvi.
Sapete che non ho figli, ma se ne avessi, li obbligherei a studiare, come i miei genitori hanno fatto con me - e per fortuna per me sarebbe un sacrificio minore di quanto sia stato per loro - proprio in forza del fatto che adesso so quanto è importante leggere, capire il mondo, conoscere le culture delle altre persone. Ma, a differenza dei miei genitori, mentirei se dicessi loro che questo sforzo servirà ad avere un lavoro migliore del mio, meglio retribuito. Il dramma della nostra generazione sta qui: sappiamo con certezza che i nostri figli staranno peggio di noi. E ovviamente è colpa nostra.
Qualche giorno fa è uscito su un giornale questo annuncio:
Ho letto che l'azienda si giustifica dicendo che si tratta di uno stage. A parte il fatto che nell'annuncio, così dettagliato nel richiedere le qualifiche della persona da assumere, questa cosa non viene menzionata, non capisco esattamente come questa possa essere una giustificazione. Significa che in quei sei mesi quell'ingegnere non lavorerà? Che farà solo fotocopie? O che magari lavorerà, mettendo a frutto quanto ha studiato, senza essere adeguatamente retribuito? E che forse, alla fine dei sei mesi, verrà rimpiazzato da un altro stagista a sei mesi? E che deve anche ringraziare perché ha avuto i ticket restaurant.
E se poi avessi una figlia dovrei anche sperare fosse bella, perché in quel caso avrebbe una possibilità in più di essere assunta. Guardate quante richieste di lavoro, anche di ingegneri, richiedono una foto della candidata, perché si sa che un'ingegnere racchia disegna male o non sa fare i calcoli. Posso obbligare mia figlia a studiare, ma come posso fare affinché sia bella?
Guardando al mondo che stiamo lasciando ai nostri figli, mi viene da chiedere: ma noi cosa abbiamo studiato? Perché questa schifezza l'abbiamo fatta noi, che ci hanno fatto studiare, perché fossimo migliori di loro. Evidentemente non ci siamo riusciti.
Ovviamente non per mio merito, faccio parte di una generazione a cui è stato imposto di studiare; con la promessa, più o meno esplicita, che questo sforzo mi sarebbe servito per trovare un lavoro migliore di quello dei miei genitori, e meglio retribuito. Questo obbligo e questa promessa erano tanto più forti perché i miei genitori non avevano studiato, non ne hanno avuto la possibilità. Per i miei genitori garantire che io potessi studiare è stato un sacrificio, possibile - mentre per i loro genitori sarebbe stato impossibile - ma comunque un sacrificio. Sono grato ai miei genitori di quanto hanno fatto, perché studiare mi ha permesso di scoprire molte cose, mi ha permesso di essere quello che sono, al di là del lavoro che faccio. Naturalmente è una cosa che ho capito dopo aver studiato, quanto questo sia stato importante per la mia vita, ma non è questo di cui vorrei parlarvi.
Sapete che non ho figli, ma se ne avessi, li obbligherei a studiare, come i miei genitori hanno fatto con me - e per fortuna per me sarebbe un sacrificio minore di quanto sia stato per loro - proprio in forza del fatto che adesso so quanto è importante leggere, capire il mondo, conoscere le culture delle altre persone. Ma, a differenza dei miei genitori, mentirei se dicessi loro che questo sforzo servirà ad avere un lavoro migliore del mio, meglio retribuito. Il dramma della nostra generazione sta qui: sappiamo con certezza che i nostri figli staranno peggio di noi. E ovviamente è colpa nostra.
Qualche giorno fa è uscito su un giornale questo annuncio:
Laurea magistrale a pieni voti in ingegneria civile, ottima conoscenza della lingua tedesca e buona della lingua inglese, gradita esperienza Erasmus, disponibilità a trasferte in Italia ed estero, contratto di 6 mesi, 600 euro netti al mese, ticket restaurant per ogni giorno lavorato.Ha fatto scalpore, è girato in rete, è stato commentato, ma non è poi così diverso da tanti annunci che leggono ogni giorno i nostri figli, magari è solo un po' più esplicito e meno ipocrita di tanti altri. Chissà cosa penserebbe mio padre: ovviamente non me lo disse, ma immagino avrebbe preferito mi laureassi in ingegneria piuttosto che in filosofia, perché sapeva che gli ingegneri fanno delle cose, mentre non capiva cosa facessero esattamente i filosofi. Aveva ragione anche in questo, non ho proprio idea di cosa campi un filosofo. So che alcuni vengono assunti per edulcorare gli annunci di lavoro e per motivare i neo assunti, per spiegare loro quanto sia bello lavorare in team e puttanate del genere, a patto di non chiedere un aumento di stipendio.
Ho letto che l'azienda si giustifica dicendo che si tratta di uno stage. A parte il fatto che nell'annuncio, così dettagliato nel richiedere le qualifiche della persona da assumere, questa cosa non viene menzionata, non capisco esattamente come questa possa essere una giustificazione. Significa che in quei sei mesi quell'ingegnere non lavorerà? Che farà solo fotocopie? O che magari lavorerà, mettendo a frutto quanto ha studiato, senza essere adeguatamente retribuito? E che forse, alla fine dei sei mesi, verrà rimpiazzato da un altro stagista a sei mesi? E che deve anche ringraziare perché ha avuto i ticket restaurant.
E se poi avessi una figlia dovrei anche sperare fosse bella, perché in quel caso avrebbe una possibilità in più di essere assunta. Guardate quante richieste di lavoro, anche di ingegneri, richiedono una foto della candidata, perché si sa che un'ingegnere racchia disegna male o non sa fare i calcoli. Posso obbligare mia figlia a studiare, ma come posso fare affinché sia bella?
Guardando al mondo che stiamo lasciando ai nostri figli, mi viene da chiedere: ma noi cosa abbiamo studiato? Perché questa schifezza l'abbiamo fatta noi, che ci hanno fatto studiare, perché fossimo migliori di loro. Evidentemente non ci siamo riusciti.
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