mercoledì 30 settembre 2009

"Lavorare stanca" di Cesare Pavese


I due, stesi sull'erba, vestiti, si guardano in faccia
tra gli steli sottili: la donna gli morde i capelli
e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba.
L'uomo afferra la mano sottile e la morde
e s'addossa col corpo. La donna gli rotola via.
Mezza l'erba del prato è così scompigliata.
La ragazza, seduta, s'aggiusta i capelli
e non guarda il compagno, occhi aperti, disteso.

Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia
nella sera, e i passanti non cessano mai.
Ogni tanto un colore più gaio li distrae.
Ogni tanto lui pensa all'inutile giorno
di riposo, trascorso a inseguire costei,
che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi.
Se le tocca col piede la gamba, sa bene
che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso
e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano
non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano
con un uomo stanotte. O che forse ogni donna
ama solo chi perde il suo tempo per nulla.

Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa
alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine.
Lei ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco,
interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia.
Stringe a sè il mazzo verde - raccolto sul sasso
di una grotta - di bel capevenere e volge al compagno
un'occhiata struggente. Lui fissa il groviglio
degli steli nericci tra il verde tremante
e ripensa alla voglia di un altro groviglio,
presentito nel grembo dell'abito chiaro,
che la donna gli ignora. Nemmeno la furia
non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce
ogni assalto in un bacio c gli prende le mani.

Ma stanotte, lasciatala, sa dove andrà:
tornerà a casa rotto di schiena e intontito,
ma assaporerà almeno nel corpo saziato
la dolcezza del sonno sul letto deserto.
Solamente, e quest'è la vendetta, s'immaginerà
che quel corpo di donna, che avrà come suo, sia,
senza pudori, in libidine, quello di lei.

Considerazioni libere (9): a proposito di offerte di lavoro...

Alcuni giorni fa scorrevo, come al solito, le varie offerte di lavoro pubblicate su uno dei tanti siti specializzati e mi sono imbattuto in questo annuncio: "Società seleziona ingegneri architetti bella presenza figure femminili. Società di consulenza di prestigio, centro storico Bologna, cerca figura professionale femminile (Ingegnere o Architetto) da inserire nel proprio organico". In un primo momento sono passato oltre, non sono né ingegnere né architetto - né donna - e quindi quell'annuncio non faceva sicuramente per me. Poi mi è tornato in mente e mi sono arrabbiato. Molto. E questa rabbia vorrei condividerla con voi.
Nella sua prosa asettica e convenzionale, questo annuncio nasconde tutti gli stereotipi sul ruolo della donna nella nostra società. A me, e certo anche a voi che mi leggete, sembra ovvio che un ingegnere o un architetto debba essere assunto in base alla competenza, al curriculum scolastico e universitario, alle precedenti esperienze professionali. E questo dovrebbe valere per qualsiasi altro lavoro. Eppure di tutto questo non si fa menzione nel testo dell'annuncio - neppure per inciso, per dare una parvenza di moralità - perché la selezione avviene tra donne e quindi il requisito unico richiesto è quello della bella presenza. Pensate come deve essere mortificante per una ragazza che ha raggiunto un traguardo difficile, come la laurea in ingegneria e in architettura (dove le cose bisogna saperle e non ci si può improvvisare con le parole, come tendiamo a fare noi laureati in filosofia) leggere che quel percorso viene valutato soltanto in base a quanto sono slanciate le sue gambe o quanto sono luminosi i suoi occhi. Naturalmente non deve esserci neppure lo stereotipo contrario, ossia non possiamo considerare poco preparata un'ingegnere solo perché ha un bel seno.
Evidentemente chi ha scritto quell'annuncio - credo sia un uomo - sapeva esattamente di cosa aveva bisogno per qualificare l'organico della "società di consulenza di prestigio". Evidentemente i clienti dello studio, anch'essi sicuramente prestigiosi e uomini, preferiscono che i progetti siano illustrati da ingegneri e architetti donne di bella presenza. Evidentemente tutti loro leggono riviste prestigiose, dirette in genere da uomini, in cui quasi per ogni pubblicità serve l'immagine di una bella donna (anche i pubblicitari sono in genere uomini). Evidentemente tutti loro hanno sentito che per essere ammessi a certe frequentazioni prestigiose occorre essere accompagnati da belle donne. Evidentemente il problema è che comandano ancora troppo gli uomini.

"Anything goes" di Cole Porter


Times have changed,
And we've often rewound the clock,
Since the Puritans got a shock,
When they landed on Plymouth Rock.
If today,
Any shock they should try to stem,
'Stead of landing on Plymouth Rock,
Plymouth Rock would land on them.
In olden days a glimpse of stocking
Was looked on as something shocking,
But now, God knows,
Anything Goes.
Good authors too who once knew better words,
Now only use four letter words
Writing prose,
Anything Goes.
The world has gone mad today
And good's bad today,
And black's white today,
And day's night today,
When most guys today
That women prize today
Are just silly gigolos
And though I'm not a great romancer
I know that I'm bound to answer
When you propose,
Anything goes
When grandmama whose age is eighty
In night clubs is getting matey with gigolo's,
Anything Goes.
When mothers pack and leave poor father
Because they decide they'd rather be tennis pros,
Anything Goes.
If driving fast cars you like,
If low bars you like,
If old hymns you like,
If bare limbs you like,
If Mae West you like
Or me undressed you like,
Why, nobody will oppose!
When every night,
The set that's smart
Is intruding in nudist parties in studios,
Anything Goes.

The world has gone mad today
And good's bad today,
And black's white today,
And day's night today,
When most guys today
That women prize today
Are just silly gigolos
And though I'm not a great romancer
I know that I'm bound to answer
When you propose,
Anything goes

If saying your prayers you like,
If green pears you like
If old chairs you like,
If back stairs you like,
If love affairs you like
With young bears you like,
Why nobody will oppose!

And though I'm not a great romancer
And though I'm not a great romancer
I know that I'm bound to answer
When you propose,
Anything goes...
Anything goes!

potete ascoltare la canzone, cliccando sul titolo del post

martedì 29 settembre 2009

Considerazioni libere (8): a proposito dell'unità d'Italia (e del relativo anniversario)...

Si avvicina inaspettato (succede spesso in questo paese, non molto incline al sano esercizio della memoria) il 150° anniversario dell'unità d'Italia. E naturalmente a questo anniversario si accompagna una fitta serie di polemiche (questo è un altro tratto consueto, una caratteristica genetica del nostro paese): così si finisce per parlare ancora meno del merito della questione, il che richiederebbe quanto meno un po' di studio e di approfondimento, per alimentare quel vano chiacchiericcio a cui la televisione (e anche i giornali, ormai) ci hanno abituato. Segnalo, per amore della verità e a parziale (molto parziale) smentita di quanto detto finora, il bell'articolo che sul Corriere di ieri (lunedì 28 settembre) Carlo Lizzani ha dedicato al tema, affrontando la questione dall'ottica della storia del cinema.
Credo che questo anniversario passerà attraverso una disattenzione diffusa, non tanto per l'insipienza del nostro governo (che infatti ha delegato la materia al pessimo ministro della cultura Sandro Bondi) o per l'aperta ostilità della Lega, ma proprio per il fatto che i cittadini italiani non sentono il significato profondo di questa celebrazione.
E' significativo che nel nostro paese non ci sia una vera festa nazionale (come il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti), ma siano così sentite le diverse feste patronali, da sant'Ambrogio a Milano a san Gennaro a Napoli, trasformate da appuntamenti strattamente religiosi a vere e proprie occasioni di celebrazione dell'identità civica. Nonostante gli sforzi del Presidente Ciampi, e poi di Napolitano, il 2 giugno non è diventata una vera festa nazionale, anche perché quella data non è stata coltivata negli anni (per diversi anni non è stata neppure una giornata di vacanza) e forse non poteva che essere così, dal momento che nel referendum del '46 la repubblica prevalse solo di misura sulla monarchia. Non è una festa nazionale il 25 aprile, perché nei fatti, al di là di molti altri importanti significati, ha segnato la fine di una guerra civile e la vittoria della minoranza di italiani antifascisti su una maggioranza di fascisti più o meno convinti, che naturalmente si sono affrettati a negare questa ascendenza.
Lo stesso risorgimento è solo in parte un movimento di liberazione contro lo straniero, ma è anche la guerra di una parte degli italiani (anche in questo caso una minoranza) contro altri italiani, senza dimenticare che la creazione del Regno d'Italia non sarebbe stata possibile senza l'intervento attivo della Francia e la più che benevola neutralità dell'Inghilterra. E certamente, in ogni contesto e in ogni latitudine, per quelli che hanno perso non è facile condividere la festa di quelli che hanno vinto.
Cosa festeggiare allora in questo 150° anniversario? Molte cose. Un paese che ha saputo, pur con grandi difficoltà, trasformarsi profondamente: l'Italia era un paese poverissimo, con un'altissima percentuale di analfabeti e con diseguaglianze economiche enormi, arretrato socialmente e culturalmente, debole sulla scena internazionale. Ora il panorama politico, economico, sociale, culturale è completamente mutato, nonostante esista ancora - e questo è il grande male italiano - una differenza troppo forte tra nord e sud, nonostante in troppe zone del nostro paese esistano forze che tentano, con successo, di sostituire lo stato di diritto. E poi occorre ricordare che la storia di questo paese ha prodotto capolavori assoluti nella storia delle arti, dalla pittura al cinema, dall'architettura alla letteratura.
Il miglior servizio che si potrebbe fare all'Italia per questo anniversario, credo sia quello di studiarne la storia; con spirito critico naturalmente.

"La casa di Asterione" di Jorge Luis Borges

So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n'è altre sulla faccia della terra (Mente chi afferma che in Egitto ce n‘è una simile). Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c'è un solo mobile. Un altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere che non c'è una sola serratura? D’altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m'infondevano i volti delia folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d'un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sulle stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi con volgo, anche se la mia modestia lo vuole.

La verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande: non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall'altra. Un' impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.

Certo non mi mancano distrazioni. Come il montone che s'avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una cisterna e all'angolo d'un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare I’addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m’addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino che egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: "Adesso torniamo all'angolo di prima", o "Adesso sbocchiamo in un altro cortile", o "Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell'acqua", oppure: "Ora ti faccio vedere una cisterna che s'è riempita di sabbia", o anche "vedrai come si biforca la cantina". A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.

Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, unafontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molle volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l'intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.

Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce infondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l'altro, senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori dei mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me?

Il sole della mattina brilla sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.

"Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non s'è quasi difeso".

"La poesia" di Fernando Pessoa


Nella mia mente è scolpita una poesia
che esprimerà la mia anima intera.

La sento vaga come il suono e il vento
eppure scolpita in piena chiarezza.

Non ha strofa, verso né parola
non è neppure come la sogno.

E' un mero sentimento, indefinito,
una felice bruma intorno al pensiero.

Giorno e notte nel mio mistero
la sogno, la leggo e riprovo a sillabarla,

e sempre la parola precisa è sul bordo di me stesso
come per librarsi nella sua vaga compiutezza.

So che non sarà mai scritta.
So che non so che cosa sia.

Ma sono contento di sognarla,
e una falsa felicità, benché falsa, è felicità.

lunedì 28 settembre 2009

Considerazioni libere (7): a proposito della giustizia...

Voglio dedicare questa nota a un tema che è da tempo al centro della discussione politica in Italia (con toni spesso esasperati), partendo da un'idea che mi è stata sollecitata dal commento di Nadia a una mia nota di qualche giorno fa (la considerazione nr. 3, per la precisione).
Tra le molte cose che non funzionano in questo paese c'è sicuramente il sistema della giustizia. Certo ci sono magistrati e pubblici ministeri che lavorano moltissimo e che svolgono con coscienza il proprio lavoro. A queste persone dobbiamo essere grati, anche perché lavorano in condizioni di oggettiva difficoltà, con pochissimi mezzi (mentre in genere i "cattivi" sono, anche tecnologicamente, più avanti). Ci sono stati magistrati (davvero troppi), che sono stati uccisi proprio perché hanno difeso, contro tutti (a volte anche contro pezzi deviati dello stato), i principi della giustizia. E' un dovere civile ricordare ogni giorno queste persone, molto più di quello che facciamo, al di là dei pur doverosi anniversari.
Credo però che, specialmente noi di sinistra, non possiamo nasconderci dietro a un dito. Di fronte agli attacchi continui, violenti, interessati che ogni giorno il centrodestra (e in particolare Berlusconi e i suoi avvocati) portano alla giustizia italiana, non possiamo difendere in maniera acritica un sistema che funziona male. I cittadini vivono sulla propria pelle che la giustizia non funziona e non ci capiscono quando difendiamo la categoria così, a prescindere.
In Italia vedersi riconosciuti i propri diritti attraverso una causa civile è difficilissimo, richiede troppo tempo e troppi soldi, senza la certezza che si arrivi a un esito soddisfacente. Le cause penali sono lunghe e in tante occasioni non c'è la certezza della pena. Ogni grado di giudizio sembra avere il compito non di controllare quanto già stabilito, ma quello di stravolgere le sentenze dei gradi precedenti. Certo questo stato di cose dipende una legislazione barocca, che contiene norme contradditorie, che possono essere interpretate in un senso o nell'altro. Ma c'è anche la responsabilità di una "casta" di magistrati, che è ben attenta a difendere le proprie prerogative, ma poco capace di mettersi in gioco, anche di accettare delle responsabilità. Se un sostituto procuratore dedica gran parte delle sue energie, del proprio tempo e quindi delle risorse pubbliche, a intentare procedimenti che regolrmente portano all'assoluzione degli imputati, il suo lavoro è efficace, soprattutto è utile alla società? Che tutela hanno i cittadini, ma soprattutto che tutela ha lo stato? Perché un magistrato incapace o fannullone (i ritmi di lavoro di un tribunale sono spesso inadeguati rispetto alle esigenze dei cittadini) non può essere licenziato? Perché un magistrato che sottomette continuamente i principi costituzionali alle proprie convinzioni, politiche o etiche (per quanto rispettabili e legittime), non può essere rimosso?
Io non voglio che la magistratura venga controllata dal potere esecutivo, so bene quanto sia importante per uno stato moderno la divisione dei poteri, ma questo controllo non può neppure essere delegato a un sistema corporativo, così fortemente sindacalizzato, come è quello della magistratura in Italia. Mi rendo conto che questa considerazione rischia di essere impopolare, ma credo che superare questo stato di cose sia necessario proprio per tutelare quell'autonomia che è minacciata da interessi e da poteri così forti. Essere di sinistra vuol dire anche garantire la giustizia e il rispetto delle regole, perché sono i più deboli, i più poveri, che hanno bisogno delle regole. I ricchi, in qualche modo, se la cavano sempre.

domenica 27 settembre 2009

"Ev'ry time we say goodbye" di Cole Porter


We love each other so deeply
that I ask you this, sweetheart,
why should we quarrel ever,
why can't we be enough clever,
never to part.
Ev'ry time we say goodbye
I die a little,
ev'ry time we say goodbye
I wonder why a little,
why the gods above me
who must be in the know
think so little of me
they allow you to go.
When you're near
there's such an air
of spring about it,
I can hear a lark somewhere
begin to sing about it,
there's no love song finer,
but how strange the change
from major to minor...
ev'ry time we say goodbye.
Ev'ry time we say goodbye
I die a little,
ev'ry time we say goodbye
I wonder why a little,
why the gods above me
who must be in the know
think so little of me
they allow you to go.
When you're near
there's such an air
of spring about it,
I can hear a lark somewhere
begin to sing about it,
there's no love song finer,
but how strange the change
from major to minor...
ev'ry time we say goodbye.
Ev'ry single time
we say goodbye.

potete ascoltare la canzone, cliccando sul titolo del post

"Pierre Menard, autore del Chiosciotte" di Jorge Luis Borges


L'opera visibile lasciata da questo romanziere è di facile e breve enumerazione. Sono pertanto imperdonabili le omissioni e le aggiunte perpetrate da Madame Henri Bachelier in un elenco ingannevole che un certo giornale, la cui tendenza protestante non è un segreto per nessuno, ha avuto la sconsiderazione di presentare ai suoi deplorevoli lettori. Gli amici veri di Menard hanno visto questo catalogo con allarme, e anche con una certa tristezza. Non è molto - e sembra ieri - che ci riunimmo dinanzi al marmo finale, tra i cipressi infausti, e già l'Errore cerca di appannare la sua Memoria... Decisamente, una breve rettifica s'impone.
So che è molto facile contestare la mia povera autorità. Mi si consenta dunque di citare due alti testimoni. La baronessa di Bacourt (ai cui vendredis indimenticabili ebbi l'onore di conoscere il compianto poeta) ha tenuto ad approvare le righe che seguono. La contessa di Bagnoregio, uno degli spiriti piú fini del Principato di Monaco (e ora di Pittsburgh, Pennsylvania, dopo le sue recenti nozze col filantropo internazionale Simon Kautzsch), ha sacrificato «alla verità e alla morte» (sono le sue parole) con la signorile riserva che la distingue, e, in una lettera aperta pubblicata dalla rivista «Luxe», mi concede anch'essa il suo beneplacito. Questi titoli di nobiltà, credo, non sono insufficienti.
Ho detto che l'opera visibile di Menard è facilmente enumerabile. Esaminati con zelo gli archivi personali del poeta, ho potuto stabilire che essa comprende gli scritti seguenti:

a) un sonetto simbolista pubblicato due volte (con varianti) dalla rivista «La conque» (numeri di marzo e di ottobre del 1899);

b) una monografia sulla possibilità di compilare un dizionario poetico di concetti che non siano sinonimi o perifrasi di quelli che informano il linguaggio comune, «ma oggetti ideali creati secondo una convenzione, e destinati essenzialmente alle necessità poetiche» (Nimes 1901);

c) una monografia su «certe connessioni e affinità del pensiero di Descartes, di Leibniz e di John Wilkins» (Nimes 1903);

d) una monografia sulla Characteristica universalis di Leibniz (Nimes 1904);

e) un articolo tecnico sulla possibilità di arricchire il gioco degli scacchi eliminando uno dei pedoni di torre. Menard propone, raccomanda, discute, e finisce per rigettare questa innovazione;

f) una monografia sull'Ars magna generalis di Raimondo Lullo (Nimes 1906);

g) una traduzione con prefazione e note del Libro de la invención liberal y arte del juego del axedrez di Ruy López de Segura (Paris 1907);

h) appunti per una monografia sulla logica simbolica di George Boole;

i) un esame delle leggi metriche essenziali della prosa francese, illustrato con esempi di Saínt-Simon («Revue de langues romanes», Montpellier, ottobre 1909);

j) una replica a Luc Durtain (che aveva negato l'esistenza di tali leggi) illustrata con esempi di Luc Durtain («Revue de langues romanes », Montpellier, dicembre 1909);

k) una traduzione manoscritta della Aguja de navegar ocultos di Quevedo, col titolo La Boussole des précieux;

l) una prefazione al catalogo dell'esposizione di litografie di Carolus Hourcade (Nimes 1914);

m) l'opera Les problèmes d'un problème (Paris 1917), che discute nell'ordine cronologico le soluzioni dell'illustre problema di Achille e della tartaruga. Di questo libro sono state pubblicate finora due edizioni; la seconda porta in epigrafe il consiglio di Leibniz: «Ne craignez point, monsieur, la tortue», e i capitoli dedicati a Russell e a Descartes vi appaiono sostanzialmente rimaneggiati;

n) un'analisi minuziosa dei «costumi sintattici» di Toulet («NRF», marzo 1921). Menard - ricordo - affermava che il censurare e il lodare sono operazioni sentimentali, che nulla hanno a che vedere con la critica;

o) una trasposizione in alessandrini del Cimetière marin di Paul Valéry («NRF», gennaio 1928);

p) un'invettiva contro Paul Valéry, nelle Feuilles pour la suppression de la réalité di Jacques Reboul. (Quest'invettiva - sia detto tra parentesi - è giusto il contrario di ciò che Menard pensava di Valéry. Quest'ultimo l'intese appunto in tal modo, e l'antica amicizia tra i due non corse pericolo);

q) una «definizione» della contessa di Bagnoregio, nel «vittorioso volume» - l'espressione è di un altro collaboratore, Gabriele d'Annunzio - che questa signora pubblica annualmente per rettificare le inevitabili falsificazioni del giornalismo e presentare «al mondo e all'Italia» un'autentica effigie della sua persona, tanto esposta (in causa stessa della sua bellezza e della sua operosità) alle interpretazioni erronee o affrettate;

r) un ciclo di ammirabili sonetti per la baronessa di Bacourt (1934);

s) una lista manoscritta di versi che debbono la loro efficacia alla punteggiatura (1).

Fin qui (senz'altra omissione che di qualche vago sonetto di circostanza per l'ospitale - o avido - album di Madame Henri Bachelier) l'opera visibile di Menard, nell'ordine cronologico. Vediamo ora l'altra: la sotterranea, l'infinitamente eroica, l'impareggiabile. Che è anche - ahi, limiti dell'uomo! - l'incompiuta. Quest'opera, forse la piú significativa del nostro tempo, consta dei capitoli IX e XXXVIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo XXII. So che una tale affermazione ha tutta l'aria di un'assurdità; giustificare questa «assurdità» è lo scopo principale di questa nota (2).
Due testi di valore ineguale ispirarono l'impresa. Uno è quel frammento filologico di Novalis - numero 2005 dell'edizione di Dresda - che abbozza il tema dell'identificazione totale con un determinato autore. L'altro è uno di quei libri parassitari che ambientano Cristo in un boulevard, Amleto nella Cannebière o Don Chisciotte a Wall Street. Come ogni persona di buon gusto, Menard aveva in orrore queste inutili mascherate, buone solo - diceva - a procurarci il volgare piacere dell'anacronismo, o (ciò che è peggio) a istupidirci con l'idea primaria che tutte le epoche sono uguali, o che tutte sono distinte. Più interessante, anche se d'esecuzione contraddittoria e superficiale, gli sembrava il famoso proposito di Daudet: riunire in un personaggio, che è Tartarin, l'Ingegnoso Hidalgo e il suo scudiero... Chi insinua che Menard dedicò la vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, calunnia la sua chiara memoria.
Non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes.
«Il mio proposito è certo sorprendente, - mi scrisse il 30 settembre 1934, da Bayonne. - Ma l'oggetto finale d'una dimostrazione teologica o metafisica non è meno dato e comune del divulgato romanzo che mi propongo. La sola differenza è questa: che i filosofi pubblicano in gradevoli volumi le tappe intermedie del proprio lavoro, e io ho risoluto di cancellarle». Nel testo definitivo, infatti, non v'è alcuna correzione, alcuna aggiunta che attesti questo lavoro di anni.
Il metodo che immaginò da principio, era relativamente semplice. Conoscere bene lo spagnolo, recuperare la fede cattolica, guerreggiare contro i mori o contro il turco, dimenticare la storia d'Europa tra il 16o2 e il 1918, essere Miguel de Cervantes. Menard studiò questo procedimento (so che giunse a una padronanza sufficiente dello spagnolo del secolo XVII) ma lo scartò perché facile. Piuttosto, perché impossibile! dirà il lettore. D'accordo, ma l'impresa era già impossibile in partenza, e di tutti gli impossibili mezzi per condurla a termine, questo era il meno interessante. Essere nel secolo XX un romanziere del secolo XVII gli parve simulazione. Essere in qualche modo Cervantes, e giungere cosí al Chisciotte, gli parve meno arduo - dunque meno interessante - che restare Pierre Menard e giungere al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard. (Questo convincimento, sia detto di passata, lo indusse a espungere il prologo autobiografico della seconda parte. Includere questo prologo sarebbe stato creare un altro personaggio - Cervantes - ma avrebbe anche significato presentare il Chisciotte in funzione di questo personaggio, e non di Menard. Il quale, naturalmente, rifiutò questa facilitazione). «In sostanza, - leggo in un altro punto della sua lettera, - la mia impresa non è difficile. Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine». Confesserò che mi piace immaginare che la terminò, e che leggo il Chisciotte - tutto il Chisciotte - come se l'avesse pensato Menard? Sere fa, sfogliando il capitolo XXVI (non tentato dal nostro amico), riconobbi il suo stile, e quasi la sua voce, in questa frase eccezionale: las ninfas de los ríos, la dolorosa y húmida Eco. Questa efficace congiunzione d'un aggettivo morale con uno fisico mi richiamò alla memoria un verso di Shakespeare che discutemmo una sera:

Where a malignant and turbaned Turk...

Perché - dirà il nostro lettore - proprio il Chisciotte? In uno spagnolo, questa preferenza non sarebbe stata inesplicabile; ma inesplicabile può sembrare in un simbolista di Nimes, devoto essenzialmente di Poe, che generò Baudelaire, che generò Mallarmé, che generò Valéry, che generò Edmond Teste. La lettera citata chiarisce il punto. «Il Chisciotte, - spiega Menard, - m'interessa profondamente, ma non mi sembra... come dire?... inevitabile. Non posso immaginare l'universo senza l'interiezione di Edgar Allan Poe:

Ah, bear in mind this garden was enchanted!

o senza il Bateau Ivre o l'Ancient Mariner, ma mi so capace d'immaginarlo senza il Chisciotte. (Parlo, naturalmente, della mia capacità personale, e non della risonanza storica delle opere). Il Chisciotte è un libro contingente, il Chisciotte è innecessario. Posso premeditarne la scrittura, posso scriverlo, senza incorrere in una tautologia. A dodici e tredici anni lo lessi, forse integralmente. Poi ho riletto con attenzione alcuni capitoli, quelli che non tenterò per il momento. Ho dato anche una scorsa agli intermezzi, alle commedie, alla Galatea, alle Novelle esemplari, alle fatiche indubbiamente laboriose di Persiles e Segismunda, e al Viaggio del Parnaso...
Il ricordo d'insieme che ho del Chisciotte, semplificato dall'oblivio e dall'indifferenza, può benissimo equivalere all'imprecisa immagine anteriore d'un libro non scritto. Ammessa quest'immagine (che nessuno, in buona fede, può rifiutarmi) resta che il mio problema è assai piú difficile di quello di Cervantes. Il mio compiacente precursore non rifiutò la collaborazione del caso: andava componendo la sua opera immortale un poco à la diable, portato da inerzie del linguaggio e dell'invenzione. Io ho contratto l'obbligo misterioso di ricostruire letteralmente la sua opera spontanea. Il mio gioco solitario è governato da due leggi antitetiche. La prima mi permette di tentare varianti di tipo formale o psicologico; la seconda m'impone di abolire ogni variante in favore del testo "originale", e di ragionare irrefutabilmente questa abolizione... A questi impedimenti artificiali se ne aggiunge un altro, congenito. Comporre il Chisciotte al principio del secolo XVII fu impresa ragionevole, forse fatale; al principio del XX, è quasi impossibile. Non invano sono passati trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali, per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte».
A dispetto di questi ostacoli, il frammentario Chisciotte di Menard è piú sottile di quello di Cervantes. Quest'ultimo, semplicisticamente, oppone alle finzioni cavalleresche la povera realtà provinciale del suo paese; Menard sceglie come «realtà» la terra di Carmen durante il secolo di Lepanto e di Lope. Che spagnolate non avrebbe consigliato una scelta simile a Maurice Barrès o al dottor Rodríguez Larreta! Menard, con tutta naturalezza, le elude. La sua pagina non s'impaccia di gitanerie, né di conquistadores, né di mistici, né di Filippo II, né di autodafé. Neglige o proscrive il colore locale. Questo sprezzo testimonia d'un senso nuovo del romanzo storico. Questo sprezzo condanna Salammbó, inesorabilmente.
Non meno interessante l'esame di capitoli singoli. Vediamo per esempio il XXXVIII della parte prima, «che tratta del curioso discorso che fece Don Chisciotte sulle armi e sulle lettere». E noto che Don Chisciotte (come Quevedo nel passo analogo, e posteriore, della Hora de todos) si pronuncia contro le lettere, in favore delle armi. Cervantes era un vecchio soldato, e il suo giudizio si spiega. Ma che il Don Chisciotte di Pierre Menard - contemporaneo della Trahison des cleres e di Bertrand Russell - ricada in queste nebulose sofisticherie! Madame Henri Bachelier ha voluto scorgervi un'ammirevole e tipica subordinazione dell'autore alla psicologia dell'eroe; altri (non più perspicacemente), una trascrizione del Chisciotte; la baronessa di Bacourt, l'influenza di Nietzsche. A questa terza interpretazione (che giudico irrefutabile) non so se m'arrischierò a farne seguire una quarta, che s'addirebbe assai bene alla modestia quasi divina di Menard: alla sua rassegnata o ironica abitudine di propagare delle idee che erano l'esatto rovescio di quelle preferite da lui. (Rammentiamo ancora una volta la sua diatriba contro Paul Valéry nell'effimero foglio surrealista di Jacques Reboul). Il testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente piú ricco. (Piú ambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l'ambiguità è una ricchezza).
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz'altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):

... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell'avvenire.

Scritta nel secolo XVII, scritta dall'ingenio lego Cervantes, quest'enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:

... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell'avvenire.

La storia, madre della verità; l'idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l'indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali - esempio e notizia del presente, avviso dell'avvenire - sono sfacciatamente pragmatiche.
Altrettanto vivido il contrasto degli stili. Lo stile arcaizzante di Menard resta straniero, dopo tutto, e non senza qualche affettazione. Non cosí quello del precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo corrente della propria epoca.
Non v'è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile. Una dottrina filosofica è al principio una descrizione verosimile dell'universo; passano gli anni, ed è un semplice capitolo - quando non un paragrafo o un nome - della storia della filosofia. Nelle opere letterarie, questa caducità finale è ancora piú evidente. Il Chisciotte - mi diceva Menard - fu anzitutto un libro gradevole; ora è un'occasione di brindisi patriottici, di superbia grammaticale, di oscene edizioni di lusso. La gloria è una forma d'incomprensione, forse la peggiore.
Queste affermazioni nichiliste non hanno nulla di nuovo; ma nuova e singolare è la conclusione che ne trasse Menard. Risolse di precorrere la vanità che attende tutte le fatiche dell'uomo; s'accinse a un'impresa complessissima e futile in partenza. Dedicò i suoi scrupoli e le sue veglie a ripetere in un idioma estraneo un libro preesistente. Moltiplicò i rifacimenti, corresse e lacerò migliaia di pagine manoscritte (3).
Non permise a nessuno di esaminarle, e curò che non gli sopravvivessero. Invano ho cercato di ricostruirle.
Ho pensato che il Don Chisciotte finale potrebbe considerarsi come una specie di palinsesto, in cui andrebbero ricercate le tracce - tenui, ma non indecifrabili - della scrittura «anteriore» del nostro amico. Disgraziatamente, solo un secondo Pierre Menard, invertendo il lavoro del primo, potrebbe resuscitare queste Troie...
«Pensare, analizzare, inventare (mi scrisse pure) non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell'intelligenza. Glorificare l'occasionale esercizio di questa funzione, tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore ciò che il doctor universalis pensò, è confessare il nostro languore o la nostra barbarie. Ogni uomo dev'esser capace di ogni idea, e credo che nell'avvenire sarà così».
Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l'arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell'anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l'Odissea come se fosse posteriore all'Eneide, e il libro Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier, come se fosse di Madame Henri Bachelier. Questa tecnica popola di avventure i libri piú calmi. Attribuire a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l'Imitazione di Cristo, non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenui consigli spirituali?

Nîmes, 1939.

Note
-----------------------------------

1. Madame Henri Bachelier cita anche una traduzione letterale della traduzione letterale che fece Quevedo della Introduction à la vie dévote di san Francesco di Sales. Nella biblioteca di Menard non v'è traccia di quest'opera. Deve trattarsi di uno scherzo del nostro amico, male interpretato.

2. M'ero anche proposto di abbozzare un ritratto di Menard. Ma come arrischiarmi a competere con le auree pagine che sta preparando, a quanto mi dicono, la baronessa di Bacourt, o con la matita delicata e puntuale di Carolus Hourcade?

3. Ricordo i suoi quaderni a quadretti, le sue nere cancellature, i suoi peculiari simboli tipografici e la sua scrittura da insetto. Verso sera, gli piaceva andarsene a camminare per i sobborghi di Nîmes; soleva portar seco un quaderno, e farne un allegro falò.

"Una partita a scacchi" di Tonino Guerra

Un inglese e una russa si conobbero a Capri, ed ebbero un breve ma struggente incontro d'amore. L'inglese partì per Londra e la russa se ne tornò sulla sua grande pianura. Avevano deciso di continuare il loro amore giocando una lunga partita a scacchi a distanza. Ogni tanto arrivava una lettera dalla Russia con la mossa da fare e ogni tanto arrivava in Russia la lettera coi numeri da Londra. Intanto l'inglese si sposò ed ebbe tre figli. Anche la russa ebbe un felice matrimonio. La partita a scacchi, con una lettera ogni cinque o sei mesi, durò vent'anni. Poi un giorno arrivò all'inglese una mossa di cavallo così astuta che gli mangiò la regina, e lui capì che questa mossa l'aveva fatta un'altra persona per indicargli che la signora era morta.

"You're the top" di Cole Porter


At words poetic, I'm so pathetic
that I always have found it best,
instead of getting 'em off my chest,
to let 'em rest unexpressed,
I hate parading my serenading
as I'll probably miss a bar,
but if this ditty is not so pretty
at least it'll tell you
how great you are.

You're the top!
You're the Coliseum.
You're the top!
You're the Louver Museum.
You're a melody from a symphony by Strauss,
you're a Bendel bonnet,
a Shakespeare's sonnet,
you're Mickey Mouse.

You're the Nile,
you're the Tower of Pisa,
you're the smile on the Mona Lisa
I'm a worthless check, a total wreck, a flop,
but if, baby, I'm the bottom, you're the top!

Your words poetic are not pathetic.
On the other hand, babe, you shine,
and I can feel after every line
a thrill divine
down my spine.
Now gifted humans like Vincent Youmans
might think that your song is bad,
but I got a notion
I'll second the motion
and this is what I'm going to add.

You're the top!
You're Mahatma Gandhi.
You're the top!
You're Napoleon Brandy.
You're the purple light
of a summer night in Spain,
you're the National Gallery,
you're Garbo's salary,
you're cellophane.

You're sublime,
you're turkey dinner,
you're the time, the time of a Derby winner
I'm a toy balloon that’s fated soon to pop,
but if, baby, I'm the bottom,
You're the top!

You're the top!
You're an arrow collar
You're the top!
You're a Coolidge dollar,
You're the nimble tread
of the feet of Fred Astaire,
you're an O'Neill drama,
you're Whistler's mama!
You're camembert.

You're a rose,
you're Inferno's Dante,
you're the nose
on the great Durante.
I'm just in a way,
as the French would say, "de trop".
But if, baby, I'm the bottom, you're the top!

You're the top!
You're a dance in Bali.
You're the top!
You're a hot tamale.
you're an angel, you,
simply too, too, too diveen,
you're a Boticcelli,
you're Keats,
you're Shelly!
You're Ovaltine!

You're a boom,
you're the dam at Boulder,
you're the moon,
over Mae West's shoulder,
I'm the nominee of the G.O.P.
or GOP!
But if, baby, I'm the bottom, you're the top!

You're the top!
You're a Waldorf salad.
You're the top!
You're a Berlin ballad.
You're the boats that glide
on the sleepy Zuider Zee,
you're an old Dutch master,
you're Lady Astor,
you're broccoli!

You're romance,
you're the steppes of Russia,
you're the pants, on a Roxy usher,
I'm a broken doll, a fol-de-rol, a blop,
but if, baby, I'm the bottom, you're the top!

potete ascoltare la canzone, cliccando sul titolo del post

venerdì 25 settembre 2009

"Episodio" di Fernando Pessoa


Qualunque cosa sognamo,
ogni sogno è realtà.
Tutto quel che appare,
Dio lo fa visibile
e dunque è
reale come ogni cosa.

Tutto ciò che desideriamo,
lo otteniamo altrove,
ora, sempre ora, e qui
siamo ricchi dell'al di là.
Nel nostro sentirci io
autodiscerniamo Dio.

A volte penso che la speranza
possa tramutare tutto in realtà,
ma mi fermo, brancolo
e la vita, la paura e il dolore
è tutto ciò che resta.
Perché dunque queste pene,
quest'inquietudine che fa fremere
di una possibile gioia
tutto il dolore che colma
la nostra speranza fino a nausearla?
Perché tutto questo, perché,
se tutto è incerto?
Oh, concedetemi una brezza
su di un prato di questa terra,
e lasciate che quella brezza appaghi
benché io non capisca.
Per ogni angoscia c'è
un vago desiderio di felicità.

"Begin the beguine" di Cole Porter


When they begin the beguine
It brings back the sound of music so tender,
It brings back a night of tropical splendor,
It brings back a memory ever green.
I'm with you once more under the stars,
And down by the shore an orchestra's playing
And even the palms seem to be swaying
When they begin the beguine.
To live it again is past all endeavor,
Except when that tune clutches my heart,
And there we are, swearing to love forever,
And promising never, never to part.
What moments divine, what rapture serene,
Till clouds came along to disperse the joys we had tasted,
And now when I hear people curse the chance that was wasted,
I know but too well what they mean;
So don't let them begin the beguine
Let the love that was once a fire remain an ember;
Let it sleep like the dead desire I only remember
When they begin the beguine.
Oh yes, let them begin the beguine, make them play
Till the stars that were there before return above you,
Till you whisper to me once more,
Darling, I love you!
And we suddenly know What heaven we're in,
When they begin the beguine.

ascoltate la canzone, cliccando sul titolo del post

La democrazia ateniese ai tempi di Pericle e Protagora (V di V)

Nell'epitaffio Pericle si fa portavoce dell'orgoglio del cittadino ateniese. “Affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente personalità a ogni genere di occupazione, e con la più grande versatilità accompagnata da decoro. [...] Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può dilettare per il momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite sui fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili alla nostra audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese fortunate o sfortunate”. L'uomo che vince la terra e il mare appare anche nel primo stasimo dell'Antigone, ma Sofocle non nasconde il suo pessimismo, perché quest'uomo ha dimenticato gli dei. In Pericle l'orgoglio dell'uomo non può mai essere disgiunto dall'orgoglio della città: la forza dell'ateniese è di essere parte integrante della comunità cittadina.
Sono palesi i punti di contatto tra Pericle e Protagora: entrambi esaltano l'uomo, la sua intelligenza, la sua fantasia, il suo coraggio ed entrambi dicono che l'uomo può realizzarsi come tale soltanto nell'ambito cittadino, assieme agli altri uomini; lo stato è la dimensione in cui un uomo diventa cittadino e quindi uomo a tutti gli effetti. L'epitaffio pericleo è la traduzione nei termini dell'ideologia politica della teoria protagorea dell'uomo come misura di tutte le cose. È impossibile sapere se è il filosofo che ha influenzato il politico o viceversa, certo il tema della democrazia, della funzione educativa dello stato e soprattutto la centralità della polis stanno alla base del pensiero e del lavoro dei due uomini, del politico che aveva la responsabilità di guidare la sua città e dell'intellettuale cosmopolita che non aveva una propria città.
Il discorso pericleo permette di cogliere i punti più importanti dell'ideologia democratica con gli occhi di chi ha creato e propagandato quell'ideologia. La stretta interdipendenza di questi fattori: il regime democratico, il sistema delle indennità, lo sviluppo urbanistico di Atene, la politica imperialista e lo sfruttamento degli alleati, la presenza di nobili "collaborazionisti", è messa in luce da tutt'altro punto di vista dall'autore del pamphlet oligarchico chiamato dalla tradizione Costituzione degli Ateniesi e trovato tra gli scritti di Senofonte, ma certamente non attribuibile a lui. L'autore di questa sprezzante descrizione della costituzione di Atene era un aristocratico che non aveva accettato di allearsi con il popolo, non stava né con Cimone né con Pericle, e aspettava il momento propizio per rovesciare quel regime che egli odiava. Gli oligarchi, chiusi nelle loro cerchie, provarono due volte a impadronirsi del potere: prima nel 411, dopo che Atene aveva subito una pesantissima serie di sconfitte, con la conseguente ribellione di gran parte degli alleati, essi riuscirono a far abrogare la legge che definiva le indennità e ad affidare il governo al consiglio dei Quattrocento, a base censitaria, con il miraggio della pace con Sparta; poi nel 404, alla fine della guerra del Peloponneso, andarono al potere, sotto l'egida spartana, i famigerati Trenta Tiranni.
L'anonimo autore con una lucidità tucididea conclude la sua analisi del regime ateniese sostenendo che era inattaccabile, in quanto era a suo modo perfetto, nel senso etimologico del termine, non presentava incrinature. “In Atene le cose non possono andare diversamente da come vanno ora. Al più è possibile qualche piccola modifica: ma molto non è possibile modificare senza intaccare l'essenza stessa della democrazia”. Il suo bersaglio polemico erano quegli aristocratici che avevano accettato il governo del popolo. “Io al popolo la democrazia gliela perdono! È comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso. Chi invece, pur non essendo di origine popolare, ha scelto di operare in una città governata dal popolo piuttosto che in una oligarchia, costui è pronto ad ogni malazione, e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua ribalderia in una città democratica anziché in una città oligarchica”.
Si può dire che fino allo scoppio della guerra del Peloponneso la vita politica di Atene è stata controllata esclusivamente da uomini dell'aristocrazia. La creazione dell'impero e il conseguente espandersi delle attività economiche portò alla ribalta un gruppo di uomini che non erano nobili, ma erano molto ricchi. Alcuni si erano arricchiti con le concessioni da parte dello stato delle miniere argentifere del Laurio, come Callia e Nicia, altri avevano investito le ricchezze derivate da proprietà terriere per creare grandi manifatture in città, come Agnone e Teodoro. Questi uomini volevano riuscire a esercitare la loro influenza anche sulla vita politica e in parte ci riuscirono. Furono cooptati dall'aristocrazia - a volte attraverso una saggia politica matrimoniale: Callia ad esempio sposò Elpinice, sorella di Cimone - e ne accettarono i valori, anche se continuarono a sentirsi inferiori. Questi uomini, a tale condizione, riuscirono ad avere un ruolo nella politica ateniese: Callia ebbe l'incarico di negoziare la pace con il Gran Re, Agnone fu stratega con Pericle, combatté contro Melisso di Samo e fu incaricato di colonizzare Anfipoli, Nicia fu stratega con Pericle e cercò di esserne l'erede: quando questi morì, si mise a capo dello schieramento che spingeva per la fine delle ostilità e riuscì a stipulare la pace con cui si è conclusa la guerra archidamica e che gli storici ricordano con il suo nome.
Negli anni immediatamente precedenti la guerra si fece avanti un altro gruppo di uomini decisi a influenzare la scena politica ateniese: erano artigiani che possedevano piccole manifatture, che impiegavano al massimo una decina di schiavi. Questi artigiani, grazie allo sviluppo economico che l'impero aveva provocato, erano riusciti ad accumulare delle ricchezze considerevoli, seppur non paragonabili a quelle di Callia o di Nicia. Dalla tradizione, e specialmente dalla commedia, di cui questi uomini politici erano i bersagli preferiti, è rimasto il ricordo del cuoiaio Cleone, del venditore di tessuti Eucrate, del mercante di bestiame Lisicle, del fabbricante di lucerne Iperbolo, del liutaio Cleofonte. Tra questi due gruppi nacque un'effimera alleanza contro Pericle che culminò nell'accusa e poi nella mancata rielezione alla strategia del 430, ma non appena il comune avversario morì, si rese palese il fatto che rappresentavano interessi diversi, spesso contrapposti.
In questa intricata situazione politica, in cui si confondevano precisi interessi di classe e ambizioni personali, più o meno dichiarate, assunsero un ruolo ben preciso i sofisti che insegnavano l'arte politica e soprattutto insegnavano la cosa che era indispensabile a chiunque volesse iniziare a fare politica ad Atene: l'arte della parola. I sofisti erano in grado di creare degli uomini politici. Protagora e i suoi colleghi, giungendo ad Atene, avevano trovato il mercato più propizio per vendere il proprio sapere. Fare politica non era più un privilegio legato alla nascita; Protagora è sempre rimasto lontano dall'idea di una aristocratica superiorità per natura, che era celebrata dalle odi di Pindaro e dai versi di Teognide. Per il sofista ogni cittadino, proprio per il fatto che era tale, poteva acquisire un'educazione superiore e quindi era in grado di guidare la città. Naturalmente questa educazione era costosa, nel caso di Protagora molto costosa, e quindi alla prova dei fatti era ad appannaggio soltanto di chi aveva molto denaro; ma questo, almeno secondo Protagora, è solamente un fatto empirico e accidentale e non sottende la volontà di creare una élite di governanti. Essere nobili ed essere ricchi non coincideva più.
I sofisti si misero al servizio dei nuovi ricchi che, dal momento che erano ormai troppo vecchi, rinunciarono a imparare le raffinate tecniche retoriche, ma pretendevano che i loro figli avessero i migliori maestri che il denaro poteva comprare, non volevano che questi iniziassero la carriera politica con quel senso di inferiorità che aveva caratterizzato la loro generazione. Così l'educazione di Callia, figlio di Ipponico e nipote di Callia, Teramene, figlio di Agnone, Isocrate, figlio di Teodoro, Nicerato, figlio di Nicia, fu affidata ai migliori sofisti, per prepararli alla vita politica. L'arte della parola era fondamentale anche nella vita giudiziaria. Strepsiade voleva mandare il figlio da Socrate affinché imparasse le tecniche per difenderlo in tribunale contro i numerosi creditori. Il fine di Strepsiade era forse meno nobile, ma non meno importante in quella società incline ai processi.
In quegli stessi anni i giovani aristocratici si raccoglievano attorno a Socrate. C'erano i nipoti di Aristide e di Tucidide, che portavano gli stessi nomi dei nonni, Alcibiade, Senofonte, Eutidemo e poi Crizia, i suoi cugini Carmide e Andocide e i suoi nipoti Platone, Adimanto e Glaucone. Socrate, pur non essendo aristocratico, criticava il regime democratico, perché distoglieva gli uomini comuni dalle attività di cui erano competenti e permetteva anche agli incompetenti di accedere alle cariche pubbliche; egli non poteva accettare che nell'assemblea un calderaio, un sarto, un ciabattino potessero intervenire per dare consigli utili alla città. La classe politica ateniese gli pareva indegna della sua funzione: anche se il giudizio di Socrate riguardava più l'aspetto etico che quello politico, gli aristocratici, sia quelli che vedevano usurpati i propri diritti, acquisiti all'interno della democrazia, dai nuovi ricchi educati dai sofisti, sia i nemici irriducibili di quel regime, trovavano in Socrate un alleato.
I due gruppi politici, “i nobili che aderivano alle eterie” e “quelli che non appartenevano alle eterie, pur non ritenendosi inferiori a nessun altro concittadino”, come Aristotele definisce i due gruppi, si fronteggiarono per diversi anni: nel 418, dopo il disastro di Mantinea, Alcibiade e Nicia si allearono contro il demagogo Iperbolo, che venne ostracizzato, ma nel 415 la tensione tornò a salire, fu l'anno dello scontro tra Nicia e Alcibiade sull'opportunità di condurre la spedizione contro Siracusa, della distruzione delle erme, del processo a Protagora. Nel 411 Crizia e Teramene parteciparono insieme al colpo di stato dei Quattrocento: li univa la proposta di tornare alla patrios politeia, cioè alla costituzione ateniese precedente le riforme efialtee, ma ognuno di essi caricava il concetto di patrios politeia di una valenza particolare: per Teramene era la costituzione del tempo delle guerre persiane, quando grande rilevanza aveva l'Areopago, per Crizia si doveva risalire a Solone e quindi a un'età precedente la stessa riforma di Clistene. La frattura definitiva si consumò nel 404: Teramene, che pure aveva trattato la pace con gli spartani ed era tra i Trenta, fu processato da Crizia e ucciso; a sua volta il capo dei Trenta fu ucciso dai ribelli democratici condotti da Trasibulo. A questo punto le due cerchie scomparvero dalla vita politica, i democratici che avevano vinto al Pireo accomunarono in un'unica condanna lo spietato Crizia, discepolo di Socrate, e il coturno Teramene, allievo dei sofisti. Il processo a Socrate si inserì in questa reazione. A questo punto però la grande stagione di Atene è ormai finita. La democrazia restaurata si caratterizzò per la moderazione e per l'oculata amministrazione di Licurgo, il quale, non trovando più nelle casse statali i provenienti dell'impero, si limitò a una politica della lesina, mentre si profilava all'orizzonte l'astro di Filippo di Macedonia. Il mondo ormai correva troppo velocemente e, insieme alla decandenza politica delle poleis e alla fine della democrazia greca, finiva anche un'idea di pieno coinvolgimento dei filosofi nella vita delle città.

fine

"Tlön, Uqbar, Orbis Tertius" di Jorge Luis Borges

Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d'un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejìa; l'enciclopedia s'intitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell'Encyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d'un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori - a pochissimi lettori - di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull'origine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell'articolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c'era un esemplare di quest'opera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Upsala; nelle prime del XLVII, uno su UraI-Altaic Languages; ma nemmeno una parola su Uqbar. Bioy, tra deluso e stupito, interrogò i tomi dell'indice; provò invano tutte le lezioni possibili: Ukbar, Ucbar, Ooqbar, Qokbar, Oukbahr... Prima di andarsene, mi disse che si trattava di una regione dell'Irak, o dell'Asia Minore. Confesso che assentii con un certo imbarazzo.
Congetturai che quel paese non documentato, quell'eresiarca anonimo, fossero una finzione improvvisata dalla modestia di Bioy per giustificare una frase.
L'esame, affatto sterile, d'uno degli atlanti di Justus Perthes, mi confermò in questo dubbio.
Il giorno dopo, Bioy mi chiamò da Buenos Aires. Mi disse che aveva sott'occhio l'articolo su Uqbar, nel volume XLVI dell'Encyclopaedia. Il nome dell'eresiarca non c'era, ma c'era bene notizia della sua dottrina, e in parole quasi identiche a quelle citate da lui, sebbene - forse - letterariamente inferiori. Lui aveva citato, a memoria: "Copulation and mirrors are abominable".
Il testo dell'Encyclopaedia diceva: "Per uno di questi gnostici l'universo visibile è illusione, o - più precisamente - sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli (mirrors and fatherhood are abominable) perché lo moltiplicano e lo divulgano". Gli dissi, senza mancare alla verità, che mi sarebbe piaciuto di vedere codesto articolo. Pochi giorni dopo me lo portò. Il che mi sorprese, perché gli scrupolosi indici cartografici della Erdkunde di Ritter ignorano completamente l'esistenza di Uqbar.
Il volume portato da Bioy era effettivamente il XLVI dell'Anglo-American Cyclopaedia. L'indicazione alfabetica sul frontespizio e sulla costola era la stessa che nel nostro esemplare (Tor-Ups), ma il volume, invece che di 917 pagine, era di 921. Queste quattro pagine supplementari contenevano l'articolo su Uqbar: non previsto (come il lettore avrà notato) dall'indicazione alfabetica. Accertammo poi che tra i due volumi non c'era, a parte questa, altra differenza; entrambi (come credo di aver indicato) erano ristampe della decima Encyclopaedia Britannica. Bioy aveva comprato il suo esemplare in una qualsiasi vendita all'asta.
Leggemmo l'articolo con una certa attenzione. Il solo passo sorprendente era quello citato da Bioy; il resto pareva molto verosimile, molto conforme all'intonazione generale dell'opera e (com'è naturale) un po' noioso.
Rileggendolo, scoprimmo sotto la sua rigorosa scrittura una fondamentale indeterminatezza. Dei quattordici nomi della sezione geografica ne riconoscemmo solo tre (Khorassan, Armenia, Erzerum), interpolati nel testo in modo ambiguo; dei nomi storici, uno solo: quello dell'impostore Esmerdi il Mago, che però era citato solo per confronto. L'articolo sembrava precisare le frontiere di Uqbar, ma i suoi nebulosi luoghi di riferimento erano fiumi, crateri e montagne di quello stesso paese. Leggemmo, per esempio, che il confine meridionale è formato dai bassopiani di Tsai Chaldun e dal delta dell'Axa, e che nelle isole di questo delta abbondano i cavalli selvatici. Questo, al principio della pagina 918. Dalla sezione storica (pagina 920) apprendemmo che, in seguito alle persecuzioni religiose del XIII secolo, gli ortodossi cercarono rifugio in quelle isole, dove s'innalzano ancora i loro obelischi e dove non è raro, scavando, di ritrovare i loro specchi di pietra. La sezione "Lingua e Letteratura", assai breve, conteneva un solo luogo notabile, in cui si diceva che la letteratura di Uqbar era di carattere fantastico, e che le sue epopee come le sue leggende non si riferivano mai alla realtà, ma alle due regioni immaginarie di Mlejnas e di Tlön... La bibliografia comprendeva quattro volumi che finora non c'è riuscito di trovare, sebbene il terzo - Silas Haslam, History of the Land Called Uqbar, 1874 - figuri nei cataloghi di libreria di Bernard Quaritch. Il primo, Lesbare und lesenswerthe Bemerkungen über das Land Ukkbar in Klein - Asien, avrebbe la data del 1641 e sarebbe opera di Johannes Valentinus Andreä. La cosa è significativa: un paio d'anni dopo ritrovai inaspettatamente questo nome in certe pagine di De Quincey (Writings, volume XIII), e seppi che era quello di un teologo tedesco il quale, al principio del secolo XVII, descrisse la comunità immaginaria della Rosacroce; comunità che altri, poi, fondò realmente sull'esempio di ciò che colui aveva immaginato.
Quella stessa sera fummo alla Biblioteca Nazionale; ma invano disturbammo atlanti, cataloghi, annuari di società geografiche, memorie di viaggiatori e di storici. Nessuno era mai stato a Uqbar. Neppure l'indice generale dell'enciclopedia di Bioy registrava questo nome. Il giorno dopo, Carlos Mastronardi (cui avevo riferito il caso) adocchiò in una libreria le costole in nero e oro della Anglo-American Cyclopaedia. Entrò e consultò il volume XLVI. Naturalmente, non trovò la minima traccia di Uqbar.

All 'Hotel de Adrogué, tra i caprifogli effusivi e il fondo illusorio degli specchi, sussiste ancora un qualche ricordo limitato e decrescente di Herbert Ashe, ingegnere dei Ferrocarriles del Sur. In vita, come tanti inglesi, aveva patito d'irrealtà; morto, non è nemmeno più il fantasma che era stato. Alto, disincantato, la sua stanca barba rettangolare era stata rossa. Pare che fosse vedovo, senza figli. Ogni anno o due andava in Inghilterra: per visitare (a quanto giudico da fotografie che ci mostrò) una meridiana e alcuni roveri. Mio padre aveva stretto con lui (ma il verbo è eccessivo) una di quelle amicizie inglesi che cominciano con l'escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione; solevano scambiarsi libri e periodici; solevano affrontarsi, taciturnamente, agli scacchi... Lo ricordo nell'atrio dell'albergo, con un libro di matematica in mano. guardando a volte i colori irrecuperabili del cielo. Una sera, stavamo parlando del sistema di numerazione duodecimale (in cui il dodici si scrive dieci); Ashe mi disse che stava traducendo non so che tavole duodecimali in tavole sessagesimali (in cui sessanta si scrive dieci). Aggiunse che questo lavoro gli era stato affidato da un norvegese a Rio Grande do Sul. Otto anni che lo conoscevamo, e non ci aveva mai detto di essere stato laggiù...
Parlammo di vita pastorale, di capangas, dell'etimologia brasiliana della parola gaucho (che alcuni vecchi dell'est pronunciano ancora gaúcho), e non fu più questione - Dio mi perdoni - di funzioni duodecimali. Nel settembre 1937 (noi non eravamo in albergo), Herbert Ashe morì della rottura di un aneurisma. Giorni prima aveva ricevuto dal Brasile un pacchetto sigillato e raccomandato. Era un libro in ottavo grande. Ashe l'aveva lasciato al bar, dove - mesi dopo - lo ritrovai. Mi misi a sfogliarlo e provai una vertigine stupita e leggera, che non descriverò, perché questa non è la storia delle mie emozioni ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell'Orbis Tertius. In una notte dell'Islam che chiamano la Notte delle Notti, si spalancano le porte del cielo e l'acqua si fa più dolce nelle brocche; se queste porte, allora, si fossero aperte, non avrei provato quello che provai. Il libro era scritto in inglese ed era di 1001 pagine. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole, che il frontespizio ripeteva: A First Encyclopaedia of Tlön. Vol. XI. Hlaer to Jangr. Non v'era data né luogo di pubblicazione. La prima pagina, e la velina d'una delle tavole, portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis Tertius. Due anni prima, nelle pagine d'una enciclopedia plagiaria, avevo scoperto la sommaria descrizione d'un falso paese; ora il caso mi recava qualcosa di più prezioso e più arduo. Avevo tra mano, ora, un frammento vasto e metodico della Storia totale d'un pianeta sconosciuto, con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche. E tutto ciò articolato, coerente, senza visibile intenzione dottrinale o parodica.
L'"undicesimo volume" di cui parlo contiene riferimenti a volumi precedenti e successivi. Néstor Ibarra in un articolo già classico della "N. R. F.", nega l'esistenza di questi volumi; Ezequiel Martínez Estrada e Drieu La Rochelle hanno confutato, forse vittoriosamente, questo dubbio. Ma il fatto è che, finora, le ricerche più diligenti sono rimaste senza risultato. Invano abbiamo scompigliato le biblioteche delle due Americhe e d'Europa. Alfonso Reyes, stanco di queste fatiche subalterne e poliziesche, propone che noi si intraprenda in comune l'opera di ricostruire i molti e massicci volumi che mancano: ex ungue leonem. Calcola un po' sul serio, un po' per scherzo, che una generazione di tlönisti potrebbe bastare.
Questo calcolo arrischiato ci riporta al problema fondamentale: chi furono gli inventori di Tlön? Il plurale è inevitabile, perché l'ipotesi d'un solo inventore - d'un infinito Leibniz operante nelle tenebre e nella modestia - è stata scartata all'unanimità. Si pensa che questo brave new world sia opera d'una società segreta di astronomi, di biologi, di ingegneri, di metafisici, di poeti, di chimici, di moralisti, di pittori, di geometri... sotto la direzione di un oscuro uomo di genio. Abbondano, infatti, gli individui che dominano queste diverse discipline, ma non quelli capaci di invenzione, e ancor meno quelli capaci di subordinare l'invenzione a un piano rigoroso e sistematico com'è il piano di Tlön. Questo piano è così vasto che il contributo di ciascuno scrittore dev'essere stato infinitesimale. Al principio si credette che Tlön fosse un puro caos, una irresponsabile licenza dell'immaginazione; si sa ora che è un cosmo, e le intime leggi che lo reggono sono state formulate, anche se in modo provvisorio. Mi basti ricordare che nelle contraddizioni apparenti dell'"undicesimo volume" s'è scorta la prova fondamentale che gli altri volumi esistono: tanto è lucido e giusto l'ordine in esso seguito. Le riviste popolari hanno divulgato, con perdonabile eccesso, la zoologia e la topografia di Tlön; io penso che le sue tigri trasparenti e le sue torri di sangue non meritino, forse, la continua attenzione di tutti gli uomini. Ma mi arrischio a spendere qualche minuto sulla sua concezione dell'universo.

Hume, una volta per tutte, osservò che gli argomenti di Berkeley non ammettono la minima replica e non infondono la minima convinzione. Questo giudizio è verissimo sulla terra, falsissimo su Tlön. Le nazioni di questo pianeta sono - congenitamente - idealiste; il loro linguaggio e le derivazioni del loro linguaggio - religione, letteratura, metafisica - presuppongono l'idealismo. Il mondo, per coloro, non è un concorso di oggetti nello spazio; è una serie eterogenea di atti indipendenti; è successivo, temporale, non spaziale. Nella congetturale Ursprache di Tlön, da cui procedono gli idiomi e i dialetti "attuali", non esistono sostantivi; esistono verbi impersonali, qualificati da suffissi (o prefissi) monosillabici con valore avverbiale. Per esempio: non c'è una parola che corrisponda alla nostra parola luna, ma c'è un verbo che sarebbe da noi luneggiare o allunare. Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell'ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò. (Xul Solar traduce brevemente: hop, dietro perscorrere allunò, Upward, bebjnd the onstreaming, it mooned).
L'anzidetto si riferisce agli idiomi dell'emisfero australe. In quelli dell'emisfero boreale (sulla cui Ursprache l'undicesimo volume dà pochissime indicazioni) la cellula primordiale non è il verbo, ma l'aggettivo monosillabico. Il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi. Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro-rotondo, o aranciato-tenue-dell'altoc
eleste, o qualsiasi altro aggregato. In questo caso particolare, la massa degli aggettivi corrisponde a un oggetto reale; ma si tratta, appunto, di un caso particolare. Nella letteratura di questo emisfero (come nell'universo sussistente di Meinong) abbondano gli oggetti ideali, convocati e disciolti in un istante secondo le necessità poetiche.
Determina questi oggetti, a volte, la mera simultaneità: alcuni si compongono di due termini, uno di carattere visivo e uno di carattere uditivo: il colore del giorno nascente e il grido remoto d'un uccello; altri di più termini: il sole e l'acqua contro il petto del nuotatore, il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi, la sensazione di chi si lascia portare da un fiume e, nello stesso tempo, dal sogno. Questi oggetti di secondo grado possono combinarsi con altri; il processo. grazie a certe abbreviazioni, è praticamente infinito. Vi sono poemi famosi composti d'una sola enorme parola. Questa parola corrisponde a un solo oggetto, l'oggetto poetico creato dall'autore. Dal fatto che nessuno crede alla realtà dei sostantivi nasce, paradossalmente, che il numero di questi ultimi è interminabile. Gli idiomi dell'emisfero boreale di Tlön possiedono tutti i numeri delle lingue indo-europee, e molti altri.
Non è esagerato affermare che la cultura classica di Tlön comprende una sola disciplina: la psicologia. Le altre, le sono subordinate. Ho già detto che gli abitanti di questo pianeta concepiscono l'universo come una serie di processi mentali, che non si svolgono nello spazio, ma successivamente, nel tempo. Spinoza attribuisce alla sua inesauribile divinità i modi del pensiero e dell'estensione; su Tlön, nessuno comprenderebbe la giustapposizione del secondo (che caratterizza solo alcuni stati) e del primo, che è un sinonimo perfetto del cosmo. In altre parole: non concepiscono che lo spaziale perduri nel tempo. La percezione di una fumata all'orizzonte, e poi della campagna incendiata, e poi della sigaretta mal spenta che provocò l'incendio, è considerata un esempio di associazione di idee.
Questo monismo o idealismo totale invalida la scienza. Spiegare (o giudicare) un fatto, è unirlo a un altro fatto; ma quest'unione, su Tlön, corrisponde a uno stato posteriore del soggetto, e non s'applica allo stato anteriore, dunque non lo illumina. Ogni stato mentale è irreducibile: il solo fatto di nominarlo - id est, di classificarlo - comporta una falsificazione. Da ciò, sembrerebbe potersi dedurre che su Tlön non si dànno scienze, ne ragionamenti di sorta. La verità, paradossale, è che le scienze colà esistono, e in numero quasi sterminato. Delle filosofie, nell'emisfero boreale, accade ciò che nell'emisfero australe accade dei sostantivi: il fatto che ogni filosofia non possa essere, in partenza, che un gioco dialettico, una Philosophie des Als Ob, ha contribuito a moltiplicarle.
Abbondano i sistemi incredibili, ma di architettura gradevole o di carattere sensazionale. I metafisici di Tlön non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica. Sanno che un sistema non è altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell'universo a uno qualsiasi degli aspetti stessi. Ma persino l'espressione "tutti gli aspetti" è confutabile, poiché si fonda su un'impossibile addizione dell'istante presente ai passati; e questo stesso plurale, "i passati", è illecito, perché suppone un'altra operazione impossibile... Una delle scuole di Tlön nega perfino il tempo: argomenta che il presente è indefinito, che il futuro non ha realtà che come speranza presente. Un'altra scuola afferma che il tempo è già tutto trascorso, e che la nostra vita è appena il ricordo o riflesso crepuscolare, e senza dubbio falsato e mutilato, di un processo irrecuperabile. Un'altra, che la storia dell'universo - e in esso le nostre vite, i più tenui particolari delle nostre vite - è la scrittura che produce un dio subalterno per intendersi con un demonio. Un'altra, che l'universo è paragonabile a quelle crittografie in cui non tutti i segni hanno un valore, e che solo è vero ciò che accade ogni trecento notti. Un'altra ancora, che mentre dormiamo qui, stiamo svegli dall'altra parte, e che dunque ogni uomo è due uomini.
Tra le dottrine di Tlön, nessuna ha sollevato tanto scandalo come il materialismo. Alcuni pensatori ne hanno dato una formulazione, ma in termini più fervidi che chiari, come chi sa di proporre un paradosso. Per facilitare l'intendimento di una tesi così inconcepibile, un eresiarca del secolo XI escogitò il sofisma delle nove monete di rame, la cui scandalosa rinomanza equivale, su Tlön, a quella delle aporie eleatiche. Di questo "ragionamento specioso" si hanno molte versioni, che differiscono quanto al numero delle monete o a quello dei ritrovamenti; ecco la più comune:
Il martedì, X, tornando a casa per un sentiero deserto, perde nove monete di rame. Il giovedì, Y trova sul sentiero quattro monete, un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì. Il venerdì, Z scopre tre monete sullo stesso sentiero e lo stesso venerdì, di mattina, X ne ritrova due sulla soglia di casa sua.
Da questa storia l'eresiarca pretendeva dedurre la realtà - cioè la continuità - delle nove monete recuperate.
E' assurdo (affermava) immaginare che quattro delle monete non siano esistite dal martedì al giovedì, tre dal martedì al venerdì pomeriggio, e due dal martedì al venerdì mattina. E' logico pensare che esse siano esistite - anche se in un certo modo segreto, di comprensione vietata agli uomini - in tutti i momenti di questi tre periodi.
Il linguaggio di Tlön si prestava male alla formulazione di questo paradosso; i più non lo compresero. I difensori del senso comune si limitarono, al principio, a negare la veracità della storia. Ripeterono che si trattava di un inganno verbale, fondato sull'impiego temerario di due voci neologiche, non consacrate dall'uso ed estranee ad ogni pensare severo: i verbi trovare e perdere, che comportavano, qui, una petizione di principio, poiché supponevano l'identità delle prime nove monete e delle seconde. Rammentarono che ogni sostantivo (uomo, moneta, giovedì, mercoledì, pioggia) non ha che un valore metaforico. Denunciarono la perfida circostanza di quell'"un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì", che presuppone ciò che si tratta di dimostrare: la persistenza delle quattro monete tra il martedì e il giovedì. Osservarono che altro è uguaglianza, altro identità; e prospettarono, in guisa di reductio ad absurdum, il caso ipotetico di nove uomini che in nove notti successive provano un vivo dolore. Non sarebbe assurdo - chiesero - pretendere che questo dolore sia lo stesso? Aggiunsero che l'eresiarca era stato mosso unicamente dal proposito blasfemo di attribuire la divina categoria dell'essere ad alcune semplici monete; e rilevarono che colui a volte negava la pluralità, altre no. Se l'uguaglianza comporta identità - argomentarono - bisognerebbe anche ammettere che le nove monete sono una moneta sola.
Incredibilmente, questi argomenti non riuscirono a una confutazione definitiva. A cento anni dall'enunciazione del problema, un pensatore non meno brillante dell'eresiarca, ma di tradizione ortodossa, formulò un'ipotesi molto audace. Secondo questa felice congettura, v'è un solo soggetto: questo soggetto indivisibile è ciascuno degli esseri dell'universo, i quali sono organi e maschere della divinità. X è Y ed è Z.
Z scopre tre monete perché ricorda che X le ha perdute; X ne trova due sulla soglia perché ricorda che le altre sono state recuperate... L'undicesimo tomo lascia capire che la vittoria completa di questo panteismo idealista si dovette a tre ragioni fondamentali: primo, il ripudio del solipsismo; secondo, la possibilità di conservare la base psicologica delle scienze; terzo, la possibilItà dl conservare il culto degli dèi. Schopenhauer (l'appassionato e lucido Schopenhauer) formula una dottrina molto simile nel primo volume dei Parerga und Paralipomena.
La geometria di Tlön comprende due discipline abbastanza distinte: la visuale e la tattile. La seconda corrisponde alla nostra, ed è subordinata alla prima. La base della geometria visiva è la superficie, non il punto.
Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l'uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano. Base di quell'aritmetica è la nozione di numero indefinito. Accentuano l'importanza dei concetti di maggiore e minore, che i nostri matematici simboleggiano con > e <. Affermano che l'operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantità, giungano a risultati eguali, è per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon esercizio della memoria. Sappiamo già, infatti, che in Tlön il soggetto della conoscenza è unico ed eterno. L'idea del soggetto unico informa anche, completamente, gli abiti letterari. E' raro che i libri siano firmati. La nozione dl plagio non esiste: s'è stabilito che tutte le opere sono opere d'un solo autore, atemporale e anonimo. La critica suole inventare autori: sceglie due opere dissimili - il Tao Te King e Le Mille e una notte, diciamo, - le attribuisce a uno stesso scrittore, e passa subito a determinare, con diligenza, la psicologia di questo interessante homme de lettres... Non meno indifferenziati sono i libri. Quelli di narrativa hanno tutti lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili. Quelli di carattere filosofico contengono invariabilmente la tesi e l'antitesi, il rigoroso pro e contra di ciascuna dottrina. Un libro che non includa il suo antilibro è considerato incompleto. Secoli e secoli di idealismo non hanno mancato di influire sulla realtà. Non è infrequente, nelle regioni più antiche di Tlön, la duplicazione degli oggetti perduti. Due persone cercano una matita; la prima la trova, e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita, non meno reale, ma meno attagliata alla sua aspettativa. Questi oggetti secondari si chiamano hrönir, e sono, sebbene di forma sgraziata, un poco più lunghi. Fino a non molto tempo fa, i hrönir furono creature casuali della dimenticanza e della distrazione. Alla loro produzione metodica - sembra impossibile, ma così afferma l'"undicesimo volume" - non s'è giunti che da cento anni. I primi tentativi furono sterili. Il modus operandi merita d'essere ricordato. Il direttore di una delle carceri dello stato comunicò ai detenuti che nell'antico letto d'un fiume v'erano certi sepolcri, e promise la libertà a chi facesse un ritrovamento importante. Durante i mesi che precedettero gli scavi, furono mostrate ai detenuti fotografie di ciò che dovevano ritrovare. Questo primo tentativo mostrò che la speranza e l'avidità possono costituire una inibizione; in una settimana di lavoro con la pala e con il piccone, non si riuscì ad esumare altro hrönir che una ruota arrugginita, di data anteriore all'esperimento. La cosa fu mantenuta segreta e fu poi ripetuta in quattro istituti di educazione. In tre, l'insuccesso fu quasi completo; nel quarto il cui direttore morì casualmente durante i primi scavi) gli scolari esumarono - o produssero - una maschera d'oro, una spada arcaica, due o tre anfore dl coccio, e il torso verdastro e mutilato d'un re, recante sul petto un'iscrizione che non s'è ancora potuta decifrare. Si scoprì in tal modo come la presenza o testimoni a conoscenza del carattere sperimentale della ricerca, costituisca una controindicazione... Le investigazioni in massa producono oggetti contraddittori; oggi si preferiscono i lavori individuali e quasi improvvisati. La produzione metodica dei hrönir (dice l'undicesimo volume) ha reso servizi prodigiosi agli archeologi. Essa ha permesso di interrogare e perfino dl modificare il passato, divenuto non meno plastico e docile dell'avvenire. Fatto curioso: i hrönir di secondo e di terzo grado - i hrönir derivati da un altro hrönir: quelli derivati dal hrön di un hrön - esagerano le aberrazioni del hrön iniziale; quelli di quinto, ne sono quasi privi; quelli di nono, si confondono con quelli di secondo; quelli di undicesimo, hanno una purezza di linee non posseduta neppure dall'originale. Il processo è periodico: Il hrön di dodicesimo grado comincia già di nuovo a decadere. Più strano e più puro di ogni hrön è talvolta l'ur: la cosa prodotta per suggestione, l'oggetto evocato dalla speranza. La gran maschera d'oro cui ho accennato ne è un illustre esempio. Le cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. E' classico l'esempio di un'antica soglia, che perdurò finché un mendicante venne a visitarla, e che alla morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro. 1940, Salto Oriental

Poscritto del 1947
Ho riprodotto l'articolo precedente come apparve nell'Antologia de la literatura fantastica, 1940, senz'altra esclusione che di alcune metafore d'una specie di riassunto burlesco che oggi risulterebbe fuori di luogo. Sono accadute tante cose da allora... Mi limiterò a farne cenno.
Nel marzo 1941, in un libro di Hinton che aveva appartenuto a Herbert Ashe, si trovò una lettera manoscritta di Gunnar Erfjord. La busta recava il timbro postale di Ouro Preto; la lettera chiariva interamente il mistero di Tlön. Il suo testo conferma le ipotesi di Martinez Estrada. La splendida storia cominciò una notte di Lucerna o di Londra, al principio del secolo XVII. Una società segreta e benevola (che contò tra i suoi affiliati Dalgarno, e poi George Berkeley) sorse per inventare un paese. Nel vago programma iniziale figuravano gli "studi ermetici", la filantropia e la cabala. A questo primo periodo risale il curioso libro di Andreä. In capo ad alcuni anni di conciliaboli e di sintesi premature, si comprese che una generazione non bastava per articolare un paese. Si decise che ciascuno dei maestri che formavano la società si sarebbe scelto un discepolo per la continuazione dell'opera. Questo ordinamento ereditario venne osservato.
Poi, dopo uno iato di due secoli, la confraternita risorge in America. Nel 1824, a Memphis (Tennessee) uno degli affiliati parla con l'ascetico milionario Ezra Buckley. Quest'ultimo lo sta a sentire con un certo sprezzo,e si ride della modestia del progetto. Dice che in America è assurdo inventare un paese, e propone l'invenzione di un pianeta. A questa idea gigantesca ne aggiunge un'altra, figlia del suo nichilismo: quella di mantenere il silenzio sull'enorme impresa. Circolavano allora i venti volumi della prima Encyclopaedia Britannica; Buckley suggerisce un'enciclopedia metodica del pianeta illusorio. Lascerà al pianeta i suoi filoni auriferi, i suoi fiumi navigabili, le sue praterie solcate dal toro e dal bisonte, i suoi negri, i suoi postriboli e i suoi dollari, ma a una condizione: "L'opera non patteggerà con l'impostore Gesù Cristo". Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo. Buckley muore avvelenato a Baton Rouge, nel 1825. Nel 1914 la società rimette ai suoi collaboratori, che sono trecento, l'ultimo volume della prima Encyclopaedia di Tlön. La pubblicazione resta segreta: i suoi quaranta volumi (l'opera più vasta che mai si sia compiuta dagli uomini) dovranno servire di base a una altr'opera più minuziosa, redatta non più in inglese, ma in una delle lingue dl Tlön. Questa revisione di un mondo illusorio si chiama provvisoriamente Orbis Tertius, e uno dei suoi modesti demiurghi fu Herbert Ashe, non so se come agente di Gunnar Erfjord o come affiliato. Il fatto che egli ricevette l'"undicesimo volume" sembra favorire la seconda ipotesi. Ma gli altri volumi? A cominciare dal 1942, i fatti si moltiplicarono. Ricordo con singolare nettezza uno dei primi, e mi pare che sentii qualcosa del suo carattere premonitore. Accadde in un appartamento della via Laprida, dinanzi a un chiaro e alto balcone aperto sul tramonto. La principessa de Faucigny Lucinge aveva ricevuto da Poitiers il suo vasellame d'argento. Dal vasto fondo di un cassone costellato di etichette internazionali, venivano tratti alla luce oggetti fini e immobili: argenteria di Utrecht e di Parigi con una dura fauna araldica, un samovar. Tra il vasellame - con un percettibile e tenue tremore di uccello addormentato - palpitava misteriosamente una bussola. La principessa non la riconobbe. L'ago turchino anelava al nord magnetico; la cassa di metallo era concava; le lettere del quadrante erano d'uno degli alfabeti di Tlön. Fu questa la prima intrusione del mondo fantastico nel mondo reale. Della seconda, per un caso che m'inquieta, fui ancora testimone io stesso. Accadde alcuni mesi dopo, nel bazar di un brasiliano, alla Cuchilla Negra. Amorim e io tornavamo da Sant'Anna. Una piena del fiume Tacuarembó ci obbligò a provare (e a sopportare) quella rudimentale ospitalità. Il brasiliano ci sistemò due brande cigolanti in uno stanzone ingombro di botti e di cuoiami. Ci coricammo, ma ci tennero svegli fino all'alba le escandescenze d'un vicino invisibile, che pareva ubriaco e alternava bestemmie inestricabili con frammenti di milongas: o meglio, con frammenti d'una sola milonga. Com'è naturale, attribuimmo quell'insistente baccano all'amicizia del padrone per la propria acquavite... Ma all'alba, trovammo l'uomo morto nel corridoio. L'asprezza della sua voce ci aveva ingannato: era appena un ragazzo. Nel delirio, gli erano cadute dalla cintura alcune monete e un cono di metallo lucente, del diametro di un dado.
Un bambino, che volle raccogliere questo cono, non ci riuscì. Un uomo lo sollevò, ma con gran fatica. Io lo tenni in mano per alcuni minuti e ricordo il suo peso intollerabile, che perdurò anche dopo che l'ebbi lasciato.
Ricordo anche il cerchio preciso che mi scolpì sul palmo. Il fenomeno d'un oggetto così piccolo e nello stesso tempo così pesante, lasciava un'impressione spiacevole, di sgomento e di paura. Un contadino propose di gettarlo nel fiume tumultuoso. Amorim lo acquistò per pochi pesos. Nessuno sapeva nulla del morto, tranne che "veniva dalla frontiera".
Questi coni piccoli e pesantissimi (fatti d'un metallo che non è di questo mondo), sono l'immagine della divinità in certe religioni di Tlön.
Do qui termine alla parte personale della mia narrazione. Il resto è già nella memoria (o nella speranza, o nel timore) di tutti i miei lettori. Mi basterà di rammentare i fatti seguenti, con parole brevi che s'arricchiranno e amplieranno nel concavo ricordo comune. Nel 1944, un reporter del quotidiano "The American" (di Nashville, Tennessee) scovò in una biblioteca di Memphis i quaranta volumi della prima Encyclopaedia di Tlön.
Ma si discute tuttora sulla natura della scoperta: se sia stata casuale, o se l'abbiano consentita i direttori dell'ancora nebuloso Orbis Tertius.
L'ipotesi più verosimile è la seconda. Nell'esemplare di Memphis, alcuni passi incredibili dell'"undicesimo volume" (quelli, per esempio, sulla moltiplicazione dei hrönir) sono stati eliminati o attenuati; è ragionevole pensare che queste correzioni corrispondano all'intenzione di presentare un mondo non troppo incompatibile con il mondo reale. La disseminazione di oggetti di Tlön nei diversi paesi farebbe parte dello stesso piano... Il fatto è che il "ritrovamento" ha avuto nella stampa internazionale un'eco infinita. Manuali, antologie, riassunti, versioni letterali, ristampe autorizzate e non autorizzate di questo Opus Majus del Genere Umano hanno inondato e continuano a inondare la terra.
Quasi immediatamente la realtà ha ceduto in più punti. Quel ch'è certo, è che anelava di cedere. Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine - il materialismo dialettico, l'antisemitismo, il nazismo - per mandare in estasi la gente. Come, allora, non sottomettersi a Tlön, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato? Inutile rispondere che anche la realtà è ordinata. Sarà magari ordinata, ma secondo leggi divine - traduco: inumane - che non finiamo mai di scoprire. Tlön sarà un labirinto, ma è un labirinto ordito dagli uomini, destinato a esser decifrato dagli uomini.
Il contatto con Tlön, l'assuefazione ad esso, hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo rigore, l'umanità dimentica che si tratta d'un rigore di scacchisti, non di angeli. E' già penetrato nelle scuole l'"idioma primitivo" (congetturale) di Tlön; e l'insegnamento della sua storia armoniosa (e piena di episodi commoventi) ha già obliterato quella che presiedette alla mia infanzia: già, nelle memorie, un passato fittizio occupa il luogo dell'altro, di cui nulla sapevamo con certezza... neppure se fosse falso. Sono state riformate la numismatica, la farmacologia e l'archeologia. Suppongo che la biologia e la matematica attendano anch'esse il proprio avatar... Una sparsa dinastia di solitari ha cambiato la faccia del mondo. I lavori continuano. Se le nostre previsioni non errano, tra un centinaio d'anni qualcuno scoprirà i cento volumi della seconda Encyclopaedia di Tlön.
Allora spariranno dal pianeta l'inglese e il francese e il semplice spagnolo. Il mondo sarà Tlön. Io non me ne curo, io continuo a rivedere, nelle quiete giornate dell'Hotel de Adrogué, un'indecisa traduzione quevediana (che non penso di dare alle stampe) dell'Urn Burial di Browne.