lunedì 25 luglio 2022

Verba volant (815): dubbio...

Dubbio
, sost. m.

Il 9 aprile 1964 è un giovedì. A Broadway è in programma la prima di Hamlet. È ormai da qualche anno che questo dramma non viene rappresentato in città e si annuncia come uno degli spettacoli più importanti della stagione teatrale. Le anteprime a Toronto e a Boston sono state un successo, anche se le critiche non sono state altrettanto entusiaste.
I motivi di questo interesse, che coinvolge sia il pubblico che gli addetti ai lavori, sono davvero tanti. Questo nuovo allestimento della tragedia shakespeariana è diretto da John Gielgud, considerato da molti come il più grande Amleto del Novecento. È la settima volta che Gielgud, come attore o regista, si cimenta con questo classico. Tra la fine del 1936 e l’inizio del ’37 lo spettacolo con lui protagonista è rimasto in cartellone, prima all’Empire e successivamente al St. James Theater, per ben centotrentadue repliche. Neppure il vecchio Barrymore aveva fatto meglio. Nel ’64 è un record ancora imbattuto, perché l’Amleto di Maurice Evans, nella versione integrale, senza alcun taglio, si è fermato a centotrentuno repliche. Eppure John era preoccupato prima del debutto - tra l’altro per lui era la prima volta che si esibiva in America - perché in quegli stessi giorni a Broadway era in scena con lo stesso titolo anche il suo connazionale Leslie Howard, che pochi anni dopo sarebbe stato il romantico e sfortunato Ashley di Via col vento. Comunque “the battle of the Hamlets” - come l’avevano chiamata i giornali di New York - alla fine ha avuto un unico e incontrastato vincitore: l’Amleto di Howard ha chiuso dopo meno di un mese.
Qualche mese dopo, nel 1937, anche per rispondere al successo di Gielgud, Laurence Olivier aveva messo in scena il suo Amleto all’Old Vic, in una memorabile edizione, piaciuta poco alla critica, ma osannata dal pubblico. Comunque, nonostante il successo - e i due Oscar - del film diretto e interpretato da Olivier nel 1948, con la splendida Jean Simmons come Ofelia - in Italia conosciamo quel film anche perché è un ispirato Gino Cervi a doppiare Olivier - per Broadway Amleto rimane il nobile e distaccato John Gielgud. E un motivo in più per andare a vedere quel suo nuovo allestimento è l’annuncio che il grande attore inglese darà voce al Fantasma, che non sarà in scena, perché Gielgud in quelle settimane è impegnato con altri spettacoli.
Un ulteriore motivo di discussione tra i tavoli di Sardi’s è che il regista ha deciso di eliminare quasi del tutto le scene: gli attori si muoveranno in un teatro quasi vuoto, a parte un paio di pedane, qualche sedia e un tavolo, vestendo i loro abiti di tutti i giorni. A dire la verità Gielgud è molto pignolo con gli attori sugli abiti che devono indossare e se ne fa mostrare molti prima di dare il proprio benestare. Si tratta quindi di una sorta di prova generale della tragedia. Gielgud spiega che spesso amici, colleghi e critici gli avevano chiesto nel corso della sua carriera di poter assistere alle prove: una cosa che lui aveva sempre negato. Con quel nuovo spettacolo vuole offrire questa opportunità a tutto il pubblico. E togliere ogni altro orpello è un modo per dare maggiore risalto alle parole del Bardo, per coglierne l’universalità.
Al di là di tutte queste considerazioni, che appassionano i critici, la curiosità del pubblico pagante è rivolta soprattutto al protagonista, perché ormai da settimane si sa che sarà Richard Burton. Nel mondo teatrale inglese l’attore di origini gallesi è considerato uno dei più importanti interpreti shakespeariani della sua generazione, il “successore naturale di Olivier”, secondo i critici più entusiasti, e il suo Amleto nel 1953 all’Old Vic, diretto da Michael Benthall, così energico e minaccioso, ha avuto un grande successo. Sempre diretto da Benthall, il grande direttore dell’Old Vic tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Burton è stato anche Calibano nella Tempesta, Coriolano - anche se inizialmente aveva rifiutato la parte, perché il dittatore mostra disprezzo per i poveri e gli ultimi - Enrico V e Otello. Ma il giovane Richard recita anche in opere di autori contemporanei: nel 1950 è molto convincente in The Lady’s Not For Burning di Christopher Fry, diretto da Gielgud, la prima delle loro collaborazioni.
A Broadway invece Burton è diventato popolare grazie a un musical. Nel 1960 è Artù nel successo di Lerner e Loewe Camelot, insieme a Julie Andrews e Robert Goulet nei panni di Ginevra e Lancillotto. Camelot si rivela un successo inaspettato, anche perché la sua realizzazione è molto accidentata, a causa dei gravi problemi di salute di Lerner. Burton salva lo spettacolo, dando fiducia agli altri componenti del cast quando le prove diventano sempre più difficili e il musical sembra desinato al naufragio. Camelot chiude dopo più di ottocento repliche e con un meritato Tony per l’attore gallese, che si rivela anche un ottimo cantante. E nell’immaginario dell’America sconvolta dall’attentato di Dallas, gli anni della presidenza Kennedy saranno identificati come il favoloso e pacifico regno di Camelot: si tratta ovviamente di un’illusione, come ben sanno in Vietnam e nei tanti paesi del cosiddetto Terzo mondo dove arriva la pax americana imposta dalla Tavola rotonda del 1600 di Pennsylvania Avenue.

Il pubblico che in quei primi giorni di aprile del ’64 fa la fila davanti al Lunt-Fontanne Theatre, al 205 West della 46th Street, per accaparrarsi un biglietto per Hamlet, conosce Richard Burton soprattutto come una star del cinema, grazie a classici film di guerra come I topi del deserto e Il giorno più lungo, e kolossal in costume come La tunica e Alessandro il Grande. Ma in quegli stessi anni Richard mette a disposizione la sua crescente notorietà interpretando il film I giovani arrabbiati dell’inglese Tony Richardson, dal dramma di John Osborne Ricorda con rabbia: è il film con cui comincia il Free Cinema, una stagione particolarmente vitale della cultura inglese.
Al pubblico dei rotocalchi importa assai poco del suo impegno politico o dei suoi ruoli nei drammi di Shakespeare: per loro Richard Burton è Marco Antonio in Cleopatra, il grande successo del 1963 che segna l’apice della popolarità di Elizabeth Taylor. E insieme fanno letteralmente scintille. Antonio e Cleopatra, Liz e Richard: queste due storie d’amore si intrecciano e finiranno per essere inscindibili. Non è possibile guardare il lungo - e anche un po’ noioso - film di Joseph L. Mankiewicz senza appassionarsi alla vicenda di questi due attori, bellissimi, sregolati, la grande coppia di divi degli anni Sessanta.
Richard e Liz si sposano il 15 marzo 1964, per lui è il secondo matrimonio, mentre per lei il quinto. Le nozze vengono celebrate a Montreal, perché lui sta recitando Hamlet a Toronto e la legislazione del Québec accetta i divorzi registrati in Messico. E il pubblico che affolla la prima del 9 aprile, a meno di un mese da quelle nozze le cui fotografie hanno fatto il giro del mondo, vuole vedere oltre a Richard che declama pensoso, trattenendo a fatica la rabbia, “To be or not to be”, anche Elizabeth che lo applaude in platea. E naturalmente Liz è splendida quella sera, sensuale come una gatta e solenne come una regina d’Egitto.

Ma prima di questa sfolgorante première, per capire come è nato questo spettacolo, occorre tornare indietro di alcuni mesi, alla fine del 1962, negli Shepperton Studios del Surrey dove si stanno ultimando le riprese di Becket - in Italia arrivato come Becket e il suo re - un film diretto da Peter Glenville, come adattamento cinematografico di un testo teatrale del drammaturgo francese Jean Anouilh andato in scena a Parigi nel 1959 e in seguito a Broadway con Laurence Olivier nei panni di Thomas Becket e Anthony Quinn in quelli di re Enrico II (anche se i due attori amavano scambiarsi le parti).
Anche per il film i produttori vogliono attori che sbanchino il botteghino e ne scritturano due molto popolari, Richard Burton e Peter O’Toole, rispettivamente come Becket ed Enrico II: Marco Antonio versus Lawrence d’Arabia. Nel cast ci sono anche Gielgud, che interpreta re Luigi VII di Francia e due grandissimi attori italiani, Paolo Stoppa, papa Alessandro III, e Gino Cervi, il cardinale Zambelli. Cervi è stato anche Enrico II nella prima edizione italiana del dramma, nel 1960 a Modena, con la traduzione di Luigi Squarzina. E con Massimo Girotti come Becket.
Mentre si concludono le riprese arriva la notizia che Olivier sta per allestire come regista un nuovo Amleto per l’Old Vic e i due attori, il gallese e l’irlandese, decidono di giocarsi il ruolo del protagonista tirando in aria una moneta. Vince Lawrence d’Arabia.
Lo spettacolo diretto da Laurence Olivier, con cui il 22 ottobre 1963, viene inaugurato il nuovo National Theatre, è uno dei più più importanti eventi delle celebrazioni per il quattrocentesimo anniversario della nascita di Shakespeare. Peter O’Toole è in scena con l’energia e il furore di uno dei “giovani arrabbiati” di Osborne, anche se indossa costumi elisabettiani. C’è una foga che dimostra in tutto il dramma - che Olivier vuole in forma integrale - tanto che Derek Jacobi, che interpreta Laerte, è spaventato ogni sera durante il duello finale per il modo in cui quel “selvaggio irlandese” lo attacca. Anche Rosemary Harris, che interpreta Ofelia, viene dal cast di Ricorda con rabbia e porta la stessa giovanile energia. Una lunga carriera quella di Rosemary, che tra il 2002 e il 2007, sarà zia May nella trilogia dedicata a Spider-Man diretta da Sam Raimi.
Burton però non si dà per vinto. Se Londra è occupata, c’è sempre New York e nel progetto coinvolge il produttore Alexander H. Cohen e Gielgud, che in questo modo ha ancora una volta l’occasione di incrociare le spade con Olivier.
Mentre Burton è in Messico per girare La notte dell’iguana di John Houston, con Ava Gardner e Deborah Kerr e la giovane “lolita” Sue Lyon, e Gielgud è in Australia per uno spettacolo, in lunghe telefonate viene definito il cast. Alfred Drake è scritturato come Claudio. Alfredo Capurro - i suoi genitori vengono da Recco - nel 1964 è una star di Broadway: è stato l’acclamato protagonista di Oklahoma!, Kiss me, Kate e Kismet, un ruolo per cui ha ottenuto il Tony e ha convinto la critica in Molto rumore per nulla, accanto a Katharine Hepburn. Per il ruolo di Gertrude viene scelta l’attrice scozzese Eileen Herlie. Gertrude è il ruolo a teatro per cui è più famosa: nel 1945, a ventisette anni, lo interpreta per la prima volta, a Stratford-upon-Avon, con Peter Glenville, più vecchio di lei di quattro anni come Amleto. Poi la chiama Olivier per il suo film: e ha undici anni in meno di “suo” figlio. Nel ’64 è una Gertrude più matura, più vecchia di Burton, anche se solo di otto anni. Dopo Hamlet la sua carriera è continuata con successo, in teatro e in televisione. E sarà, dal 1976 al 2008, Myrtle Fargate, un personaggio che si porta dietro in ben tre soap-opera della serie La valle dei pini.
Hume Cronyn, che viene scelto per il ruolo di Polonio, è un grande caratteristica, attivo per decenni tra cinema e teatro. Dal 1943 al 2001 compare in una quarantina di film - compreso Cocoon, insieme ad altri “vecchi” di Hollywood - ed è molto attivo a Broadway dove recita spesso in coppia con la moglie Jessica Tandy. Per il suo Polonio Hume ottiene un meritato Tony. Non convince la critica la giovane attrice americana Linda Marsh, ma Gielgud difende strenuamente la sua scelta, resistendo alle pressioni della produzione che la vorrebbe sostituire con qualcuna più nota. 
Nel cast ci sono ottimi attori che poi ritroveremo al cinema e in televisione: George Rose - un Tony come Alfred Doolittle in un revival di My Fair Lady - George Voskovec - il giurato nr. 11 di La parola ai giurati - John Cullum - due Tony per il musical e diversi episodi di Law & Order – Bernard Hughes - Polonio nell’edizione del 1970 prodotta da Papp per il Delacorte Theatre. Nell’ensemble c’è anche un giovanotto di Pittsburgh, che dopo quell’esperienza in un grande teatro sarà impegnato nel circuito off-off-Broadway, fino a quando incontra un altro “ribelle” e insieme scrivono Hair. Anche Gerome Ragni, a suo modo, è un “giovane arrabbiato”, per il Vietnam e le ingiustizie del mondo.

Anche per merito di Liz Taylor Hamlet è un successo: centotrentasette repliche. Meglio di quello di Gielgud e, ad oggi, nessun’altra edizione del dramma ambientato nel castello di Elsinore ha raggiunto questo risultato.
Liz e Richard, dopo Hamlet, lavorano insieme per circa dieci anni: International Hotel, Castelli di sabbia, Chi ha paura di Virginia Woolf? - una delle migliori interpretazioni di Taylor - I commedianti, Il dottor Faustus - diretto dallo stesso Burton con Liz che, in un cameo senza dialoghi, interpreta Elena di Troia - La bisbetica domata - ancora Shakespeare e loro due sono perfetti come Caterina e Petruccio - La scogliera dei desideri, Una faccia di…. Non sempre sono film memorabili, ma il pubblico vuole vederli insieme, sul grande schermo come sui rotocalchi. Nel 1967 i loro film hanno guadagnato più di duecento milioni di dollari.
Quando decidono di prendersi tre mesi di pausa, Hollywood trema: quasi la metà degli incassi cinematografici statunitensi negli anni Sessanta dipende da loro due. Per poter interpretare La bisbetica domata - e quindi essere come le altre storiche coppie che hanno interpretato la commedia, Alfred Lunt e Lynn Fontanne, Mary Pickford e Douglas Fairbanks - le due star decidono di partecipare loro stessi alla produzione: investono un milione di dollari a testa, tenendo una percentuale degli incassi. Una scelta oculata: solo negli Stati Uniti il film incassa otto milioni di dollari. Come il matrimonio di Caterina e Petruccio - e probabilmente anche quello di Cleopatra e Antonio, se fossero vissuti abbastanza - anche quello di Liz e Richard è molto turbolento. Il 26 giugno 1974 divorziano, ma dopo poco più di un anno si sposano di nuovo - il 10 ottobre 1975 in Botswana - e divorziano definitivamente il 1° agosto 1976.
Merita di essere ricordata anche la carriera successiva di John Gielgud che conosce nella maturità un’inattesa popolarità al cinema, un mezzo che aveva poco frequentato in gioventù - a differenza di Olivier - forse per un pregiudizio snobistico verso un’arte “inferiore”. È, per citarne solo alcuni, l’inappuntabile - e romantico - Beddoes in Assassinio sull’Orient Express, il direttore dell’ospedale in Elephant Man, il sardonico maggiordomo Hobson in Arturo - ruolo per cui ottiene l’Oscar - il professor Parkes in Shine, Prospero ne L’ultima tempesta, uno dei pochissimi film in cui è protagonista. E quando Kenneth Branagh realizza il suo monumentale Hamlet chiede a sir John Gielgud di essere Priamo nel racconto della fine di Troia, inventando un ruolo che Shakespeare ovviamente non aveva: il giusto tributo al più grande Amleto del Novecento.

Noi abbiamo l’opportunità di sederci in una delle poltrone del Lunt-Fontanne e di assistere allo spettacolo: lo so che non è la stessa cosa, ma credo sia una fortuna poter avere, tra l’altro in maniera gratuita, la possibilità di vedere quella mitica rappresentazione.
Tra il 30 giugno e il 1° luglio è stata effettuata una registrazione utilizzando un processo chiamato Electrovision. Il film è stato trasmesso al cinema, riscuotendo uno scarso successo. Il contratto stipulato tra Electrovision e il produttore dello spettacolo prevedeva la distruzione di tutte le copie dopo l’uscita nelle sale. Dopo la morte di Richard Burton, la moglie ha scoperto nel loro garage una copia che l’attore aveva conservato e ha deciso di metterla a disposizione del pubblico, dopo un necessario lavoro di restauro. Nel 1995 è stato proiettato al Lunt-Fontanne Theatre e due anni dopo è stato trasmesso in streaming su internet: e così il film - ormai intitolato Richard Burton’s Hamlet - è stato uno dei primi ad andare in rete. Potenza del “vecchio” Shakespeare.

martedì 5 luglio 2022

Verba volant (814): fila...

Fila
, sost. f.

“Signorina, non è presto per un Martini? Non sarebbe meglio un caffè a quest’ora?”. Da quando ha aperto quel piccolo locale su Perry Street, Paul non si stupisce di nessuna ordinazione: dopotutto siamo nel Village e non ci sono orari in questa parte di Manhattan. Ma non riesce a non preoccuparsi per uno dei suoi clienti, anche se, come quella donna, è la prima volta che mette piede nel suo bar.
Lei gli sorride: “È un rito, amico, un Martini dopo ogni audizione fallita”.
“Allora capisco, per questa volta offro io. Sperando che la prossima tu non debba festeggiare allo stesso modo”.
“Grazie”.
“Per che spettacolo?”.
“Il nuovo musical di Merrick…”.
“Ho letto, 42nd Street. Certo il vecchio ama rischiare. Mettere in scena a Broadway uno spettacolo da un film in bianco e nero è un azzardo. Gigi è stato un fiasco”.
“Te ne intendi di spettacoli”. Mentre beve il suo Martini, Sheila osserva l’uomo dietro il bancone. Devono essere più o meno coetanei. Pensa che forse lui ci sta provando: non sarebbe la prima volta che le capita in un bar. Anche se ha la sensazione che sia gay.
“No, semplicemente leggo Variety, tanti miei clienti sono artisti, anche se per lo più off-Broadway, e devo sapere di cosa parlano quando hanno voglia di sfogarsi con il loro barista”. L’uomo le sorride. Pensa che è una donna molto sexy, se ci fossero degli altri uomini nel bar la mangerebbero con gli occhi. Ma a quell’ora della mattina sono soli. Quando è entrata, lui ha notato le sue gambe, forti e snelle: deve essere una ballerina.
“La verità è che sono vecchia per Broadway”.
Paul lo sa, e capisce che non è il caso di mentire. Lei non si aspetta di essere ingannata con una frase del tipo: “no, tu sei ancora giovane”. E non vuole certo corteggiarla. Meglio dirle la verità: “È un mondo spietato, basta un attimo per esserne buttati fuori”.
“Credo che ritornerò a Los Angeles. Lì almeno c’è la televisione, qualche piccola parte in una sit riesco sempre a trovarla, ma il mio sogno è sempre stato quello di ballare. Per questo ho provato a tornare a New York. Ma tutte le audizioni sono andate male. Questa è stata la mia ultima occasione”.
“Almeno ci hai provato. Tra qualche anno potrai dire che hai fatto di tutto per seguire il tuo sogno. E non avrai rimpianti”.
“Magari, ma credo che ne avrò sempre. Per quella volta che sono arrivata in ritardo, perché ho perso tempo con un ballerino che mi piaceva, e a cui io non piacevo, o per quella volta che non sono stata zitta e ho detto all’assistente del regista che poteva mettere le mani da un’altra parte e soprattutto per le volte in cui non ho ballato come io so fare”.
“Però ti sei rialzata ogni volta. Hai potuto farlo”.
“Certo, ma la danza è la vita che ho sognato, fin da bambina. Mia madre si è sposata che era molto giovane, mio padre la tradiva e non si è mai occupato troppo di noi. Non ho avuto un’infanzia felice, ma quando ho cominciato a ballare ho pensato che tutto potesse cambiare. Da bambina mi sembrava tutto così magico: uomini gentili e forti che sollevano giovani donne vestite di bianco. Naturalmente, allo scoccare del metronomo, ho capito subito che la danza sarebbe stata una vita faticosa, piena di sacrifici, che non sarebbe stata il paradiso. Ma per me è casa”.
Paul guarda la donna ed è come se la vedesse ora per la prima volta. Sheila nota che l’uomo sembra invecchiato di colpo, travolto da brutti ricordi.
“Scusa, mi spiace raccontarti i miei problemi”.
“Sono un barista, è il mio lavoro ascoltare i clienti. Ti posso fare compagnia? Ho bisogno di bere qualcosa anch’io”.
Solo adesso Sheila nota che l’uomo zoppica. Forse è stato in Vietnam o magari un incidente. Ma pensa sia meglio non chiedergli nulla. Intanto è entrato un altro cliente. Sheila capisce che è abituale, perché si è seduto bofonchiando un saluto e il barista gli ha servito un caffè, senza aspettare l’ordinazione. Sheila vede su una parete una grande foto di Cyd Charisse, sensuale nel vestito rosso di The Bandwagon. Adesso ricorda tutto: certo allora non portava i baffi, ma il barista è quel ragazzo portoricano che ha fatto un brutta caduta durante quella terribile audizione di dieci anni fa, per scegliere otto ballerini di fila. Per uno spettacolo che poi non è stato fatto. Lei alla fine è stata scartata – non se ne rammarica troppo: le quattro scelte erano davvero più brave di lei – ma a lui è andata decisamente peggio.

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Ovviamente possiamo solo immaginare cosa è successo “dopo” a Sheila Bryant e a Paul San Marco, passata quell’incredibile audizione raccontata in A Chorus Line. E ciascuno di voi può divertirsi - come ho fatto io - a raccontare altre storie o su loro due o su uno dei tanti personaggi di quel bel musical.
Però sappiamo cosa è successo a Kelly Bishop e Sammy Williams, che hanno interpretato questi due personaggi in quel fortunato spettacolo del 1975, ruoli per cui hanno vinto entrambi il Tony, dei nove ottenuti dal musical, che l’anno successivo ha vinto anche il Pulitzer per il teatro.
Kelly, nata nel 1944 in Colorado, grazie al ruolo della forte e sensuale Sheila, ha ottenuto il suo più importante, ma anche ultimo, successo a Broadway. La notorietà le è arrivata qualche anno dopo, a Hollywood, tra il cinema e la televisione. E sempre per il ruolo di una madre. Infatti è lei a interpretare la signora Houseman in Dirty Dancing nel 1987 e Emily Gilmore in Gilmore Girls, dal 2000 al 2007. Ma nel 2011 Kelly si è anche tolta la soddisfazione di tornare a Broadway, come guest star, nel fortunato revival di Anything Goes, accanto a Sutton Foster e Joel Grey, nel ruolo di Mrs Evangeline Harcourt, la madre - molto invadente e snob - della giovane Hope.
Non è andata altrettanto bene a Sammy, nato nel 1948 nel New Jersey. Nonostante il successo del musical, per lui non è stato l’inizio di una grande carriera. Ha ottenuto qualche piccola parte al cinema, un’apparizione in una puntata di Kojak, ma nulla di più. E così si è trasferito alla fine degli anni Ottanta in California, dedicandosi all’attività di fiorista. Per più di dieci anni ha disegnato e allestito i carri allegorici per la Rose Parade a Pasadena.
Merita di ricordare come il piccolo Sammy ha cominciato a ballare. Era sua sorella che frequentava le lezioni di danza del maestro Tucci a Trenton, ma quando un giorno lei si è rifiutata di continuare, lui, che era lì perché la madre non sapeva a chi lasciarlo, ha detto: “Posso farlo io”. E questa storia è entrata in A Chorus Line, grazie alla genesi molto particolare di questo spettacolo.
Il 26 gennaio del 1974, in una piccola sala prove dell’East Village i ballerini Michon Paecock e Tony Stevens hanno chiamato un gruppo di loro colleghi e quel variegato gruppo di “zingari” si sono messi a raccontare come hanno cominciato a danzare e cosa il balletto rappresentava per loro. Quei laboratori sono continuati, il regista e coreografo Micheal Bennett ha cominciato a frequentarli, prima per semplice curiosità, e, man mano che quelle storie crescevano, si è reso conto che poteva nascere qualcosa. Dopo di lui si sono aggiunti James Kirkwood Jr. e Nicholas Dante. In poco tempo, da tutti quei racconti, da quelle confessioni notturne, è nato lo spettacolo, con le canzoni scritte da Marvin Hamlisch per le musiche e Edward Kleban per le parole. Otto di quei ballerini, tra cui Sammy, hanno fatto parte del cast, prima al Public Theatre nel circuito off-Braodway e poi allo Shubert. E allora proprio nessuno avrebbe immaginato che la corsa di quello spettacolo sarebbe durata per più di seimila repliche.
L’esperienza di Sammy è diventata la storia di uno dei personaggi, Mike - anche se non quello interpretato da lui - nella canzone I Can Do That. Mentre la storia di Paul, il giovane ballerino di origini portoricane che vive in maniera drammatica la propria omosessualità, è la storia dello stesso Dante. E nel corso dei seminari tante ballerine hanno raccontato una storia come quella che Sheila, insieme a Babe e Maggie, racconta in At the Ballet. Il complicato rapporto d’amore tra il tirannico coreografo Zach e Cassie, la ballerina solista che pur di poter continuare a danzare, è disposta a fare le audizioni per la fila, nonostante le riserve dell’uomo che la considera troppo brava, racconta la contrastata vicenda sentimentale di Bennett e dell’attrice e ballerina Donna McKechnie - che ottiene il Tony per il ruolo di Cassie: The Music and the Mirror è uno dei capolavori della storia del musical.
La forza di A Chorus Line, al di là della bellezza delle canzoni e dell’energia dei balletti, è soprattutto in questa verità, nello strappare il sipario e nel raccontare quello a cui di solito noi spettatori non assistiamo. Noi vediamo la fila, le ballerine e i ballerini che, come nel famosissimo finale, vestiti tutti uguali nei loro luccicanti abiti dorati, sono praticamente indistinguibili l’uno dall’altra. Eppure ciascuno di loro - e lo abbiamo ben visto durante tutto lo spettacolo - è assolutamente One.

*****
Fortunatamente il bar si sta lentamente animando. Paul può smettere di rivolgersi a quell’unica cliente. Non ha mai saputo chi degli altri, dopo il suo incidente, è stato “chiamato”. Anche se ha sempre pensato che Sheila fosse una degli otto. Poi certo lo spettacolo non è stato fatto e quell’audizione non è servita a nulla, se non a distruggere la sua carriera.
Anche Sheila è felice di non dover parlare ancora con il barista. Ricorda che Zach, una volta che l’ambulanza aveva portato via Paul, aveva chiesto a tutti di pensare cosa avrebbero fatto quando non avessero più potuto ballare. Lei non è mai riuscita a trovare una risposta.

Won’t forget, can’t regret
What I did for love what I did for love