sabato 25 agosto 2018

Verba volant (563): progetto...

Progetto, sost. m.

Il ponte autostradale sul torrente Polcevera è stato costruito tra il 1963 e il 1967 e ha resistito - come è ormai tragicamente noto - solo cinquant'anni. Ho studiato filosofia antica, non posso certo dire se c'erano limiti già nel progetto di quel ponte o se sia stato realizzato male o se semplicemente non potesse durare di più, visto il materiale in cui era stato realizzato e il carico, sempre crescente, che doveva sopportare. Certo di tutto questo si discuterà a lungo, ma comunque chi aveva in carico quel ponte - e chi da quel ponte guadagnava con i pedaggi - doveva impedire che crollasse proprio il 14 agosto e che quel crollo provocasse tutti quei morti.
Non voglio parlare di queste responsabilità, ma proprio del progetto, di quello che rappresentò nell'Italia di allora. Progetto è una parola moderna, anche se ovviamente risale al latino, che deriva in questo suo significato sia in italiano che in inglese dal francese projet. E' una parola ottimista, se ha un senso dare questo aggettivo a una parola, è l'idea di poter costruire il futuro. Cinquant'anni sono pochi - noi uomini che siamo intorno a quella soglia pensiamo di avere ancora tantissime cose da fare, quasi tutta la vita davanti - eppure quell'Italia là sembra molto distante dal paese di oggi, almeno quanto l'Italia di Garibaldi e di Cavour. E invece è l'Italia in cui sono cresciuti i nostri genitori.
Chi aveva vent'anni quando si cominciò a costruire il ponte era cresciuto in un paese in cui non solo il ricordo, ma anche l'esperienza della guerra era ancora molto viva tra le persone. A vent'anni si hanno delle speranze - molte di più e con maggior ragione di quando se ne hanno cinquanta - e quel ponte era un pezzo, tangibile e concreto, di quella speranza. Ce lo hanno raccontato in questi giorni tanti genovesi, che hanno ricordato l'entusiasmo con cui assistevano alla costruzione del loro ponte di Brooklyn.
Riccardo Morandi era uno dei tantissimi tecnici che mettevano le proprie capacità a disposizione di questa Italia che stava ricostruendo tutto quello che la guerra aveva distrutto e che voleva crescere. Era un'Italia artigiana, che faceva, che sapeva fare e che insegnava a fare. Morandi, tra le tante cose che fece in tutto il mondo, vinse il concorso internazionale per il salvataggio dei templi egizi di Abu Simbel e i suoi ponti diventarono un simbolo di modernità.
Perché quell'Italia in soli cinquant'anni è rimasta fisicamente e moralmente sotto le macerie di qual ponte? Nel '63, l'anno in cui cominciò la costruzione, uscì il film di Francesco Rosi Le mani sulla città. Chiaramente in quell'Italia lì la malattia stava già incubando: bisognava costruire, c'era bisogno di nuove case, di nuove strade, di nuovi ponti, bisognava farli e farli in fretta. In tante zone d'Italia - non solo nel Mezzogiorno - questo significò dare il via libera alle forze peggiori del paese, e agli istinti peggiori delle persone. Certo erano i grandi costruttori quelli che ci guadagnavano di più, insieme ai politici, ai tecnici, ai magistrati che garantivano loro protezione e appoggi, ma quella corruzione rispondeva a delle necessità collettive e creava ricchezza. Quei cantieri garantivano posti di lavoro per tantissimi lavoratori, che avevano bisogno di case. Erano brutte case? Certamente, ne erano consapevoli quelli che ci andavano a vivere, ma contavano che sarebbe stata una soluzione temporanea e così fu per molti di loro. Grazie al loro lavoro poterono negli anni successivi lasciare quelle brutte case e averne di più belle e dignitose. Di quella corruzione godevano in qualche modo i frutti troppo persone e si chiusero gli occhi. L'Italia cresceva, le persone nate alla fine della guerra in un'Italia poverissima, potevano legittimamente sperare che i loro figli sarebbero cresciuti in un paese in cui la guerra non ci sarebbe più stata e che avrebbero avuto opportunità che per loro sarebbero state inimmaginabili. E fu esattamente così. Quell'Italia era un gigante con i piedi di argilla o di cemento armato, probabilmente il materiale simbolo di quell'età.
Il 1967, quando il ponte fu inaugurato, non fu un anno memorabile per il cinema italiano: tanti musicarelli, moltissimi spaghetti western, qualche film scollacciato, soprattutto storie di gangster e di spie. Ma fu anche l'anno di Edipo re di Pier Paolo Pasolini. Il grande intellettuale sentì il bisogno di fuggire dal presente, di tornare a un grande classico. Certo si trattava di un'indagine autobiografica - qualcuno la lesse come un ripiegamento nel privato - ma con la storia di Edipo Pasolini vuole anche raccontarci la storia di un uomo che, accecato dalla volontà di non sapere ciò che è, avanza inesorabilmente verso la catastrofe. E' una storia immortale, è la condizione umana, ma mi sembra che ben si adatti a quegli anni.
In quello stesso anno usciva la raccolta di racconti di Italo Calvino Ti con zero. Mentre Pasolini ritorna all'antica Grecia, lo scrittore sanremese si dedica a un genere nuovo, più vicino alla fantascienza, per quanto ancora una volta molto personale. Con questi racconti Calvino in qualche modo fugge da una realtà che gli va sempre più stretta per affrontare l'insieme di tutte le possibilità narrative che una situazione, semplice, apparentemente banale, può contenere e sviluppare. Si tratta di approcci antitetici, assolutamente diversi, fughe nel passato e nel futuro, ma in qualche modo entrambi campanelli d'allarme lanciati da questi due grandi intellettuali. Naturalmente questo allarme non fu ascoltato.
Sempre in quell'anno debutta alla Fenice di Venezia una nuova commedia di un altro grande intellettuale italiano, Eduardo De Filippo, intitolata Il contratto. E' un'opera meno nota del grande drammaturgo, ma da lui molto amata e considerata una delle più significative. Il protagonista, Geronta Sebezio, assicura di poter far tornare in vita una persona appena morta, a certe condizioni, sancite appunto nel contratto che fa sottoscrivere alla persona che si rivolge a lui prima della morte: il desiderio sincero dei familiari di riaverlo tra di loro e un testamento generoso verso tutti, anche le persone detestate in vita. Ovviamente Sebezio non ha alcun potere taumaturgico, ma approfitta della naturale paura di morire e dell'altrettanto prevedibile rapacità dei parenti rimasti in vita. E infatti quel contratto e le sue conseguenze diventano il modo per il protagonista, che conosce assai bene le debolezze degli uomini, di impadronirsi con una serie di raggiri di una parte del patrimonio del defunto. Non ebbe molta fortuna questa commedia, fu poco rappresentata, perché metteva di fronte agli spettatori uno spettacolo che non volevano vedere: la loro avidità, il loro egoismo, la loro falsità. La commedia si chiude con la scena di una festa di nozze, in cui gli invitati sono impegnati ad arraffare ogni cosa che si possa mangiare, compresa la frutta dei festoni. Questo era l'Italia del '67 che raccontava, anche lui inascoltato, Eduardo.
Ma c'era anche un'Italia che aveva un altro progetto, c'era un pezzo d'Italia che provava a costruire una società diversa, più giusta. Era anche l'Italia in cui i lavoratori volevano essere protagonisti di un riscatto sociale. Ma contro questa Italia sarebbe arrivato - solo due anni dopo l'inaugurazione del ponte Morandi - l'attacco delle forze del capitale con la strage di piazza Fontana. Fu un attacco violento, durissimo, da cui il paese non riuscì a rialzarsi. Rimasero i palazzinari, i politici e i magistrati al loro servizio, rimasero quelli che provavano a prendere le briciole del loro banchetto, e rimasero quelli come Sebezio, che si approfittavano di questa situazione.
Quando dobbiamo cercare le cause del crollo del ponte, non possiamo fermarci all'ultimo camion che ha provocato la vibrazione fatale, ma dobbiamo pensare alla storia di quel ponte. Così, quando dobbiamo cercare le cause del crollo del nostro paese, non possiamo fermarci alla fine, alle meschinità del tempo in cui viviamo, ma dobbiamo avere la capacità di guardare a una storia più lunga, dobbiamo capire qual era il progetto. Soprattutto se abbiamo l'ambizione - e spero che qualcuno tra i giovani l'abbia - di ricostruire dalle macerie. Sento che adesso tanti dicono che bisogna ricostruire quel ponte, anzi che bisogna ricostruire tantissimi ponti, e che è possibile farlo in fretta - dicono che è possibile rifare il ponte sul Polcevera in meno di un anno - mi sembra che ci sia la stessa frenesia di rapina di cinquant'anni fa, ma senza l'entusiasmo, forse un po' ingegno, di allora. Credo che i ponti che costruiremo così saranno destinati a crollare ben prima che tra cinquant'anni. E con loro il paese. Bisogna fare altro, prima di ricostruire i ponti, bisogna riannodare quei fili che si sono spezzati cinquant'anni fa, bisogna studiare le opere dei maestri che hanno provato a metterci in guardia, bisogna provare a recuperare il buono che c'era in quel progetto di società.

martedì 21 agosto 2018

Verba volant (562): crollo...

Crollo, sost. m.

Se un ponte autostradale crolla non è una disgrazia, ma un omicidio.
Quando vi chiedete cosa sia la guerra di classe - e se venga ancora combattuta - pensate a quello che è successo il 14 agosto a Genova.
Quel ponte non è crollato per la pioggia o per un fulmine o per qualche altra imprevedibile fatalità, ma perché ai padroni delle autostrade interessa soltanto incassare i sempre più cari pedaggi che tutti noi sfruttati paghiamo loro e non vogliono spendere nulla per la manutenzione - per inciso di qualcosa che è stato costruito con i soldi pubblici e di cui ora loro godono i frutti. La privatizzazione delle autostrade è stata un'operazione di redistribuzione della ricchezza: è stato tolto qualcosa ai poveri per darlo ai ricchi. E se poi i poveri, gli sfruttati, rimangono sotto le macerie di un ponte crollato, peggio per loro. Se vi chiedete ancora perché sia morta la sinistra in Italia, voglio ricordarvi che noi quando eravamo al governo abbiamo venduto le autostrade. Ecco di quel provvedimento tanti di noi - io allora ero funzionario del partito del presidente del consiglio - sono responsabili e oggi tutti noi abbiamo sulla coscienza i morti di Genova. Anche un po' di noi è sotto quelle macerie.
Non so se tra qualche anno ascolteremo le intercettazioni, ma certamente qualcuno in queste sere ha stappato le bottiglie di champagne: c'è un ponte da fare ex novo e ci sono le macerie del vecchio da rimuovere. Tutto in fretta, tutto senza fare gare d'appalto, tutto senza alcun vincolo e controllo. È un'emergenza, baby. Quello di cui prospera il capitalismo di rapina di questo sfortunato paese.
Sembra che adesso molti, perfino a destra, dicano che le autostrade non vengano più concesse ai privati. Anche se tra qualche settimane, quando il campionato di calcio sarà entrato nel vivo e sarà cominciata anche la Champions, di questo non si parlerà più.
Poi leggo anche i commenti di quelli - con alcuni ho perfino militato nello stesso partito - che, per autentica convinzione liberal-liberista o per dare contro al governo che li ha mandati all'opposizione e in qualche caso costretti a lavorare, difendono i padroni delle autostrade, perché bisogna aspettare la giustizia - come se la giustizia in Italia fosse una cosa giusta e non un potere in mezzo ad altri poteri - perché non bisogna spaventare i mercati e tutta la retorica liberista con cui abbiamo infarcito per vent'anni le nostre pratiche di governo. Questi di ora non sono Lenin - e non vogliono esserlo - sono, nella migliore delle ipotesi, dei furbastri che lucrano sulle emozioni e sulle paure delle persone o, nella peggiore, vogliono sostituire i padroni amici del vecchio regime con i padroni amici loro.
Io certamente non voglio difendere i Benetton, che meritano la gogna mediatica a cui sono sottoposti: sono padroni, si sono approfittati dei beni pubblici al massimo, hanno lucrato alle spalle dei lavoratori, di noi utenti delle autostrade, della collettività. Sono i mandanti degli omicidi di Genova. Non meritano la nostra comprensione e la nostra pietà. Ed è giusto colpirli nell'unica cosa che fa loro davvero male: togliendo loro denaro.
Naturalmente io credo che sia meglio che le autostrade - come tutte le altre reti infrastrutturali - ritornino a essere pubbliche: smetteranno così di ingrassare i profitti dei padroni a cui le abbiamo svendute. Ma ovviamente questo non basta, perché se lo stato continuerà a gestirle nello stesso modo, ossia comportandosi come un padrone, cercando di massimizzare i profitti a danno della sicurezza, dei diritti dei lavoratori e dei consumatori, allora i ponti continueranno a crollare sulle teste dei poveri. Il problema che ci pone la vicenda di Genova è che il capitalismo è il nostro unico metro di giudizio e che fin che sarà così noi continueremo a stare sotto le macerie.

"Aspettando Godot" di Claudio Lolli

Vivo tutti i miei giorni aspettando Godot,
dormo tutte le notti aspettando Godot.
Ho passato la vita ad aspettare Godot.
Nacqui un giorno di marzo o d'aprile non so,
mia madre che mi allatta è un ricordo che ho,
ma credo che già in quel giorno però
invece di succhiare io aspettassi Godot.
Nei prati verdi della mia infanzia,
in quei luoghi azzurri di cieli e aquiloni,
nei giorni sereni che non rivedrò
io stavo già aspettando Godot.
L'adolescenza mi strappò di là,
e mi portò ad un angolo grigio,
dove fra tanti libri però,
invece di leggere io aspettavo Godot.
Giorni e giorni a quei tavolini,
gli amici e le donne vedevo vicini,
io mi mangiavo le mani però,
non mi muovevo e aspettavo Godot.
Ma se i sensi comandano l'uomo obbedisce,
così sposai la prima che incontrai,
ma anche la notte di nozze però,
non feci altro che aspettare Godot.
Poi lei mi costrinse ed un figlio arrivò,
piccolo e tondo urlava ogni sera,
ma invece di farlo giocare un po',
io uscivo fuori ad aspettare Godot.
E dopo questo un altro arrivò,
e dopo il secondo un altro però,
per esser del tutto sincero dirò,
che avrei preferito arrivasse Godot.
Sono invecchiato aspettando Godot,
ho sepolto mio padre aspettando Godot,
ho cresciuto i miei figli aspettando Godot.
Sono andato in pensione dieci anni fa,
ed ho perso la moglie acquistando in età,
i miei figli son grandi e lontani però,
io sto ancora aspettando Godot.
Questa sera sono un vecchio di settantanni,
solo e malato in mezzo a una strada,
dopo tanta vita più pazienza non ho,
non voglio più aspettare Godot.
Ma questa strada mi porta fortuna,
c'è un pozzo laggiù che specchia la luna,
è buio profondo e mi ci butterò,
senza aspettare che arrivi Godot.
In pochi passi ci sono davanti,
ho il viso sudato e le mani tremanti,
e la prima volta che sto per agire,
senza aspettare che arrivi Godot.
Ma l'abitudine di tutta una vita,
ha fatto si che ancora una volta,
per un minuto io mi sia girato,
a veder se per caso Godot era arrivato.
La morte mi ha preso le mani e la vita,
l'oblio mi ha coperto di luce infinita,
e ho capito che non si può,
coprirsi le spalle aspettando Godot.
Non ho mai agito aspettando Godot,
per tutti i miei giorni aspettando Godot,
e ho incominciato a vivere forte,
proprio andando incontro alla morte,
ho incominciato a vivere forte,
proprio andando incontro alla morte.
ho incominciato a vivere forte,
proprio andando incontro alla morte.

lunedì 20 agosto 2018

Verba volant (561): pomodoro...

Pomodoro, sost. m.

Nel limite delle sempre più ridotte possibilità di scelta concesse a noi consumatori, faccio attenzione quando acquisto una bottiglia di passata di pomodoro. Anche perché vivo nella provincia in cui è stato inventata, alla fine dell'Ottocento, l'industria del pomodoro, vedo i campi in cui queste piante vengono coltivate e incrocio i camion carichi dei frutti che diventeranno la passata che acquisterò. E poi so che in Emilia-Romagna la raccolta del pomodoro è quasi del tutto meccanizzata e che ogni anno, entro il mese di febbraio, i rappresentanti degli agricoltori e quelli degli industriali determinano superfici da coltivare, quantità di frutti da ritirare, prezzi di vendita e premi legati alla maggior qualità. Questo mi offre una serie di garanzie, che considero importanti.
Solo da qualche anno posso scegliere che passata acquistare: sono fortunato. Pochi anni fa non avevo questa opportunità: andavo in un discount e sceglievo la passata che costava meno. Per produrre quella passata che io pagavo così poco venivano usati pomodori raccolti da schiavi? Certamente, ma non avevo davvero altra possibilità e me lo dovevo far andare bene.
Possiamo scrivere belle leggi contro il fenomeno del caporalato in agricoltura, possiamo perfino provare ad applicarle e magari garantire nelle zone dove non esistono dei servizi di trasporto pubblico decenti - senza i camioncini dei caporali i campi di intere regioni del paese sarebbero semplicemente irraggiungibili - ma nulla di queste buone pratiche - così come quelle attuate nella mia regione - affronta il vero problema: siamo noi, tutti noi e specialmente i più poveri di noi, che abbiamo bisogno di schiavi. Quelli che raccolgono i pomodori ci danno "fastidio" perché in qualche modo siamo costretti a vederli, anche se facciamo di tutto per girarci dall'altra parte, e, nonostante questi nostri sforzi per ignorarli, veniamo a sapere quando muoiono, come è successo a causa di due drammatici incidenti in Puglia. Ma quelli che in Cina e in India producono i nostri vestiti di tutti i giorni, quelli che vogliamo costino sempre meno? Quelli non li vediamo e certo non ci accorgiamo quando muoiono, vittime di queste stesso sfruttamento.
Se ci pensiamo bene, questa è l'essenza - e anche la forza - del capitalismo che domina le nostre vite: più siamo sfruttati, più siamo poveri, più abbiamo bisogno che altri nostri fratelli siano sfruttati più di noi. Probabilmente quelli che raccolgono da schiavi i pomodori comprano la passata "fatta" da loro, perché è una delle cose più economiche che trovano nei discount, una delle pochissime che possono permettersi con quello che guadagnano. E così diventano gli sfruttatori di se stessi e ridanno ai loro padroni i pochi soldi dei loro salari.
Il comunismo - o come vogliamo chiamare un mondo diverso non più dominato dal capitalismo - deve avere prima di tutto questo obiettivo: spezzare questo circolo vizioso, per cui più siamo sfruttati, più ci mettiamo nelle condizioni di esserlo, come un laccio che ci stringe sempre più forte, quando proviamo a liberarci. E finisce per strozzarci.
Per questo dobbiamo essere in grado di innescare un processo completamente diverso: chi raccoglie i pomodori - come ogni altro lavoratore - deve essere retribuito in maniera equa per il suo lavoro, questo farà inevitabilmente salire il prezzo della passata, ma un lavoratore pagato in maniera equa può acquistare una passata che costa di più. Smetteranno di guadagnarci così sfacciatamente i padroni dei campi, delle fabbriche di trasformazione, degli hard-discount, ossia quelli che ora lucrano sullo sfruttamento dei braccianti, degli operai, dei commessi. In fondo la guerra di classe - come ogni guerra - non può essere a somma zero: per stare meglio noi, devono star peggio e soffrire loro. I padroni non hanno certo scrupoli, adesso tocca a noi cominciare a tirar loro in faccia i pomodori marci.

lunedì 13 agosto 2018

Verba volant (560): bambola...

Bambola, sost. f.

Alla fine dell'Ottocento l'etimologista senese Ottorino Pianigiani definiva così la parola bambola:
Un fantoccino vestito ordinariamente da donna, che serve di trastullo alle bambine e ai bambini.
Per inciso quel vecchio conservatore sabaudo era molto più moderno di tanti nostri politici, preti e intellettuali che credono che i maschietti che giocano con le bambole diventino omosessuali.
Voglio parlarvi di altre bambole, che invece sono il trastullo non dei bambini, ma dei loro padri. Giorni fa abbiamo letto su Repubblica e La Stampa una dettagliata "marchetta" - quando un giornalista si prostituisce bisogna pur dirlo - in cui si annunciava l'imminente apertura a Torino di una "casa" in cui i clienti avranno a disposizione una decina di "bambole", da utilizzare nel modo che preferiscono.  Il giornalista marchettaro ci ha spiegato che i titolari dell'attività garantiranno al massimo la riservatezza e l'igiene.
Ho letto nei commenti che qualcuno la considera una buona cosa. Le bambole  quando nessuno ci "gioca" vengono chiuse in una stanza e non fanno come le puttane che se stanno in strada a rendere degradate le vie dove abitano i puttanieri e le loro famigliole.
Credo che queste ludoteche del sesso dovrebbero essere vietate e i loro gestori arrestati.
In una società come la nostra, così pericolosamente maschilista e sessista, in cui i corpi delle donne sono considerati merci da vendere e comprare, la diffusione di questi bordelli tecnologici è un ulteriore attacco alle donne e alla loro dignità e un pericolo.
L'articolo, fingendo di fare cronaca, spiega che ci sono bambole di forme diverse, per soddisfare i gusti dei tanti potenziali clienti. C'è anche un uomo - perché i "veri" maschi non disdegnano neppure questo - e una donna incinta. E naturalmente il cliente può servirsi di quelle bambole come vuole, da solo, in coppia, con gli amici - pare sia un'originale idea per l'addio al celibato. Praticamente il porco - pardon, il cliente - può sfogare su queste bambole ogni propria perversione, le può picchiare, violentare, uccidere perfino. Poi può rivestirsi,  ritornare dalla propria bella famiglia, rigorosamente tradizionale, andare a messa e firmare petizioni per "ripulire" il suo quartiere dalle puttane. Ma poi qualcuno di questi "bravi" padri di famiglia rimarrà deluso dal fatto che quelle bambole non piangono, non soffrono, non muoiono, e deciderà di tornare a essere violento "alla vecchia maniera", picchiando e stuprando la propria moglie, la propria figlia, o magari una puttana trovata sotto casa. Costa anche meno.
E poi queste bambole sono già oggetti: quanto è più soddisfacente per il "vero" uomo far diventare un oggetto una donna vera.
In una società in cui avremmo bisogno di insegnare ai maschi come gestire il sesso, come rapportarsi con le donne, non serve avere luoghi in cui fare scatenare i loro peggiori istinti, in cui possano diventare stupratori. Limitandosi a pulire tutto quando hanno finito.

venerdì 10 agosto 2018

Verba volant (559): desiderio...

Desiderio, sost. m.

Questa notte, mentre avrete gli occhi rivolti verso il cielo per cercare di avvistare le Perseidi, e farete il catalogo dei vostri desideri, piccoli e grandi, raggiungibili e irrealizzabili, scegliendo quello da esprimere al passaggio di una stella cadente, pensate per un attimo anche all'etimologia della parola desiderio, che significa letteralmente guardare intensamente le stelle.
Vi auguro - e mi auguro - di guardare questa notte al cielo con lo stesso stupore con cui lo guardavano gli antichi, con la loro timorosa devozione e reverente attrazione. Quelle donne e quegli uomini quando osservavano le stelle rimanevano rapiti da quello spettacolo, riconoscevano in quella trama lucente figure di animali fantastici, vedevano creature immortali e forse anche se stessi e, senza che nessuno dicesse loro che dovevano farlo, esprimevano le loro paure e i loro sogni. E per questo fu naturale chiamare ciò che volevano, ciò che speravano, desiderio, perché quella richiesta era in qualche modo rivolta alle stelle.
Immagino che anche loro abbiano presto scoperto che quasi mai ottenevano quello che chiedevano alle stelle, che le persone che amavano, nonostante quelle preghiere, continuavano ad ammalarsi e a morire. Noi lo sappiamo anche meglio di loro, conosciamo alcune delle leggi fisiche che regolano i movimenti degli astri, abbiamo trasformato queste notti d'estate in una specie di gioco di società, in cui ci ritroviamo e esprimiamo i nostri desideri, per lo più futili.
Io credo che questa notte, mentre guarderemo le stelle cadenti, dovremmo fare uno sforzo in più e pensare a cosa valga davvero la pena chiedere a quelle stelle. Anche se sappiamo che i nostri desideri non saranno esauditi - anzi proprio perché sappiamo che non lo saranno - anche se siamo consapevoli che i nostri sogni non saranno realizzati, fare una cernita tra i nostri desideri è già una cosa importante, perché troppo spesso siamo spinti a fare desideri inutili, a desiderare cose di cui possiamo fare benissimo a meno, a sognare ricchezze superflue. Vi auguro invece di esprimere veri desideri, magari irrealizzabili, ma già il fatto che avete capito che questi sono davvero importanti, sono i vostri veri desideri, sono convinto che vi aiuterà. Perché siamo noi che esaudiamo i nostri desideri.

giovedì 9 agosto 2018

Verba volant (558): fenomeno...

Fenomeno, sost. m.

Luigi Origene Soffrano ha attraversato con passo lieve alcune stagioni del cinema italiano, ha calcato lo stesso set con Totò, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi - solo per citare alcuni tra i più grandi - ha partecipato a più di centocinquanta film, per lo più non memorabili, anche se quando uscirono molti di questi ebbero grande successo, ma una manciata dei "suoi" film - Il federale, Il medico della mutua, Fantozzi - hanno certamente un posto nella storia del nostro cinema. Ha scavalcato i generi, passando da La dottoressa del distretto militare all'impegno de Il muro di gomma. A essere onesti non possiamo definire Jimmy il Fenomeno - il nome con cui era conosciuto - un attore: lui strabuzzava gli occhi strabici, mostrava la sua faccia a cui spesso arrivava un ceffone oppure rideva in maniera sguaiata. Eppure lui era lì. Quei film memorabili che ha interpretato sarebbero stati belli comunque, anche senza di lui, come lui non ha colpa dei moltissimi film brutti a cui ha partecipato. Jimmy il Fenomeno era sostanzialmente inutile al film. Eppure lui era lì.
Solo con il cinema Luigi Origene Soffrano sarebbe potuto diventare Jimmy il Fenomeno. Nel teatro ci sono gli alabardieri, i valletti, quelli che al massimo dicono due battute, ma evidentemente - per ragioni meramente logistiche - sono ridotti al minimo e spesso le loro parti sono tagliate. Capita a volte che per risparmiare su un attore ci siano rappresentazioni dell'Amleto senza che l'ambasciatore d'Inghilterra dica:

Rosencrantz sono Guildenstern sono morti
che invece è una battuta fondamentale della tragedia, anche se l'unica di quel personaggio.
Il cinema invece ha la possibilità e il lusso di avere in scena personaggi inutili. E questa è stata la fortuna di Jimmy il Fenomeno, che così ha potuto lavorare per quasi cinquant'anni, facendo i film.
La sua vita non è stata semplice, è morto in una casa di riposo con una risicata pensione sociale. Avrebbe meritato il sussidio della cosiddetta legge Bacchelli, per meriti artistici, non perché ne avesse, ma perché lui era sempre stato lì. E perché non serviva.
Dobbiamo ricordare la sua storia perché Jimmy il Fenomeno siamo noi, che attraversiamo lo spettacolo del mondo senza che il nostro ruolo sia fondamentale: al massimo possiamo prenderci un paio di ceffoni.

mercoledì 8 agosto 2018

Verba volant (557): incidente...

Incidente, sost. m. 

Quello che è successo nel pomeriggio di un torrido lunedì estivo a Borgo Panigale può essere lo spunto per molte discussioni. Anzi è un dovere che lo sia. Deve interrogarci su come trasportiamo le merci e su come dovremmo farlo, su una rete di infrastrutture realizzate molti decenni fa e che adesso sono per molti aspetti inadeguate, sullo sfruttamento dei lavoratori a cui viene chiesto di consegnare il loro carico in sempre meno tempo, a un costo sempre inferiore e rinunciando anche alle più elementari misure di sicurezza. Quello che è successo a Borgo Panigale potrebbe spingere un paese a farsi delle domande e a cambiare un modello di sviluppo che provoca inevitabilmente tragedie come quelle a cui abbiamo assistito.
Non voglio però parlare di quello su cui tutti dovremmo riflettere, ma di ciò a cui ciascuno di noi dovrebbe pensare. Quello che è successo a Borgo Panigale deve farci riflettere su un tema di cui abbiamo paura di parlare e che facciamo di tutto per dimenticare, ossia che la nostra vita è legata a un filo, che è soggetta a una serie di fortuiti eventi imponderabili su cui noi, nonostante tutta la nostra sicumera, non possiamo fare nulla. Non sappiamo ancora cosa sia successo nell'abitacolo di quel camion, non sappiamo se l'autista si sia distratto o se sia stato male, ma sappiamo che quel camion si è scontrato con un altro mezzo e ha dato il via a una serie di eventi su cui ora discutiamo. Ma se l'autista non fosse stato male o non si fosse distratto, o se, nonostante il malore o la distrazione, non avesse colpito un altro mezzo? E se quell'incidente non fosse capitato proprio in quel punto, su un viadotto che passa in mezzo alle case? Certamente adesso non discuteremmo dei pericoli del trasporto su strada o della necessità di pensare a soluzioni infrastrutturali diverse. Eppure sono temi di cui avremmo dovuto comunque occuparci.
Quello di Borgo Panigale è stato prima di tutto un incidente, lo scatenarsi di una serie di eventi fortuiti. E ormai noi non siamo più pronti agli incidenti, perché non siamo più pronti a morire. Ci siamo convinti che tutto sia prevedibile, che la nostra vita non debba più essere soggetta al rischio, ci siamo illusi di essere in qualche modo capaci di dominare il destino. E' un pericoloso inganno.
Come Bulgakov fa dire a Satana nel primo capitolo de Il Maestro e Margherita:
Sì, l’uomo è mortale, ma questo sarebbe un male da poco. Il peggio è che talvolta è mortale all’improvviso.
Noi abbiamo dimenticato perfino di essere mortali, figurarsi se possiamo accettare di esserlo in ogni momento. E forse la nostra società è anche così incattivita proprio perché fa di tutto per espungere la morte e così non sa più affrontarla quando inevitabilmente e necessariamente accade, specialmente quando accade senza spiegazioni e senza un colpevole. E per questo noi cerchiamo affannosamente qualcuno e qualcosa a cui dare la colpa. Sempre. Ma siamo noi i primi responsabili, perché non sappiamo accettare che la morte è sempre possibile, anche quando andiamo al lavoro o in vacanza, anche quando siamo a Borgo Panigale, anche quando non ce l'aspettiamo.
I greci antichi raccontavano che la vita dei mortali era determinata da tre dee antichissime, le Moire, figlie primigenie della Notte, secondo Esiodo. Cloto tesseva il filo, che Làchesi avvolgeva attorno al fuso determinando per ciascuno la lunghezza della vita e infine Atropo, l’inesorabile, lo tagliava con le sue forbici affilate quando era arrivato il momento. E non c'era dio, neppure Zeus, che potesse far cambiare quello che le Moire avevano stabilito per noi. Sapere di essere mortali non rendeva quelle donne e quegli uomini meno attaccati alla vita, anche perché questa sulla terra era davvero l'unica vita che conoscevano e che credevano valesse la pena di vivere. Né il fatto di essere predestinati alla morte li rendeva meno virtuosi. Anzi siamo noi, che non pensiamo mai al momento in cui moriremo e che ci illudiamo di poter allungare quel filo senza alcun limite, a essere diventati peggiori, proprio perché abbiamo rinunciato alla morte. E insieme alla vita.

lunedì 6 agosto 2018

Verba volant (556): catena...

Catena, sost. f.

Sapete che la pubblicità è un genere letterario che amo molto e di cui mi piace scrivere.
Qualche giorno fa ho visto uno spot che mi ha molto colpito: c'è questa ragazza, un'adolescente apparentemente normale - finalmente normale, visto che di solito le giovani donne della pubblicità sono delle specie di "lolite", messe lì a bella posta per stimolare gli istinti più biechi di noi consumatori maschi - questa ragazza, che potrebbe essere tranquillamente mia figlia, facendo salti e piroette lungo i corridoi della sua scuola, è capace con il proprio sguardo di aprire qualunque serratura. Al suo passaggio si aprono le porte delle aule, gli armadietti degli studenti, tutti i contenitori del laboratorio di scienze; capiamo subito che si tratta di un'opera di finzione, perché in quale scuola italiana ci sono le porte che si chiudono, gli armadietti per gli studenti, i laboratori di scienze così attrezzati. Comunque sia, quella pubblicità - che Zaira mi ha spiegato essere di un telefono che può essere sbloccato dallo sguardo del proprietario e non da un codice numerico come faccio ancora io che sono antico - mi è sembrata di un'incredibile forza anarchica: davvero avrei voluto che fosse mia figlia quella giovane donna capace di aprire ogni porta, di spezzare ogni catena, di conoscere ogni segreto. Non ci sono limiti all'intelligenza e alla forza di quella giovane donna, non devono esserci limiti alle speranze delle giovani donne, mentre invece sappiamo bene che le nostre figlie si vedono continuamente sbattere le porte in faccia. Però quella pubblicità racconta una storia diversa, una storia che vorrei raccontare a mia figlia, se ne avessi una.
Timeo Danaos et dona ferentes, come fa dire Virgilio al povero Laocoonte: temo i Danai, anche quando portano doni, di fronte al cavallo di legno lasciato davanti alle porte di Troia dai Greci che avevano finto di ritirarsi, dopo un conflitto durato dieci anni. Sappiamo che Laocoonte fu stritolato, insieme ai suoi figli da un mostro marino apparso magicamente poco dopo che aveva pronunciato quelle parole, profeta inascoltato, sappiamo che i Troiani fecero di tutto per far entrare quella terribile arma all'interno delle mura, accecati da un dio potente che voleva la loro distruzione.
E anch'io, dopo qualche giorno, ho visto un nuovo spot, sempre di quello strabiliante telefono. Questa volta il protagonista è un giovane maschio che, osservando nelle vetrine della sua città vestiti, accessori e gioielli di lusso, con un solo sguardo si veste di tutto punto, poche occhiate e diventa elegantissimo. Allora, come un troiano trafitto di notte dalla lancia nemica, ho capito che questa volta lo scopo della pubblicità è spiegare che grazie a quel telefono basta uno sguardo per comprare un qualsiasi oggetto, non serve neppure fare la fatica di digitare un ok sullo schermo. Ecco l'inganno, ecco i guerrieri che di notte escono dal ventre del cavallo di legno e conquistano la città, uccidendo i Troiani inermi. Quel telefono ci rende liberi, ma liberi di comprare, di spendere soldi, soldi che forse neppure abbiamo, ma l'importante è acquistare, consumare, fare debiti, legarci da soli con catene sempre più pesanti. Dobbiamo comprare senza pensare, dobbiamo comprare tutto quello che desideriamo, anzi tutto quello che vediamo, anche se non lo vogliamo, anche se non ne abbiamo bisogno, anche se non abbiamo i mezzi per farlo. Quella ragazza che poteva spezzare ogni catena era solo un inganno, perché non ci vogliono liberi, ma schiavi. E sento che ormai quelle catene si stanno stringendo sempre di più.