Ho scoperto relativamente da poco tempo il Levante ligure e la Lunigiana, grazie a Zaira, che - pur non essendone originaria - ha vissuto per molti anni a cavallo di quei territori, prima di emigrare in Emilia. Vernazza è un paese che amiamo moltissimo e in cui siamo tornati molte volte, anche solo per poche ore. Questa forse inutile premessa per dire che quello che è successo nei giorni scorsi tra la val di Vara e la valle del Magra ci ha molto colpito, abbiamo guardato con apprensione e con sgomento le immagini trasmesse dalla rete, ci siamo preoccupati per la sorte di quelle persone, abbiamo letto le cronache dalle zone alluvionate e anche, seppur con minore attenzione, le polemiche che puntualmente seguono a eventi come questo, destinate a spegnersi nel giro di pochi giorni, quando vengono soppiantate dalle polemiche "fresche" di giornata. Al di là di tutto questo, quello che è successo merita davvero una riflessione.
Quando si chiede conto a chi ha responsabilità politiche, a livello nazionale e locale, di ciò che ha fatto e di ciò che non fatto, questi quasi sempre risponde che i problemi sono ben altri, facendo intendere, più o meno esplicitamente, che le responsabilità maggiori sono di altre persone e di altri livelli istituzionali. In genere i comuni se la prendono con lo stato, lo stato con i comuni, le province un po' con tutti e così via. Il "benaltrismo" e la mancanza di un'etica della responsabilità sono i motivi per cui questo paese sta inesorabilmente sprofondando, a questo punto non solo metaforicamente. Il territorio italiano è violentato dall'ignoranza e dalla cupidigia. Preservare l'ambiente naturale dovrebbe essere un dovere civico, un modo per conservare e tramandare la memoria e la cultura di un popolo; non pretendo che si capisca questo. Basterebbe guardare ai propri interessi, fare i conti della serva, con tutto il rispetto per questa nobile categoria. Le bellezze della natura e dell'arte sono le uniche risorse di cui dispone questo paese, una garanzia tangibile che l'economia nel futuro potrà continuare a funzionare; tutelare monumenti e patrimonio naturale significa semplicemente fare l'interesse di questo paese, così come i paesi arabi tutelano le proprie riserve petrolifere. Tra gli italiani invece prevale sempre il concetto di "pochi, maledetti e subito", con i risultati che vediamo ogni giorno.
Detto questo, credo però che occorra fare un ragionamento in più, che sposta un po' l'ottica del problema. Parto da questo territorio, perché è l'ultimo colpito, ma il discorso riguarda in fondo tutto il nostro mondo. Nel Levante ligure, nella zona delle Cinque terre, per la sua particolarità geografica non è facile vivere, eppure per secoli gli uomini ci hanno vissuto, riuscendo a trovare un equilibrio con una natura che non era - e continua a non essere - benigna. Questo equilibrio è rimasto sostanzialmente immutato dagli insediamenti dei liguri - fiero popolo sconfitto con difficoltà dall'esercito romano - fino ad alcune generazioni fa. Almeno fino agli inizi del Novecento - diciamo, per semplificare, fino a quando sono arrivati il treno e l'energia elettrica - la vita delle donne e degli uomini di quelle campagne e di quelle montagne è rimasta sostanzialmente uguale a quella che si conduceva nel Medio evo: una famiglia viveva di quello che era in grado di produrre nel proprio terreno e di raccogliere nel bosco vicino, si scaldava con la legna, regolava le proprie giornate secondo il sorgere e il calare del sole e l'anno secondo l'andamento delle stagioni. In un territorio ostile come quello ligure non deve essere stato facile costruire i primi muri a secco, eppure quel sistema è stato l'elemento che per secoli ha permesso di mantenere in equilibrio quel territorio montano a picco sul mare. Non è che allora non ci fossero piogge torrenziali o alluvioni, semplicemente le alluvioni erano uno dei molti modi - e sicuramente non il più frequente - in cui quegli uomini potevano morire. Come sapete in questi giorni siamo impegnati nel 15° censimento generale della popolazione, forse non è inutile ricordare come eravamo 150 anni fa, quando fu fatto il primo censimento dell'Italia unita. Nel 1861 le persone vivevano in media 35 anni, mentre nel 2011 gli uomini hanno una durata di vita media di 75 anni e le donne oltrepassano addirittura gli 80; sempre nel 1861 un bambino su quattro moriva alla nascita, ora ne muoiono tre su mille. Ora dopo l'alluvione siamo giustamente preoccupati per quelle di frazioni di montagna che rimangono isolate; allora l'isolamento, specialmente in montagna, era la condizione di normalità, non serviva un'alluvione, bastava l'inverno a rendere praticamente impossibili gli spostamenti.
Per fortuna non è più così, il progresso scientifico e tecnologico in poco meno di cento anni ha radicalmente cambiato il mondo con una rapidità impensabile nei mille anni precedenti; adesso l'energia elettrica arriva dappertutto, anche nelle case più isolate, così come le linee telefoniche e il segnale televisivo, anche nei borghi più sperduti arrivano ogni giorno generi alimentari freschi di qualunque tipo, non ci si scalda più con la legna, ma con il metano, nelle case arriva l'acqua corrente e ci sono gli scarichi fognari con un indubbio vantaggio per le condizioni igieniche delle persone, le donne vanno a partorire in ospedale e non muoiono più di parto, le bambine e i bambini, indipendentemente da dove vivono, frequentano la scuola e non c'è più l'analfabetismo. Certo il progresso si è portato dietro alcuni altri fenomeni: la campagna si è progressivamente svuotata a favore della città, l'agricoltura è diventata residuale rispetto alla produzione industriale e ai servizi; così ad esempio in Liguria non ci sono quasi più agricoltori che mantengano i muretti a secco e questa è una delle cause del disastro di alcuni giorni fa, oppure non ci sono più gli uomini che raccolgono la legna lungo il letto dei fiumi e questa è un'altra causa della disgrazia. In sostanza mi sembra che non abbiamo ancora trovato un nuovo equilibrio che possa sostituire quello che è andato definitivamente perduto, grazie al progresso della tecnologia. Sarebbe francamente impensabile e anacronistico pensare di tornare indietro, fare finta che questi decenni di progressi siano passati invano; bisogna cominciare a ragionare a un modello di sviluppo in cui gli uomini possano continuare a godere dei vantaggi della tecnologia e della scienza, senza causare ulteriori danni alla natura. Probabilmente dobbiamo avere anche una consapevolezza maggiore dei nostri limiti, di quei limiti dell'uomo che non è possibile - e non lo sarà mai -superare.
lunedì 31 ottobre 2011
giovedì 27 ottobre 2011
"Difesa dei lupi contro le pecore" di Hans Magnus Enzenberger
Dallo sciacallo, che cosa pretendete?
Che muti pelo? E dal lupo? Deve
da sé cavarsi i denti?
Che cosa non vi garba
nei commissari politici e nei pontefici?
Che cosa idioti vi incanta, perdendo biancheria
sullo schermo bugiardo?
Chi cuce al generale
la striscia di sangue sui pantaloni? Chi
trancia il cappone all'usuraio? Chi
fieramente si appende la croce di latta
sull'ombelico brontolante? Chi intasca
la mancia, la moneta d'argento, l'obolo
del silenzio? Son molti
i derubati, pochi i ladri; chi
li applaude allora, chi
li decora e distingue, chi è avido
di menzogna?
Nello specchio guardatevi: vigliacchi
che scansate la pena della verità,
avversi ad imparare e che il pensiero
ai lupi rimettete,
l'anello al naso è il vostro gioiello più caro,
nessun inganno è abbastanza cretino, nessuna
consolazione abbastanza a buon prezzo, ogni ricatto
troppo blando è per voi.
Pecore, a voi sorelle
son le cornacchie, se a voi le confronto.
Voi vi accecate a vicenda.
Regna invece tra i lupi
fraternità. Vanno essi
in branchi.
Siano lodati i banditi. alla violenza
voi li invitate, vi buttate sopra
il pigro letto
dell'ubbidienza. Tra i guaiti ancora
mentite. Sbranati
volete essere. Voi
non lo mutate il mondo.
martedì 25 ottobre 2011
Considerazioni libere (255): a proposito dell'indignazione italiana...
Come sanno i miei lettori più attenti e pazienti, ho dedicato la mia ultima "considerazione" alle manifestazioni del 15 ottobre e al movimento del 99%. In quella riflessione non ho volutamente parlato di quello che è successo in Italia, perché mi sembrava che il tema meritasse un maggiore approfondimento. Ci provo adesso.
Il 15 ottobre a Roma è successo qualcosa di meno e qualcosa di più di quello che è successo in altre capitali europee, ad esempio Madrid, pur se ci sono molte analogie tra la situazione politica ed economica dei due paesi.
Cominciamo da cosa non c'è stato a Roma. In Italia il movimento degli indignati non ha registrato la stessa energia che abbiamo visto in Spagna né c'è stata la capacità di mobilitazione che ha portato migliaia e migliaia di persone a stare per settimane nella piazza Puerta del sol. In Italia non siamo arrivati all'indignazione, ci siamo fermati per mesi alla rassegnazione. I motivi per indignarsi - come noto - sono tanti, eppure in alcuni, in quelli che ne hanno avuto l'opportunità, ha prevalso l'idea di andarsene e tanti giovani hanno fatto questa scelta. C'è poi un aspetto che tocca le corde più profonde del nostro essere italiani, direi quasi un nostro "carattere originario". In Italia ci indignamo pubblicamente e platealmente e infatti ha un certo successo elettorale, specialmente nella parte più ricca del paese, un partito come la Lega, che è intrinsecamente indignato - provate ad ascoltare Radio Padania e ne avrete la riprova più evidente; ma poi sotto sotto cerchiamo il nostro tornaconto, ci adattiamo, accettiamo compromessi. Il caso classico: ci indignamo contro i grandi evasori fiscali e poi facciamo tutto il possibile per frodare, nel nostro piccolo, il fisco, non pagando il canone o dichiarando anche un metro quadro della casa per pagare meno imposte; oppure auspichiamo multe più severe per gli automobilisti indisciplinati e facciamo i furbi quando nessuno ci vede. Furbastri e vili, molto spesso le due cose vanno a braccetto.
Comunque, al di là della passione italica per il "particulare" - come diceva Guicciardini - per tornare al tema, in Italia il movimento è andato al traino dei modelli venuti dagli altri paesi. Ha dimostrato scarsa fantasia, non è riuscito ad andare oltre allo schema di manifestazione più tradizionale: corteo e grande concentramento finale, poi tutti a casa per la cena. Perfino nella scelta dei luoghi non ha dato un segno di originalità: piazza san Giovanni è la piazza di una storia molto gloriosa della sinistra italiana, ma forse a Roma ce ne sono anche altre dove cominciare una storia "nuova". Il problema di fondo però è che per molte delle persone giunte nella capitale domenica scorsa la scelta di manifestare e di andare in piazza è stata dettata soprattutto dall'antiberlusconismo. Intendiamoci: motivi per indignarsi contro B. e l'Italia peggiore che egli rappresenta ce ne sono moltissimi, tanti da organizzare una manifestazione ogni settimana, ma francamente ridurre i mali del mondo - e anche dell'Italia - alla permanenza di B. a Palazzo Chigi è sopravvalutare un personaggio verso cui l'atteggiamento migliore è la derisione, come hanno fatto con tempismo ed efficacia Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. Gli indignati italiani - o almeno gran parte di essi - sbagliano quando pensano che dimessosi B. la situazione migliorerà. Il prossimo governo italiano - che sia guidato da Monti o da Montezemolo poco importa - ispirato alla lettera agostana di Draghi attuerà politiche ultraliberiste, che vanno nella direzione opposta a quanto chiede il popolo del 99%. Perfino un assai improbabile governo Bersani farebbe la stessa politica economica, un po' mitigata forse, un po' meno dura, ma sostanzialmente identica, perché la cultura politica del maggior partito del centrosinistra italiano ha volutamente ripudiato ogni idea di radicale trasformazione dei rapporti economici. La grande novità di questo movimento è il suo forte carattere anticapitalista, un elemento ormai profondamente estraneo alla politica; ed è questo il motivo di fondo per cui il movimento non trova sponde politiche, ma solo paternalistiche pacche sulle spalle.
Veniamo a cosa c'è stato in più a Roma. Alcune centinaia di giovani hanno letteralmente preso in ostaggio il corteo e provocato le violenze che abbiamo diffusamente visto nei servizi televisivi. I politici e i giornali che dipendono da B. hanno denunciato il clima di odio che si respira nel paese contro il presidente del consiglio, spiegando che la sinistra è intrinsecamente violenta e quindi che i "cattivi" di Roma non sono schegge impazzite, ma parte integrante del movimento. I politici e i giornali di destra hanno soffiato sul fuoco della paura e hanno rilanciato il messaggio che per far andare avanti il paese occorre di fatto anestetizzare ogni forma di conflitto sociale. I politici e i giornali di sinistra hanno sostenuto la tesi che i violenti erano dei provocatori infiltrati da qualche forza oscura e torbida, secondo gli antichi insegnamenti cossighiani. Nessuna di queste tesi regge a un'analisi seria.
Ho trovato illuminante un'intervista a uno di questi ragazzotti fatta da un inviato di Rainews 24. Questo giovane, che non ha ancora compiuto diciotto anni, in un italiano stentato, ha spiegato che lui e i suoi amici erano andati in piazza esclusivamente per alimentare degli scontri, che - cito a memoria, scusate l'imprecisione - "rossi o neri poco importa, importante è menà" e infine che il loro bersaglio erano i poliziotti, a prescindere. Le violenze successe domenica scorsa a Roma c'entrano poco o nulla con quello che sta succedendo da settimane in Grecia, dove da sempre c'è una parte del movimento dell'estrema sinistra e dell'anarchia che utilizza la violenza come strumento della lotta politica; i fatti di Roma hanno le stesse cause delle violenze successe a Londra all'inizio dello scorso mese di agosto.
Scusate l'autocitazione, ma riporto qui parte di una "considerazione" di qualche settimana fa su quella vicenda.
Il 15 ottobre a Roma è successo qualcosa di meno e qualcosa di più di quello che è successo in altre capitali europee, ad esempio Madrid, pur se ci sono molte analogie tra la situazione politica ed economica dei due paesi.
Cominciamo da cosa non c'è stato a Roma. In Italia il movimento degli indignati non ha registrato la stessa energia che abbiamo visto in Spagna né c'è stata la capacità di mobilitazione che ha portato migliaia e migliaia di persone a stare per settimane nella piazza Puerta del sol. In Italia non siamo arrivati all'indignazione, ci siamo fermati per mesi alla rassegnazione. I motivi per indignarsi - come noto - sono tanti, eppure in alcuni, in quelli che ne hanno avuto l'opportunità, ha prevalso l'idea di andarsene e tanti giovani hanno fatto questa scelta. C'è poi un aspetto che tocca le corde più profonde del nostro essere italiani, direi quasi un nostro "carattere originario". In Italia ci indignamo pubblicamente e platealmente e infatti ha un certo successo elettorale, specialmente nella parte più ricca del paese, un partito come la Lega, che è intrinsecamente indignato - provate ad ascoltare Radio Padania e ne avrete la riprova più evidente; ma poi sotto sotto cerchiamo il nostro tornaconto, ci adattiamo, accettiamo compromessi. Il caso classico: ci indignamo contro i grandi evasori fiscali e poi facciamo tutto il possibile per frodare, nel nostro piccolo, il fisco, non pagando il canone o dichiarando anche un metro quadro della casa per pagare meno imposte; oppure auspichiamo multe più severe per gli automobilisti indisciplinati e facciamo i furbi quando nessuno ci vede. Furbastri e vili, molto spesso le due cose vanno a braccetto.
Comunque, al di là della passione italica per il "particulare" - come diceva Guicciardini - per tornare al tema, in Italia il movimento è andato al traino dei modelli venuti dagli altri paesi. Ha dimostrato scarsa fantasia, non è riuscito ad andare oltre allo schema di manifestazione più tradizionale: corteo e grande concentramento finale, poi tutti a casa per la cena. Perfino nella scelta dei luoghi non ha dato un segno di originalità: piazza san Giovanni è la piazza di una storia molto gloriosa della sinistra italiana, ma forse a Roma ce ne sono anche altre dove cominciare una storia "nuova". Il problema di fondo però è che per molte delle persone giunte nella capitale domenica scorsa la scelta di manifestare e di andare in piazza è stata dettata soprattutto dall'antiberlusconismo. Intendiamoci: motivi per indignarsi contro B. e l'Italia peggiore che egli rappresenta ce ne sono moltissimi, tanti da organizzare una manifestazione ogni settimana, ma francamente ridurre i mali del mondo - e anche dell'Italia - alla permanenza di B. a Palazzo Chigi è sopravvalutare un personaggio verso cui l'atteggiamento migliore è la derisione, come hanno fatto con tempismo ed efficacia Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. Gli indignati italiani - o almeno gran parte di essi - sbagliano quando pensano che dimessosi B. la situazione migliorerà. Il prossimo governo italiano - che sia guidato da Monti o da Montezemolo poco importa - ispirato alla lettera agostana di Draghi attuerà politiche ultraliberiste, che vanno nella direzione opposta a quanto chiede il popolo del 99%. Perfino un assai improbabile governo Bersani farebbe la stessa politica economica, un po' mitigata forse, un po' meno dura, ma sostanzialmente identica, perché la cultura politica del maggior partito del centrosinistra italiano ha volutamente ripudiato ogni idea di radicale trasformazione dei rapporti economici. La grande novità di questo movimento è il suo forte carattere anticapitalista, un elemento ormai profondamente estraneo alla politica; ed è questo il motivo di fondo per cui il movimento non trova sponde politiche, ma solo paternalistiche pacche sulle spalle.
Veniamo a cosa c'è stato in più a Roma. Alcune centinaia di giovani hanno letteralmente preso in ostaggio il corteo e provocato le violenze che abbiamo diffusamente visto nei servizi televisivi. I politici e i giornali che dipendono da B. hanno denunciato il clima di odio che si respira nel paese contro il presidente del consiglio, spiegando che la sinistra è intrinsecamente violenta e quindi che i "cattivi" di Roma non sono schegge impazzite, ma parte integrante del movimento. I politici e i giornali di destra hanno soffiato sul fuoco della paura e hanno rilanciato il messaggio che per far andare avanti il paese occorre di fatto anestetizzare ogni forma di conflitto sociale. I politici e i giornali di sinistra hanno sostenuto la tesi che i violenti erano dei provocatori infiltrati da qualche forza oscura e torbida, secondo gli antichi insegnamenti cossighiani. Nessuna di queste tesi regge a un'analisi seria.
Ho trovato illuminante un'intervista a uno di questi ragazzotti fatta da un inviato di Rainews 24. Questo giovane, che non ha ancora compiuto diciotto anni, in un italiano stentato, ha spiegato che lui e i suoi amici erano andati in piazza esclusivamente per alimentare degli scontri, che - cito a memoria, scusate l'imprecisione - "rossi o neri poco importa, importante è menà" e infine che il loro bersaglio erano i poliziotti, a prescindere. Le violenze successe domenica scorsa a Roma c'entrano poco o nulla con quello che sta succedendo da settimane in Grecia, dove da sempre c'è una parte del movimento dell'estrema sinistra e dell'anarchia che utilizza la violenza come strumento della lotta politica; i fatti di Roma hanno le stesse cause delle violenze successe a Londra all'inizio dello scorso mese di agosto.
Scusate l'autocitazione, ma riporto qui parte di una "considerazione" di qualche settimana fa su quella vicenda.
Cercare le ragioni della violenza non significa certo giustificarla, come recita un sillogismo caro a certa stampa moderata. Forse non è un caso che i tumulti siano cominciati a Tottenham, dove la chiusura di diversi centri sociali giovanili ha lasciato senza luoghi di aggregazione e attività sociali molti giovani disoccupati del quartiere. Gli scontri delle periferie inglesi dimostrano che una politica - indipendentemente dal colore del governo che la porta avanti - che non ritenga come sua centrale responsabilità l’attenuazione delle differenze di ricchezza e di classe, la creazione di opportunità per i più deboli e di posti di lavoro e occasioni di occupazione, che tagli indiscriminatamente le spese sociali, è una politica che si dispone a ignorare un problema enorme, o a pensare di affrontarlo solo con periodiche repressioni, buone soltanto a tranquillizzare i “bravi cittadini”.
Penso che questa riflessione si adatti bene anche a quello che è successo domenica a Roma.
domenica 23 ottobre 2011
Considerazioni libere (254): a proposito di una giornata di protesta democratica...
Nelle Supplici Eschilo racconta la storia delle Danaidi, le cinquanta figlie di Danao, che fuggono ad Argo perché rifiutano il matrimonio con i cinquanta figli di Egitto. La mitica Argo del re Pelasgo viene descritta dal tragediografo ateniese come una democrazia: il re non ha il potere di decidere da solo se ospitare o meno in città le supplici figlie di Danao, deve convocare l'assemblea dei cittadini. Danao racconta alle figlie lo spettacolo delle mani alzate degli Argivi riuniti in assemblea per accettare la proposta del re. I cittadini di Argo si rendono conto che la loro scelta di proteggere le supplici potrebbe provocare una guerra, ma accettano consapevolmente questo rischio, perché pensano sia una causa giusta. In questa tragedia c'è, seppure in perifrasi, la prima attestazione del termine democrazia: demou kratousa cheir "la mano del popolo sovrana", nella bella traduzione di Manara Valgimigli. L'astratto democrazia non ha ancora preso forma, ma si materializza nella mano che esprime il voto.
C'è commozione nelle parole di Danao: "tutte le destre furono levate / fremette il cielo quando fu deciso". Mi sono tornati in mente questi versi di Eschilo vedendo le immagini delle piazze piene di manifestanti dello scorso 15 ottobre. Da New York a Madrid, e in moltissime altre città del mondo, nelle piazze i manifestanti hanno votato - per decidere quali forme di lotta e di protesta adottare o per approvare una piattaforma di rivendicazioni piuttosto che l'altra - insomma hanno deciso e decidono le cose che li riguardano alzando le mani, nello stesso modo in cui lo racconta Eschilo. E il 15 ottobre le mani alzate erano talmente tante - in 951 città per 82 paesi - che davvero sembrava di vedere il cielo fremere, sotto l'onda dell'indignazione per questo mondo in cui le ingiustizie sono così numerose.
Come è noto la polizia di New York ha vietato ai manifestanti di Zuccotti park di utilizzare gli impianti di amplificazione; chi ha occupato quella piazza allora ha "inventato" i mic check, quello che nei giochi da bambini si chiama il telefono senza fili. Chi parla, chi fa un annuncio che deve essere sentito in tutta la piazza, sa che la sua frase sarà diffusa tra la folla da persone che ripetono, parola per parola, ciò che egli ha detto a quelli intorno a lui, spingendo tutti a parlare con un'unica voce, un sistema fastidiosamente lento nell'epoca della comunicazione globale, eppure riuscito a ottenere il risultato voluto e ad aggirare lo stupido divieto di un potere che non ha saputo capire la forza della protesta. Aristotele, nel libro VII della Politica, spiega che una città non dovrebbe mai ingrandirsi al punto da impedire che la voce stentorea di un araldo raggiunga simultaneamente tutti i cittadini: una lezione appresa, in maniera piuttosto originale, dai manifestanti di Zuccotti park.
C'è qualcosa di antico in queste proteste e altrettanto antico è il riappropriarsi che hanno fatto queste persone degli spazi pubblici. I "soloni" della comunicazione ci hanno spiegato per anni che la politica ormai si sarebbe fatta esclusivamente attraverso la rete, attraverso i nuovi strumenti offerti dalla tecnologia, abbiamo cominciato a sottostimare il potere politico insito nei luoghi fisici. Poi è arrivata piazza Tahrir e queste considerazioni si sono rivelate molto discutibili, molto meno moderne delle parole di Eschilo e di Aristotele. Anzi, a dire il vero, le piazze, i luoghi, non hanno mai perso la loro forza, soltanto che abbiamo preferito guardare altrove, spinti da una modernità che ci sembrava - anche in buona fede - fonte di progresso. L'89, l'anno in cui molte cose sono cambiate nel nostro mondo, è stato caratterizzato da due luoghi simbolo: piazza Tiananmen e il muro di Berlino.
Le migliaia e migliaia di persone che in queste settimane sono scese nelle piazze si sono lentamente riappropriate di alcuni luoghi fisici, particolarmente significativi, ma nel far questo hanno cominciato a costruire un modo diverso di intendere la politica, la partecipazione, lo stare insieme. Ho letto una dichiarazione di uno dei manifestanti di New York sul sistema del passaparola per comunicare da un capo all'altro della piazza e la trovo estremamente illuminante:
C'è commozione nelle parole di Danao: "tutte le destre furono levate / fremette il cielo quando fu deciso". Mi sono tornati in mente questi versi di Eschilo vedendo le immagini delle piazze piene di manifestanti dello scorso 15 ottobre. Da New York a Madrid, e in moltissime altre città del mondo, nelle piazze i manifestanti hanno votato - per decidere quali forme di lotta e di protesta adottare o per approvare una piattaforma di rivendicazioni piuttosto che l'altra - insomma hanno deciso e decidono le cose che li riguardano alzando le mani, nello stesso modo in cui lo racconta Eschilo. E il 15 ottobre le mani alzate erano talmente tante - in 951 città per 82 paesi - che davvero sembrava di vedere il cielo fremere, sotto l'onda dell'indignazione per questo mondo in cui le ingiustizie sono così numerose.
Come è noto la polizia di New York ha vietato ai manifestanti di Zuccotti park di utilizzare gli impianti di amplificazione; chi ha occupato quella piazza allora ha "inventato" i mic check, quello che nei giochi da bambini si chiama il telefono senza fili. Chi parla, chi fa un annuncio che deve essere sentito in tutta la piazza, sa che la sua frase sarà diffusa tra la folla da persone che ripetono, parola per parola, ciò che egli ha detto a quelli intorno a lui, spingendo tutti a parlare con un'unica voce, un sistema fastidiosamente lento nell'epoca della comunicazione globale, eppure riuscito a ottenere il risultato voluto e ad aggirare lo stupido divieto di un potere che non ha saputo capire la forza della protesta. Aristotele, nel libro VII della Politica, spiega che una città non dovrebbe mai ingrandirsi al punto da impedire che la voce stentorea di un araldo raggiunga simultaneamente tutti i cittadini: una lezione appresa, in maniera piuttosto originale, dai manifestanti di Zuccotti park.
C'è qualcosa di antico in queste proteste e altrettanto antico è il riappropriarsi che hanno fatto queste persone degli spazi pubblici. I "soloni" della comunicazione ci hanno spiegato per anni che la politica ormai si sarebbe fatta esclusivamente attraverso la rete, attraverso i nuovi strumenti offerti dalla tecnologia, abbiamo cominciato a sottostimare il potere politico insito nei luoghi fisici. Poi è arrivata piazza Tahrir e queste considerazioni si sono rivelate molto discutibili, molto meno moderne delle parole di Eschilo e di Aristotele. Anzi, a dire il vero, le piazze, i luoghi, non hanno mai perso la loro forza, soltanto che abbiamo preferito guardare altrove, spinti da una modernità che ci sembrava - anche in buona fede - fonte di progresso. L'89, l'anno in cui molte cose sono cambiate nel nostro mondo, è stato caratterizzato da due luoghi simbolo: piazza Tiananmen e il muro di Berlino.
Le migliaia e migliaia di persone che in queste settimane sono scese nelle piazze si sono lentamente riappropriate di alcuni luoghi fisici, particolarmente significativi, ma nel far questo hanno cominciato a costruire un modo diverso di intendere la politica, la partecipazione, lo stare insieme. Ho letto una dichiarazione di uno dei manifestanti di New York sul sistema del passaparola per comunicare da un capo all'altro della piazza e la trovo estremamente illuminante:
Di questi tempi ci distraiamo così facilmente, le persone si sono dimenticate come si fa a concentrarsi. Ma la strategia del mic check richiede non solo che ognuno di noi senta le opinioni degli altri ma che si ascolti davvero ciò che gli altri dicono, perché dobbiamo ripeterlo parola per parola.
Il mic check è un sistema di comunicazione sicuramente meno veloce dei tweet, ma che costringe le persone a guardarsi in faccia, a capirsi, a non lasciare indietro nulla.
Un altro manifestante ha detto:
Veniamo per sentirci parte di una comunità più grande; è importante inserire tutto questo nel contesto dell'alienazione attuale. Facebook lo usiamo da soli. Ma le persone non sono sole qui.
Le donne e gli uomini che condividono una piazza - ed è importante ricordare che queste manifestazioni non sono fatte solo di giovani, ma sono molto variegate per quel che riguarda le generazioni - prima di tutto fanno vedere a chi detiene il potere economico e politico che sono in tanti - che siamo in tanti - il 99%, per usare uno dei più fortunati slogan del movimento, che subisce le decisioni dell'1%. Ma chi è in piazza scopre di far parte di una comunità, le persone vedono che dietro quel 99% ci sono persone vere, con problemi simili e spesso identici, ai loro.
In piazza Tahrir, poi alla Puerta del sol e infine a Zuccotti park, per citare tre esempi molto diversi e anche per molti aspetti difficilmente confrontabili, le persone che manifestavano non si sono limitate a scandire slogan, ma hanno fatto vivere la piazza, hanno organizzato la loro sicurezza, hanno provveduto a gestire i bisogni alimentari, hanno messo a disposizione le loro capacità individuali per quella collettività, per quel microcosmo diventato per alcuni giorni una sorta di città nella città. L'immagine più viva delle manifestazioni di Zuccotti park rimane quella dei manifestanti che puliscono il parco, anche per rispondere all'ennesimo stupido tentativo del potere di bloccare le proteste.
In questi giorni abbiamo sentito molte volte politici e intellettuali - di destra e di sinistra - che, pur lodando le manifestazioni, hanno espresso le loro riserve per il fatto che gli indignati non hanno una piattaforma politica precisa: "l'indignazione non basta - dicono questi sapientoni - occorre la proposta". Molte di queste dichiarazioni di attenzione alle ragioni delle proteste sono assolutamente pelose, come quelle di Mario Draghi, già vicepresidente della Goldman Sachs e futuro presidente della Bce; Draghi è uno dei capi più influenti dell'1% e francamente potrebbe star zitto. Incomprensibili sono le dichiarazioni dei leader dei partiti del centrosinistra che non si rendono conto che è impossibile che un movimento di questo genere abbia una piattaforma definita, sarebbe anzi un controsenso. Come ho cercato di spiegare prima, in questo caso, in maniera evidente, la forma è sostanza. I manifestanti non hanno ricette su come uscire dalla crisi, ma è importante che siano in piazza per esprimere la nostra stanchezza, la nostra preoccupazione, la nostra paura per il futuro.
Le piazze piene di manifestanti sono un segnale estremamente positivo, ma il fatto che le maggiori forze politiche del centrosinistra non riescano a capire le ragioni di questa protesta e anzi che ne diventino, come succede in Spagna, il principale bersaglio è un segnale molto negativo. Una cosa è certa: del movimento del 99% ne parleremo ancora.
venerdì 21 ottobre 2011
"Bandiera" di Giovanni Giudici
dentro un sogno Fu nel ‘33 o ‘31
Forse all’infuori di me
Non si ricorda più nessuno -
Di quella nave mi ha narrato
Uno che è morto sotterrato
Anzi dissotterrato
E poi sotterrato ancora
Del quale sparito è il volto
E persa la sua parola -
E dell’ignoto comunista
A bordo del tempo fascista
Con grande urgenza comandato
Un sabato sera a aggiustare
Un guasto nella torretta
Per la rivista navale -
Ed egli con sé aveva preso
Una bandiera rosso acceso
Un ingegnoso elettricista
Che in prigione poi fu mandato
Un macchinista serio e assorto
Che mai non aveva scherzato -
E al posto del tricolore
Legò quel rosso del cuore
La notte intera lavorò
Con solerzia, con diligenza
Sul fare del giorno sbarcò
Senza la minima impazienza -
Spiando da un molo o scogliera
L’ora dell’alzabandiera
Nella mattina di festa
Sul golfo di sole e vento
Col mare che trasaliva
All’inaudito avvenimento -
Issò bandiera rossa a riva
Il regio incrociatore Trento
Scrivo d’un sogno dentro un sogno
Memoria d’una memoria
Uomo bandiera e nave
Inghiottiti dalla storia -
Dei quali mi fu raccontato
Nel luogo dove son nato
martedì 18 ottobre 2011
"Il nome di Maria Fresu" di Andrea Zanzotto
E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto - scoppiato e disseminato -
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp.
domenica 16 ottobre 2011
Considerazioni libere (253): a proposito di droga e di guerra...
Nella mia ultima "considerazione", dedicata al bilancio dei dieci anni della guerra in Afghanistan, ho ricordato che l'economia del paese si basa essenzialmente sulla produzione e sul commercio della droga. Ho provato ad approfondire questo tema, cercando in rete qualche dato in più. L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) stima che la produzione dell'oppio in Afghanistan crescerà alla fine di quest'anno del 61%, ossia 5.800 tonnellate contro le 3.600 dello scorso anno. A causa dei cali di produzione in alcuni altri paesi asiatici, a seguito di inondazioni e altri disastri ambientali, il prezzo dell'oppio secco è aumentato del 43% rispetto al 2010, da 169 a 241 dollari al kg. Lo scorso anno la produzione afghana di oppio ha fruttato circa 605 milioni di dollari, mentre quest’anno si stimano guadagni per 1,4 miliardi di dollari, un incremento del 133%. Per il paese la produzione di questa sostanza contribuisce al 9% del Prodotto interno lordo. Il rapporto della sede afghana dell'Unodc spiega chiaramente che "i guadagni più alti ricavati dall'oppio, contro i prezzi più bassi del grano, possono aver incoraggiato i coltivatori a riprendere la coltivazione del papavero da oppio".
Quindi, nonostante la guerra, la produzione di oppio tende a crescere e quindi è inevitabile chiedersi quanto siano efficaci gli sforzi occidentali nel contrastare una tra le maggiori fonti di finanziamento dei "nemici" talebani. Nonostante i proclami della coalizione occidentale di lotta al traffico della droga, il contrasto alla produzione e al traffico di oppiacei afghani attraverso l’azione militare si sta rivelando inefficace, inconcludente ed estremamente costoso. Anzi probabilmente è proprio la guerra ad alimentare il traffico di guerra. Certamente la guerra in Afghanistan sta registrando un netto innalzamento di violenza proprio nelle regioni dove c'è maggior coltura di oppio.
Ci sono alcuni passaggi storici che aiutano a far capire cosa sta succedendo oggi in Afghanistan. Negli anni Settanta ci fu un boom della produzione di oppio e di eroina nel cosiddetto "Triangolo d'Oro" - Laos, Birmania e Cambogia - ) grazie alle coperture della Cia che con i ricavi del traffico di droga finanziava le operazioni anti-comuniste nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema - e questo è un fatto abbastanza risaputo - fu adottato dalla Cia negli anni Ottanta in America Latina, per finanziare, grazie ai proventi della coca, la guerriglia antisandinista dei Contras in Nicaragua, e in Afghanistan per finanziare, con i proventi dell'eroina, la resistenza contro i sovietici dei mujaheddin. Intorno al 2000 il regime dei talebani, ormai saldamente al potere, anche per "ripulire" la propria immagine internazionale, fortemente condizionata dal traffico della droga, decise di bloccare la produzione e questa azione fu abbastanza efficace, tanto da far crollare la produzione nazionale a sole 200 tonnellate annue, ben inferiori alle 4mila degli anni Novanta. In seguito la produzione è lentamente ripresa per scoppiare nuovamente dopo lo scoppio della guerra.
C'è anche una sorta di "giustificazione" umanitaria di questa ripresa: la coltivazione dell'oppio verrebbe tollerata perché è l'unica fonte di reddito per interi villaggi di quella parte del paese in cui l'azione del governo Karzai non è in grado di arrivare. Per molti afghani la produzione dell'oppio sarebbe dunque l'unico modo di sopravvivere. Nessuno però ricorda che a fronte di una popolazione di circa 32 milioni, un milione di giovani afghani è già dipendente da droghe pesanti.
Secondo diverse fonti attualmente il traffico di droga servirebbe a finanziare entrambe le forze in campo. I talebani finanziano le loro attività terroristiche grazie ai traffici di droga lungo i confini tra Afghanistan e Pakistan, con la connivenza o l'aperta complicità dei servizi segreti di questo paese. Nella produzione e nel traffico della droga pare particolarmente attivo anche il "fronte occidentale" tanto che Ahmed Wali Karzai, fratello del presidente, sarebbe fra i più potenti "signori della droga" afghani. La roccaforte della famiglia Karzai si trova nella regione a sud del paese, a più elevata produzione di oppio e di eroina.
Secondo il giornalista e storico Douglas Valentine, nella guerra in Afghanistan si misurerebbe anche lo scontro tra due agenzie statunitensi: la Dea, impegnata nella lotta al traffico della droga, e la Cia che proteggerebbe gli apparati politici e amministrativi afghani che, alleati con i "signori della droga", sostengono quel mercato così remunerativo.
Al di là di questa tesi "complottista", per quanto ben documentata, credo si possano fare alcune riflessioni. Il fiorente mercato della droga, in Afghanistan come in molti altri paesi, fiorisce grazie alla connivenza tra produttori, trafficanti e autorità politiche e militari di quelle che sono realtà nazionali estremamente instabili, con alti tassi di povertà e corruzione, in cui gli sforzi di chi cerca di contrastarlo sono sempre più velleitarie e illusori. La guerra alimenta questa instabilità e quindi il mercato della droga. Forse era inevitabile scegliere di sostenere Karzai, ma con altrettanto realismo bisogna anche sapere con chi si ha a che fare. E sarà possibile uscire dignitosamente da una guerra da cui comunque i paesi occidentali finiranno per essere sconfitti.
Quindi, nonostante la guerra, la produzione di oppio tende a crescere e quindi è inevitabile chiedersi quanto siano efficaci gli sforzi occidentali nel contrastare una tra le maggiori fonti di finanziamento dei "nemici" talebani. Nonostante i proclami della coalizione occidentale di lotta al traffico della droga, il contrasto alla produzione e al traffico di oppiacei afghani attraverso l’azione militare si sta rivelando inefficace, inconcludente ed estremamente costoso. Anzi probabilmente è proprio la guerra ad alimentare il traffico di guerra. Certamente la guerra in Afghanistan sta registrando un netto innalzamento di violenza proprio nelle regioni dove c'è maggior coltura di oppio.
Ci sono alcuni passaggi storici che aiutano a far capire cosa sta succedendo oggi in Afghanistan. Negli anni Settanta ci fu un boom della produzione di oppio e di eroina nel cosiddetto "Triangolo d'Oro" - Laos, Birmania e Cambogia - ) grazie alle coperture della Cia che con i ricavi del traffico di droga finanziava le operazioni anti-comuniste nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema - e questo è un fatto abbastanza risaputo - fu adottato dalla Cia negli anni Ottanta in America Latina, per finanziare, grazie ai proventi della coca, la guerriglia antisandinista dei Contras in Nicaragua, e in Afghanistan per finanziare, con i proventi dell'eroina, la resistenza contro i sovietici dei mujaheddin. Intorno al 2000 il regime dei talebani, ormai saldamente al potere, anche per "ripulire" la propria immagine internazionale, fortemente condizionata dal traffico della droga, decise di bloccare la produzione e questa azione fu abbastanza efficace, tanto da far crollare la produzione nazionale a sole 200 tonnellate annue, ben inferiori alle 4mila degli anni Novanta. In seguito la produzione è lentamente ripresa per scoppiare nuovamente dopo lo scoppio della guerra.
C'è anche una sorta di "giustificazione" umanitaria di questa ripresa: la coltivazione dell'oppio verrebbe tollerata perché è l'unica fonte di reddito per interi villaggi di quella parte del paese in cui l'azione del governo Karzai non è in grado di arrivare. Per molti afghani la produzione dell'oppio sarebbe dunque l'unico modo di sopravvivere. Nessuno però ricorda che a fronte di una popolazione di circa 32 milioni, un milione di giovani afghani è già dipendente da droghe pesanti.
Secondo diverse fonti attualmente il traffico di droga servirebbe a finanziare entrambe le forze in campo. I talebani finanziano le loro attività terroristiche grazie ai traffici di droga lungo i confini tra Afghanistan e Pakistan, con la connivenza o l'aperta complicità dei servizi segreti di questo paese. Nella produzione e nel traffico della droga pare particolarmente attivo anche il "fronte occidentale" tanto che Ahmed Wali Karzai, fratello del presidente, sarebbe fra i più potenti "signori della droga" afghani. La roccaforte della famiglia Karzai si trova nella regione a sud del paese, a più elevata produzione di oppio e di eroina.
Secondo il giornalista e storico Douglas Valentine, nella guerra in Afghanistan si misurerebbe anche lo scontro tra due agenzie statunitensi: la Dea, impegnata nella lotta al traffico della droga, e la Cia che proteggerebbe gli apparati politici e amministrativi afghani che, alleati con i "signori della droga", sostengono quel mercato così remunerativo.
Al di là di questa tesi "complottista", per quanto ben documentata, credo si possano fare alcune riflessioni. Il fiorente mercato della droga, in Afghanistan come in molti altri paesi, fiorisce grazie alla connivenza tra produttori, trafficanti e autorità politiche e militari di quelle che sono realtà nazionali estremamente instabili, con alti tassi di povertà e corruzione, in cui gli sforzi di chi cerca di contrastarlo sono sempre più velleitarie e illusori. La guerra alimenta questa instabilità e quindi il mercato della droga. Forse era inevitabile scegliere di sostenere Karzai, ma con altrettanto realismo bisogna anche sapere con chi si ha a che fare. E sarà possibile uscire dignitosamente da una guerra da cui comunque i paesi occidentali finiranno per essere sconfitti.
sabato 15 ottobre 2011
"Edipo" di Henry Moonlock
Non giudicare felice nessuno finché non è morto
mi disse la sfinge prima di cercare
e trovare la morte
solo perché le avevo detto che ero io
quello che lei cercava
io non capii
pensai che fosse il suo ultimo enigma
e che per sempre mi volesse consegnare
al destino di chi intuisce
senza mai averne la prova
che ditro le cose si muove un demone
che ci fa essere ciò che siamo
da quel giorno
molto ho amato e molto ho odiato
ho mentito tradito urlato le mie verità
come se fossi giuda che consegna
alla storia il maestro
perché non sa cosa farsene
né della storia né del maestro
e gli restano solo trenta denari
per pagarsi la sua morte
ho fatto a meno della sapienza
ho fatto a meno della stoltezza
ho fatto a meno di tutto ciò
che può dare felicità e dolore
Ma a modo mio anch'io ho sofferto
e anch'io sono stato felice
Ma di notte quando l'insonnia
ti fa scoprire che in cielo ci sono la luna
e le stelle e che dei sogni di cui fai a meno
non puoi fare a meno
ricordo ciò che mi disse la sfinge
il giorno della sua morte
mi chiedo se lei fosse felice
se domani lo sarò di nuovo anch'io
"Musica del futuro" di Hans Magnus Enzenberger
Lei che non possiamo attendere
ce l'insegnerà.
Risplende, è incerta, remota.
Lei che lasciamo venire a noi
non ci attende,
non viene a noi,
di noi non cura,
rimane nell'irrisolto.
Non ci appartiene,
di noi non chiede, di noi
non si sovviene,
con noi non parla,
non ci è dovuta.
Non era,
non è per noi,
non è mai stata,
non è mai,
non è.
giovedì 13 ottobre 2011
Considerazioni libere (252): a proposito di una guerra che sembra non finire...
Abbiamo da poco passato il 7 ottobre, un altro decennale, meno ricordato - per ovvie ragioni - di quello dell'11 settembre, a cui pure è strettamente collegato. Il 7 ottobre 2001 gli Stati Uniti e il Regno Unito attaccarono l'Afghanistan con lo scopo di combattere l'organizzazione terroristica al Qaida, che, proprio grazie al sostegno dei talebani al potere a Kabul, aveva fatto del paese asiatico il suo rifugio e la sua base operativa. In questi dieci anni sono successe molte cose: il regime dei talebani, rapidamente sconfitto, è stato sostituito da un governo "amico" delle forze occidentali, le Nazioni Unite hanno dato copertura giuridica all'operazione bellica, dando mandato alla Nato di gestirla, molti altri paesi hanno partecipato al conflitto - compresa l'Italia - nel paese ci sono state due elezioni presidenziali dalla dubbie credenziali democratiche, Osama bin Laden è stato ucciso. Anche il mondo intanto è cambiato: gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra all'Iraq di Saddam Hussein, è stato eletto un nuovo presidente degli Stati Uniti, è cominciata una crisi economica mondiale i cui esiti non sono prevedibili, ma che gran parte degli analisti considerano più grave di quella del 1929, nell'Africa settentrionale e nel Medio Oriente è cominciato a soffiare un vento di rivolta che ha già portato al cambiamento di regime in almeno quattro stati - Tunisia, Egitto, Libia e Yemen - e che ancora è in corso.
La guerra in Afghanistan non è ancora finita e nessuno onestamente sa se e quando finirà. Questo conflitto ha segnato in profondità questi dieci anni, l'inizio del secolo, è qualcosa sui cui in tanti ci siamo interrogati e su cui ci siamo divisi. Per pura curiosità ho guardato quante "considerazioni" ho dedicato alla guerra in questi due anni di blog: sono diverse, tra cui la prima, del 18 settembre 2009.
Dieci anni sono un tempo sufficientemente lungo per fare un bilancio. Secondo le stime ufficiali, incrociando e confrontando i dati delle Nazioni Unite, della Nato, della Croce Rossa e di Human Rights Watch, sono morte almeno 67mila persone: 15mila civili afgani - ma in questo caso il calcolo è molto difficile e probabilmente stimato in difetto, secondo altre organizzazioni indipendenti il numero di morti civili è il doppio - 38mila guerriglieri talebani, 10mila militari afgani, 2.600 soldati Nato e 1.800 contractors. L'agenzia Onu per i rifugiati ha calcolato che i combattimenti hanno provocato solo negli ultimi cinque anni 730mila sfollati, pari a una media di 400 al giorno. Attualmente sono ancora sfollate oltre 350mila persone.
Dal 2001 a oggi le condizioni di vita della popolazione afgana sono peggiorate: la povertà assoluta è salita dal 23 al 36% della popolazione, l'aspettativa di vita è scesa da 46 a 44 anni, la mortalità infantile è aumentata dal 147 al 149‰, il tasso di alfabetizzazione è sceso dal 31 al 28%. Naturalmente nessuno rimpiange il regime dei talebani - in particolare per i modi in cui erano considerate e trattate le donne - ma queste cifre devono farci riflettere. In questi dieci anni la comunità internazionale ha investito in Afghanistan 40 miliardi di dollari di aiuti, ma evidentemente solo una parte infinitesimale è arrivata davvero alla popolazione. Grandissima parte di questi soldi sono finiti a finanziare i governanti di Kabul, il secondo - dopo la Somalia - governo più corretto del mondo, secondo gli indici internazionali, oppure è tornata indietro sotto forma di profitti alle aziende occidentali di sicurezza e consulenza.
L'economia afgana si regge quasi esclusivamente sulla coltivazione dell'oppio e sul traffico di droga. Quando il regime talebano bandì nel 2000 la produzione di oppio erano coltivati a papavero 82mila ettari del paese. Nel 2007 erano saliti a 193mila; oggi sono scesi a 123mila, ma il calo è dovuto esclusivamente a un problema di sovrapproduzione e quindi imposto dalle regole di mercato. Oggi l'Afghanistan esporta direttamente 400 tonnellate l'anno di eroina.
Già questi numeri fanno capire che il bilancio della missione è negativo; certo a Kabul non ci sono più i talebani - e questo è un fatto assolutamente positivo - ma non è stato raggiunto nessuno degli altri obiettivi per cui la comunità internazionale ha giustificato l'intervento militare: il terrorismo non è stato sconfitto - nonostante la morte di bin Laden - ma ha soltanto spostato le proprie basi, specialmente in Pakistan; nel paese non c'è una vera democrazia e si peccherebbe di ottimismo dicendo che è iniziato il processo che porterà a questo tipo di governo; il narcotraffico non è stato sconfitto, ma anzi si è rafforzato. Se la missione Isaf si fosse limitata al suo obiettivo iniziale, ovvero alla stabilizzazione dell'area di Kabul e al supporto per la creazione di un governo transitorio, oggi forse saremmo di fronte a un altro scenario. La Nato ha disperso le sue scarse forze su tutto il territorio afgano ed è diventata un bersaglio senza riuscire a raggiungere nessuno degli obiettivi ambiziosi che si era datai. Gli stessi militari vivono il paradosso di essere andati lì per difendere gli afgani e di ritrovarsi oggi a difendersi dagli afgani. L'impressione è che in questi dieci anni non sia stato affrontato nessuno dei problemi sociali e culturali la cui soluzione avrebbe potuto garantire un futuro davvero diverso all'Afghanistan: non ci sono stati interventi significativi in campo economico, in campo legislativo e soprattutto per quel che riguarda l'istruzione. Qui abbiamo perso la guerra in Afghanistan.
La guerra in Afghanistan non è ancora finita e nessuno onestamente sa se e quando finirà. Questo conflitto ha segnato in profondità questi dieci anni, l'inizio del secolo, è qualcosa sui cui in tanti ci siamo interrogati e su cui ci siamo divisi. Per pura curiosità ho guardato quante "considerazioni" ho dedicato alla guerra in questi due anni di blog: sono diverse, tra cui la prima, del 18 settembre 2009.
Dieci anni sono un tempo sufficientemente lungo per fare un bilancio. Secondo le stime ufficiali, incrociando e confrontando i dati delle Nazioni Unite, della Nato, della Croce Rossa e di Human Rights Watch, sono morte almeno 67mila persone: 15mila civili afgani - ma in questo caso il calcolo è molto difficile e probabilmente stimato in difetto, secondo altre organizzazioni indipendenti il numero di morti civili è il doppio - 38mila guerriglieri talebani, 10mila militari afgani, 2.600 soldati Nato e 1.800 contractors. L'agenzia Onu per i rifugiati ha calcolato che i combattimenti hanno provocato solo negli ultimi cinque anni 730mila sfollati, pari a una media di 400 al giorno. Attualmente sono ancora sfollate oltre 350mila persone.
Dal 2001 a oggi le condizioni di vita della popolazione afgana sono peggiorate: la povertà assoluta è salita dal 23 al 36% della popolazione, l'aspettativa di vita è scesa da 46 a 44 anni, la mortalità infantile è aumentata dal 147 al 149‰, il tasso di alfabetizzazione è sceso dal 31 al 28%. Naturalmente nessuno rimpiange il regime dei talebani - in particolare per i modi in cui erano considerate e trattate le donne - ma queste cifre devono farci riflettere. In questi dieci anni la comunità internazionale ha investito in Afghanistan 40 miliardi di dollari di aiuti, ma evidentemente solo una parte infinitesimale è arrivata davvero alla popolazione. Grandissima parte di questi soldi sono finiti a finanziare i governanti di Kabul, il secondo - dopo la Somalia - governo più corretto del mondo, secondo gli indici internazionali, oppure è tornata indietro sotto forma di profitti alle aziende occidentali di sicurezza e consulenza.
L'economia afgana si regge quasi esclusivamente sulla coltivazione dell'oppio e sul traffico di droga. Quando il regime talebano bandì nel 2000 la produzione di oppio erano coltivati a papavero 82mila ettari del paese. Nel 2007 erano saliti a 193mila; oggi sono scesi a 123mila, ma il calo è dovuto esclusivamente a un problema di sovrapproduzione e quindi imposto dalle regole di mercato. Oggi l'Afghanistan esporta direttamente 400 tonnellate l'anno di eroina.
Già questi numeri fanno capire che il bilancio della missione è negativo; certo a Kabul non ci sono più i talebani - e questo è un fatto assolutamente positivo - ma non è stato raggiunto nessuno degli altri obiettivi per cui la comunità internazionale ha giustificato l'intervento militare: il terrorismo non è stato sconfitto - nonostante la morte di bin Laden - ma ha soltanto spostato le proprie basi, specialmente in Pakistan; nel paese non c'è una vera democrazia e si peccherebbe di ottimismo dicendo che è iniziato il processo che porterà a questo tipo di governo; il narcotraffico non è stato sconfitto, ma anzi si è rafforzato. Se la missione Isaf si fosse limitata al suo obiettivo iniziale, ovvero alla stabilizzazione dell'area di Kabul e al supporto per la creazione di un governo transitorio, oggi forse saremmo di fronte a un altro scenario. La Nato ha disperso le sue scarse forze su tutto il territorio afgano ed è diventata un bersaglio senza riuscire a raggiungere nessuno degli obiettivi ambiziosi che si era datai. Gli stessi militari vivono il paradosso di essere andati lì per difendere gli afgani e di ritrovarsi oggi a difendersi dagli afgani. L'impressione è che in questi dieci anni non sia stato affrontato nessuno dei problemi sociali e culturali la cui soluzione avrebbe potuto garantire un futuro davvero diverso all'Afghanistan: non ci sono stati interventi significativi in campo economico, in campo legislativo e soprattutto per quel che riguarda l'istruzione. Qui abbiamo perso la guerra in Afghanistan.
mercoledì 12 ottobre 2011
"Ulisse" di Henry Moonlock
Io non sono mai partito da Itaca né ad Itaca sono mai tornato.
Non ho visto Priamo piangere sul corpo del figlio, né odorato
il profumo del legno con cui erano fatte le assi del cavallo
da cui sbucarono a notte i guerrieri che avrebbero distrutto
una città e fondato l'impero di una civiltà. Non ho rubato le armi
di Aiace né mai ho convinto Circe o Calipso a donarmi
per amore il corpo o la giovinezza, l'estasi o l'oblio.
A casa non ho mai avuto Penelope ad attendermi né Telemaco
ha mai cercato il padre che non sono mai stato.
Sono arrivato qui per caso,
qui dove non fioriscono gli ulivi e le mandorle non hanno il sapore
dell'esate e della sete. Ho visto molto, ho visto troppo
o troppo poco. Quanto basta per capire che in quel poco di spazio
che c'è tra un pianeta e le stelle c'è posto per tutto,
e che ogni giorno è felice se vuoi che lo sia;
e pieno di dolore, se non sai farne a meno.
Ora sogno di varcare un giorno le colonne d'Ercole
e d'incontrare, su una montagna bruna che esce dal mare,
un uomo che abbia il mio volto, le mie mani, i miei occhi
e mi dica: eri tu che io aspettavo, eri tu.
Non incontrerò mai quell'uomo, eri tu.
Non incontrerò mai quell'uomo, lo so,
ma a notte, mentre una donna che somiglia a Penelope
mi carezza con una tenerezza che Penelope non ha mai avuto,
sento che quell'uomo, nel buio, mi guarda
e mi parla di un'isola lontana, dove non sono mai stato,
dove non andrò mai perché è tempo ormai
di essere felice, qui, in questa via chiassosa di Manhattan
dove guardando un fast food intuisci
che il tempo è un'invenzione degli dei
che hanno invidia per gli uomini che muoiono.
sabato 8 ottobre 2011
"Pressione" di Les Murray
Un uomo con la faccia neutra
nella grande migrazione
stringe la valigia lucida
mentre sta in fila alla dogana:
Per cortesia (sì, lei) apra la valigia.
Magari non avrà capito.
Si spicci. La apra! Muoversi!
Guardare in giù con occhi assenti non migliorò le cose.
Ditegli di aprire la valigia!
Le lingue alle sue spalle facevano pressione.
Stringeva la sua borsa, ottusamente riluttante.
Ditegli di mettere la valigia sul bancone!
Scattarono lucchetti, lacci caddero a terra tagliati
e nella valigia non c’era niente.
giovedì 6 ottobre 2011
"Il significato dell'esistenza" di Les Murray
Ogni cosa tranne il linguaggio
conosce il significato dell’esistenza.
Gli alberi, i pianeti, i fiumi, il tempo
Non conoscono altro.
Lo esprimono,
momento per momento,
come universo.
Perfino questo stupido corpo
lo vive almeno in parte,
e vi avrebbe piena dignità,
non fosse per l’ignorante libertà
della mia mente parlante.
mercoledì 5 ottobre 2011
"Appeso come una lanterna" di Mario Luzi
Appeso come una lanterna, i più:
altri scolpito dall'interno -
così
portano il viso
ossia quel nero grumo
di rabbia e ottusità,
lo portano contro.
Siamo dove? in che vicolo dell'inferno?
Si può perdere la vita per un caffè non caldo,
per un colpo di tosse
sospettato d'ironia.
Gli assassini
sono dovunque, il coltello è pronto,
il colpo è nella canna. Il loro tempo è venuto.
Così come doveva? - grida forte
ben più antico di me il mio sgomento
a non sa che ufficiali
di che impenetrabile governo.
Risposte non ne danno. Neppure lo negano.
lunedì 3 ottobre 2011
"Bambini di Marzabotto" di Renata Viganò
Eravamo bambini dei monti
con scarsi giochi e poche gioie,
gioco e gioia era stare dall'alba
davanti alla casa di sassi
ad aspettare il tramonto.
Era gioco badare alla pastura,
era gioia il frumento a mietitura.
Verdi nudi pascoli,
bagnati dalle nuvole d'autunno:
un primo piovere sulle foglie,
un odore amaro nella polvere.
Noi non riconoscemmo facce d'uomini
in quelli che ci uccisero
sul petto delle madri uccise.
Sperammo – e lo sperò tutto il mondo –
che morissimo per fiamme di fulmini
dentro una bufera deserta.
Furono invece mani di carne
a dirigere il fuoco, ed occhi aperti.
Noi non riconosciamo legge d'uomini
in quelli che adoprarono le armi
sopra le nostra ossa innocenti.
Oggi veniamo dai prati
strani della memoria,
entriamo nelle lacrime stanche
di chi piange ancora per noi:
siamo antichi come la terra,
giovane come le stagioni.
Noi non riconosciamo atti di guerra
a coloro che vennero soldati
contro la nostra piccola infanzia.
Viviamo nelle notti senza sonno
di quelli che calarono i pugnali
dentro la nostra tenera forza.
Ad essi noi neghiamo vita d'uomini,
sguardo e amore di padri.
sabato 1 ottobre 2011
Considerazioni libere (251): a proposito di una stagione che sta per finire...
Nell'oblio in cui si è perduta da alcuni anni la politica italiana - a esclusione delle parole del nostro giovane e indignato Presidente della Repubblica, che sempre dovremmo ringraziare - è arrivata la "lettera" e, come un sasso, ha smosso le acque stagnanti, e anche piuttosto fetide, del dibattito politico del nostro paese.
Come è noto, la Lettera - che merita appunto di essere citata con la "l" maiuscola - è stata firmata da Jean-Claude Trichet e da Mario Draghi - anche se verosimilmente è stata scritta solo da quest'ultimo - e fatta recapitare lo scorso 5 agosto al governo italiano. Nei giorni successivi la Lettera è stata evocata molte volte, alternando paure e speranze, rimanendo però segreta. Proprio questa segretezza ha permesso alle fantasie italiche di fare congetture sul suo contenuto, alimentando così quel particolare settore del mondo dell'informazione che si occupa di "retroscena" e che ha ormai fagocitato le pagine politiche dei quotidiani italiani. Sotto l'egida della Lettera, segreta ed evocata, il sedicente governo italiano ha passato l'estate a fare e a disfare manovre economiche, il cui unico effetto - nefasto per tutti, come cominciamo a vedere nei nostri conti quotidiani - è stato l'aumento dell'Iva, misura tanto iniqua quanto sbagliata. In genere al malato si deve dare una medicina, ma se si esagera gli effetti collaterali sono molto pericolosi. Nelle stesse settimane l'opposizione ha promosso una campagna affinché il governo rendesse pubblica la Lettera, pensando che contenesse giudizi così negativi su B. da indurlo alle dimissioni; insomma la Lettera sembrava "l'arma fine di mondo".
Ma torniam0 alla Lettera in sé. Il 29 settembre - data maliziosamente scelta per rovinare il genetliaco del premier - il più autorevole quotidiano italiano, da sempre espressione dell'establishment e quindi naturalmente vicino al centrodestra - perché in natura i ricchi sono sempre di destra - ha pubblicato la Lettera e così abbiamo scoperto che il suo contenuto è semplicemente il programma politico del prossimo governo di destra, che verrà votato dagli italiani nelle elezioni anticipate della primavera 2012.
Va dato atto agli estensori della Lettera di essere stati chiari e concisi. La Lettera prevede che le decisioni in materia economica "siano prese il prima possibile per decreto legge", a cui dovrà seguire "la ratifica parlamentare". E' chiara l'idea di democrazia che sta dietro alla Lettera e a chi l'ha scritta. Chi ha scritto naturalmente sa che in una repubblica parlamentare, qual è l'Italia, le cose non funzionano - o almeno non dovrebbero funzionare - in questo modo, ma ritiene questo un passaggio essenziale, tanto da prefigurare anche "una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio". Qualcosa del genere è avvenuto in Ungheria alcuni mesi fa; ne ho scritto in una "considerazione" - la nr. 223 - che vi invito a leggere.
Ovviamente la Lettera si occupa più di economia che di riforme istituzionali - anche se, en passant, è citata l'abolizione delle Province, sicuramente un'idea di Trichet - ed è in questo campo che le ricette di destra sono più evidenti: "piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali", "privatizzazioni su larga scala", "accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti", ma con maggiore interesse sui licenziamenti, naturalmente. Sono poi citate l'abolizione delle pensioni di anzianità, la riduzione della spesa pubblica - anche "riducendo gli stipendi" dei dipendenti pubblici - controlli molto rigorosi sulle autonomie locali, con buona pace dei federalisti dei prati. La Lettera dice molte cose, ma non parla di molte altre cose. Non chiede che il fisco venga riformato affinché chi più ha più contribuisca alla finanza pubblica e soprattutto che tutti paghino il dovuto; non chiede che si affronti con serietà il fatto che una parte sempre più rilevante dell'economia italiana è in mano alla malavita organizzata; non affronta l'enorme e ormai insopportabile differenza tra donne e uomini nel mondo del lavoro; non cita le condizioni di precarietà di tantissimi lavoratori; non parla del divario che continua a crescere tra i pochissimi che sono sempre più ricchi e la grande maggioranza delle persone che sono sempre più povere. La Lettera di questi temi non si occupa perché per un uomo della formazione e della cultura politica di Draghi non sono problemi di cui debba occuparsi lo stato e perché, sotto sotto, ai ricchi non importa proprio nulla dei poveri.
La Lettera è molto chiara, eppure riesce a essere sfuggente nel suo assunto di base. Il programma di governo prefigurato in quel documento non è onestamente presentato coma la prospettiva di uno schieramento di destra - come fanno ad esempio i repubblicani negli Stati Uniti - a cui possa venire contrapposta una posizione di sinistra o addirittura - se la parola è ancora concessa - socialista. La Lettera è presentata come l'unica soluzione possibile, suggerita da un'autorità super partes - peraltro non eletta democraticamente - tecnica e non politica. Qui sta il trucco, che però questi maghi sono molto abili a mascherare.
E qui arriviamo alla cronaca di oggi e, temo, delle prossime settimane. Industriali, banchieri, gran borghesi, speculatori vari si sono resi conto che B. non riesce più a tutelare i loro interessi, come ha fatto egregiamente dal '94 a oggi, e gli hanno dato il benservito, sostenuti anche dalle gerarchie vaticane, anch'essi "grandi elettori" che non si sentono più tutelati. Il programma per le elezioni è già pronto, anzi è inevitabile, dettato dalla Bce, tecnico e super partes; sono pronti anche i candidati, anch'essi tecnici e super partes, c'è solo da scegliere il più rassicurante tra Monti, Montezemolo e Marcegaglia; sono pronti anche i politici del centrodestra, da Casini a Formigoni, da Rutelli a Fini, per fornire intendenza e carriaggi all'uomo - o donna - forte di turno; sono pronti i soloni, gli intellettuali e gli opinionisti della grande stampa a benedire l'operazione. In sostanza la destra economica e sociale è già pronta a sostituire B., in nome di un nuovo antiberlusconismo e dell'unità nazionale.
E qui siamo di fronte a un paradosso francamente inspiegabile: il centrosinistra che per sedici anni ha predicato, profetizzato, auspicato la fine del berlusconismo, adesso che ci siamo arrivati - per evidenti limiti fisici e politici dell'uomo - non è pronto. Arriva alle elezioni esausto e senza idee, quando la situazione mondiale sembra invece favorevole a cercare soluzioni non di destra a problemi creati dall'ideologia liberista sfrenata di questi anni. In Danimarca ha vinto una donna, la leader del partito socialdemocratico, con un programma decisamente di sinistra; in Francia i socialisti vedono la possibilità di sconfiggere Sarkozy alle presidenziali del prossimo anno; in Germania la Spd è in netta ripresa. In Italia il centrosinistra non è pronto. Ma, come mi è già capitato di dire, commentando la vicenda di Sesto San Giovanni - nella "considerazione" nr. 249 - la cosa peggiore è che il centrosinistra italiano è culturalmente succube dell'ideologia della destra. Temo che ci sia più di uno dei dirigenti del Pd che è sinceramente convinto che la lettera di Draghi sia davvero una proposta tecnica e non politica.
Se poi il prossimo governo sarà di "unità nazionale" - come molti anche nel Pd sembrano auspicare - sarà comunque guidato da qualche esponente della destra, sempre uno dei tre già citati, buoni per tutte le occasioni, e farà una politica di destra, quella dettata dalla Lettera: non ci sarà spazio per mediazioni, come è avvenuto invece nella grosse Koalition tra la Cdu e la Spd. Il governo di unità nazionale significherebbe la morte del Pd e quindi l'impossibilità della sinistra di governare questo paese almeno per alcuni decenni: non è un caso quindi che ci siano tanti da destra interessati a questa prospettiva, è più strano invece che l'agnello voglia fare una coalizione con il lupo. Per il Pd e per il centrosinistra italiano l'unica speranza di ribaltare un risultato già scritto sarebbe quella di rispondere al programma di Draghi con una proposta, altrettanto chiara e concisa - bastano due pagine, non ne servono trecento - di forte impianto socialista: una robusta operazione di redistribuzione della ricchezza nazionale, per avere le risorse per contenere il debito e per avviare la crescita; e avviare daavvero le riforme di cui l'Italia e gli italiani hanno bisogno. Le speranze di questo cambio di passo però si stanno riducendo al lumicino.
Come è noto, la Lettera - che merita appunto di essere citata con la "l" maiuscola - è stata firmata da Jean-Claude Trichet e da Mario Draghi - anche se verosimilmente è stata scritta solo da quest'ultimo - e fatta recapitare lo scorso 5 agosto al governo italiano. Nei giorni successivi la Lettera è stata evocata molte volte, alternando paure e speranze, rimanendo però segreta. Proprio questa segretezza ha permesso alle fantasie italiche di fare congetture sul suo contenuto, alimentando così quel particolare settore del mondo dell'informazione che si occupa di "retroscena" e che ha ormai fagocitato le pagine politiche dei quotidiani italiani. Sotto l'egida della Lettera, segreta ed evocata, il sedicente governo italiano ha passato l'estate a fare e a disfare manovre economiche, il cui unico effetto - nefasto per tutti, come cominciamo a vedere nei nostri conti quotidiani - è stato l'aumento dell'Iva, misura tanto iniqua quanto sbagliata. In genere al malato si deve dare una medicina, ma se si esagera gli effetti collaterali sono molto pericolosi. Nelle stesse settimane l'opposizione ha promosso una campagna affinché il governo rendesse pubblica la Lettera, pensando che contenesse giudizi così negativi su B. da indurlo alle dimissioni; insomma la Lettera sembrava "l'arma fine di mondo".
Ma torniam0 alla Lettera in sé. Il 29 settembre - data maliziosamente scelta per rovinare il genetliaco del premier - il più autorevole quotidiano italiano, da sempre espressione dell'establishment e quindi naturalmente vicino al centrodestra - perché in natura i ricchi sono sempre di destra - ha pubblicato la Lettera e così abbiamo scoperto che il suo contenuto è semplicemente il programma politico del prossimo governo di destra, che verrà votato dagli italiani nelle elezioni anticipate della primavera 2012.
Va dato atto agli estensori della Lettera di essere stati chiari e concisi. La Lettera prevede che le decisioni in materia economica "siano prese il prima possibile per decreto legge", a cui dovrà seguire "la ratifica parlamentare". E' chiara l'idea di democrazia che sta dietro alla Lettera e a chi l'ha scritta. Chi ha scritto naturalmente sa che in una repubblica parlamentare, qual è l'Italia, le cose non funzionano - o almeno non dovrebbero funzionare - in questo modo, ma ritiene questo un passaggio essenziale, tanto da prefigurare anche "una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio". Qualcosa del genere è avvenuto in Ungheria alcuni mesi fa; ne ho scritto in una "considerazione" - la nr. 223 - che vi invito a leggere.
Ovviamente la Lettera si occupa più di economia che di riforme istituzionali - anche se, en passant, è citata l'abolizione delle Province, sicuramente un'idea di Trichet - ed è in questo campo che le ricette di destra sono più evidenti: "piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali", "privatizzazioni su larga scala", "accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti", ma con maggiore interesse sui licenziamenti, naturalmente. Sono poi citate l'abolizione delle pensioni di anzianità, la riduzione della spesa pubblica - anche "riducendo gli stipendi" dei dipendenti pubblici - controlli molto rigorosi sulle autonomie locali, con buona pace dei federalisti dei prati. La Lettera dice molte cose, ma non parla di molte altre cose. Non chiede che il fisco venga riformato affinché chi più ha più contribuisca alla finanza pubblica e soprattutto che tutti paghino il dovuto; non chiede che si affronti con serietà il fatto che una parte sempre più rilevante dell'economia italiana è in mano alla malavita organizzata; non affronta l'enorme e ormai insopportabile differenza tra donne e uomini nel mondo del lavoro; non cita le condizioni di precarietà di tantissimi lavoratori; non parla del divario che continua a crescere tra i pochissimi che sono sempre più ricchi e la grande maggioranza delle persone che sono sempre più povere. La Lettera di questi temi non si occupa perché per un uomo della formazione e della cultura politica di Draghi non sono problemi di cui debba occuparsi lo stato e perché, sotto sotto, ai ricchi non importa proprio nulla dei poveri.
La Lettera è molto chiara, eppure riesce a essere sfuggente nel suo assunto di base. Il programma di governo prefigurato in quel documento non è onestamente presentato coma la prospettiva di uno schieramento di destra - come fanno ad esempio i repubblicani negli Stati Uniti - a cui possa venire contrapposta una posizione di sinistra o addirittura - se la parola è ancora concessa - socialista. La Lettera è presentata come l'unica soluzione possibile, suggerita da un'autorità super partes - peraltro non eletta democraticamente - tecnica e non politica. Qui sta il trucco, che però questi maghi sono molto abili a mascherare.
E qui arriviamo alla cronaca di oggi e, temo, delle prossime settimane. Industriali, banchieri, gran borghesi, speculatori vari si sono resi conto che B. non riesce più a tutelare i loro interessi, come ha fatto egregiamente dal '94 a oggi, e gli hanno dato il benservito, sostenuti anche dalle gerarchie vaticane, anch'essi "grandi elettori" che non si sentono più tutelati. Il programma per le elezioni è già pronto, anzi è inevitabile, dettato dalla Bce, tecnico e super partes; sono pronti anche i candidati, anch'essi tecnici e super partes, c'è solo da scegliere il più rassicurante tra Monti, Montezemolo e Marcegaglia; sono pronti anche i politici del centrodestra, da Casini a Formigoni, da Rutelli a Fini, per fornire intendenza e carriaggi all'uomo - o donna - forte di turno; sono pronti i soloni, gli intellettuali e gli opinionisti della grande stampa a benedire l'operazione. In sostanza la destra economica e sociale è già pronta a sostituire B., in nome di un nuovo antiberlusconismo e dell'unità nazionale.
E qui siamo di fronte a un paradosso francamente inspiegabile: il centrosinistra che per sedici anni ha predicato, profetizzato, auspicato la fine del berlusconismo, adesso che ci siamo arrivati - per evidenti limiti fisici e politici dell'uomo - non è pronto. Arriva alle elezioni esausto e senza idee, quando la situazione mondiale sembra invece favorevole a cercare soluzioni non di destra a problemi creati dall'ideologia liberista sfrenata di questi anni. In Danimarca ha vinto una donna, la leader del partito socialdemocratico, con un programma decisamente di sinistra; in Francia i socialisti vedono la possibilità di sconfiggere Sarkozy alle presidenziali del prossimo anno; in Germania la Spd è in netta ripresa. In Italia il centrosinistra non è pronto. Ma, come mi è già capitato di dire, commentando la vicenda di Sesto San Giovanni - nella "considerazione" nr. 249 - la cosa peggiore è che il centrosinistra italiano è culturalmente succube dell'ideologia della destra. Temo che ci sia più di uno dei dirigenti del Pd che è sinceramente convinto che la lettera di Draghi sia davvero una proposta tecnica e non politica.
Se poi il prossimo governo sarà di "unità nazionale" - come molti anche nel Pd sembrano auspicare - sarà comunque guidato da qualche esponente della destra, sempre uno dei tre già citati, buoni per tutte le occasioni, e farà una politica di destra, quella dettata dalla Lettera: non ci sarà spazio per mediazioni, come è avvenuto invece nella grosse Koalition tra la Cdu e la Spd. Il governo di unità nazionale significherebbe la morte del Pd e quindi l'impossibilità della sinistra di governare questo paese almeno per alcuni decenni: non è un caso quindi che ci siano tanti da destra interessati a questa prospettiva, è più strano invece che l'agnello voglia fare una coalizione con il lupo. Per il Pd e per il centrosinistra italiano l'unica speranza di ribaltare un risultato già scritto sarebbe quella di rispondere al programma di Draghi con una proposta, altrettanto chiara e concisa - bastano due pagine, non ne servono trecento - di forte impianto socialista: una robusta operazione di redistribuzione della ricchezza nazionale, per avere le risorse per contenere il debito e per avviare la crescita; e avviare daavvero le riforme di cui l'Italia e gli italiani hanno bisogno. Le speranze di questo cambio di passo però si stanno riducendo al lumicino.
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