Una necessaria premessa, a uso dei miei lettori non emiliani. La torta fritta è un quadrato di pasta lievitata, praticamente pasta di pane, ovviamente fritta (da tradizione nello strutto, anche se ormai si preferisce usare l'olio). La torta fritta è ideale per accompagnare salumi e formaggi; si tratta di uno dei piatti più tradizionali della nostra cucina, un piatto povero, che adesso è diventato di moda chiamare street food. Noi a Parma la chiamiamo così, mentre a Bologna la chiamano crescentina, a Modena e Reggio gnocco fritto. La torta fritta - in tutte le sue declinazioni lessicali - è una delle offerte classiche di tutte le feste campestri e le sagre della nostra regione, e ovviamente anche delle Feste dell'Unità.
Ho fatto questa disquisizione gastronomica perché nella città in cui Zaira e io siamo venuti a vivere dal 2011 è entrato nel linguaggio politico il neologismo "tortafrittari". In sostanza vengono definiti così - in maniera spregiativa e sbrigativa - quelli che un tempo sono stati iscritti al Pci e quindi si sono impegnati nelle cucine delle Feste. Tortafrittari quindi è diventato sinonimo di comunisti, in particolare di quelli che si oppongono - o si opporrebbero - al nuovo corso renziano del Pd, alle "magnifiche sorti e progressive" del centrosinistra primarista.
Per chi non vive a Salsomaggiore giova ricordare che qui i renziani sono già maggioranza da qualche tempo, esprimono il nostro giovane Sindaco e il gruppo dirigente del partito.
Rivendica la paternità di questo neologismo l'autore di un blog cittadino molto seguito, che non ha mai amato la sinistra e che si è recentemente convertito al renzismo; peraltro questo è un fenomeno molto diffuso nella destra italiana, non solo a Salsomaggiore.
Non mi sorprende che usino questo termine non proprio lusinghiero quelli che un tempo ci definivano trinariciuti - ricordo che questa è anche la patria di Guareschi, inventore di questo termine. E' più strano che lo usino di frequente, brandendolo come un insulto, alcuni esponenti del Pd, nella polemica interna al partito: per questi in sostanza da una parte ci sarebbero i renziani, i giovani, i buoni, e dall'altra i vecchi, i cattivi, i comunisti insomma. Curioso poi che qualcuno di questi estremisti renziani non sia poi così anagraficamente giovane e neppure politicamente vergine, avendo militato in diversi altri partiti.
Una piccola nota su questo tema: se si comincia a usare la storia come un insulto, si rischia di alzare parecchia polvere, il che non credo giovi al livello della discussione. Potremmo dare del socialista o del democristiano a chi ci chiama spregiativamente comunisti; triste sorte ha avuto l'aggettivo socialista, che un tempo era sinonimo di galantuomo e dopo ha preso tutt'altro significato. Viste le storie per così dire articolate di chi adesso è nel Pd sarebbe davvero meglio smetterla.
Lo ammetto: su questo tema io sono di parte. Sono nato e cresciuto in una famiglia di tortafrittari - anche se io ho imparato a conoscere quelle delizie con il nome di crescentine - ho conosciuto nella mia vita politica tantissimi tortafrittari e da loro ho imparato moltissimo, per alcuni anni ho avuto l'onore e l'onere di essere il responsabile dei tortafrittari bolognesi (ricordo, tra gli altri, i compagni di Navile e di Porto, autori di crescentine memorabili, senza voler sminuire quelle di altre sezioni di quella grande federazione).
Adesso, come noto, ho smesso di fare politica, non sono iscritto a nessun partito; continuo a mangiare la torta fritta, anche se con maggior moderazione rispetto a quando avevo vent'anni. Domenica 8 dicembre non andrò a votare alle primarie e devo dire che non mi interessa il dibattito che si sta animando all'interno del Pd, in cui pure vedo impegnati tanti amici che un tempo hanno militato con me. Ovviamente non sono renziano, ma non sono neppure un sostenitore di Cuperlo, anzi capisco poco la foga con cui diversi amici si sono gettati nella lotta a favore del deputato triestino contro il sindaco di Firenze. Il Pd è diventato un partito di centro, se vincerà Renzi sarà un partito di centro moderato, se vincerà Cuperlo sarà un partito di centrosinistra moderato, in ogni caso il Pd sarà di rito lettiano e un fedele esecutore delle direttive dettate da Bruxelles e dagli altri poteri che dettano l'agenda. Peraltro se il campione del socialismo europeo è quel Martin Schultz che ha negoziato le larghe intese in Germania con la Cancelliera, è chiaro che la battaglia per aderire al socialismo europeo - che pure facemmo alcuni anni fa - si è rivelata velleitaria. Questo centrosinitra europeo non è più riformabile, può solo essere sostituito.
Proprio perché sono qui da poco non conosco le storie e i trascorsi di questa città, che pure in tanti evocano, però qualcosa mi sento di dirla comunque. E non conosco neppure le persone. Da tortafrittaro, da esodato della sinistra, vorrei dire una cosa a chi usa continuamente questa parola e ci chiama così.
Non vi chiedo di rispettare una storia che legittimamente non condividete, dal momento che ciascuno ha la sua. Io di questa storia vado fiero, spero che anche voi siate orgogliosi della vostra, anche se ne dubito. A chi è molto più giovane di me auguro che si possano costruire una storia di cui essere fieri, anche se è difficile costruire sul nulla, praticamente impossibile; ai giovani del Pd ricordo che possono cominciare una storia nuova, anche perché i tortafrittari hanno lasciato loro un po' di eredità. Anche se non si condivide la storia, penso che tutti dovremmo rispettare le persone. Sono donne e uomini che hanno lavorato - e lavorano - per gli altri, che hanno combattuto e hanno fatto sacrifici. Certo hanno commesso degli errori, individuali e collettivi, ma tutti ne abbiamo connessi e tutti ne commetterete.
Ovviamente io, per raccontare queste donne e questi uomini, preferisco usare una parola antica, ricca di significati: compagni. E devo ringraziare quelle compagne e quei compagni non solo per la politica - che sarebbe già tanto - ma per quello che mi hanno insegnato nella vita.
venerdì 29 novembre 2013
giovedì 28 novembre 2013
Verba volant (19): per...
Per, prep.
Le parole non devono essere lunghe per essere importanti; ci sono infatti parole cortissime, fatte di una sola sillaba - le preposizioni appunto - che sono fondamentali nella nostra lingua e che sono ricche di significati.
Oggi voglio parlare di un per che non c'è più.
Probabilmente pochi di voi sanno chi sia un tal Massimo Bray e infatti importa poco saperlo; potete vivere benissimo con questa lacuna. Questo signore, dopo essere stato direttore della rivista Italianieuropei, è stato chiamato improvvisamente ed inaspettatamente a diventare ministro dei beni culturali nel governo Letta. Ministro di seconda fascia, ben inteso, perché in Italia la cultura conta poco, ma pur sempre ministro. Il suo dicastero si chiama, per esteso, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, anche se ormai si usa chiamarlo con la sigla, Mibac.
Peraltro a diversi ministeri è toccata questa sorte di essere chiamati con una sigla, perché evidentemente è più moderno. Le sigle fanno molto “americano“, tanto che a volte, nella storica sede del ministero in via del Collegio romano, risuona il grido: “Braye, facce Tarzan…“.
Comunque a me interessa il nome esteso, perché quel ministero si chiama così solo da pochi mesi, ossia da quando è nato - sfortunatamente per l’Italia - il governo Letta. Quel ministero è stato creato, nell’autunno del 1974, per il IV governo Moro, come Ministero per i beni culturali e ambientali.
Avete notato il per? Benissimo.
Per la cronaca il primo a ricoprire la carica di ministro è stato Giovanni Spadolini, uomo di lettere, direttore di giornali - compreso il Resto del Carlino - che probabilmente non fu estraneo alla scelta del nome, visto che fortissimamente volle quel ministero.
E il per è sempre rimasto lì, anche nel riordino dei nomi dei ministeri fatto da Bassanini; anzi dei dodici ministeri stabiliti allora da quella riforma questo era l’unico ad avere nel nome il per invece della preposizione di.
Il per infatti è sempre rimasto, anche durante gli incarichi di personaggi non sempre autorevoli.
A essere sinceri, dopo l’esperienza di Spadolini, quel dicastero è stato sempre ricoperto da figure di secondo o di terzo piano, è stato per diversi anni il contentino per qualche corrente democristiana, a cui non era stato dato un ministero di maggior peso - la stessa sorte del ministero della marina mercantile - e per quattro anni anni addirittura è stato ridotto a feudo del Psdi, che nominò, tra gli altri, l’ineffabile Vincenza Bono Parrino, preside siciliana diventata senatrice, dopo la prematura scomparsa del marito, anch’egli senatore dei “saragattiani“, come chiamavano un tempo, un po’ per celia, gli esponenti di quel partito. Nella cosiddetta seconda Repubblica il ministero ha avuto forse maggior appeal, anche se il livello dei ministri è rimasto spesso sotto la sufficienza. Giova ricordare tra gli ultimi ministri almeno il poeta Sandro Bondi.
Perché è stato tolto quel per? Probabilmente nessuno ci ha fatto caso. L’estensore della lista dei ministri ha pensato di uniformare quello che gli era sembrato un errore, se non una bizzaria. Invece quel per aveva un significato. Fino al 1974 di questi temi si occupava una sezione del Ministero della Pubblica Istruzione - bisognerà poi scrivere una definizione su come e perché si è perso l’aggettivo pubblica riferito ad istruzione, ma questa è un’altra storia - e parve giusto che su un tema così rilevante ci fosse un ministero ad hoc. Anche perché l‘art. 9 della Costituzione diceva - e dice ancora:
Adesso però non c’è neppure quel per.
Le parole non devono essere lunghe per essere importanti; ci sono infatti parole cortissime, fatte di una sola sillaba - le preposizioni appunto - che sono fondamentali nella nostra lingua e che sono ricche di significati.
Oggi voglio parlare di un per che non c'è più.
Probabilmente pochi di voi sanno chi sia un tal Massimo Bray e infatti importa poco saperlo; potete vivere benissimo con questa lacuna. Questo signore, dopo essere stato direttore della rivista Italianieuropei, è stato chiamato improvvisamente ed inaspettatamente a diventare ministro dei beni culturali nel governo Letta. Ministro di seconda fascia, ben inteso, perché in Italia la cultura conta poco, ma pur sempre ministro. Il suo dicastero si chiama, per esteso, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, anche se ormai si usa chiamarlo con la sigla, Mibac.
Peraltro a diversi ministeri è toccata questa sorte di essere chiamati con una sigla, perché evidentemente è più moderno. Le sigle fanno molto “americano“, tanto che a volte, nella storica sede del ministero in via del Collegio romano, risuona il grido: “Braye, facce Tarzan…“.
Comunque a me interessa il nome esteso, perché quel ministero si chiama così solo da pochi mesi, ossia da quando è nato - sfortunatamente per l’Italia - il governo Letta. Quel ministero è stato creato, nell’autunno del 1974, per il IV governo Moro, come Ministero per i beni culturali e ambientali.
Avete notato il per? Benissimo.
Per la cronaca il primo a ricoprire la carica di ministro è stato Giovanni Spadolini, uomo di lettere, direttore di giornali - compreso il Resto del Carlino - che probabilmente non fu estraneo alla scelta del nome, visto che fortissimamente volle quel ministero.
E il per è sempre rimasto lì, anche nel riordino dei nomi dei ministeri fatto da Bassanini; anzi dei dodici ministeri stabiliti allora da quella riforma questo era l’unico ad avere nel nome il per invece della preposizione di.
Il per infatti è sempre rimasto, anche durante gli incarichi di personaggi non sempre autorevoli.
A essere sinceri, dopo l’esperienza di Spadolini, quel dicastero è stato sempre ricoperto da figure di secondo o di terzo piano, è stato per diversi anni il contentino per qualche corrente democristiana, a cui non era stato dato un ministero di maggior peso - la stessa sorte del ministero della marina mercantile - e per quattro anni anni addirittura è stato ridotto a feudo del Psdi, che nominò, tra gli altri, l’ineffabile Vincenza Bono Parrino, preside siciliana diventata senatrice, dopo la prematura scomparsa del marito, anch’egli senatore dei “saragattiani“, come chiamavano un tempo, un po’ per celia, gli esponenti di quel partito. Nella cosiddetta seconda Repubblica il ministero ha avuto forse maggior appeal, anche se il livello dei ministri è rimasto spesso sotto la sufficienza. Giova ricordare tra gli ultimi ministri almeno il poeta Sandro Bondi.
Perché è stato tolto quel per? Probabilmente nessuno ci ha fatto caso. L’estensore della lista dei ministri ha pensato di uniformare quello che gli era sembrato un errore, se non una bizzaria. Invece quel per aveva un significato. Fino al 1974 di questi temi si occupava una sezione del Ministero della Pubblica Istruzione - bisognerà poi scrivere una definizione su come e perché si è perso l’aggettivo pubblica riferito ad istruzione, ma questa è un’altra storia - e parve giusto che su un tema così rilevante ci fosse un ministero ad hoc. Anche perché l‘art. 9 della Costituzione diceva - e dice ancora:
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.La Costituzione quindi assegna alle istituzioni un ruolo attivo nel campo della cultura, di promozione, di impulso, che sembrava meglio espresso con quel per. Alle parole non sono seguiti i fatti e quel per è rimasto purtroppo lettera morta.
Adesso però non c’è neppure quel per.
martedì 26 novembre 2013
Verba volant (18): convenzione...
Convenzione, sost. f.
Immagino avrete letto anche voi questa notizia: i sedicenti dirigenti di un noto partito italiano di centrosinistra si sono riuniti domenica scorsa a Roma, in un’assemblea definita - con forse inutile enfasi - convenzione.
Tale scelta non può non attirare un lessicografo come me.
La prima e più famosa convenzione - in questo caso non è inappropriata l'abusata espressione "la madre di tutte le convenzioni"- è la Convention Nationale, ossia l'assemblea dotata di potere esecutivo e legislativo, i cui lavori durarono dal settembre 1792 all’ottobre 1795.
Nel corso del 1792 siamo ormai nella fase più avanzata della Rivoluzione francese: la folla ha preso d’assalto il Palais des Tuileries e chiede apertamente l’abolizione della monarchia; a questo punto l’assemblea costituente sospende il re dalle sue funzioni e promuove l’istituzione di una nuova assemblea – la Convenzione appunto – eletta a suffragio universale, con l’incarico precipale di dare alla Francia una nuova costituzione repubblicana.
Balzano immeditamente agli occhi due differenze con la convenzione del Pd. Prima di tutto la durata: gli amici di Renzi e Cuperlo hanno fatto tutto in poche ore, in tempo per andare a vedere la partita.
Secondo, la convenzione di domenica scorsa, nonostante le scaramucce verbali dei contendenti alla segreteria, non ha riservato agli spettatori un acceso dibattito né discorsi di memorabile oratoria. Nella Convenzione francese sedevano, tra gli altri, Danton, Robespierre, Marat; con tutta evidenza, se si fosse scontrato con questi personaggi, Pittella non avrebbe mai potuto raggiungere il 5,8%.
C’è un elemento però che accomuna le due istituzioni. Nella Convenzione quasi la metà dei deputati appartenevano al centro – chiamato anche palude – non erano schierati con nessun altro partito, eppure il loro numero determinava l’esito di ogni votazione. Come è evidente la palude è il riferimento ideologico del Pd, in tutte le sue anime.
Più banalmente i creativi del Pd – tra cui c’è ancora una qualche influenza del kennedysmo veltroniano - non hanno pensato alla Rivoluzione francese per dare il nome a questa rutilante assemblea; convention infatti si chiama l’appuntamento nel quale i rappresentanti dei due maggiori partiti degli Stati Uniti nominano i propri candidati alle diverse cariche elettive, tra cui naturalmente la presidenza. I tre amici però non concorrono alla presidenza di alcunché: il vincitore può aspirare al massimo al posto di capo dei corazzieri.
Una curiosità: Renzi inizialmente non voleva usare questo termine, perché Convenzione è il nome dell’organizzazione criminale segreta della serie tv Alias. Poi Epifani gli ha spiegato la differenza.
Immagino avrete letto anche voi questa notizia: i sedicenti dirigenti di un noto partito italiano di centrosinistra si sono riuniti domenica scorsa a Roma, in un’assemblea definita - con forse inutile enfasi - convenzione.
Tale scelta non può non attirare un lessicografo come me.
La prima e più famosa convenzione - in questo caso non è inappropriata l'abusata espressione "la madre di tutte le convenzioni"- è la Convention Nationale, ossia l'assemblea dotata di potere esecutivo e legislativo, i cui lavori durarono dal settembre 1792 all’ottobre 1795.
Nel corso del 1792 siamo ormai nella fase più avanzata della Rivoluzione francese: la folla ha preso d’assalto il Palais des Tuileries e chiede apertamente l’abolizione della monarchia; a questo punto l’assemblea costituente sospende il re dalle sue funzioni e promuove l’istituzione di una nuova assemblea – la Convenzione appunto – eletta a suffragio universale, con l’incarico precipale di dare alla Francia una nuova costituzione repubblicana.
Balzano immeditamente agli occhi due differenze con la convenzione del Pd. Prima di tutto la durata: gli amici di Renzi e Cuperlo hanno fatto tutto in poche ore, in tempo per andare a vedere la partita.
Secondo, la convenzione di domenica scorsa, nonostante le scaramucce verbali dei contendenti alla segreteria, non ha riservato agli spettatori un acceso dibattito né discorsi di memorabile oratoria. Nella Convenzione francese sedevano, tra gli altri, Danton, Robespierre, Marat; con tutta evidenza, se si fosse scontrato con questi personaggi, Pittella non avrebbe mai potuto raggiungere il 5,8%.
C’è un elemento però che accomuna le due istituzioni. Nella Convenzione quasi la metà dei deputati appartenevano al centro – chiamato anche palude – non erano schierati con nessun altro partito, eppure il loro numero determinava l’esito di ogni votazione. Come è evidente la palude è il riferimento ideologico del Pd, in tutte le sue anime.
Più banalmente i creativi del Pd – tra cui c’è ancora una qualche influenza del kennedysmo veltroniano - non hanno pensato alla Rivoluzione francese per dare il nome a questa rutilante assemblea; convention infatti si chiama l’appuntamento nel quale i rappresentanti dei due maggiori partiti degli Stati Uniti nominano i propri candidati alle diverse cariche elettive, tra cui naturalmente la presidenza. I tre amici però non concorrono alla presidenza di alcunché: il vincitore può aspirare al massimo al posto di capo dei corazzieri.
Una curiosità: Renzi inizialmente non voleva usare questo termine, perché Convenzione è il nome dell’organizzazione criminale segreta della serie tv Alias. Poi Epifani gli ha spiegato la differenza.
Verba volant (17): decadenza...
Decadenza, sost. f.
Delle parole mi appassionano da sempre i loro percorsi semantici, spesso ricchi di curiosità; può capitare ad esempio che una di loro con il passare del tempo cambi senso e significato. Questo è successo proprio a decadenza.
Fino a poche settimana fa questa parola si portava dietro un significato del tutto negativo. Mentre ora non è così. Giova fare alcuni esempi.
Certo ricorderete tutti una delle opere capitali della storia di Roma antica, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon; da subito gli studiosi italiani dell'Ottocento cominciarono a tradurre con decadenza il termine inglese decline.
Altrettanto noto è il fatto che il termine decadentismo, dal francese décadent, aveva inizialmente un significato polemico negativo.
E pensate a un’espressione come nobile decaduto: che tristezza, che senso di pena per questo personaggio, un tempo onorato e rispettato e ora costretto a vivere di stenti. Un nobile decaduto può perfino diventare oggetto di riso, ma amaro, di perfida ironia, come avviene nel film L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Lo stesso regista ritaglia per sé il ruolo del Conte Prospero, interdetto dalla moglie ricca e bruttissima, a causa della passione del gioco, che cerca un’impossibile rivincita in lunghe partite a scopa con Gennarino, il piccolo figlio del portiere, che lo batte regolarmente.
Come ho detto da alcuni giorni la storia di questa parola è radicalmente mutata.
In tanti adesso chiediamo la decadenza, anzi la pretendiamo. Anche ora che sta per arrivare - pare finalmente il 27 novembre, data fatidica, giornata finora dedicata al culto dei santi galiziani Facondo e Primitivo, ma che dal prossimo anno sarà più degnamente festeggiata - siamo ancora più in ansia, temiamo non ci sarà, abbiamo paura che per un qualche cavillo slitti a un giorno indefinito, mentre noi la vogliamo, qui e adesso.
E siamo pronti a fare onore alla decadenza. So che alcuni amici particolarmente amanti della decandenza hanno già preparato i festeggiamenti, anche se per scaramanzia tacciono, hanno nascosto le lingue di Menelik sotto i cuscini del divano, hanno occultato i cotillons in cassetti segreti. Se interrogati dicono che la bottiglia di spumante che è stata messa in frigorifero verrà stappata nelle feste natalizie, anche se noi sappiamo, vediamo la luce nei loro occhi quando dicono che il 27 non possono venire a calcetto.
Devono essere a casa, davanti alla televisione, e aspettare la decadenza.
p.s.
il 27 novembre 2013 il Senato ha votato la decandenza del senatore Berlusconi...
Delle parole mi appassionano da sempre i loro percorsi semantici, spesso ricchi di curiosità; può capitare ad esempio che una di loro con il passare del tempo cambi senso e significato. Questo è successo proprio a decadenza.
Fino a poche settimana fa questa parola si portava dietro un significato del tutto negativo. Mentre ora non è così. Giova fare alcuni esempi.
Certo ricorderete tutti una delle opere capitali della storia di Roma antica, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon; da subito gli studiosi italiani dell'Ottocento cominciarono a tradurre con decadenza il termine inglese decline.
Altrettanto noto è il fatto che il termine decadentismo, dal francese décadent, aveva inizialmente un significato polemico negativo.
E pensate a un’espressione come nobile decaduto: che tristezza, che senso di pena per questo personaggio, un tempo onorato e rispettato e ora costretto a vivere di stenti. Un nobile decaduto può perfino diventare oggetto di riso, ma amaro, di perfida ironia, come avviene nel film L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Lo stesso regista ritaglia per sé il ruolo del Conte Prospero, interdetto dalla moglie ricca e bruttissima, a causa della passione del gioco, che cerca un’impossibile rivincita in lunghe partite a scopa con Gennarino, il piccolo figlio del portiere, che lo batte regolarmente.
Come ho detto da alcuni giorni la storia di questa parola è radicalmente mutata.
In tanti adesso chiediamo la decadenza, anzi la pretendiamo. Anche ora che sta per arrivare - pare finalmente il 27 novembre, data fatidica, giornata finora dedicata al culto dei santi galiziani Facondo e Primitivo, ma che dal prossimo anno sarà più degnamente festeggiata - siamo ancora più in ansia, temiamo non ci sarà, abbiamo paura che per un qualche cavillo slitti a un giorno indefinito, mentre noi la vogliamo, qui e adesso.
E siamo pronti a fare onore alla decadenza. So che alcuni amici particolarmente amanti della decandenza hanno già preparato i festeggiamenti, anche se per scaramanzia tacciono, hanno nascosto le lingue di Menelik sotto i cuscini del divano, hanno occultato i cotillons in cassetti segreti. Se interrogati dicono che la bottiglia di spumante che è stata messa in frigorifero verrà stappata nelle feste natalizie, anche se noi sappiamo, vediamo la luce nei loro occhi quando dicono che il 27 non possono venire a calcetto.
Devono essere a casa, davanti alla televisione, e aspettare la decadenza.
p.s.
il 27 novembre 2013 il Senato ha votato la decandenza del senatore Berlusconi...
domenica 24 novembre 2013
Verba volant (16): ombrello...
Ombrello, sost. m.
Cosa sia un ombrello e a cosa serva lo sapete tutti, e sapete anche che è facilissimo perderlo. Questa potrebbe sembrarvi una definizione inutile, ma c'è una piccola storia legata a un ombrello che credo vi possa interessare.
Il 22 novembre 1963 a Dallas era una bellissima giornata di sole, così bella che i consiglieri del presidente Kennedy decisero di usare un'auto scoperta. Decisione che si rivelerà fatale.
Nonostante la giornata di sole, tra la folla che seguiva il corteo presidenziale, c'era un uomo con un ombrello nero aperto.
Quell’uomo – presto indicato dalla stampa come The umbrella man – si vede chiaramente anche nel filmato amatoriale girato quel giorno, con una piccola telecamera 8mm, da Abraham Zapruder, uno dei filmati più visti, analizzati e commentati del mondo.
Su quell’uomo e sul suo ombrello si scatenarono le ipotesi, alcuni pensarono a un segnale in codice per l’attentatore, altri che quell’ombrello fosse in realtà un’arma. Ancora oggi, se fate un giro nella rete, potete vedere che quel dibattito non si è ancora spento. Potete trovare il progetto del fucile-ombrello usato dall’attentore, secondo una di queste ricostruzioni; un aggeggio degno di Q.
Nel 1978 la seconda commissione d’inchiesta sull’omicidio Kennedy fece un appello affinché The umbrella man si presentasse e spiegasse i motivi della sua presenza là e soprattutto perché avesse aperto l’ombrello proprio mentre si avvicinava l’auto del presidente.
Quell’uomo era Louie Steven Witt che si presentò davanti alla commissione, portando con sé l’ombrello; la sua spiegazione fu davvero curiosa.
Witt con quel gesto voleva fare un’azione di protesta contro il padre del presidente, Joseph Kennedy, che era stato ambasciatore nel Regno Unito dal 1938 al 1940. In quel periodo, specialmente nei mesi che precedettero lo scoppio del secondo conflitto mondiale, l’ambasciatore Kennedy sostenne con convinzione la poltica di appeasement del primo ministro Neville Chamberlain, che tentò in ogni modo di evitare che il suo paese entrasse in guerra contro la Germania di Hitler, accettando di fatto le annessioni tedesche a danno dei paesi dell’Europa centrale.
Secondo un’opinione corrente, l’arrendevolezza mostrata in quei mesi dalla Gran Bretagna spinse Hitler a sempre maggiori rivendicazioni, dandogli l’impressione che non avrebbe avuto ostacoli nel suo disegno di dominare l’Europa. L’atteggiamento di tacito sostegno della Gran Bretagna al regime fascista in Italia e a quello di Franco in Spagna, in chiave anticomunista, andava in quella stessa direzione.
Nonostante i tentativi di Chamberlein si arrivò comunque al disastro della guerra mondiale.
Nei polemisti di quegli anni l’ombrello nero divenne il simbolo negativo della politica di Chamberlein. C'è ad esempio una vignetta dell’epoca in cui si mostra la belva tedesca, dopo che ha mangiato il pavido Chamberlein, lasciando solo ombrello e cilindro
Witt decise quel giorno, con quel suo gesto solitario e anacronistico, di ricordare al presidente tutto questo.
Con una notevole ironia The umbrella man disse:
Cosa sia un ombrello e a cosa serva lo sapete tutti, e sapete anche che è facilissimo perderlo. Questa potrebbe sembrarvi una definizione inutile, ma c'è una piccola storia legata a un ombrello che credo vi possa interessare.
Il 22 novembre 1963 a Dallas era una bellissima giornata di sole, così bella che i consiglieri del presidente Kennedy decisero di usare un'auto scoperta. Decisione che si rivelerà fatale.
Nonostante la giornata di sole, tra la folla che seguiva il corteo presidenziale, c'era un uomo con un ombrello nero aperto.
Quell’uomo – presto indicato dalla stampa come The umbrella man – si vede chiaramente anche nel filmato amatoriale girato quel giorno, con una piccola telecamera 8mm, da Abraham Zapruder, uno dei filmati più visti, analizzati e commentati del mondo.
Su quell’uomo e sul suo ombrello si scatenarono le ipotesi, alcuni pensarono a un segnale in codice per l’attentatore, altri che quell’ombrello fosse in realtà un’arma. Ancora oggi, se fate un giro nella rete, potete vedere che quel dibattito non si è ancora spento. Potete trovare il progetto del fucile-ombrello usato dall’attentore, secondo una di queste ricostruzioni; un aggeggio degno di Q.
Nel 1978 la seconda commissione d’inchiesta sull’omicidio Kennedy fece un appello affinché The umbrella man si presentasse e spiegasse i motivi della sua presenza là e soprattutto perché avesse aperto l’ombrello proprio mentre si avvicinava l’auto del presidente.
Quell’uomo era Louie Steven Witt che si presentò davanti alla commissione, portando con sé l’ombrello; la sua spiegazione fu davvero curiosa.
Witt con quel gesto voleva fare un’azione di protesta contro il padre del presidente, Joseph Kennedy, che era stato ambasciatore nel Regno Unito dal 1938 al 1940. In quel periodo, specialmente nei mesi che precedettero lo scoppio del secondo conflitto mondiale, l’ambasciatore Kennedy sostenne con convinzione la poltica di appeasement del primo ministro Neville Chamberlain, che tentò in ogni modo di evitare che il suo paese entrasse in guerra contro la Germania di Hitler, accettando di fatto le annessioni tedesche a danno dei paesi dell’Europa centrale.
Secondo un’opinione corrente, l’arrendevolezza mostrata in quei mesi dalla Gran Bretagna spinse Hitler a sempre maggiori rivendicazioni, dandogli l’impressione che non avrebbe avuto ostacoli nel suo disegno di dominare l’Europa. L’atteggiamento di tacito sostegno della Gran Bretagna al regime fascista in Italia e a quello di Franco in Spagna, in chiave anticomunista, andava in quella stessa direzione.
Nonostante i tentativi di Chamberlein si arrivò comunque al disastro della guerra mondiale.
Nei polemisti di quegli anni l’ombrello nero divenne il simbolo negativo della politica di Chamberlein. C'è ad esempio una vignetta dell’epoca in cui si mostra la belva tedesca, dopo che ha mangiato il pavido Chamberlein, lasciando solo ombrello e cilindro
Witt decise quel giorno, con quel suo gesto solitario e anacronistico, di ricordare al presidente tutto questo.
Con una notevole ironia The umbrella man disse:
Se nel Guinness dei primati ci fosse una categoria delle persone che si trovavano nel posto sbagliato nel momento sbagliato a fare la cosa sbagliata, sarei primo in classifica con distacco infinito.
Verba volant (15): disordine...
Disordine, sost. m.
Diceva Albert Einstein, noto per essere una persona piuttosto disordinata:
Se una scrivania in disordine è segno di una mente disordinata, di cosa sarà segno allora una scrivania vuota?Non è questo però il disordine che voglio definire oggi. Io peraltro sono una persona ordinata; mia moglie dice che sono maniaco, anche se io preferisco usare l'espressione estremamente preciso. Comunque questa è un'altra storia.
Sul tema del disordine mi interessa invece una recentissima dichiarazione del ministro di polizia del governo Napolitano. Il personaggio - è sempre bene ricordarlo, ogni volta che lo si nomina - è noto anche per aver consegnato a un dittatore straniero la moglie e la figlia del principale oppositore di quel regime. Comunque, al di là di questa e altre nefandezze, questa allampanata figura ha lodato l'Italia dell'ordine, criticando allo stesso tempo l'Italia del disordine.
Vediamo chi, a buon diritto, fa parte dell’Italia dell’ordine: prima di tutto il presidentissimo, garante supremo - e a vita - della stabilità e dell’immobilità; i ministri, compresi quelli che hanno in rubrica numeri telefonici quantomeno imbarazzanti; i parlamentari della maggioranza, compresi anche l’ineffabile Scilipoti e il sempre pacato Giovanardi, per citarne solo due, ma tra i più folkloristici; i grand commis dell’amministrazione pubblica, i boiardi delle aziende di stato - uomini infaticabili, buoni per tutte le stagioni - compresi i molti incompetenti e gli altrettanti corrotti o corruttibili; i pennivendoli degli "uffici stampa e propaganda", ossia dei giornali e delle televisioni, yesmen pronti a lodare tutti gli autorevoli personaggi a cui devono i loro piccoli e grandi privilegi.
Poi ci sono quelli che comandano davvero: i banchieri, i grandi industriali, i costruttori delle grandi opere, i privatizzatori, gli speculatori, gli affaristi di lungo corso e tutto il loro seguito di faccendieri e concussori.
Infine c’è la pletora di evasori piccoli e grandi, di coloro che sfruttano il lavoro e la miseria degli altri.
Ecco questa è l’Italia dell’ordine, così ferocemente difesa da questa governo.
Ha ragione Alfano: c’è anche un’Italia del disordine, che è minoranza, e a cui non va bene questo stato di cose.
In questi giorni questa Italia, un po’ sfigata, che non fa notizia, che è così poco quick - come direbbe Debenedetti - ha lottato a Genova contro il progetto di svendere il servizio di trasporto pubblico. E lo ha fatto con quello che un tempo si sarebbe chiamato sciopero selvaggio, ossia provocando gravi disagi in città, senza rispettare i limiti di autoregolamentazione, ossia creando disordine; questo è ormai l’unico modo per riuscire a farsi ascoltare da una società che altrimenti rimane sorda a qualsiasi voce che non sia quella allineata al pensiero dominante.
E’ la stessa Italia che lotta da tempo, anche violando le leggi, in Val di Susa, protestando e manifestando contro un progetto sbagliato e pericoloso.
Come avrete capito, in questo caso, anch’io divento disordinato, e anzi penso che di questo disordine ci sia un gran bisogno.
"La libertà la cerco, la inseguo, la ritrovo" di Roberto Roversi
Descrivo una libertà, questa libertà.
La nostra.
Ahi che la invento. La sento.
La ritrovo sulla campagna, sul mare, sulla montagna.
L'uomo la chiama.
La cerca anche il cane.
La libertà grida: "Ritorno, ritorno. Mi sono allontanata per la città ma adesso ho fame".
Cos'è accaduto nel duemilacinque mesi di aspro sentiero?
Un pensiero ha cominciato a girarmi intorno
verso la fine di un giorno molto nero.
Oggi apro la sinossi universale
e leggo che
per dodici mesi l'anno ha gridato
come un maiale da macellare
sempre, viola violenza, viola senza pietà, giornate amare.
Da gennaio a dicembre.
Mi chiedo quale destino ci dobbiamo aspettare.
Cosa vogliamo. Anzi cosa possiamo sperare.
Ogni giorno ci guardavamo sorridendo piangendo.
Sembrava un inizio che non aveva mai fine.
Preparato limato piallato sulla pelle del mondo.
Come si vede nei giorni che stanno ancora correndo.
Eppure. Solo difendendo la libertà
questa cerva braccata lacerata ferita
possiamo uscire dall'affanno di essere vivi in un mare in tempesta.
Ci chiederanno allora:
che hai fatto dei tuoi anni?
poter rispondere: come vedi, li ho spesi. Li ho
spesi. Li ho spesi.
Ma i conti adesso tornano. Almeno un poco.
Ho fatto errori tremendi
ma non mi sono mai consolato.
L'anno che viene sarà un anno che canta.
La libertà mi salterà sulla spalla.
Sul braccio. Su gli occhi che sono
ancora chiusi.
Canterò anche dentro la foresta buia di Brecht
allora
se l'ho cercata
uscirà alla luce del cielo lontana dal fuoco.
Cambieremo la sorte.
Noi possiamo seder sul bordo di un vulcano
mai sul cavallo impazzito della morte.
LA LIBERTÀ È DIFFICILE E FA SOFFRIRE.
venerdì 22 novembre 2013
Verba volant (14): mito...
Mito, sost. m.
J.F.K. è sicuramente un mito. E’ stato anche un buon presidente?
Su questo il giudizio è oggettivamente più complicato. Anche al netto di quelli che hanno attribuito a Kennedy i rapporti con i peggiori gangster della mafia, l'assassinio di Marilyn e praticamente ogni altra nefandezza successa nel mondo nei due anni e mezzo della sua presidenza, e di quelli che un presidente degli Stati Uniti è "cattivo", a prescindere, non si può dimenticare che mai come in quegli anni il mondo fu sull'orlo di un conflitto nucleare, anche per sua diretta responsabilità. E l'inizio dell’intervento statunitense in Vietnam è da attribuire a Kennedy, anche se poi fu Johnson a dare il via alla vera e propria escalation.
Nonostante tutto questo, nonostante la sua condotta notoriamente libertina, Kennedy è diventato un mito. Ovviamente sono state determinanti le circostanze della sua uccisione, il 22 novembre 1963 a Dallas, giusto cinquant’anni fa. Come diceva Menandro, tradotto da Giacomo Leopardi:
muor giovane colui ch’al cielo è caroVale per Kennedy, ma vale anche per altri miti. Fidel Castro è un vecchio leader di cui il mondo attende la fine, un personaggio a cui si guarda con curiosità archeologica. Che Guevara è stato ucciso ed è diventato un mito. La stessa Marilyn Monroe è diventata un mito perché la morte ne ha fissato per sempre l’immagine nel momento in cui la sua bellezza era al massimo del suo splendore.
Io credo però che non basti la morte per fare un mito.
C’è una bella scena del film Nixon di Oliver Stone. Il presidente sente che ormai è tutto finito, sa che dovrà dimettersi, e cammina di notte attraverso i corridoi della Casa bianca, bui e vuoti. Si ferma davanti al ritratto di Kennedy – quello celeberrimo di Aaron Shikler, in cui il presidente è raffigurato a braccia conserte, con lo sguardo verso il basso – e dice
guardano te e si vedono come vorrebbero essere, guardano me e si vedono come sono.E’ proprio così. Sono le persone comuni che costruiscono i propri miti: è un processo complicato, difficile da interpretare, naturalmente inconsapevole, fatto di migliaia di piccoli gesti, di azioni che prese una per una non avrebbero alcun significato, ma che, in un dato momento, all’improvviso, tutte insieme, costruiscono un mito.
Perché di miti c’è bisogno e quel mito racconta più la società che l’ha creato che la persona che si trova involontariamente a incarnarlo, in questa deificazione postuma. Il mito di Kennedy non ci serve a raccontare quel presidente e la sua storia, ma ci è indispensabile per cercare di capire cosa volevano essere gli americani in quegli anni. Immaginavano una società più aperta, più moderna, più libera, con meno retaggi del passato e si erano convinti che quel giovane presidente, se non fosse stato ucciso, li avrebbe condotti a essere un paese migliore. Che lo siano diventati è tutt’altra storia. E anche che lo potessero diventare è molto dubbio.
Qualcosa del genere è successa in Italia – o almeno a una parte di questo paese, quella di sinistra – con Enrico Berlinguer, diventato un nostro mito, dopo il tragico comizio di Padova e il suo partecipatissimo funerale: in molti continuiamo a pensare a lui come un modello, anche se non l’abbiamo conosciuto, se non abbiamo vissuto quegli anni di militanza, e pensiamo a come la sinistra italiana avrebbe potuto essere e non è stata.
Il mito per nascere ha bisogno di sogni, di ideali. Temo che questi nostri tempi tristi non siano i più adatti a produrre miti.
giovedì 21 novembre 2013
Verba volant (13): governabilità...
Governabilità, sost. f.
Questa è una parola difficile; per definirla bene ho provato a consultare un dizionario ben più quotato del mio. Leggiamo allora quello che scrivono i “colleghi” della Treccani alla voce governabilità.
Chiaramente il dizionario Treccani esclude da questa definizione il nostro paese, dal momento che un “normale governo” manca all’Italia da parecchio tempo. Devo per forza cambiare strada.
Probabilmente non mi devo riferire tanto al lessico della politica quanto a quello dell’antropologia e della religione, dal momento che in Italia la governabilità è un feticcio a cui viene sacrificato ogni altro valore, una specie di dio Baal, che deve essere onorato con continui sacrifici umani.
Il ministro della giustizia ha mentito a un giudice? In un altro paese sarebbe stata costretta a dimettersi, ma fortunatamente in Italia questo non deve avvenire, perché le sue dimissioni minerebbero la governabilità. Anzi tutti le chiedono di rimanere al suo posto, proprio per dare maggior peso a questa traballante governo.
Il ministro dell’interno ha consegnato a un dittatore straniero la moglie e la figlia del principale oppositore di quel regime? Dal momento che le sue dimissioni incrinerebbero la governabilità, egli è potuto rimanere tranquillamente al suo posto. Anzi ha fatto carriera, dal momento che, proprio in nome di quella stessa governabilità, ha fatto il proprio partito a sostegno imperituro del governo.
I due principali partiti hanno condotto le loro campagne elettorali escludendo qualsiasi futuro accordo tra di loro, dichiarandosi reciprocamente incompatibili? In nome della governabilità il giorno dopo le elezioni hanno deciso di formare un governo di larghe intese, smentendo se stessi e calpestando le idee dei loro elettori.
Il presidente della Repubblica aveva categoricamente escluso la sua rielezione, peraltro anagraficamente sconsigliata e costituzionalmente irrituale? L’anziano politico è stato rieletto all’alto incarico. Ovviamente in nome della governibilità. Anzi il presidente si è autonominato sommo sacerdote di questa nuova religione e impedisce che ci siano trasgressioni all’ortodossia della governabilità.
Per concludere quindi nel nostro paese non importa tanto cosa fa chi è al governo, se presidente e ministri lavorino bene o male; anzi questo è un elemento del tutto secondario, praticamente ininfluente. L’importante è garantire la governabilità.
In fondo siamo gli eredi dei Romani e come noto Caligola, certo per garantire la governabilità, nominò senatore il suo cavallo. Peccato che adesso nel nostro parlamento ci siano per lo più altri animali, meno nobili.
Questa è una parola difficile; per definirla bene ho provato a consultare un dizionario ben più quotato del mio. Leggiamo allora quello che scrivono i “colleghi” della Treccani alla voce governabilità.
L’esistenza di un complesso di condizioni sociali, economiche, politiche e sim., tali da rendere possibile il normale governo di un paese.
Chiaramente il dizionario Treccani esclude da questa definizione il nostro paese, dal momento che un “normale governo” manca all’Italia da parecchio tempo. Devo per forza cambiare strada.
Probabilmente non mi devo riferire tanto al lessico della politica quanto a quello dell’antropologia e della religione, dal momento che in Italia la governabilità è un feticcio a cui viene sacrificato ogni altro valore, una specie di dio Baal, che deve essere onorato con continui sacrifici umani.
Il ministro della giustizia ha mentito a un giudice? In un altro paese sarebbe stata costretta a dimettersi, ma fortunatamente in Italia questo non deve avvenire, perché le sue dimissioni minerebbero la governabilità. Anzi tutti le chiedono di rimanere al suo posto, proprio per dare maggior peso a questa traballante governo.
Il ministro dell’interno ha consegnato a un dittatore straniero la moglie e la figlia del principale oppositore di quel regime? Dal momento che le sue dimissioni incrinerebbero la governabilità, egli è potuto rimanere tranquillamente al suo posto. Anzi ha fatto carriera, dal momento che, proprio in nome di quella stessa governabilità, ha fatto il proprio partito a sostegno imperituro del governo.
I due principali partiti hanno condotto le loro campagne elettorali escludendo qualsiasi futuro accordo tra di loro, dichiarandosi reciprocamente incompatibili? In nome della governabilità il giorno dopo le elezioni hanno deciso di formare un governo di larghe intese, smentendo se stessi e calpestando le idee dei loro elettori.
Il presidente della Repubblica aveva categoricamente escluso la sua rielezione, peraltro anagraficamente sconsigliata e costituzionalmente irrituale? L’anziano politico è stato rieletto all’alto incarico. Ovviamente in nome della governibilità. Anzi il presidente si è autonominato sommo sacerdote di questa nuova religione e impedisce che ci siano trasgressioni all’ortodossia della governabilità.
Per concludere quindi nel nostro paese non importa tanto cosa fa chi è al governo, se presidente e ministri lavorino bene o male; anzi questo è un elemento del tutto secondario, praticamente ininfluente. L’importante è garantire la governabilità.
In fondo siamo gli eredi dei Romani e come noto Caligola, certo per garantire la governabilità, nominò senatore il suo cavallo. Peccato che adesso nel nostro parlamento ci siano per lo più altri animali, meno nobili.
mercoledì 20 novembre 2013
Verba volant (12): calamità...
Calamità, sost. f.
Per definire questa parola vorrei partire dai Promessi sposi, sperando di non spaventare troppo i miei venticinque lettori.
Come certo ricorderete, Alessandro Manzoni parla a lungo di calamità: dedica interi capitoli alla carestia e alla peste, a costo di far perdere slancio alla trama del suo romanzo e quasi dimenticando i suoi personaggi.
Prendiamo la peste, l'elemento chiave e risolutivo del finale. A un certo livello della narrazione la peste è certamente una calamità: qualcuno muore e qualcuno sopravvive. La provvidenza, la giustizia divina o la necessità di chiudere il romanzo - fate un po' voi - fa sì che Renzo e Lucia sopravvivano e che don Rodrigo ne muoia. A livello individuale opera l'imponderabilita del caso.
Ma se abbiamo la voglia e la capacità di alzare lo sguardo – e quel vecchio giacobino di Manzoni lo fa tutte le volte che può – allora le cose cambiano; e di parecchio. La peste non è una calamità, ma il prodotto di una serie di cause tutte umane: la discesa dei lanzichenecchi, l’incapacità delle autorità pubbliche, l’incompetenza dei medici e così via.
Lo stesso discorso vale per la carestia: certamente hanno pesato le cattive condizioni metereologiche e la scarsità di piogge, ma le cause di quella tragedia non sono affatto naturali, ma anche in questo caso umane: ancora una volta la guerra innanzitutto, poi il cattivo governo, infine le avidità pubbliche e private. Manzoni ha già scritto tutto, basta solo aver gli occhi per leggere.
Per venire alla cronaca di queste ore, è una calamità il ciclone che ha colpito la Sardegna? No, non lo è.
Purtroppo ha colpito quella regione del nostro paese e non un’altra; purtroppo ha colpito più duramente alcuni territori di quell’isola piuttosto che altri; purtroppo ha ucciso alcune persone e non altre. Questa è la tragica fatalità di questo avvenimento, l’imponderabile di questa, come di qualunque altra, calamità naturale, dalle Filippine ad Haiti. Poi bisogna capire quali sono le cause di queste calamità e le ragioni per cui lo scatenarsi della natura provoca in alcuni luoghi danni così impressionanti.
Le ragioni sono sempre quelle raccontate da don Lisander, più o meno aggiornate a seconda dei tempi: la sicumera dei cosiddetti esperti che invece dimostrano di capirne assai poco, l’incapacità e la corruzione delle classi dirigenti, l’avidità e la rapacità di chi accumula le proprie ricchezze senza tener in alcun conto quello che gli sta intorno.
Le calamità siamo noi.
Per definire questa parola vorrei partire dai Promessi sposi, sperando di non spaventare troppo i miei venticinque lettori.
Come certo ricorderete, Alessandro Manzoni parla a lungo di calamità: dedica interi capitoli alla carestia e alla peste, a costo di far perdere slancio alla trama del suo romanzo e quasi dimenticando i suoi personaggi.
Prendiamo la peste, l'elemento chiave e risolutivo del finale. A un certo livello della narrazione la peste è certamente una calamità: qualcuno muore e qualcuno sopravvive. La provvidenza, la giustizia divina o la necessità di chiudere il romanzo - fate un po' voi - fa sì che Renzo e Lucia sopravvivano e che don Rodrigo ne muoia. A livello individuale opera l'imponderabilita del caso.
Ma se abbiamo la voglia e la capacità di alzare lo sguardo – e quel vecchio giacobino di Manzoni lo fa tutte le volte che può – allora le cose cambiano; e di parecchio. La peste non è una calamità, ma il prodotto di una serie di cause tutte umane: la discesa dei lanzichenecchi, l’incapacità delle autorità pubbliche, l’incompetenza dei medici e così via.
Lo stesso discorso vale per la carestia: certamente hanno pesato le cattive condizioni metereologiche e la scarsità di piogge, ma le cause di quella tragedia non sono affatto naturali, ma anche in questo caso umane: ancora una volta la guerra innanzitutto, poi il cattivo governo, infine le avidità pubbliche e private. Manzoni ha già scritto tutto, basta solo aver gli occhi per leggere.
Per venire alla cronaca di queste ore, è una calamità il ciclone che ha colpito la Sardegna? No, non lo è.
Purtroppo ha colpito quella regione del nostro paese e non un’altra; purtroppo ha colpito più duramente alcuni territori di quell’isola piuttosto che altri; purtroppo ha ucciso alcune persone e non altre. Questa è la tragica fatalità di questo avvenimento, l’imponderabile di questa, come di qualunque altra, calamità naturale, dalle Filippine ad Haiti. Poi bisogna capire quali sono le cause di queste calamità e le ragioni per cui lo scatenarsi della natura provoca in alcuni luoghi danni così impressionanti.
Le ragioni sono sempre quelle raccontate da don Lisander, più o meno aggiornate a seconda dei tempi: la sicumera dei cosiddetti esperti che invece dimostrano di capirne assai poco, l’incapacità e la corruzione delle classi dirigenti, l’avidità e la rapacità di chi accumula le proprie ricchezze senza tener in alcun conto quello che gli sta intorno.
Le calamità siamo noi.
martedì 19 novembre 2013
Verba volant (11): femminicidio...
Femminicidio, sost. m.
La parola che voglio raccontare oggi è un neologismo, una parola nuova che racconta un problema molto antico.
Per definire questa parola voglio partire da due episodi accaduti alcuni mesi in Sudafrica, due femminicidi molto diversi l'uno dall'altro.
Credo ricorderete l’uccisione di Reeva Steenkamp. Si parlò molto allora della tragica morte di questa giovane modella sudafricana, soprattutto perché venne uccisa da una persona famosa, un “eroe” dello sport, un uomo che era riuscito a vincere molte sfide e che, per buone e motivate ragioni, fino a quel tragico episodio, poteva essere considerato un modello per i giovani di tutto il mondo. Se il fidanzato di Reeva fosse stato uno sconosciuto, lei sarebbe stata soltanto una delle oltre 15.000 donne uccise in un anno in Sudafrica. Una delle più note, una delle più belle, e questo avrebbe comunque garantito alla notizia una qualche prima pagina, quanto meno per soddisfare la morbosità del pubblico – maschile – dei tabloid.
Invece la morte di Reeva è capitata il giorno di san Valentino e per di più nella giornata scelta da milioni di donne di tutto il mondo per manifestare, ballando, la voglia di essere libere dalla paura della violenza degli uomini, quasi sempre dei loro compagni. Questa coincidenza provocò un primo moto di sdegno, durato però soltanto poche ore. Nei giorni successivi Reeva è progressivamente ridiventata un personaggio secondario di quella terribile vicenda, mentre Pistorius ne è rimasto il solo protagonista.
Inoltre con il passare dei giorni si sono cominciate a far strada nell’opinione pubblica alcune tesi che in qualche modo rendevano meno difficile la posizione del fidanzato omicida. E’ stato scritto che forse Pistorius avrebbe compiuto quel gesto insensato sotto l’effetto di steroidi: quindi non sarebbe stato del tutto lucido.
Questa non mi pare un’attenuante; semmai un’aggravante.
Oscar Pistorius era un campione sportivo, per uno come lui l’uso sregolato di steroidi è ancora più grave che per qualsiasi altro. La seconda attenuante emersa in quei giorni era ancora più subdola: Pistorius avrebbe agito spinto dalla gelosia, perché Reeva si sarebbe innamorata di un altro concorrente del reality a cui stava partecipando prima di morire. In questo argomento c’è sotto traccia un messaggio che sposta la colpa dal maschio alla donna: Reeva ha pagato la colpa di essere una donna bellissima, una donna che in fondo tutti gli uomini del Sudafrica – e non solo – hanno visto in lingerie nelle pubblicità. Era una donna della moda, dello spettacolo e quindi per un comune pregiudizio una donna “facile”. La bellezza, che è stata un’innegabile fortuna per quella ragazza finché è stata viva, è diventata una colpa, dopo la sua morte.
Per la cronaca, il processo contro Oscar Pistorius inizierà il 3 marzo 2014.
Alcuni giorni prima, il 2 febbraio, era morta vicino a Città del Capo, una ragazza nera di solo 17 anni, Anene Booysen, stuprata e uccisa da una banda di cui faceva parte anche il suo ex-fidanzato.
Per la cronaca, alla fine del mese di ottobre, dei tre imputati – ma la ragazza prima di morire aveva denunciato sei uomini – solo uno è stato condannato.
In un anno, come ho detto, in Sudafrica sono state uccise 15.000 donne e ne sono state violentate quasi 65.000. Negli ultimi vent’anni il tasso di omicidi “normali” è sceso in Sudafrica del 50%, ma quello degli stupri e delle violenza sessuali è rimasto invariato. Non è cambiata la situazione con la fine dell’apartheid: che siano bianchi o neri, i maschi abusano delle loro donne.
Le cause sono molte: una cultura in cui vige la legge del più forte, profonde disuguaglianze economiche che fanno sentire gli uomini più deboli, disparità di rapporti tra i sessi, lacune nell’educazione dei figli maschi e un alto tasso di disoccupazione maschile. In sostanza della crisi corrono il rischio di pagare il prezzo più alto le donne. Qualcosa che dovrebbe insegnare anche a noi che la crisi la stiamo vivendo, nonostante sia annunciata la sempre prossima ripresa.
Anene e Reeva erano due donne molto diverse, una nera e una bianca, una povera e una ricca – di una c’è soltanto la foto del documento d’identità, mentre dell’altra ci sono centinaia di foto – eppure le loro storie sono diventate drammaticamente simili; e simili a quelle di ancora troppe donne.
Per colpa di noi maschi.
La parola che voglio raccontare oggi è un neologismo, una parola nuova che racconta un problema molto antico.
Per definire questa parola voglio partire da due episodi accaduti alcuni mesi in Sudafrica, due femminicidi molto diversi l'uno dall'altro.
Credo ricorderete l’uccisione di Reeva Steenkamp. Si parlò molto allora della tragica morte di questa giovane modella sudafricana, soprattutto perché venne uccisa da una persona famosa, un “eroe” dello sport, un uomo che era riuscito a vincere molte sfide e che, per buone e motivate ragioni, fino a quel tragico episodio, poteva essere considerato un modello per i giovani di tutto il mondo. Se il fidanzato di Reeva fosse stato uno sconosciuto, lei sarebbe stata soltanto una delle oltre 15.000 donne uccise in un anno in Sudafrica. Una delle più note, una delle più belle, e questo avrebbe comunque garantito alla notizia una qualche prima pagina, quanto meno per soddisfare la morbosità del pubblico – maschile – dei tabloid.
Invece la morte di Reeva è capitata il giorno di san Valentino e per di più nella giornata scelta da milioni di donne di tutto il mondo per manifestare, ballando, la voglia di essere libere dalla paura della violenza degli uomini, quasi sempre dei loro compagni. Questa coincidenza provocò un primo moto di sdegno, durato però soltanto poche ore. Nei giorni successivi Reeva è progressivamente ridiventata un personaggio secondario di quella terribile vicenda, mentre Pistorius ne è rimasto il solo protagonista.
Inoltre con il passare dei giorni si sono cominciate a far strada nell’opinione pubblica alcune tesi che in qualche modo rendevano meno difficile la posizione del fidanzato omicida. E’ stato scritto che forse Pistorius avrebbe compiuto quel gesto insensato sotto l’effetto di steroidi: quindi non sarebbe stato del tutto lucido.
Questa non mi pare un’attenuante; semmai un’aggravante.
Oscar Pistorius era un campione sportivo, per uno come lui l’uso sregolato di steroidi è ancora più grave che per qualsiasi altro. La seconda attenuante emersa in quei giorni era ancora più subdola: Pistorius avrebbe agito spinto dalla gelosia, perché Reeva si sarebbe innamorata di un altro concorrente del reality a cui stava partecipando prima di morire. In questo argomento c’è sotto traccia un messaggio che sposta la colpa dal maschio alla donna: Reeva ha pagato la colpa di essere una donna bellissima, una donna che in fondo tutti gli uomini del Sudafrica – e non solo – hanno visto in lingerie nelle pubblicità. Era una donna della moda, dello spettacolo e quindi per un comune pregiudizio una donna “facile”. La bellezza, che è stata un’innegabile fortuna per quella ragazza finché è stata viva, è diventata una colpa, dopo la sua morte.
Per la cronaca, il processo contro Oscar Pistorius inizierà il 3 marzo 2014.
Alcuni giorni prima, il 2 febbraio, era morta vicino a Città del Capo, una ragazza nera di solo 17 anni, Anene Booysen, stuprata e uccisa da una banda di cui faceva parte anche il suo ex-fidanzato.
Per la cronaca, alla fine del mese di ottobre, dei tre imputati – ma la ragazza prima di morire aveva denunciato sei uomini – solo uno è stato condannato.
In un anno, come ho detto, in Sudafrica sono state uccise 15.000 donne e ne sono state violentate quasi 65.000. Negli ultimi vent’anni il tasso di omicidi “normali” è sceso in Sudafrica del 50%, ma quello degli stupri e delle violenza sessuali è rimasto invariato. Non è cambiata la situazione con la fine dell’apartheid: che siano bianchi o neri, i maschi abusano delle loro donne.
Le cause sono molte: una cultura in cui vige la legge del più forte, profonde disuguaglianze economiche che fanno sentire gli uomini più deboli, disparità di rapporti tra i sessi, lacune nell’educazione dei figli maschi e un alto tasso di disoccupazione maschile. In sostanza della crisi corrono il rischio di pagare il prezzo più alto le donne. Qualcosa che dovrebbe insegnare anche a noi che la crisi la stiamo vivendo, nonostante sia annunciata la sempre prossima ripresa.
Anene e Reeva erano due donne molto diverse, una nera e una bianca, una povera e una ricca – di una c’è soltanto la foto del documento d’identità, mentre dell’altra ci sono centinaia di foto – eppure le loro storie sono diventate drammaticamente simili; e simili a quelle di ancora troppe donne.
Per colpa di noi maschi.
domenica 17 novembre 2013
Verba volant (10): affidare...
Affidare, v. tr.
Questo è il primo verbo di cui mi accingo a scrivere la definizione e credo sia un verbo importante, uno di quelli ricchi di significato.
A volte se ne banalizza l'uso e si usa affidare come un sinonimo di assegnare, ad esempio "ti affido un compito". Nel verbo c'è però la radice della parola latina fidus e questo ci fa capire che affidare qualcosa a qualcuno comporta un impegno molto forte per entrambi i soggetti coinvolti: chi affida deve avere una piena fiducia nell’altra persona e colui a cui viene affidato un incarico deve svolgerlo con grande dedizione, deve fare tutto il possibile per far sentire che la fiducia in lui è ben riposta.
Provate a pensare a quante persone affidereste qualcosa a cui tenete moltissimo, la cosa a cui tenete di più. Io ci ho provato e sono molto poche. Ovviamente c’è mia moglie, anche perché il matrimonio – o la scelta di vivere insieme – è anche un reciproco e giornaliero affidarsi. Poi c’è sicuramente il mio amico Gian Pietro, che so capace di fare quello che deve fare con determinazione. C’è qualche amico di Facebook di cui mi fido di più di “amici” in carne e ossa, ma di questo mi occuperò nella definizione di amico. Ecco io faccio un po’ fatica a fidarmi – e ad affidarmi – per cui probabilmente il vostro elenco è un po’ più corposo, ma se ci pensate attentamente credo non sia molto lungo; difficilmente lo è.
Per questo credo sia molto difficile il compito di chi deve, per il proprio ruolo istituzionale, affidare una delle cose più importanti e delicate del mondo, ossia la cura e l’educazione di un bambino, ad un’altra persona, che egli non conosceva prima e che ha imparato a conoscere nel corso di qualche colloquio o in un’udienza.
In poco tempo un giudice deve farsi un’idea di chi si trova davanti, deve capire se può avere fiducia in lui – o in lei – e affidargli la cura di un bambino che, per ragioni diverse e comunque traumatiche, non ha più i genitori che si occupano di lui. Questa capacità non è qualcosa che si impara alla facoltà di giurisprudenza, è una dote, un intuito che si accumula, magari facendo tesoro dei propri errori. Credo ci siano giudici che vanno in pensione senza essere mai riusciti ad avere questa capacità, ma purtroppo siamo umani. E ci sono persone, che non hanno studiato, a cui io affiderei questo compito, perché so che lo farebbero con grande coscienza e senza commettere errori.
Io non so se il giudice che ha deciso di affidare una bambina a due uomini che vivono da tempo insieme e che hanno costituito una famiglia, pur senza il vincolo del matrimonio, ha questa capacità di capire a chi affidare qualcuno. Non so se ha fatto bene o ha fatto male. Spero per la bambina che non si sia sbagliato.
Avrebbe commesso un errore se non avesse preso in considerazione quelle due persone solo perché omosessuali. Avrebbe commesso un errore anche se avesse affidato loro la bambina proprio perché omosessuali, per ribadire un principio che pure per me è sacrosanto, ossia che siamo tutti uguali.
Quel giudice, con la sua sentenza, non doveva cambiare la legge o la morale di questo paese, doveva semplicemente – anche se questo semplice non è mai – decidere se poter affidare quella bambina a quelle due persone.
E’ compito nostro cambiare le leggi, anche quelle morali. E prima o poi ci arriveremo, nonostante quelli che pensano che la famiglia sia formata solo da un uomo e una donna, magari regolarmente sposati, ma questa è un’altra battaglia e un’altra storia.
Questo è il primo verbo di cui mi accingo a scrivere la definizione e credo sia un verbo importante, uno di quelli ricchi di significato.
A volte se ne banalizza l'uso e si usa affidare come un sinonimo di assegnare, ad esempio "ti affido un compito". Nel verbo c'è però la radice della parola latina fidus e questo ci fa capire che affidare qualcosa a qualcuno comporta un impegno molto forte per entrambi i soggetti coinvolti: chi affida deve avere una piena fiducia nell’altra persona e colui a cui viene affidato un incarico deve svolgerlo con grande dedizione, deve fare tutto il possibile per far sentire che la fiducia in lui è ben riposta.
Provate a pensare a quante persone affidereste qualcosa a cui tenete moltissimo, la cosa a cui tenete di più. Io ci ho provato e sono molto poche. Ovviamente c’è mia moglie, anche perché il matrimonio – o la scelta di vivere insieme – è anche un reciproco e giornaliero affidarsi. Poi c’è sicuramente il mio amico Gian Pietro, che so capace di fare quello che deve fare con determinazione. C’è qualche amico di Facebook di cui mi fido di più di “amici” in carne e ossa, ma di questo mi occuperò nella definizione di amico. Ecco io faccio un po’ fatica a fidarmi – e ad affidarmi – per cui probabilmente il vostro elenco è un po’ più corposo, ma se ci pensate attentamente credo non sia molto lungo; difficilmente lo è.
Per questo credo sia molto difficile il compito di chi deve, per il proprio ruolo istituzionale, affidare una delle cose più importanti e delicate del mondo, ossia la cura e l’educazione di un bambino, ad un’altra persona, che egli non conosceva prima e che ha imparato a conoscere nel corso di qualche colloquio o in un’udienza.
In poco tempo un giudice deve farsi un’idea di chi si trova davanti, deve capire se può avere fiducia in lui – o in lei – e affidargli la cura di un bambino che, per ragioni diverse e comunque traumatiche, non ha più i genitori che si occupano di lui. Questa capacità non è qualcosa che si impara alla facoltà di giurisprudenza, è una dote, un intuito che si accumula, magari facendo tesoro dei propri errori. Credo ci siano giudici che vanno in pensione senza essere mai riusciti ad avere questa capacità, ma purtroppo siamo umani. E ci sono persone, che non hanno studiato, a cui io affiderei questo compito, perché so che lo farebbero con grande coscienza e senza commettere errori.
Io non so se il giudice che ha deciso di affidare una bambina a due uomini che vivono da tempo insieme e che hanno costituito una famiglia, pur senza il vincolo del matrimonio, ha questa capacità di capire a chi affidare qualcuno. Non so se ha fatto bene o ha fatto male. Spero per la bambina che non si sia sbagliato.
Avrebbe commesso un errore se non avesse preso in considerazione quelle due persone solo perché omosessuali. Avrebbe commesso un errore anche se avesse affidato loro la bambina proprio perché omosessuali, per ribadire un principio che pure per me è sacrosanto, ossia che siamo tutti uguali.
Quel giudice, con la sua sentenza, non doveva cambiare la legge o la morale di questo paese, doveva semplicemente – anche se questo semplice non è mai – decidere se poter affidare quella bambina a quelle due persone.
E’ compito nostro cambiare le leggi, anche quelle morali. E prima o poi ci arriveremo, nonostante quelli che pensano che la famiglia sia formata solo da un uomo e una donna, magari regolarmente sposati, ma questa è un’altra battaglia e un’altra storia.
sabato 16 novembre 2013
Verba volant (9): vertice...
Le parole hanno spesso una storia, a volte curiosa e divertente; e naturalmente noi che scriviamo dizionari amiamo moltissimo queste storie.
Vertice significa "il punto più alto" e per molto tempo questa parola è stata usata prevalentemente in geometria, per indicare il punto d'incontro dei lati di un poligono o di un angolo oppure il punto in cui concorrono spigoli e facce di un poliedro o di un angoloide; insomma pensate al vertice della piramide. Sui giornali però leggiamo questa parola con tutt'altro significato.
Infatti da un po’ di tempo si è preso l’uso di sostituire con questa sola parola espressioni come incontro al vertice o conferenza al vertice, con una forma di elisione spesso frequente nella nostra lingua. Succede peraltro lo stesso anche in inglese: summit ha ormai sostituito summit meeting nel corrente linguaggio politico e giornalistico. Quindi vertice è diventato sinonimo di incontro e così viene comunemente usato. Anzi forse si abusa un po’ di questo termine.
Se devo raccontare la visita di Nixon in Cina nel 1972 posso usare tranquillamente la parola vertice, così come questa parola è perfetta per descrivere gli incontri di Reagan e Gorbaciov che hanno chiuso di fatto la Guerra fredda alla fine degli anni Ottanta. Ma quando i protagonisti di questi vertici sono Alfano o Renzi (per tacere di Brunetta), Crimi – non so ve lo ricordate – o Gasparri, posso ancora usare impunemente questa parola? Non credo. Meglio usare riunione, altrimenti dovrei anche scrivere che giovedì scorso ho partecipato al vertice di condominio, dove ho litigato con quel cretino dell’inquilino del terzo piano, perché continua a mettere l’auto nel mio posteggio.
E infatti spesso questi vertici nostrani, di paese, sono nobilitati da un qualche aggettivo. Ci sono i vertici notturni; effettivamente pensare che di notte, invece di dormire come fanno tutti i cristiani, questi personaggi si riuniscano per discutere del futuro del paese dovrebbe rassicurare noi cittadini. Personalmente preferirei dormissero anche loro, ma sapete che io sono un vecchio fazioso.
Ci sono i vertici segreti; e sono tanto più segreti, quanto più si conosce chi ha partecipato e cosa ha detto, per filo e per segno, ciascuno dei partecipanti. Qualcuno di questi autorevoli personaggi addirittura non partecipa neanche più a questi vertici segreti – che sono spesso anche notturni – e legge quello che lui stesso avrebbe detto la sera prima, riportato fedelmente nelle cronache “retroscena” dei quotidiani la mattina dopo.
Ci sono, frequentissimi, i vertici decisivi: il prossimo è sempre quello buono, quello dove finalmente si decide. Ci sono infine i vertici che si fanno a pranzo o a cena: sono frequentissimi, spesso in locali stellati, quasi sempre a carico dei contribuenti.
Poi c’è un’altro tipo di vertice, ad esempio il vertice europeo. E qui la parola è usata assolutamente in maniera impropria.
In questo caso vertice dovrebbe sostituire immagino l’espressione conferenza al vertice, ma come può definirsi tale il consesso di ventisette persone, per lo più sconosciute – chi lo conosce il primo ministro di Malta o della Lettonia (sinceri, senza aprire Wikipedia)? – e in massima parte ininfluenti, tanto che ci partecipa regolarmente anche Letta. Vanno lì ad ascoltare quello che dicono la Cancelliera tedesca e Mario Draghi, annuiscono e tornano a casa: anche in questo caso la parola riunione sarebbe molto più adatta.
Ora però devo chiudere questa breve esposizione: devo tornare al lavoro perché ho un vertice con il mio capufficio, poi stasera, a scuola di mio figlio, c’è il vertice dei genitori e anche mia moglie ha detto che ha bisogno di fare un vertice: devo aver combinato qualcosa.
mercoledì 13 novembre 2013
Verba volant (8): spiaggia...
Spiaggia, sost. f.
A esser sincero io non amo molto le spiagge, un po' perché mi dà fastidio la sabbia tra le dita dei piedi, un po' perché non sono un “tipo da spiaggia”. Ma visto che ormai questa parola è entrata prepotentemente nel lessico politico e tutti parlano - più o meno a sproposito - di spiagge, non posso esimermi da darne la definizione.
Al di là del pregnante significato politico del termine, prima di tutto bisogna ricordare che la spiaggia è da sempre fonte di ispirazione per i poeti. Nell’Odissea l’ombra di Agamennone, nell’Ade, ricorda con dolore le “native spiagge”, mentre “muta” è la spiaggia dell’isola di Eea, dove approdano Odisseo e i suoi compagni, chiaro presagio di sventura. Il poeta poi ricorda le “belle spiagge di Trinacria”, che sarebbero ancora ugualmente belle, se non le avessimo deturpate con mostri tali che neppure un grande come Omero sarebbe stato in grado di immaginare.
Ricorderete certamente la bella poesia di Eugenio Montale intitolata Sulla spiaggia, che comincia così:
Ora il chiarore si fa più diffuso. / Ancora chiusi gli ultimi ombrelloni. / Poi appare qualcuno che trascina / il suo gommone.Un richiamo evidente del poeta ligure alla tassa sulle imbarcazioni di lusso: l’uomo della poesia, di cui per riservatezza non si cita il nome, trascina stancamente il proprio natante, come a dire: “vi pare che sia un bene da tassare questo, non vedete quante pene mi reca”.
Altrettanto intensi i versi iniziali di La spiaggia dalle sabbie bianche di Jacques Prevért:
Celle dei castelli di sabbia / Feritoie finestre dell’oblio / Tutto è rimasto uguale.Chi ha costruito quella palazzina abusiva sull’arenile ha paura del carcere, ma soprattutto teme che quell’ecomostro sia demolito, ma alla fine una nota di speranza: “tutto è rimasto uguale”.
E’ però nella canzone che la spiaggia diventa metafora dai molteplici significati.
Come non citare due grandi poeti della canzone italiana, gli indimenticati Franco IV e Franco I, e la loro immortale Ho scritto t’amo sulla sabbia: un testo sulla volubilità dei sentimenti e sulla difficoltà dei rapporti di coppia, troppo spesso incostanti e fragili. Mentre Nico Fidenco, in Legata a un granello di sabbia, già prefigura le lotte per l’emancipazione femminile degli anni Settanta. Voglio concludere questa assolutamente incompleta disamina con un testo importante di Micheal e Johnson Righeira – per altro autori del profetico No tengo dinero – la loro Vamos a la playa è un manifesto delle inquietudini degli anni Ottanta.
Capite bene perché in tanti osteggiamo la proposta che viene fatta, in sicura buona fede e con le migliori intenzioni del mondo, dagli amici del Pdl e del Pd di vendere le spiagge italiane. Un tale patrimonio di cultura non può essere svenduto; anche se fosse l’ultima spiaggia per salvare i nostri traballanti conti pubblici. E poi chi ha dato a questi il permesso di vendere qualcosa che non è loro?
Leggo per fortuna che gli amici di Renzi hanno ritirato questa scellerata proposta e che anche gli amici di Berlusconi – per altro in questi giorni molto presi da un dibattitto zoologico di una certa caratura – ora propongono di vendere non proprio le spiagge, ma le aree retrostanti le spiagge; immagino che non se ne farà nulla e che il governo dei rinvii rinvierà anche questo.
In fondo, l’Italia è fatta così: stesse proposte, stessi rinvii. Ha ragione Mina:
Per quest’anno non cambiare: stessa spiaggia, stesso mare.
martedì 12 novembre 2013
Verba volant (7): democrazia...
Democrazia, sost. f.
Oggi mi sono scelto un compito gravoso, anche perché la democrazia andrebbe praticata più che definita; e in questi nostri tempi infelici, la si tende a praticare sempre meno, anche in quei paesi che si dicono democratici.
Nelle Supplici Eschilo racconta la storia delle Danaidi, le cinquanta figlie di Danao, che fuggono ad Argo perché rifiutano il matrimonio con i cinquanta figli di Egitto.
Con un palese anacronismo – che però non appariva stonato al suo pubblico – la mitica Argo del re Pelasgo viene descritta dal tragediografo ateniese come una democrazia: infatti il re non ha il potere di decidere da solo se ospitare o meno in città le supplici figlie di Danao, deve convocare l‘assemblea dei cittadini. Eschilo non rappresenta l’assemblea, non ne aveva i mezzi, dal momento che una tragedia era interpretata da due o al massimo tre attori, oltre al coro, ma usa un espediente teatrale molto frequente. Danao, che ha partecipato a quella drammatica seduta, la racconta alle figlie.
Il vecchio racconta in particolare lo spettacolo delle mani alzate degli Argivi riuniti in assemblea per accettare la proposta del re. I cittadini di Argo si rendono conto che la loro scelta di proteggere le supplici potrebbe provocare una guerra – una guerra che noi spettatori sappiamo che è effettivamente scoppiata e quindi cogliamo ancora di più la drammaticità di quella scelta – ma accettano consapevolmente questo rischio, perché pensano sia una causa giusta.
In questa tragedia c’è, seppure in perifrasi, la prima attestazione del termine democrazia: demou kratousa cheir “la mano del popolo sovrana”, nella bella traduzione di Manara Valgimigli. L’astratto democrazia non ha ancora preso forma, ma si materializza nella mano che esprime il voto. C’è naturalmente commozione nelle parole di Danao: “tutte le destre furono levate / fremette il cielo quando fu deciso”.
Per gli antichi la democrazia è semplicemente questo: persone libere che possono alzare la mano e votare. Ed è qualcosa capace di far fremere il cielo; e anche i cuori.
E per noi cos’è questa benedetta democrazia? Saremmo pronti a mettere a rischio la nostra sicurezza per proteggere le cinquanta figlie di Danao da un matrimonio non voluto? Magari rischiando di perdere i lucrosi contratti commerciali stipulati con i figli di Egitto? E saremmo disposti ad accettare il governo di Pelasgo, che non è neppure passato attraverso le primarie di coalizione?
Immaginiamo un altro possibile finale per la storia raccontata dal tragediografo di Atene; sono certo che anche voi, come il pubblico di Eschilo, accetterete qualche inevitabile anacronismo.
Il capo incontrastato di Forza Argo, un uomo che è diventato ricchissimo in un modo ambiguo e misterioso, fa annunciare dai suoi araldi di essere disponibile ad accogliere in città le supplici, anche se tutte maggiorenni: però, in cambio del suo voto favorevole, l’assemblea degli Argivi dovrebbe annullare qualche sua vecchia condanna.
I capi dell’altra principale fazione della città, Argo democratica, pur dichiarandosi tutti disponibili ad ospitare le vergini, si sono già divisi in almeno quattro correnti, sui tempi e i modi di tale gesto pietoso.
Un piccolo gruppo dell’assemblea non vuole accettare in città le figlie di Danao: che tornino da dove sono arrivate e non vengano a rubare il lavoro alla brave Argive. Un oratore emergente, diventato popolare in brevissimo tempo con i suoi toni accesi, chiede di mandare a casa tutti i vecchi politicanti, compreso Danao.
Intanto che la discussione in assemblea prosegue in maniera inconcludente, senza arrivare a un voto, i capi della città, il vecchio re – un tempo esponente della fazione più democratica e ora diventato un convinto reazionario – e il suo giovane luogotenente, hanno già stretto un accordo con i figli di Egitto, nel nome della responsabilità e della governabilità. Con buona pace dei sacri valori della costituzione della città.
Le Danaidi a questo punto devono trovarsi un buon avvocato o diventare le ospiti di qualche trasmissione televisiva.
Così va il mondo nella democrazia avanzata.
sabato 9 novembre 2013
Verba volant (6): tessera...
Tessera, sost. f.
Sono pronto ad ammettere che il mio giudizio severo di oggi è viziato dai ricordi della mia infanzia. Quando vivevo nel contado bolognese i miei genitori erano iscritti al Pci, anzi erano militanti di quel partito e quindi una parte del loro impegno politico era dedicato al tesseramento. Fare anche una sola nuova tessera era importante, così come perderne una.
Avere la tessera non significava soltanto avere un pezzetto di carta, ma far parte di una comunità. Io non mi sono mai iscritto al Pci, sostanzialmente perché mi sembrava strano iscrivermi a un partito che si chiamava “comunista” dal momento che comunista non ero. Ero allora – e più o meno sono ancora – un socialista (anche se ovviamente non ho mai militato in quel partito, di cui io ho conosciuto, per ragioni anagrafiche, la fase peggiore).
A dire la verità il Pci che ho conosciuto io – in cui comunque ho lavorato con passione e nelle cui liste sono stato eletto, da indipendente, per la prima volta nel Consiglio comunale del mio paese nel 1990 – non era un partito comunista, era un partito che presto sarebbe diventato un’altra cosa, per dirla con Moretti, e infatti nacque – non senza fatica e con un certo travaglio – il Pds. A quel cantiere partecipammo diversi non iscritti. Ricordo questo episodio non per fare un “bignami” della storia del centrosinistra italiano, ma per ribadire che la tessera era comunque un elemento importante, un tratto identitario. Non era la stessa cosa essere iscritto o non esserlo.
Uno dei motivi, al di là del folclore, per cui il Pd non può essere il mio partito è che la tessera ha perso ogni valore, tanto che non serve per partecipare alle primarie per scegliere il segretario, a cui io non parteciperò, come non ho partecipato alle altre.
Il problema mi pare tutto qui, con l’inevitabile corollario delle tessere finte, delle tessere comprate e vendute, delle tessere delle “anime morte“.
Nonostante tutto leggo che continua la polemica delle tessere all’interno del Pd.
Ecco un elenco degli ultimi tesserati nel circolo “Groucho Marx” di Massafiscaglia, stilato con precisione dal segretario di circolo Georges Perec.
Sono pronto ad ammettere che il mio giudizio severo di oggi è viziato dai ricordi della mia infanzia. Quando vivevo nel contado bolognese i miei genitori erano iscritti al Pci, anzi erano militanti di quel partito e quindi una parte del loro impegno politico era dedicato al tesseramento. Fare anche una sola nuova tessera era importante, così come perderne una.
Avere la tessera non significava soltanto avere un pezzetto di carta, ma far parte di una comunità. Io non mi sono mai iscritto al Pci, sostanzialmente perché mi sembrava strano iscrivermi a un partito che si chiamava “comunista” dal momento che comunista non ero. Ero allora – e più o meno sono ancora – un socialista (anche se ovviamente non ho mai militato in quel partito, di cui io ho conosciuto, per ragioni anagrafiche, la fase peggiore).
A dire la verità il Pci che ho conosciuto io – in cui comunque ho lavorato con passione e nelle cui liste sono stato eletto, da indipendente, per la prima volta nel Consiglio comunale del mio paese nel 1990 – non era un partito comunista, era un partito che presto sarebbe diventato un’altra cosa, per dirla con Moretti, e infatti nacque – non senza fatica e con un certo travaglio – il Pds. A quel cantiere partecipammo diversi non iscritti. Ricordo questo episodio non per fare un “bignami” della storia del centrosinistra italiano, ma per ribadire che la tessera era comunque un elemento importante, un tratto identitario. Non era la stessa cosa essere iscritto o non esserlo.
Uno dei motivi, al di là del folclore, per cui il Pd non può essere il mio partito è che la tessera ha perso ogni valore, tanto che non serve per partecipare alle primarie per scegliere il segretario, a cui io non parteciperò, come non ho partecipato alle altre.
Il problema mi pare tutto qui, con l’inevitabile corollario delle tessere finte, delle tessere comprate e vendute, delle tessere delle “anime morte“.
Nonostante tutto leggo che continua la polemica delle tessere all’interno del Pd.
Ecco un elenco degli ultimi tesserati nel circolo “Groucho Marx” di Massafiscaglia, stilato con precisione dal segretario di circolo Georges Perec.
Undici bebè portati a passeggio nelle carrozzine
Un macellaio
Cinque uomini calvi
Un prete con una lunga barba
Una signora che mangia del cioccolato
Diciotto uomini col berretto
Sette uomini col basco
Un uomo con la bombetta
Due uomini con dei cappelli tirolesi
Un piccolo fattorino per i telegrammi
Un turista con una macchina fotografica a tracolla
Diciannove fumatori, di cui tre amanti della pipa, due amanti di sigari, uno di sigarette
Quattro ragazze con delle incerate gialle
Ventitré casalinghe che vanno al mercato con i carrelli della spesa
Un uomo con delle rose
Un militare di leva
Un uomo che mi indica
Tre postini
Cinquantasette persone che attraversano la strada correndo
Tre coppie che passeggiano con un cane
Quarantatre persone con dei pacchi
Una signora con due baguette sotto il braccio
Un uomo con un cappello di pelo
Una bambina che mi fa la linguaccia
Due uomini con la cravatta a farfalla
Duecentoventisette persone con l’ombrello
Una signora con una scatola di dolci
Una bambina che si mette le dita nel naso
Due donne con degli abiti felpati
Un uomo con un lungo grembiule da cameriere
Tre ragazze con il poncho
Un uomo che guarda se gli hanno rigato la portiera della macchina
Un uomo che saluta qualcuno di molto lontano
Un giapponese in un pullman
Una ragazzina che si protegge dalla pioggia tenendo un giornale sulla testa
Un uomo con un violoncello
Una donna che porta a spasso due cani
Due uomini che spingono dei carrelli
Settantaquattro persone in impermeabile
Una donna che sbadiglia nella sua macchina
Una coppia che si bacia
Due ragazze con gli zaini
Due persone che mangiano dei panini per strada
Una ragazzina che ride da sola
Tre addetti alle fogne
Cinque uomini con ventiquattr’ore
Una coppia che passeggia con una mappa di Parigi
Una signora con un bastone da passeggio bianco
Un uomo che sospira
Un uomo che si sfrega le mani
Una signora con un cappello verde
Una signora con un cappello bianco
Cinque netturbini
Un uomo con dei lunghi favoriti che porta a spasso il suo cane
Sette lavavetri di cui uno dall’aria poco allegra
Una donna con un libro rilegato sottobraccio
Una giovane donna che mi scatta una foto
Uno scolaro che porta il suo zainetto in spalla
Sei signore che spingono dei passeggini
Due uomini che fanno cadere la cenere delle sigarette attraverso la portiera della loro macchina
Un uomo che cammina con delle stampelle
Una ragazza che ha comprato uno yogurt
Tre uomini molto grassi
Un cieco che un altro uomo aiuta ad attraversare la strada
Due operai vestiti di bianco
Quattro ufficiali verosimilmente stranieri
Un uomo che si pulisce i denti
Un uomo che si mangia le unghie
Una ragazza che pedala per mettere in moto il suo motorino
Una giovane donna con gli occhiali alzati sulla fronte
Una signora che zoppica leggermente
Un uomo che mangia una mezza baguette
Quindici persone che hanno appena comprato il giornale della sera
Un uomo con tutto l’armamentario del fotografo
Quattro signore che camminano aiutandosi con un bastone da passeggio
Ventotto fattorini di cui diciassette che consegnano giornali
Un uomo che ha l’aria di soffrire per la pioggia
giovedì 7 novembre 2013
Verba volant (5): puttana...
Puttana, sost. f.
Probabilmente non serve questo dizionario a definire un termine, il cui significato è sin troppo noto.
Siete lettori adulti e vaccinati, e sapete come vanno le cose del mondo. Forse qualcuno di voi è - o è stato - un "utilizzatore finale", magari qualcuno ha svolto - o svolge - questa professione: soprattutto da voi, magari approfittando dell'anonimato della rete, spero arrivino interventi e commenti.
A scanso di equivoci, non voglio riferirmi alle tante puttane intellettuali, ossia a quelli che hanno venduto la propria intelligenza al pensiero dominante; in questi giorni ne vediamo parecchi all'opera. Di questi, forse, mi occuperò un'altra volta.
Voglio parlare delle puttane vere e proprie, quelle che si dice facciano il mestiere più antico del mondo.
L’argomento è – come noto – sempre di moda, tanto più nel nostro paese, dove abbondano i figli di puttana; per tacere del rilievo politico del tema.
Da alcuni giorni pare se ne parli ancora di più, dal momento che i mezzi di informazione hanno scoperto che ci sono puttane minorenni. A dire la verità, ci sono sempre state, ma evidentemente non sono mai riuscite a diventare una notizia. Ci sono puttane minorenni straniere e povere – di questo continuiamo a non occuparci – e puttane minorenni italiane, alcune povere e altre di buona famiglia; quest’ultimo tipo crea malcelati imbarazzi. Proprio intorno alle storie, complesse e difficili, di queste ragazze, cresciute troppo in fretta, si è alimentato l’interesse, più o meno morboso, piu o meno scandalizzato, del mondo dell’informazione.
Al di là della compagnia di giro degli opinionisti, di quelli che – proprio perché non si intendono di nulla – parlano di tutto, devo riconoscere che sul tema si è cominciato a parlare anche in maniera seria. Penso ad esempio alle riflessioni fatte dalla preside e dalle insegnanti delle due ragazze di Roma, che hanno provato a capire cosa stava succedendo, anche mettendo in discussione il proprio lavoro. In tanti, in maniera approfondita e non occasionale, stanno provando a chiedersi cosa spinga queste ragazzine a prostituirsi. Ieri ho sentito che sul tema è intervenuto il vescovo dell’Aquila, che considera la crisi economica come un elemento scatenante di questo fenomeno; e su questo credo abbia una parte di ragione.
Perché le ragioni sono molte e diverse: c’è una superficiale sottovalutazione dei rischi e c’è soprattutto una cultura che sopravvaluta la bellezza e la sensualità e ne fa degli elementi di promozione sociale ed economica. È importante ragionare, senza preconcetti, di tutto questo, per capire a che punto siamo arrivati e dove rischiamo di scendere ancora.
Chi ha il compito di educare i giovani deve farsi queste domande; e su un tema come questo le famiglie non devono essere lasciate sole nella loro riflessione e nel loro impegno quotidiano. Io credo però che non sia sufficiente.
A me interessa ribaltare l’ottica, provando a rovesciare la domanda. Non mi basta sapere perché alcune ragazze – e anche alcuni ragazzi – accettano di prostituirsi, magari per una ricarica telefonica, ma voglio sapere perché molti uomini adulti – e qui la questione credo sia esclusivamente maschile – sentono il desiderio di avere rapporti sessuali con persone che potrebbero essere le loro figlie o le loro nipoti. Affrontare questo tema partendo dalle storie delle ragazze mi sembra come cercare di guarire una malattia, intervendo soltanto sui sintomi, senza cercare le cause.
So che può sembrare un paradosso, ma in questo rapporto chi è quello che ha più problemi? L’uomo o la ragazzina? Secondo me l’uomo, che si eccita soltanto in un rapporto squilibrato per età, posizione sociale, ruolo. Naturalmente ciò non toglie che la vittima di questo rapporto rimanga la ragazza, che affronta, probabilmente in maniera inconsapevole, qualcosa che è decisamente più grande di lei. Dire che l’uomo che va con le ragazzine ha dei problemi, che è una persona malata, non significa assolverlo dalle sue colpe – che rimangono tutte e che devono essere punite, con maggiore durezza di quanto avvenga oggi – ma riconoscere dove sta il vero problema.
E, come nei casi di violenza, il problema non sta nelle donne, nei loro atteggiamenti o nella loro libertà, ma nelle nostre debolezze, nei nostri deficit di maschi adulti, che non sappiamo affrontare in maniera serena un rapporto d’amore, nelle sue varie forme, e troppo spesso decidiamo di comprarlo o di prenderlo con la violenza. E l’uomo che va con una puttana, maggiorenne o minorenne che sia, si assolve proprio usando questa parola; pensa e dice: tanto è una di quelle. Invece è lui a essere uno di quelli.
E questo è qualcosa che non riguarda solo chi va a puttane, ma tutti noi, tutti noi uomini. Dobbiamo avere il coraggio di dire che chi va con una ragazzina è una persona con dei problemi, molti problemi, e soprattutto dobbiamo avere il coraggio di chiedere aiuto.
Probabilmente non serve questo dizionario a definire un termine, il cui significato è sin troppo noto.
Siete lettori adulti e vaccinati, e sapete come vanno le cose del mondo. Forse qualcuno di voi è - o è stato - un "utilizzatore finale", magari qualcuno ha svolto - o svolge - questa professione: soprattutto da voi, magari approfittando dell'anonimato della rete, spero arrivino interventi e commenti.
A scanso di equivoci, non voglio riferirmi alle tante puttane intellettuali, ossia a quelli che hanno venduto la propria intelligenza al pensiero dominante; in questi giorni ne vediamo parecchi all'opera. Di questi, forse, mi occuperò un'altra volta.
Voglio parlare delle puttane vere e proprie, quelle che si dice facciano il mestiere più antico del mondo.
L’argomento è – come noto – sempre di moda, tanto più nel nostro paese, dove abbondano i figli di puttana; per tacere del rilievo politico del tema.
Da alcuni giorni pare se ne parli ancora di più, dal momento che i mezzi di informazione hanno scoperto che ci sono puttane minorenni. A dire la verità, ci sono sempre state, ma evidentemente non sono mai riuscite a diventare una notizia. Ci sono puttane minorenni straniere e povere – di questo continuiamo a non occuparci – e puttane minorenni italiane, alcune povere e altre di buona famiglia; quest’ultimo tipo crea malcelati imbarazzi. Proprio intorno alle storie, complesse e difficili, di queste ragazze, cresciute troppo in fretta, si è alimentato l’interesse, più o meno morboso, piu o meno scandalizzato, del mondo dell’informazione.
Al di là della compagnia di giro degli opinionisti, di quelli che – proprio perché non si intendono di nulla – parlano di tutto, devo riconoscere che sul tema si è cominciato a parlare anche in maniera seria. Penso ad esempio alle riflessioni fatte dalla preside e dalle insegnanti delle due ragazze di Roma, che hanno provato a capire cosa stava succedendo, anche mettendo in discussione il proprio lavoro. In tanti, in maniera approfondita e non occasionale, stanno provando a chiedersi cosa spinga queste ragazzine a prostituirsi. Ieri ho sentito che sul tema è intervenuto il vescovo dell’Aquila, che considera la crisi economica come un elemento scatenante di questo fenomeno; e su questo credo abbia una parte di ragione.
Perché le ragioni sono molte e diverse: c’è una superficiale sottovalutazione dei rischi e c’è soprattutto una cultura che sopravvaluta la bellezza e la sensualità e ne fa degli elementi di promozione sociale ed economica. È importante ragionare, senza preconcetti, di tutto questo, per capire a che punto siamo arrivati e dove rischiamo di scendere ancora.
Chi ha il compito di educare i giovani deve farsi queste domande; e su un tema come questo le famiglie non devono essere lasciate sole nella loro riflessione e nel loro impegno quotidiano. Io credo però che non sia sufficiente.
A me interessa ribaltare l’ottica, provando a rovesciare la domanda. Non mi basta sapere perché alcune ragazze – e anche alcuni ragazzi – accettano di prostituirsi, magari per una ricarica telefonica, ma voglio sapere perché molti uomini adulti – e qui la questione credo sia esclusivamente maschile – sentono il desiderio di avere rapporti sessuali con persone che potrebbero essere le loro figlie o le loro nipoti. Affrontare questo tema partendo dalle storie delle ragazze mi sembra come cercare di guarire una malattia, intervendo soltanto sui sintomi, senza cercare le cause.
So che può sembrare un paradosso, ma in questo rapporto chi è quello che ha più problemi? L’uomo o la ragazzina? Secondo me l’uomo, che si eccita soltanto in un rapporto squilibrato per età, posizione sociale, ruolo. Naturalmente ciò non toglie che la vittima di questo rapporto rimanga la ragazza, che affronta, probabilmente in maniera inconsapevole, qualcosa che è decisamente più grande di lei. Dire che l’uomo che va con le ragazzine ha dei problemi, che è una persona malata, non significa assolverlo dalle sue colpe – che rimangono tutte e che devono essere punite, con maggiore durezza di quanto avvenga oggi – ma riconoscere dove sta il vero problema.
E, come nei casi di violenza, il problema non sta nelle donne, nei loro atteggiamenti o nella loro libertà, ma nelle nostre debolezze, nei nostri deficit di maschi adulti, che non sappiamo affrontare in maniera serena un rapporto d’amore, nelle sue varie forme, e troppo spesso decidiamo di comprarlo o di prenderlo con la violenza. E l’uomo che va con una puttana, maggiorenne o minorenne che sia, si assolve proprio usando questa parola; pensa e dice: tanto è una di quelle. Invece è lui a essere uno di quelli.
E questo è qualcosa che non riguarda solo chi va a puttane, ma tutti noi, tutti noi uomini. Dobbiamo avere il coraggio di dire che chi va con una ragazzina è una persona con dei problemi, molti problemi, e soprattutto dobbiamo avere il coraggio di chiedere aiuto.
mercoledì 6 novembre 2013
"Sonettuzzo" di Edoardo Sanguineti
per Zaira
prendi un pezzo di carne di lucertola,
poi steccalo con fette di prosciutto,
con zibibbo, pinoli e un po' di tutto,
e aglio e sale e pepe, io me lo mertolo:
battuto è il companatico, e io convertolo:
sbucciami il pomodoro, che lo butto,
e aspetto che mi resti lì distrutto,
a lento fuoco, coperto e scopertolo:
ci puoi condire infine i maccheroni,
e via, con tanti formaggi piccanti,
200 grammi a noi 2, buoni buoni:
la cipolla, strizzata, me l'agguanti
con il mestolo, e fuori dai coglioni!
prendimi per la gola, che mi incanti:
martedì 5 novembre 2013
Verba volant (4): ripresa...
Ripresa, sost. f.
Sono parole come ripresa che mettono in difficoltà noi autori di dizionari: non sappiamo da che parte cominciare. E soprattutto come finire.
Ho subito capito di avere soltanto due possibilità: o rinunciare a scrivere questa definizione, certo che non se ne sarebbe accorto nessuno di voi, visto che sto andando a casaccio nella scelta delle parole, oppure raccontare una storia, una sorta di novella esemplare, qualcosa tipo Esopo per intenderci, con la relativa morale. Ho scelto evidentemente questa seconda strada.
La storia non è mia, l’autore è il grande Chuck Jones; forse ho travisato qualche particolare, ne ho dimenticato qualcuno e ho inventato qualche altro, ma l’essenziale c’è.
Il paesaggio è quello tipico dei film western: deserto, canyon, qualche sparuto cactus; entra in scena Wile E. Coyote, tenendo in mano una latta di vernice e un pennello (lo dico agli amici renziani: non c’entra niente il “grande pennello” del vostro capo; quella è un’altra storia). Con pazienza e in silenzio, disegna per terra i bordi di una strada – il sogno proibito di ogni sindaco in campagna elettorale – fino ad arrivare a una roccia che si alza in verticale, liscia e ripidissima, come solo in Arizona se ne trovano.
Qui c’è il colpo di genio: il coyote con perizia disegna l’imbocco di una galleria. Il piano è semplice e perfetto. Beep Beep arriverà alla sua solita velocità, incurante di qualsiasi limite, crederà di entrare nella galleria e invece SBAM!!!: stavolta Wile non può fallire. Ha appena finito di dare la vernice, di completare la sua opera d’arte – il tocco è il puntino bianco nel mezzo, il segno che quella è una vera galleria, con l’uscita là in fondo – quando ecco avvicinarsi il fastidioso verso del pennuto corridore; il coyote si nasconde dietro un masso, pregustando già la scena – e la cena.
Beep Beep arriva alzando una nuvola di polvere e, naturalmente senza rallentare, entra nella galleria. Il suo verso si perde lontano, mentre ricade a terra anche la polvere sollevata dalle sue stizzose zampette. Potete immaginare lo stupore del predatore: esce dal suo nascondiglio, osserva la finta galleria in cui è entrato, incurante di ogni legge fisica, l’odiato volatile, tocca la parete di roccia, ovviamente durissima e impenetrabile. Prova a darsi una qualche spiegazione razionale: senza successo. Si arrende, dà un calcio a un sasso e decide di andarsene, commettendo l’errore, fatale, di dare le spalle alla galleria, da cui, proprio in quel momento esce, anch’esso senza rispettare i limiti di velocità, il grosso camion che lo investe.
Ecco la ripresa è più o meno così. Ci dicono che sta per arrivare, che c’è la luce in fondo al tunnel – oggi buoni ultimi sono stati i fantomatici tecnici del Tesoro a dare l’atteso annuncio. Ma poi, immancabilmente, siamo investiti da un grosso camion; l’unica differenza con il coyote è che noi sappiamo benissimo chi lo guida quel maledetto camion, gli abbiamo perfino dato le chiavi.
Eppure ha proprio ragione Eugenio Finardi: siamo tutti come Wil Coyote.
Sono parole come ripresa che mettono in difficoltà noi autori di dizionari: non sappiamo da che parte cominciare. E soprattutto come finire.
Ho subito capito di avere soltanto due possibilità: o rinunciare a scrivere questa definizione, certo che non se ne sarebbe accorto nessuno di voi, visto che sto andando a casaccio nella scelta delle parole, oppure raccontare una storia, una sorta di novella esemplare, qualcosa tipo Esopo per intenderci, con la relativa morale. Ho scelto evidentemente questa seconda strada.
La storia non è mia, l’autore è il grande Chuck Jones; forse ho travisato qualche particolare, ne ho dimenticato qualcuno e ho inventato qualche altro, ma l’essenziale c’è.
Il paesaggio è quello tipico dei film western: deserto, canyon, qualche sparuto cactus; entra in scena Wile E. Coyote, tenendo in mano una latta di vernice e un pennello (lo dico agli amici renziani: non c’entra niente il “grande pennello” del vostro capo; quella è un’altra storia). Con pazienza e in silenzio, disegna per terra i bordi di una strada – il sogno proibito di ogni sindaco in campagna elettorale – fino ad arrivare a una roccia che si alza in verticale, liscia e ripidissima, come solo in Arizona se ne trovano.
Qui c’è il colpo di genio: il coyote con perizia disegna l’imbocco di una galleria. Il piano è semplice e perfetto. Beep Beep arriverà alla sua solita velocità, incurante di qualsiasi limite, crederà di entrare nella galleria e invece SBAM!!!: stavolta Wile non può fallire. Ha appena finito di dare la vernice, di completare la sua opera d’arte – il tocco è il puntino bianco nel mezzo, il segno che quella è una vera galleria, con l’uscita là in fondo – quando ecco avvicinarsi il fastidioso verso del pennuto corridore; il coyote si nasconde dietro un masso, pregustando già la scena – e la cena.
Beep Beep arriva alzando una nuvola di polvere e, naturalmente senza rallentare, entra nella galleria. Il suo verso si perde lontano, mentre ricade a terra anche la polvere sollevata dalle sue stizzose zampette. Potete immaginare lo stupore del predatore: esce dal suo nascondiglio, osserva la finta galleria in cui è entrato, incurante di ogni legge fisica, l’odiato volatile, tocca la parete di roccia, ovviamente durissima e impenetrabile. Prova a darsi una qualche spiegazione razionale: senza successo. Si arrende, dà un calcio a un sasso e decide di andarsene, commettendo l’errore, fatale, di dare le spalle alla galleria, da cui, proprio in quel momento esce, anch’esso senza rispettare i limiti di velocità, il grosso camion che lo investe.
Ecco la ripresa è più o meno così. Ci dicono che sta per arrivare, che c’è la luce in fondo al tunnel – oggi buoni ultimi sono stati i fantomatici tecnici del Tesoro a dare l’atteso annuncio. Ma poi, immancabilmente, siamo investiti da un grosso camion; l’unica differenza con il coyote è che noi sappiamo benissimo chi lo guida quel maledetto camion, gli abbiamo perfino dato le chiavi.
Eppure ha proprio ragione Eugenio Finardi: siamo tutti come Wil Coyote.
domenica 3 novembre 2013
Verba volant (3): telefono...
Telefono, sost. m.
Il telefono è uno strumento prezioso, utilissimo, tanto da farci accettare alcuni, inevitabili, disagi che comporta il possederlo.
Io sono abbastanza vecchio per ricordare come era il mondo prima dei cellulari. Eh sì, perché c'è stato un mondo prima dei telefonini, cari giovani lettori, in cui peraltro vivevamo abbastanza bene, riuscendo a fare praticamente tutto quello che facciamo ora, senza avere l'ansia di essere perennemente collegati con il resto del mondo.
Allora, quando il telefono era in genere accanto alla porta d’ingresso – in una sorta di spazio neutro della casa, di tutti e di nessuno – spesso appeso al muro, come una specie di cabina telefonica domestica, poteva capitare che squillasse nel cuore della notte, costringendo tutta la famiglia ad una levata repentina: in quei casi o era una ferale notizia o era qualcuno che aveva sbagliato numero; in questo secondo caso una maledizione era d’obbligo, ma nessuno avrebbe mai rinunciato all’apparecchio per questo motivo.
Molto più numerose sono le ragioni per esecrare il telefonino, sul cui abuso esiste ormai una letteratura. Leggo che finalmente si potrà tenere acceso anche nelle fasi di decollo e di atterraggio: questa notizia è stata data con un’enfasi pari alla scoperta della penicillina.
Al di là dell’uso e dell’abuso del telefonino, che dipende ovviamente non dal mezzo in sé, ma dalla maleducazione umana, non credo di essere mai stato intercettato, almeno mai esplicitamente, su ordine delle autorità, anche se immagino che tutte le nostre conversazioni possano essere ascoltate.
Ho visto ieri la prima puntata di Person of interest e stamattina non ho potuto fare a meno di girare per Salsomaggiore guardandomi intorno circospetto, sicuro che qualcun altro, oltre alla vicina del terzo piano che sa tutto quello che succede nella mia via, stava seguendo tutti i miei movimenti. Immagino che se pubblicassero le mie telefonate mi troverei in un certo imbarazzo: verrebbero fuori giudizi sprezzanti su qualche mio collega d’ufficio, dettati magari da uno sfogo di rabbia momentanea, oppure alcune maldicenze, vere o presunte, su qualche amico. Pensate a quello che dite voi al telefono e poi ditemi se non ho ragione.
Due settimane fa – più o meno, non ricordo il giorno esatto – ho detto a un amico che mi aveva chiesto un favore: puoi contare su di me; magari non ho detto esattamente queste parole, perché mi suona come un impegno mafioso, ma più o meno il senso era quello. La mia frase non ha avuto alcuna conseguenza, è servita soltanto a rincuorare – spero – il mio amico, che ora sa che posso aiutarlo in caso di necessità.
Con tutta evidenza ci sono situazioni in cui una frase come questa ha un’altra valenza: facciamo un esempio estremo, impossibile, giusto per spiegarsi. Se la stessa frase la dice il ministro della giustizia parlando con un familiare di un pregiudicato in carcere, e se poi questo pregiudicato ottiene i domiciliari, l’effetto di una simile, ipotetica, telefonata è tutto diverso.
E comunque quando mai può succedere che un carcerato abbia il numero di telefono del ministro della giustizia? Stefano Cucchi ad esempio non lo aveva o forse nei sotterranei dove è stato picchiato non c’era campo. A volte succede, purtroppo.
Facciamo un altro esempio, sempre ipotetico; se una telefonata di questo tenore, colloquiale, per fare quattro chiacchiere su un’indagine in corso, la fanno un presidente della Repubblica e un ex ministro dell’interno, indagato – come ho detto, si tratta di un caso assurdo: come si fa a telefonare così al Quirinale? dove si trova il numero? – anche in questo caso la situazione è leggermente più complicata. Quelli della Nsa lo sanno che devono distruggere anche la loro registrazione di quella telefonata?
Quindi ci sono solo due soluzioni: o smettiamo di usare il telefono o diventiamo tutti onesti.
Il telefono è uno strumento prezioso, utilissimo, tanto da farci accettare alcuni, inevitabili, disagi che comporta il possederlo.
Io sono abbastanza vecchio per ricordare come era il mondo prima dei cellulari. Eh sì, perché c'è stato un mondo prima dei telefonini, cari giovani lettori, in cui peraltro vivevamo abbastanza bene, riuscendo a fare praticamente tutto quello che facciamo ora, senza avere l'ansia di essere perennemente collegati con il resto del mondo.
Allora, quando il telefono era in genere accanto alla porta d’ingresso – in una sorta di spazio neutro della casa, di tutti e di nessuno – spesso appeso al muro, come una specie di cabina telefonica domestica, poteva capitare che squillasse nel cuore della notte, costringendo tutta la famiglia ad una levata repentina: in quei casi o era una ferale notizia o era qualcuno che aveva sbagliato numero; in questo secondo caso una maledizione era d’obbligo, ma nessuno avrebbe mai rinunciato all’apparecchio per questo motivo.
Molto più numerose sono le ragioni per esecrare il telefonino, sul cui abuso esiste ormai una letteratura. Leggo che finalmente si potrà tenere acceso anche nelle fasi di decollo e di atterraggio: questa notizia è stata data con un’enfasi pari alla scoperta della penicillina.
Al di là dell’uso e dell’abuso del telefonino, che dipende ovviamente non dal mezzo in sé, ma dalla maleducazione umana, non credo di essere mai stato intercettato, almeno mai esplicitamente, su ordine delle autorità, anche se immagino che tutte le nostre conversazioni possano essere ascoltate.
Ho visto ieri la prima puntata di Person of interest e stamattina non ho potuto fare a meno di girare per Salsomaggiore guardandomi intorno circospetto, sicuro che qualcun altro, oltre alla vicina del terzo piano che sa tutto quello che succede nella mia via, stava seguendo tutti i miei movimenti. Immagino che se pubblicassero le mie telefonate mi troverei in un certo imbarazzo: verrebbero fuori giudizi sprezzanti su qualche mio collega d’ufficio, dettati magari da uno sfogo di rabbia momentanea, oppure alcune maldicenze, vere o presunte, su qualche amico. Pensate a quello che dite voi al telefono e poi ditemi se non ho ragione.
Due settimane fa – più o meno, non ricordo il giorno esatto – ho detto a un amico che mi aveva chiesto un favore: puoi contare su di me; magari non ho detto esattamente queste parole, perché mi suona come un impegno mafioso, ma più o meno il senso era quello. La mia frase non ha avuto alcuna conseguenza, è servita soltanto a rincuorare – spero – il mio amico, che ora sa che posso aiutarlo in caso di necessità.
Con tutta evidenza ci sono situazioni in cui una frase come questa ha un’altra valenza: facciamo un esempio estremo, impossibile, giusto per spiegarsi. Se la stessa frase la dice il ministro della giustizia parlando con un familiare di un pregiudicato in carcere, e se poi questo pregiudicato ottiene i domiciliari, l’effetto di una simile, ipotetica, telefonata è tutto diverso.
E comunque quando mai può succedere che un carcerato abbia il numero di telefono del ministro della giustizia? Stefano Cucchi ad esempio non lo aveva o forse nei sotterranei dove è stato picchiato non c’era campo. A volte succede, purtroppo.
Facciamo un altro esempio, sempre ipotetico; se una telefonata di questo tenore, colloquiale, per fare quattro chiacchiere su un’indagine in corso, la fanno un presidente della Repubblica e un ex ministro dell’interno, indagato – come ho detto, si tratta di un caso assurdo: come si fa a telefonare così al Quirinale? dove si trova il numero? – anche in questo caso la situazione è leggermente più complicata. Quelli della Nsa lo sanno che devono distruggere anche la loro registrazione di quella telefonata?
Quindi ci sono solo due soluzioni: o smettiamo di usare il telefono o diventiamo tutti onesti.
sabato 2 novembre 2013
da "Le ceneri di Gramsci" di Pier Paolo Pasolini
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte
nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso
rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria
sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo della coscienza...
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