mercoledì 26 febbraio 2014
Considerazioni libere (387): a proposito di governo "nuovo"...
Visto che io cerco di esercitare la memoria, mi rendo conto che la cosa comincia a essere preoccupante. Anche qualcun altro, tra i più vecchi di voi, probabilmente si ricorda che all'inizio con B. facevamo nello stesso modo: lo prendevamo in giro per come parlava, per gli errori, per le gaffes; lo abbiamo considerato un fenomeno naïf, una macchietta, alla stregua del cumenda sbruffone e ignorante dei film dei Vanzina. Nonostante tutto, dopo vent'anni - un tempo interminabile in politica - B., per quanto rimanga un personaggio improbabile, incomprensibile all'estero, è ancora lì, a condizionare la vita politica e istituzionale italiana. B. si presentava come l'homo novus e ha da subito scavalcato le istituzioni per rivolgersi direttamente ai cittadini, istituendo un rapporto tra lui e il "suo" popolo, senza intermediazioni di sorta, né istituzionali né di partito.
Il discorso con cui Renzi ha chiesto la fiducia al senato, al di là delle cose che ha detto, davvero poche - ma non è questo il punto - ha segnato un nuovo strappo istituzionale, forse ancora più grave, per quanto fatto con simpatia e con il sorriso sulle labbra. Renzi non solo ha parlato direttamente ai telespettatori, ma ha continuamente messo dei paletti, segnato delle distanze: da una parte lui e il "suo" popolo e dall'altra i senatori.
"Ve lo dico con franchezza, fin dall'inizio: vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia in quest'aula."; già questo esordio avrebbe dovuto farci capire che non sarebbe stato un discorso rituale. E poi, sempre rivolto ai senatori, ma con l'occhio alla telecamera: "Ci avete mai parlato con gli insegnanti? E con i padri, non voglio dire i babbi, che vanno a scuola a prendere i figli?", lasciando intendere che loro non ci hanno mai parlato, mentre lui lo fa tutti i giorni. E qui ha certamente segnato un punto, perché gran parte dei senatori non hanno davvero nessuna idea di come vivono le persone normali; non so se Renzi l'abbia davvero, comunque il messaggio è partito ed arrivato. Renzi, senza ipocrisie, ha lisciato il pelo all'antipolitica, ponendosi come l'alfiere dei cittadini contro il palazzo. "L’altro giorno parlavo con un mio amico che ha perso il lavoro. So che a voi non importa niente, ma a me sì.", è stata un'altra delle sue efficaci bordate contro la casta. Fino alla provocazione finale: "Dicevano che al Senato non vi divertivate. Invece vi vedo sereni. Vi garantisco che vi divertirete sempre di più. Ma mentre qualcuno si divertiva, dal 2008 il pil di questo Paese ha perso otto punti percentuali.".
Fa il simpatico Renzi, tiene le mani in tasca, ha l'aria sempre un po' scanzonata, ma una durezza simile contro le istituzioni, in un discorso di insediamento - il momento in cui il governo chiede la fiducia - non l'ha mai mostrata neppure B., che invece in queste occasioni cercava sempre di apparire uno statista, un politico tra i politici, per poi inveire, appena uscito dall'aula, contro il "teatrino della politica". Renzi le cose le ha dette in faccia, da subito ha voluto marcare la differenza, non ha blandito i senatori, li ha minacciati, ha usato il popolo televisivo contro di loro.
I vent'anni di B. evidentemente non sono passati invano. Renzi non ha più bisogno del partito, che ha sostituito con le primarie, in un rapporto diretto tra leader e militanti, che esclude qualsiasi forma di gruppo dirigente. E non a caso, alcuni giorni fa, Nardella, suo plenipotenziario a Firenze, ha lanciato l'idea che il Pd potrebbe cambiare nome e diventare semplicemente Democratici; del partito deve sparire anche il nome, e il ricordo. E non ha più bisogno del parlamento, e infatti propone una riforma costituzionale che elimina del tutto una delle due camere e una riforma elettorale ipermaggioritaria, per favorire la nascita di due "cose", una a destra e una a sinistra (si fa per dire), fortemente condizionate dai loro leader. Nella riforma di Renzi e Berlusconi il leader del partito che vince sarà il capo del governo e sceglierà i propri deputati dell'unica camera.
Ci riuscirà? Nel Pd c'è riuscito, visto che perfino la minoranza ha ormai legittimato l'uso delle primarie, suicidandosi. E potrebbe riuscire anche a fare la riforma costituzionale, perché i partiti sono ormai debolissimi, sono gusci vuoti. L'unico partito che ha provato a resistere più degli altri, tra mille contraddizioni, è stato proprio il Pd; Bersani nella prima intervista dopo la malattia ha rilanciato il ruolo del partito, ma è parso ormai il lamento di un vecchio sconfitto - per quanto con onore - dalla politica e dalla vita. A questo punto, dal momento che al giovane rottamatore è riuscita la scalata del Pd, anche quel flebilissimo baluardo è caduto: il Pd è diventato un partito personale, esattamente come gli altri.
Ed è altrettanto debole il parlamento, che si è affidato a Renzi, per la paura di un populismo incontrollabile, e che adesso si è scoperto inerme di fronte a queste provocazioni che pure vengono dalle sue fila. Per questo motivo io credo sia cominciato in questi giorni un ciclo molto lungo, anche al di là dei meriti di Renzi, che forse non sono molti - anche se non penso sia una "mezzasega" come dice Mauro Zani - ma soprattutto grazie alla debolezza e all'inanità dei suoi avversari. Di Zani invece, vi invito a leggere un lungo articolo, quasi un breve saggio, su Renzi, scritto alla fine di gennaio, che è illuminante per capire a che punto siamo arrivati.
Il problema è che, arrivati a questo punto, non c'è più freno a questa degenerazione leaderistica della politica, dal momento che anche il rappresentante del populismo peggiore è un leader che gioca tutte le sue forze nel rapporto diretto tra sé e il suo pubblico, virtuale e no, e non lascia alcun spazio alla crescita di altri nel movimento; se non sei come Grillo, se non la pensi come Grillo, se non urli come Grillo, sei espulso, senza tanti complimenti. Le prossime elezioni non saranno uno scontro tra partiti, tra coalizioni, ma ci sarà concesso di scegliere tra tre persone. E Renzi ha la possibilità di vincere - e bene - la partita, indipendentemente da quello che farà in questi anni di governo, che non sarà moltissimo, visto che lui è quello che è e vista anche la pochezza delle persone che compongono la sua squadra.
Come detto, siamo arrivati a Renzi per una somma di debolezze, ma anche per un disegno preciso. Chi mi legge con una qualche regolarità sa che giudizio io abbia sulla storia recente del nostro paese. Ci sono state delle forze - non mi piace molto l'espressione "poteri forti", anche se probabilmente rende bene - che in una prima fase hanno usato B. e il suo populismo arruffone ed eversivo per mantenere e consolidare il proprio potere. Chi faccia parte di questi poteri è ormai abbastanza chiaro: speculatori, nazionali e internazionali, banchieri, grandi burocrati, uomini che hanno costruito una rete occulta, che purtroppo nel nostro paese non è esente da contatti con la criminalità organizzata; sono le autorità finanziarie internazionali, quelle che hanno strangolato la Grecia e che adesso la stanno svendendo, pezzo a pezzo, a chi ha i soldi per comprarla (la comprano e la vendono tra di loro, alla faccia del libero mercato).
Quando B. è diventato incontrollabile, lo hanno scaricato e, con la determinante complicità di Napolitano, hanno fatto nascere il governo Monti che ha fatto - anche con i voti del Pd - una parte sostanziale del lavoro "sporco": l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, l'adozione del fiscal compact, il taglio delle pensioni, l'inizio dello smantellamento del welfare ancora rimasto. Letta doveva continuare su quella strada e lo ha fatto con impegno, anche se forse non con il necessario appeal mediatico. L'unico a immaginare una strada diversa è stato Bersani, anche se non ha avuto il coraggio sufficiente per andare fino in fondo e denunciare le trame del Quirinale; Napolitano infatti gli ha impedito di presentarsi in parlamento, per evitare il rischio che nascesse un governo "sgradito" ai poteri da cui il vecchio è ormai dipende. Oggi l'ex-segretario del Pd riconosce che "un governo come quello di Letta io non ho voluto farlo"; mi spiace, caro Pier Luigi, ma adesso è troppo tardi.
Renzi continua sulla strada già tracciata, godendo di una simpatia e di un credito tra i cittadini, che né Monti né Letta hanno mai potuto raggiungere. Continuerà le "riforme" imposte dalla Bce, aggiungendo qualche centesimo di carità e una pacca sulla spalla ai povericristi che lascerà lungo la sua strada riformatrice. Concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi e riduzione delle prerogative democratiche, come sappiamo, sono due cose che vanno di pari passo e abbiamo già visto come il nostro buon Matteo stia lavorando per ridurre la democrazia nel nostro paese: le sue scelte di politica economica andranno giocoforza nella stessa direzione, anche perché Draghi ha messo il fido Padoan a controllare i conti. Adesso finiranno il lavoro sulle pensioni, sui licenziamenti, sulla svendita del patrimonio pubblico.
Renzi è un'arma pericolosa nella mani di chi è intenzionato ad usarlo e lo useranno, anche più violentemente di quanto abbiano usato B.. Ed è per questo che io sono convinto che, al di là del folklore del personaggio, durerà.
Temo moriremo prima noi.
domenica 23 febbraio 2014
Considerazioni libere (386): a proposito di ministri e ministre...
Quando si fa un nuovo governo, i nomi contano - anche se tutti si affannano a dire che sono più importanti i programmi: balle - soprattutto se quel governo è sostenuto dalla stessa maggioranza di quello che c'era prima e se ne condivide gli stessi obiettivi di fondo. Renzi ha spiegato agli italiani, con una franchezza che, se fosse vera, si potrebbe perfino giudicare lodevole in un paese dove l'ipocrisia tende sempre a prevalere, che il governo precedente non era in grado di fare le riforme necessarie per salvare questo paese. Questo è stato il motivo esplicito della sua decisione di sfiduciare Letta e di prenderne il posto, assumendo su di sé tutti i rischi dell'operazione, che oggettivamente ci sono. I veri motivi - come ho cercato di spiegare - sono altri, ma sono meno spendibili dal punto di vista mediatico e soprattutto molto meno commendevoli.
Ora vediamo i nomi. Al di là della retorica dei renziani e degli organi di informazione già schierati con il nuovo "salvatore della patria", un qualche risultato è stato raggiunto: è un esecutivo snello, il più giovane dell'età repubblicana e soprattutto con lo stesso numero di donne e di uomini. Sono colpi ad effetto di un politico che sa maneggiare queste cose.
Mi permetto comunque di far notare alcune cose che tendono a rendere un po' meno brillante questo risultato. Il ministro dell'interno è lo stesso del governo uscente, per quanto non sia più vicepresidente; era inevitabile visto che si tratta del leader del secondo partito della coalizione, ma almeno gli si poteva affidare un altro dicastero, visto che non ha esattamente brillato alla guida del Viminale, come lo stesso Renzi aveva fatto notare in altri momenti. Quattro dei "nuovi" ministri erano già membri del gabinetto precedente. In particolare è stato riconfermato quello a cui Letta aveva assegnato il "coordinamento dell'attività di governo" e che era diventato il numero due di fatto dell'esecutivo. Ovviamente Renzi può scegliere chi vuole, ma questa scelta desta qualche sospetto, come fosse il pegno per qualche "servizio" non proprio rispettabile compiuto da questo personaggio; e comunque il nuovo presidente spero ricorderà che chi è abituato a tradire, tende a farlo sempre e, in questo caso, si tratta ormai di un "traditore seriale". Anche il "nuovo" sottosegretario alla presidenza era ministro del governo uscente; due sottosegretari sono stati promossi a ministri negli stessi dicasteri e un altro è stato promosso, cambiando competenze (poco male, il nostro non capisce nulla di ambiente quanto non capiva nulla di istruzione).
Dal momento che i già visti li conosciamo, nel bene e soprattutto nel male, Renzi deve avere proprio una gran fiducia nei nuovi.
Partiamo intanto dal ministro che non c'è. Come è ormai noto, l'incontro tra Napolitano e Renzi è stato così lungo, perché il vecchio non ha accettato la nomina di Nicola Gratteri a ministro della giustizia e ha imposto una soluzione diversa. Sarà necessario capire perché il vecchio si è imposto con tale tenacia, al punto da sacrificare un'amica di vecchia data come Bonino, che infatti stava a casa, certa della riconferma, grazie ai buoni uffici del Quirinale. Non sarò così maligno da dire che la criminalità organizzata ha influito sulla scelta del vecchio: sinceramente non lo penso neppure io, che pure penso tutto il male possibile dell'inquilino abusivo del Quirinale. Neppure Renzi avrebbe mai voluto nominare qualcuno davvero in grado di sconfiggere mafia, camorra e 'ndrangheta, ma voleva fare, anche in questo caso, un colpo ad effetto, capace di mettere in qualche difficoltà una parte del movimento di Grillo e Casaleggio. Certo Gratteri non avrebbe fatto dei miracoli, ma probabilmente avrebbe messo in subbuglio una struttura gerontocratica e sclerotizzata come quella giustizia italiana, e siccome Napolitano di questa gerontocrazia sclerotizzata è il nume tutelare, ne ha impedito la nomina. Questa mancata designazione è il segno più evidente di quanto sia ormai potente la burocrazia centrale in questo paese, fatta di satrapi e mandarini sempre più potenti e corrotti. Contro questo blocco di potere Renzi è destinato a essere sconfitto, a meno che non si allei con una parte di esso, come farà, affinché questi gli concedano di gestire una fetta di sottogoverno. Ed è anche il segno che il vecchio, pur essendo stato sconfitto dai poteri che sostengono Renzi, non intende mollare la presa e venderà cara la pelle. Non illudiamoci - e non si illuda Renzi - in sue dimissioni; deve intervenire la natura per risolvere il problema del Quirinale.
Quindi il ministro della giustizia non l'ha deciso lui. Neppure il ministro dell'economia l'ha deciso lui, ma con tutta evidenza l'hanno scelto quelli della troika, che hanno commissariato i nostri conti pubblici; non si potrà derogare dai vincoli da loro imposti, nonostante perfino il vecchio ora dica - con un'ipocrisia che sfocia nella presa per il culo - che l'Europa deve rivedere le politiche di austerità. Renzi non ha deciso neppure il ministro dello sviluppo economico, con delega alle comunicazioni, che è stata decisa da Confindustria e accettata da B., visto che è di area centrodestra.
Di quelli che gli sono rimasti da decidere - non moltissimi, a dire la verità - Renzi è stato abile a gestire l'equilibrio delle correnti del suo infelice partito. E' stato generoso perfino con i civatiani, promuovendo a ministro Maria Carmela Lanzetta.
Mi pare abbastanza chiaro cosa possiamo aspettarci da un governo nato così.
L'ultima riflessione riguarda la parità di genere. In un paese come l'Italia, con una classe dirigente maschile e maschilista, la notizia che, per la prima volta, nel governo donne e uomini sono rappresentati con la stessa percentuale è sicuramente qualcosa di importante sul piano simbolico, anche al di là del merito delle persone. Poi, se crediamo davvero alla parità e vogliamo sia un valore non solo aritmetico, dobbiamo dire che questo non è sufficiente; non basta che ci siano donne ministri, ma occorre vedere cosa vorranno e sapranno fare, esattamente come i loro colleghi di sesso maschile. Nel precedente governo tra i ministri che hanno dato peggior prova di sé, per manifesta incapacità, per interessi opachi, per idee retrograde e di destra, si sono distinte Bonino e Cancellieri.
Aspettiamo l'insediamento del governo e su cosa e come otterrà la fiducia, ma se il buon giorno si vede dal mattino...
E comunque aspettiamoci un lungo ciclo; il fenomeno Renzi non si esaurirà in breve tempo, ma di questo parlerò nella prossima "considerazione".
sabato 22 febbraio 2014
Verba volant (68): pizza...
Il nome del piatto italiano per eccellenza deriva probabilmente da una parola di origine tedesca che indicava il boccone, il pezzo di pane e da qui la focaccia. Adesso è diventata una parola internazionale, perché credo che in tutte le lingue del mondo pizza si dica pizza, più o meno storpiandola, a seconda dell’accento del luogo. Su cosa poi sia davvero la pizza negli altri paesi del mondo ci sarebbe da interrogarsi e forse non è neppure il caso di soffermarsi troppo, visto che questa non è una rubrica di gastronomia.
Siete lettori attenti e saprete senz’altro che il nuovo sindaco di New York è un italo-americano, che va piuttosto fiero delle proprie radici; evidentemente negli Stati Uniti ancora ci sopravvalutano, visto che invece noi italiani facciamo di tutto per nascondere le nostre. Comunque sia, nei primi giorni del suo mandato, questo sindaco molto popolare, che usa abitualmente i mezzi pubblici e che ha spalato la neve davanti a casa propria e a quella dei vicini durante la recentissima tempesta che ha colpito quel paese, è stato sorpreso a mangiare la pizza con le posate. Si è scatenato un polverone, i puristi della pizza - ebbene sì a New York esistono - hanno detto che la pizza va mangiata rigorosamente con le mani. Bill de Blasio si è dovuto scusare con l’opinione pubblica e ha spiegato che in Italia usa così, il che è parsa un’usanza barbarica e folkloristica del nostro paese. Nei giorni successivi si è fatto vedere e fotografare mentre mangia la pizza con le mani e immaginiamo che ormai riservi l’uso di coltello e forchetta all’intimità domestica.
Questo per dire che ormai gli americani considerano la pizza come “cosa loro“, tanto da poter decidere come mangiarla e come no. Un’altra prova di questo legame, diventato indissolubile, tra gli Stati Uniti e la pizza è la storia che vi voglio raccontare.
L’esercito statunitense ha chiesto ai propri soldati quale piatto volessero trovare nelle loro mense, in particolare durante le lunghe e pericolose missioni all’estero, e il risultato di questo sondaggio è stato pressoché unanime: i soldati yankee vogliono la pizza. E’ un po’ come chiedere a un battaglione di soldati bolognesi cosa vorrebbero per rancio: risponderebbero tortellini in brodo, ma nessun alto ufficiale si metterebbe mai in testa di variare il menù, per soddisfare questa bizzarra richiesta.
Ricordo quando facevo l’assessore alla pubblica istruzione nel mio Comune: i bambini delle scuole elementari e medie mi chiedevano, invariabilmente, di introdurre a mensa le patatine fritte e io ho naturalmente sempre negato la loro richiesta, seppur a malincuore. Se non avessi obbedito alle regole della buona e sana alimentazione, mi sarei assicurato un successo politico senza pari, perché adesso quei bambini sono ormai maggiorenni e mi avrebbero sicuramente votato. Comunque è meglio non piangere sul fritto versato.
Torniamo alla nostra storia. Lo stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti invece ha avviato uno studio per assicurare ai soldati una regolare fornitura di pizza, per far sentire i ragazzi a casa loro in ogni latitudine del pianeta. Insomma hanno cercato il modo di introdurre la pizza nella razione K. Sono stati necessari diversi anni di sperimentazioni, ma finalmente i ricercatori di un laboratorio militare del Massachusetts sono riusciti nell’impresa. E poi c’è qualcuno che dice che non si investe nella ricerca. Hanno creato una pizza che si mantiene e rimane commestibile fino a tre anni, senza ricorrere al frigorifero o al congelatore. Gli scienziati assicurano che si tratta di una pizza buona come quella fatta in casa, l’unica differenza è che deve essere consumata a temperatura ambiente.
Ovviamente non sappiamo quali ingredienti permettano a pomodoro e mozzarella di non produrre muffe e batteri per tre anni: si tratta di un segreto militare. E’ però facile supporre che prima o poi questa "leccornia", questo prodotto così genuino, sarà anche a disposizione di noi civili. In fondo anche ad Internet è successa la stessa cosa: è nata per scopi militari ed è diventata quello che è grazie al libero mercato.
Soldato, com’è la pizza? Ottima e abbondante, signore.
martedì 18 febbraio 2014
Verba volant (65): demenziale...
Per onestà intellettuale bisogna dire che questo aggettivo non l'ha inventato Roberto "Freak" Antoni (anche se lui è stato il primo a parlare di rock demenziale), ma certamente dopo di lui questa parola ha avuto tutto un altro significato.
Immagino che i miei lettori più attenti si siano già accorti che questo non è davvero un vocabolario - se volete sapere cosa significa una parola è meglio che continuiate a sfogliare quello che avevate alle medie - ma il pretesto per parlare d’altro. E oggi provo a fare qualche riflessione su quello che ci ha lasciato, lasciandoci, Roberto.
Io non conoscevo Roberto “Freak” Antoni, ma ho deciso di citarlo in questa definizione sempre con il nome proprio, non per fingere un’amicizia che non c’era - come fanno ad esempio i dirigenti del Pd che si chiamano per nome mentre si accoltellano - ma perché in fondo Bologna è una piccola città di provincia e noi che ci siamo nati e che ci siamo vissuti un po’ ci conosciamo tutti e ci viene naturale darci del “te“, anche se viviamo lontano e - come nel mio caso - ho rotto molti ponti con quella città.
La morte di Roberto potrebbe essere un’occasione per Bologna, anche se credo che i bolognesi non sapranno coglierla, se conosco bene i miei chickens. Sarebbe l’occasione per riflettere sul ’77 e su quello che ha rappresentato per quella città. Il ’77 a Bologna non è stato soltanto gli scontri, i blindati di Kossiga nella zona universitaria, il carrello dei bolliti del ristorante al Cantunzein ribaltato in piazza Verdi, l’uccisione di Francesco Lorusso da parte della polizia, la tensione tra il Movimento e il Pci “istituzionale”; certo tutto questo c’è stato e ha pesato come un macigno nella storia della città, anche perché il 2 agosto del 1980 qualcuno volle dare un segno terribile del proprio potere e decise di colpire proprio Bologna.
Il ’77 è stato anche e soprattutto un momento di fervore creativo e l’ultima occasione in cui Bologna è stata al centro della scena culturale italiana, per scivolare poi progressivamente e inesorabilmente verso la mediocrità in cui si trova oggi. Roberto è stato uno dei protagonisti di quel momento culturale alto, che bisognerebbe trovare il modo di studiare con serietà, al di là di qualche iniziativa che verrà fatta - magari sotto l’auspicio di Merola - in cui finisce per rimanere solo la nostalgia, come nelle trasmissioni televisive sugli anni Sessanta, stile Carlo Conti. Se a Seattle è nato il museo dell’epoca del grunge, a Bologna potrebbe ben nascere quello del ’77, anche se Roberto e Andrea Pazienza sarebbero i primi a prendere poco sul serio l’idea di un museo su di loro.
Fate cagare diceva Roberto guardandoci dal palco ed effettivamente non possiamo dargli torto. E’ la realtà italiana ormai a essere diventata demenziale, tanto che Roberto si è dovuto rifugiare in Satie per continuare il suo percorso di ricerca musicale. Basta aprire un giornale o guardare la televisione per renderse conto.
Roberto ci ha lasciato, oltre alle canzoni, alcuni aforismi di crudele cinismo. A me è sempre piaciuto questo:
Toccato il fondo, a me capita di cominciare a scavare.Roberto, abbiamo già in mano il badile.
lunedì 17 febbraio 2014
Verba volant (64): terremoto...
Che Poseidone sia il dio del mare è noto ai più, anche a quelli che hanno soltanto un'infarinatura di mitologia; ed è altrettanto noto che Poseidone è lo stesso dio che gli antichi Romani chiamavano Nettuno e che i bolognesi chiamano ancora oggi il Gigante.
Invece credo sia meno noto il fatto che Poseidone era anche il dio dei terremoti; veniva infatti chiamato Enosìctono o Enosigeo, che significa letteralmente Scuotitore della terra. Infatti nell'età del bronzo, probabilmente era proprio lui il più importante degli dei; in quei tempi antichissimi la coppia divina era costituita da Poseidone e Demetra, nei cui nomi micenei Po-Se-Da-Wo-Ne e Da-Ma-Te, si ritrova la radice da, che indica appunto la terra. Quando si impose l’ordine di Zeus e quindi il cielo divenne più importante della terra, a Demetra fu associato il culto della fertilità dei campi, mentre a Poseidone fu affidato il governo del mare, anche se, attraverso la forza dei terremoti, continuava a far sentire la propria terribile influenza sulle vicende degli uomini, qui sulla terra.
Non è un caso che al più importante, e quindi temuto, degli dei fossero associati i terremoti, specialmente in un territorio così sismico come le terre intorno all’Egeo. Secondo gli studiosi fu proprio una serie devastante di terremoti una delle cause principali della caduta della civiltà minoica e probabilmente anche Troia subì un sisma distruttivo, che provocò il crollo delle mura e la fine di quella città; e dal momento che uno dei simboli di Poseidone era proprio il cavallo, è realistico pensare che sia nata così la storia del cavallo di Troia.
Vi prego di credermi: questa non è una digressione inutilmente pedante ed erudita. Ho raccontato queste storie antiche per dire che il terremoto è un fenomeno naturale che ha sempre spaventato noi uomini, ci ha messo di fronte alle nostre debolezze, al nostro essere polvere.
Io credo che sia giusto avere paura della natura e che anzi sia un errore molto grave non volerne avere, come troppo spesso facciamo noi. Uno dei peccati più gravi della modernità è proprio quello di comportarsi come se la natura non esistesse e di credere che gli uomini siano diventati più forti di lei. Gli uomini dovrebbero sempre saper riconoscere i propri limiti. Questa umiltà di fronte alla natura l’abbiamo persa.
Badate bene, il mio non è un atteggiamento fatalista o rassegnato, ma credo sia necessario capire fin dove la nostra specie può arrivare. Scrissi qualcosa a proposito nell’aprile del 2010, quando l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll bloccò il traffico aereo per un paio di settimane tra l’Europa e il nord America. Ricordate gli articoli preoccupati dei giornali in quei giorni? Pareva che stesse per iniziare la fine del mondo. Semplicemente non accettavamo il limite che ci era imposto dalla natura. E’ proprio indispensabile che ogni giorno, ad ogni ora, si levino in volo centinaia di aerei? Forse no. Forse dovremmo imparare ad accettare che, a causa di un’eruzione vulcanica, ossia un fenomeno squisitamente naturale, gli aerei non possono viaggiare e noi non possiamo volare, che peraltro è un fatto innaturale. In quell’occasione - come in molte altre - la natura ci ha semplicemente fatto sentire la propria potenza e ha messo ordine dove noi uomini abbiamo creato disordine.
Anche i terremoti sono destinati a continuare e continueranno ad essere imprevedibili. Anche su questo occorre accettare i nostri limiti umani e i limiti della scienza. Spesso ci culliamo nell’idea che tutto sia conoscibile, tutto sia prevedibile, ma non è così.
Una parte dell’opinione pubblica ha attaccato duramente i sismologi per non essere riusciti a prevedere il terremoto dell’Aquila. Io sono uno di quelli che ha considerato un’errore la sentenza con cui sono stati condannati i membri della Commissione grande rischi. So bene - e lo denuncio di continuo, nel mio piccolo che in quell’evento, come succede troppe volte nel nostro sventurato paese - c’è stata una miscela letale di incompetenza, pigrizia, arroganza, accondiscendenza al potente di turno. Quella sentenza ha dimostrato una volta di più che in questo paese i cittadini non possono fidarsi delle istituzioni, non possono credere a uno stato che, per dolo e per negligenza - ma più spesso per dolo - li ha sistematicamente ingannati, negando la verità. Questo stato di cose non lo può risolvere una sentenza, per quanto coraggiosa - anche se temo sbagliata - di un giudice di provincia.
In Italia ogni terremoto rischia di trasformarsi in una catastrofe dagli esiti terribili e non quantificabili, perché non c’è la cultura per affrontare questi eventi naturali, che sono sì imprevedibili - e chi dice il contrario è ignorante - ma sono allo stesso tempo affrontabili, nell’accettazione dei nostri limiti, come ho provato a spiegare prima. Per non parlare di quegli eventi che, pur essendo prevedibilissimi - come le piogge - rischiano di trasformarsi anche loro in catastrofi. Manca ad esempio nel nostro paese, che pure è altamente sismico, qualsiasi forma di educazione dei cittadini, anche perché troppo spesso le autorità - scienziati compresi - hanno sempre adottato lo stile di comunicazione messo in pratica in Abruzzo, teso a nascondere la verità e a rassicurare comunque i cittadini, che evidentemente non sono ritenuti abbastanza intelligenti da conoscere quello che succede, o che potrebbe succedere. Figurarsi poi se siamo in grado di costruire le case e gli edifici pubblici seguendo criteri antisismici: troppo costoso e troppo poco redditizio.
Se non fossi amico di Antonella Cardone e di Filippo Manvuller e se non avessi avuto la fortuna di collaborare a Laboratorio politica Bologna, non avrei notizie su come sta avvenendo - o dovrei dir meglio, come non sta avvenendo - la ricostruzione in Emilia, a seguito del terremoto del 2012.
Un terremoto infatti può succedere: è nell’ordine delle cose, come ho detto. Ma dopo un terremoto bisogna ricostruire - possibilmente meglio di come è stato fatto prima - quello che è stato distrutto e ricominciare. Gli archeologi ci dicono che anche Troia è stata ricostruita, verosimilmente dopo aver fatto grandi sacrifici in onore di Poseidone.
In Emilia gli unici che fanno i sacrifici sono le persone che tentano di ricostruire le proprie case e gli artigiani e gli imprenditori che provano a rimettere in piedi le proprie aziende. Nella nostra regione è stato risolto in maniera brillante - anche se forse in un modo troppo radicale e sbrigativo - il rischio che qualcuno si approfitti dell’emergenza e rubi i soldi messi a disposizione per la ricostruzione: è stato stanziato pochissimo e quindi non c’è nulla da rubare.
Passati i primi giorni dal terremoto i metaforici riflettori dell’informazione sono stati spenti sull’Emilia. Nel caso dell’alluvione poi, che ha colpito - sfortunatamente - lo stesso pezzo di territorio non sono mai stati accesi: meglio, così abbiamo risparmiato corrente. Non per essere campanilista o criptoleghista, eppure quel pezzo d’Italia che ha subito in pochi mesi delle trombe d’aria, un terremoto e un’alluvione non è proprio una zona marginale del paese, ma produce una quota significativa del Pil italiano. Apparentemente questi sono dati a cui quelli della troika prestano attenzione, eppure stavolta neppure i sacerdoti dello spread si sono particolarmente preoccupati della questione.
Un terremoto quindi non solo ci mette di fronte alle nostre debolezze, ma questo terremoto - come, per altri versi, quello dell’Abruzzo - ci ha messo di fronte alle nostre meschinerie, alle nostre incapacità, alle nostre disonestà. Per fortuna che ci sono alcuni amici che sono ostinati e continueranno a parlare del terremoto. Ovviamente ne hanno bisogno quei territori, ma ne abbiamo bisogno anche noi che quel terremoto non l’abbiamo subito, ne ha bisogno la crescita civile del nostro paese.
sabato 15 febbraio 2014
Verba volant (63): staffetta...
Ecco una delle non poche parole italiane, la cui etimologia risale, seppur per vie traverse, al longobardo. Quel popolo di guerrieri infatti cominciò a chiamare staffa - e il termine è passato direttamente in italiano - ciascuno dei due pezzi di metallo che pendono ai lati della sella, sorretti da corregge o staffili; le staffe servono al cavaliere sia come punto su cui far leva per prendere lo slancio necessario per salire a cavallo, sia come appoggio per entrambi i piedi durante la cavalcata.
Staffetta è il diminutivo di staffa e alcuni dei suoi significati, in particolare quello che mi interessa in questa definizione, deriva dall'espressione essere con un piede nella staffa, ossia essere pronto a partire.
In ambito sportivo la staffetta è una variante a squadre di competizioni individuali nella quale, per ogni squadra, compete un singolo atleta alla volta e in successione. Le staffette più spettacolari e seguite sono senz’altro quelle dell’atletica leggera, la 4×100 e la 4×400.
Per vincere una staffetta non basta essere capaci di correre molto forte - più forte degli altri - ma serve una preparazione supplementare in termini di affiatamento tra i componenti della squadra e di sincronismo, per minimizzare i tempi durante i passaggi del testimone e per evitare che questo cada, pregiudicando con la squalifica l’esito della gara. Un passaggio fatto male può far perdere la gara anche a quattro atleti velocissimi e, al contrario, tre passaggi perfetti e senza sbavature possono assicurare la vittoria a una squadra atleticamente un po’ più debole.
Nei recenti campionati mondiali di atletica leggera di Mosca è stato emblematico il caso del Belgio, che è arrivato in finale nella staffetta 4×400, riuscendo a non sfigurare di fronte a giganti della velocità come Stati Uniti e Giamaica e comunque tenendo testa a nazioni dalla maggior tradizione atletica. La squadra belga è composta dai tre fratelli Borlée e da Antoine Gillet, che sono riusciti con la tecnica e con la capacità di effettuare passaggi di testimone millimetrici a superare un evidente divario fisico.
Staffetta è una parola che si è fatta strada anche in politica.
I meno giovani di voi, quelli la cui memoria può risalire fino agli anni gloriosi della cosiddetta prima Repubblica, probabilmente ricordano quello che i giornali di allora chiamarono il patto della staffetta.
Ciriaco De Mita era il segretario della Democrazia cristiana e Bettino Craxi quello del Psi, i due partiti su cui si basava la litigiosa coalizione del pentapartito. I rapporti tra i due erano complessi, politicamente conflittuali e probabilmente difficili anche dal punto di vista personale, vista la differenza tra i due personaggi. Nel 1986 comunque De Mita ottenne che il secondo incarico conferito dal nuovo Presidente della Repubblica Cossiga a Craxi fosse vincolato appunto a questo informale patto della staffetta: raggiunta la metà della legislatura Craxi si sarebbe dovuto dimettere per far posto a un democristiano, probabilmente lo stesso De Mita. In un’intervista a Minoli del 1987 il segretario socialista, con il suo fare deciso, disse che quel patto non esisteva e che comunque lui non lo riteneva più vincolante. Probabilmente Craxi pensava che la Democrazia cristiana non avrebbe accettato la sfida, ma sbagliò i suoi calcoli. De Mita fece cadere il governo e si andò ad elezioni anticipate, il cui esito peraltro non fu così favorevole al Psi come Craxi sperava, non ci fu quella che lui chiamava onda lunga.
In questi giorni due giovani rampolli democristiani stanno cercando di far rivivere al nostro paese i fasti di quegli anni lontani. Auguriamo loro, con tutto il cuore, di avere la stessa fortuna che arrise ai loro maestri.
Per vincere una staffetta servono spirito di squadra, capacità di sincronizzarsi,sacrificio e allenamento; Letta e Renzi sono destinati a perdere.
venerdì 14 febbraio 2014
Considerazioni libere (385): a proposito di un colpo a sorpresa...
Lo ammetto: Renzi mi ha sorpreso. Ovviamente era chiaro fin dall'inizio che il suo obiettivo era far fuori l'amico Enrico e sedersi a palazzo Chigi, ma ero convinto che avrebbe adottato una tattica diversa, che avrebbe preso tempo, per logorare il suo avversario in una lunga battaglia di posizione. Invece ha spiazzato tutti, in primis Napolitano e Letta - che pure sono vecchie volpi della politica - e ha tentato il blitz, la guerra lampo. Tattica rischiosa, ma evidentemente l'uomo è temerario e, almeno questa volta, ha avuto fortuna. Ha vinto e chi vince, come noto, ha sempre ragione.
Le vicende di questi giorni mi spingono a qualche riflessione che, per forza di cose, sono disorganiche e frammentarie; d'altra parte è inevitabile, vista la rapidità con cui questi fatti si susseguono.
La prima riflessione riguarda il metodo o meglio le regole del gioco. Molti di quelli che criticano Renzi dicono che si tratta dell'ennesimo "colpo di stato", in quanto la crisi si è svolta tutta al di fuori del parlamento e Renzi finirà per essere il terzo presidente del consiglio consecutivo non investito dal mandato elettorale, non eletto dai cittadini.
Su questo non sono d'accordo. Nel nostro paese, nonostante tutti i tentativi che sono stati fatti per modificarla, è ancora vigente la Costituzione del '48 e quindi l'Italia è formalmente una repubblica parlamentare, il che comporta che i cittadini eleggano il parlamento che, a sua volta, elegge il governo. Negli ultimi vent'anni ci sono state spinte fortissime per modificare questo schema e arrivare a un sistema in cui, più o meno direttamente, i cittadini eleggano il capo del governo o il presidente della Repubblica, nella versione più spinta. E' stata cambiata la legge elettorale in senso maggioritario, è stata introdotta l'indicazione del candidato presidente del consiglio nella scheda elettorale, ma soprattutto è stata fatta una propaganda asfissiante per convincerci che questo è il migliore dei sistemi possibili. E ci siamo convinti, anche perché nel frattempo si sono suicidati i partiti politici che costituivano la nervatura della precedente fase politico e si è fatta strada un'idea leaderistica e plebiscitaria, che nel centrodestra si è incarnata in B. e nel centrosinistra è stata coniugata con l'ideologia delle primarie. E chiaramente questo è ciò a cui ci vuole portare la riforma istituzionale che ha in mente Renzi: una sola camera eletta con una legge elettorale maggioritaria, una drastica riduzione delle competenze degli enti locali, una progressiva attribuzione della funzione legislativa al governo e in sostanza un sistema imperniato sulla carismatica figura del capo dell'esecutivo.
Nella seconda metà del 2011 però questo meccanismo si è inceppato, o meglio è stato sospeso. Dal momento che le elezioni continuava a vincerle il centrodestra e il centrosinistra sembrava ormai annichilito, il presidente della Repubblica ha deciso di fare in proprio, costringendo alle dimissioni B. e imponendo a un parlamento sempre più debole il governo Monti. La cosa è continuata nella primavera scorsa: Napolitano ha impedito che nascesse il governo Bersani e ha imposto il governo Letta. E' in quei due passaggi che è avvenuto il vulnus più grave alla nostra democrazia ed è per questa ragione che io dal novembre del 2011 non riconosco più Napolitano come presidente legittimo. Perché sia avvenuto l'ho spiegato più volte. La destra non si fidava più di B. e ha deciso di giocare autonomamente, imponendo al paese quel programma di austerità che Draghi aveva scritto nella famosa lettera dell'agosto 2011; lo stesso programma di austerità che è stato imposto all'Europa dalla destra ultraliberista e supinamente accettato dalla sinistra imbelle del Pse.
Renzi in questi giorni ha fatto come il bambino della favola che dice che il re è nudo. Tutti avevano ormai dato per scontato che il governo lo dovesse scegliere Napolitano, con la sua riconosciuta saggezza, ma la Costituzione non è mai stata cambiata e Renzi ha semplicemente fatto quello che poteva fare, ossia sfiduciare il presidente del consiglio imposto da Napolitano e chiedere quella carica per sé, in qualità di segretario del partito di maggioranza. Ha avuto quel coraggio che Bersani un anno fa non ha avuto, perché non ha voluto disobbedire agli ordini del Quirinale.
Detto questo - e passo alla seconda riflessione - il mio giudizio su Renzi rimane quello che ho espresso in ogni sede e in ogni occasione possibile: pessimo. Renzi è un politico intrigante e furbo che sa approfittare delle debolezze altrui ed è un esponente di quel centro moderato che ha sempre governato questo paese, riducendoci allo stato in cui siamo. Come abbia fatto un personaggio di tale meschineria etica e con questi valori politici a diventare il leader del maggior partito del centrosinistra, in cui si trovano donne e uomini che hanno militato nel Pci, è il segno non della spregiudicatezza del sindaco di Firenze, ma dell'inconsistenza e della gravissima crisi che ha colto il maggior partito della sinistra italiana negli ultimi vent'anni, crisi di cui molti - me compreso - siamo responsabili. Se siamo arrivati a Renzi vuol dire che abbiamo fatto molti errori, spesso per dolo temo, certamente per negligenza. Abbiamo lasciato correre e all'improvviso ci siamo accorti che non c'era più tempo e spazio per rimediare a questi errori.
Su questo permettetemi un inciso. E' la prima - e credo l'ultima - volta che lo faccio, ma ho guardato in streaming i lavori della direzione del Pd ed è stato uno spettacolo desolante. Il gruppo dirigente bersaniano ha fatto di tutto per raggiungere il microfono e per tessere le lodi del nuovo caro leader. Ma al di là del folklore dei servi - una categoria tipica del nostro paese - l'intervento più illuminante è stato quello di Vincenzo De Luca. Questi è un uomo che viene dal Pci, badate bene, uno che è stato mio compagno di partito e, sentendolo parlare, io mi sono vergognato di questa comune militanza. De Luca, diventato il potente ras renziano della Campania, ha sparato a zero sul governo di cui pure ha fatto parte, senza mostrare un minimo senso di vergogna. E ha argomentato questa ferma opposizione al governo, spiegando che nel suo ministero, quello delle Infrastrutture e dei trasporti, tutte le decisioni venivano prese per favorire gli amici del ministro Lupi. De Luca, candidamente e senza vergogna, ha spiegato che è giunta l'ora di cambiare e che adesso bisogna cominciare a favorire gli interessi degli amici del Pd e immagino dei suoi amici. De Luca e quelli come lui - che sono tanti nel Pd - non fanno neppure finta di essere onesti. Questo è il Pd di Renzi: non facciamoci illusioni di sorta.
Per questo, venendo alla terza e ultima di queste riflessioni disorganiche, a me francamente importa poco di questo nuovo governo. Come era un pessimo governo quello di Letta, sarà un pessimo governo quello di Renzi. Personalmente sono da un'altra parte e cambia poco chi guida il governo e chi nominerà nelle prossime settimane i vertici delle principali aziende pubbliche, visto che questo è uno degli elementi inconfessati e inconfessabili che ha spinto un pezzo di potere italiano a schierarsi con Renzi contro Letta. Non cambia nulla perché il nuovo governo sarà comunque incapace di affrontare la crisi vera del paese, in quanto sostanzialmente espressione di quei poteri e di quegli interessi che la crisi l'hanno provocata, la alimentano e ne trarranno beneficio. Renzi sarà forse più brillante, ma alla fine anche lui tirerà l'asino dove vuole il padrone. La vicenda di questi giorni con la politica non c'entra nulla, figuriamoci poi con il futuro dell'Italia - non prendiamoci in giro - si è trattato di una lotta, senza esclusione di colpi, per il potere in cui una fazione ha perso e una ha vinto. Ma tutto si è svolto nell'ambito di quel potere che non vuole il cambiamento dell'Italia. E che, al netto della retorica, non farà nulla per cambiare.
Verba volant (62): organo...
Ecco una parola dalla storia veramente interessante e dai tanti significati, una di quelle parole che fanno divertire qualsiasi lessicografo. Il termine latino organum è un calco del greco organon, che ha la stessa radice di ergon, che significa opera, lavoro - e vedrete come questa parola tornerà più volte in questa nostra definizione. In senso etimologico organo significa, nel senso più ampio, strumento e da qui discendono tutti i significati particolari della parola.
In biologia l’organo è l’unità anatomica e fisiologica, costituita da diversi tipi di tessuti, che svolge una specifica funzione. Ricorderete che secondo il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck, la funzione crea l’organo: così ad esempio, in un primo momento sarebbero esistite solo giraffe con il collo corto, ma alcune di queste, per il bisogno di raggiungere i rami più alti degli alberi, sarebbero riuscite a sviluppare più di altre il collo e le zampe anteriori, adattando quindi questi loro organi alle circostanze esterne.
Questo termine si usa anche in meccanica e infatti si parla dell’organo di un motore oppure di organo mobile, ossia, nella carrozzeria di un autoveicolo, quella parte che si può aprire o sollevare, come il cofano.
Poi c’è l’organo inteso come strumento musicale. Secondo la tradizione, l’ingegnere Ctesibio di Alessandria, nel III secolo a. C., inventò l’organo idraulico, il primo strumento musicale a tastiera della storia. In questo primissimo organo l’acqua comprime l’aria contenuta in un serbatoio, spingendola nelle canne. Oggettivamente da Ctesibio a Laurens Hammond c’è stata una bella evoluzione. Fu lo stesso Ctesibio a chiamare il suo strumento hydraulis, componendo una nuova parola con le radici dei termini hydor, acqua, e aulos, flauto. In modo quindi del tutto bizzarro l’idraulico, che proverbialmente non troviamo mai quando abbiamo bisogno di lui, è associato alla storia della musica.
I primi commentatori di Aristotele chiamarono Organo l’insieme delle opere logiche del maestro del Peripato, ossia le Categorie, l’Interpretazione, i due libri degli Analitici primi e i due degli Analitici secondi, gli otto libri dei Topici e il libro degli Elenchi sofistici; quindi organo, che Aristotele usa come termine tecnico della biologia, assume già nei suoi primi discepoli un’accezione logica che ritroveremo in tutta la storia del pensiero occidentale, per indicare l’insieme delle regole che costituiscono lo strumento, il metodo della filosofia e delle scienze.
Infine, in campo legislativo e amministrativo, l’organo è la persona o l’insieme di persone attraverso cui si esplica una determinata funzione, che ne sono in certo modo lo strumento; e infatti parliamo di organi della giustizia, di organi di polizia o di organi di un partito politico. Per fare un ultimo esempio, nell’ordinamento scolastico italiano, gli organi collegiali furono istituiti nel 1974, per promuovere una più diretta partecipazione democratica alla gestione della scuola.
Ho affrontato oggi questa parola così stimolante, perché è l’anniversario di un organo, che per ragioni comprensibile e a voi note, mi è particolarmente caro.
Novant’anni fa, il 12 febbraio 1924 usciva il primo numero de l’Unità. Dal 1928 al 1991 il sottotitolo della testata recitava infatti “Organo del Partito Comunista d’Italia” - fino al ’43 - e poi “Organo del Partito Comunista Italiano“. Fino al 31 ottobre 1926, il sottotitolo era “Quotidiano degli operai e dei contadini”, poi fu “Giornale dei lavoratori” - in fondo abbiamo visto come organon e ergon abbiano la stessa radice. Finita l’esperienza storica del Pci, il sottotitolo divenne in qualche modo più esplicativo, con un richiamo alla storia del quotidiano: “Giornale fondato da Antonio Gramsci nel 1924″.
Comunque la si pensi, l’Unità è un giornale importante per la storia di questo paese e non solo per la sinistra. Dispiace vedere come un quotidiano dalla storia così gloriosa abbia un futuro così incerto e versi in un continuo stato di crisi, sorte peraltro condivisa sia da molti altri giornali sia dalla sinistra italiana. In sostanza la povera Unità si fa carico di una doppia sfiga.
Per me l’Unità ha rappresentato le mattine di domenica passate con mio padre a diffondere il giornale, e poi naturalmente le Feste. Io ho avuto la ventura di organizzare, nel 2000, la prima Festa nazionale dell’Unità senza l’Unità. E poi le lunghe discussioni sui debiti de l’Unità e sul modo di ripianarli. Un misto di ricordi belli e meno belli - come è in genere la vita - ma in qualche modo l’Unità è stata una presenza della mia vita, anche se quando ho cominciato a fare politica più seriamente ormai non era più “organo”.
L’Unità che ho conosciuto io non è sempre stata un giornale interessante, che spesso si leggeva più per dovere che per piacere. Ma era comunque un giornale in cui si potevano approfondire alcuni argomenti; ricordo ad esempio le rubriche settimanali di Mario Gozzini e di Giovanni Berlinguer su temi “alti”, come i diritti umani e l’etica, che offrivano spunti di riflessione ben al di là della cronaca di giornata. Un giornale in fondo dovrebbe fare anche questo.
Tra l’altro credo sia utile ricordare che proprio in quel giornale così istituzionale e serioso nacquero Tango e Cuore. Evidentemente non mancava la voglia di prendere e prendersi in giro.
L’Unità è adesso oggettivamente un’altra cosa, perché la sinistra è un’altra e anche il mondo è un altro rispetto ad allora. Ha poco senso rimpiangere quel modello di organo di partito e anche di partito, anche se dovremmo lavorare perfar rinascere, magari dalle ceneri del Pd, una nuova sinistra in questo paese.
Chissà… e magari i coccodrilli torneranno a svolazzare. C’è scritto sull’Unità.
martedì 11 febbraio 2014
Verba volant (61): sport...
Sport è una parola inglese diventata così comune nel nostro vocabolario da essere ormai considerata, a pieno titolo, italiana. E’ successo lo stesso alla parola bar e non credo sia un caso che praticamente in ogni paese italiano, dal Piemonte alla Sicilia, ci sia un Bar sport. La parola sport ha resistito addirittura all'italianizzazione fascista, che colpì invece la parola bar, sostituita da mescita. Ad esempio nel 1928 fu edita la rivista mensile Lo sport fascista.
I singoli sport furono invece regolarmente italianizzati: il football divenne calcio, il rugby giuoco della volata, l’hockey palla a rotelle. Ricordo il presidente Pertini che, in'intervista di qualche mese dopo, dichiarò che si era molto preoccupato quando, durante la finale dei mondiali dell'82, Cabrini sbagliò il penalty. Per quelli della sua generazione il calcio era ancora un gioco che si declinava in inglese.
Anche se la parola è inglese, la sua etimologia risale comunque al latino. Si tratta infatti della forma aferetica dell’antico disport, che risale a sua volta al francese desport, che significa divertimento, e che in italiano è arrivato nella forma diporto. La parola francese antica desport deriva dal latino deportare, che significa portarsi lontano, allontanarsi, in quanto per praticare le attività fisiche era spesso necessario uscire dalle mura cittadine, noi diremmo andare fuori porta.
Teoricamente quindi sport e divertimento da un punto di vista etimologico hanno la stessa radice e hanno un significato affine. Certamente noi da casa ci divertiamo a guardare le gare olimpiche, ci piace tifare a favore dei nostri beniamini e spesso - anche se è poco sportivo - contro i loro avversari. Che si divertano gli sportivi che in questi giorni si sono radunati a Sochi per i XXII Giochi olimpici invernali mi permetto di nutrire qualche dubbio. Si tratta di professionisti dello sport, che fanno un lavoro e che devono farlo al meglio. Per alcuni di loro questo è l’appuntamento della vita, il coronamento di anni di sacrifici.
Immagino poi lo stress degli atleti russi da cui Putin si aspetta risultati mirabolanti. Probabilmente nessuno corre il rischio di essere deportato in Siberia in caso di sconfitta, anche se è meglio non sfidare troppo le ire dello zar. Peraltro è nota la passione dei dittatori per lo sport, che lo usano per celebrare il proprio potere: le olimpiadi di Berlino del 1933 rappresentano un caso eclatante, che Putin si sforza di eguagliare. Ma se quelle olimpiadi furono ricordate anche per le realizzazioni trionfali dell’architetto Albert Speer, queste lo saranno per i bagni con due cessi.
In questi giorni si è parlato dei giochi olimpici più per la politica che per lo sport. La cosa in fondo non deve stupirci. Era così anche nell’antica Grecia, quando i giochi olimpici rappresentavano un momento di tregua dai conflitti endemici tra le città di quella regione e l’occasione per scambi di ambascerie e per negoziati, più o meno formali.
Francamente non è che a Merkel stiano particolarmente a cuore i diritti degli omosessuali in Russia, così come poco le importa dei diritti umani in Ucraina, ma ha utilizzato queste olimpiadi per lanciare un segnale alla Russia e a Puntin. Le aziende tedesche, per ora, possono fare a meno di un’alleanza strategica con quel paese o meglio è la Russia ad avere più bisogno della Germania, e quindi Merkel si è potuta togliere il lusso di non essere presente alla cerimonia di inaugurazione. L’Eni invece ha bisogno del gas russo e quindi il ministro degli esteri italiano Scaroni ha intimato a Letta di partecipare, facendo buon viso a cattivo gioco.
Lo sport è, come dicevo, da sempre anche un’occasione per parlare d’altro, per allontanarsi in senso etimologico. Cicerone, nel quinto libro delle Tusculanae disputationes, racconta che Pitagora definiva in questo modo i filosofi.
Leonte, stupito della novità del nome, chiese chi mai fossero i filosofi e quale differenza tra loro e gli altri; Pitagora allora rispose che, secondo il suo modo di vedere, c’era un’analogia tra vita degli uomini e quel tipo di fiere che si tengono con grandissimo apparato di giochi davanti a un pubblico che accorre da tutta la Grecia. Infatti, come là c’è chi cerca di ottenere la gloria e la celebrità della corona con l’allenamento atletico, e chi vi giunge con l’intento di fare buoni affari comprando e vendendo, ma c’è anche una categoria di persone, ed è di gran lunga la più nobile, che non cerca né il plauso nè il lucro, ma vi si reca solo per vedere e osservare attentamente ciò che succede e come succede […] questi si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi.Come vedete, gli antichi conoscevano già tutto, compresa l’invadenza degli sponsor.
lunedì 10 febbraio 2014
Verba volant (60): provincia...
Non si tratta di una parola di attualità, anzi questa è una parola decisamente passata di moda e rischio che, se aspetto ancora a scrivere questa definizione, rientri nel campo dell’archeologia. Quindi dico la mia sul tema, visto che il maghetto di Firenze ha deciso in questi giorni di riformare anche il Titolo V della Costituzione, dopo aver fatto un po' di maquillage alla legge elettorale.
Come noto, nell'ordinamento amministrativo italiano la Provincia - con la lettera maiuscola, in quanto ha dignità costituzionale - è un ente territoriale autonomo, intermedio tra il Comune e la Regione, formato da una pluralità di comuni, quasi sempre limitrofi, il più importante dei quali ne costituisce il capoluogo.
E’ altrettanto noto che il termine risale all’ordinamento dell’antica Roma, in quanto una provincia era la più grande unità amministrativa dei possedimenti stranieri della repubblica prima e dell‘impero poi. L’etimologia in questo caso è chiarissima: il termine deriva infatti dalla forma verbale provicta, ossia precedentemente sconfitta. In sostanza le province erano i territori conquistati da Roma, dentro e fuori la penisola italiana, e governati da magistrati detti pretori. La prima provincia istituita fu la Sicilia, nel 241 a.C.; noi, emiliani e romagnoli, viviamo in quella che in un primo tempo - prima di diventare a tutti gli effetti territorio romano - fu la provincia chiamata Gallia Cisalpina.
Al di là della fortuna storica e della gloria passata del nome, pare che ormai questo livello amministrativo sia destinato a scomparire, tra la soddisfazione generale. Anzi ormai quando qualcuno non sa cosa dire, ma vuole comunque ottenere l’applauso incondizionato degli astanti, dice di voler abolire le Province e tutti sono contenti.
Ci sono ovviamente molte ragioni per abolire un livello amministrativo che è stato via via svuotato di compiti e funzioni e che è rimasto per dare un contentino alle terze file della nomenclatura politica. Gli amici ricorderanno che per diversi anni, in particolare in quelli migliori del centrosinistra, le Province sono servite per piazzare un po’ di esponenti della Margherita, secondo la regola per cui ai Ds spettava il sindaco e a quel partito il presidente della Provincia. Grazie a questa regola Beatrice Draghetti ha potuto inaspettatamente fare per ben dieci anni il presidente a Palazzo Malvezzi - e Vittorio Prodi prima di lei - e anche il giovane Renzi ha potuto cominciare la sua resistibile ascesa al potere, iniziando proprio da quell’ente oggi da lui così bistrattato.
Per un curioso paradosso della storia mai come in questi ultimi vent’anni in cui - anche sotto la spinta di una forza politica che ha alternato, senza molta logica, secessionismo e federalismo - non si è mai parlato tanto di devolvere poteri dal centro agli enti territoriali, tanto da intervenire anche per un paio di volte sugli articoli della Costituzione che si occupano del tema, nonostante questo appunto, non si è mai centralizzato tanto, riducendo Regioni, Province e Comuni a organi sempre meno importanti nella vita delle persone. Paradosso nel paradosso abbiamo perfino avuto un esponente del partito secessionista che per due volte ha fatto il ministro dell’interno, ossia la carica del governo che più di altre esprime la centralizzazione burocratica del potere e non è cambiato nulla, anzi le cose - come ho detto - sono peggiorate.
Le Province quindi sono state da un lato svuotate e soprattutto sono state delegittimate. I Comuni sono stati paralizzati nella propria attività da vincoli finanziari e legislativi che impediscono di fatto a un sindaco, che pure è eletto dai cittadini, di prendere decisioni significative per il proprio territorio. Le Regioni sono diventate quel distributore automatico di prebende politiche e soprattutto di soldi che sappiamo. In questi vent’anni la riforma costituzionale materiale ha di fatto reso inutili gli enti locali, così come ha spogliato della funzione legislativa il parlamento a favore del governo e delle autorità sovranazionali europee non elette.
Per questo io vorrei fare una piccola proposta, un po’ provocatoria, che immagino non troverà molto seguito. Sono d‘accordo con chi dice che tre livelli amministrativi sono troppi e per questo motivo io abolirei le Regioni, che si sono rivelate effettivamente il più inutile e dannoso degli enti locali. Proprio a favore delle Province che invece, se rivoltate come un calzino, potrebbero davvero svolgere quelle funzioni di governo dell’area vasta che naturalmente i Comuni non possono svolgere. Immagino Province un po’ più grandi di quelle che ci sono oggi, anche perché negli anni ne sono state create di nuove assolutamente inutili, il cui unico scopo è stato quello di accontentare qualche cacicco locale e di offrire agli autori della Settimana enigmistica nuove sigle per i cruciverba.
Il caso della nostra regione è emblematico. Come noto l’Emilia-Romagna non esiste, è davvero - come direbbe Metternich - un’espressione geografica, perché nessuno di noi si sente davvero emiliano-romagnolo: siamo o emiliani o romagnoli. Esistono invece aree che hanno caratteristiche omogenee, per storia, cultura, aspetti fisici e geografici: la Romagna, il ferrarese, il bolognese, il modenese, il parmigiano-reggiano. C’è una parte del piacentino che gravita già sulla Lombardia e in questa riforma potrebbe trovare una nuova “casa” con un pezzo del territorio che è bagnato dalle due sponde del Grande fiume. E credo che un ragionamento del genere valga anche per le altre regioni italiane. Non è una questione di gretto campanilismo, come alcune volte pare venir fuori, è semplicemente la presa d’atto di una realtà.
Naturalmente a patto che questi nuovi enti locali siano messi in grado di funzionare, le Province così concepite sarebbero in grado di rispondere meglio alle esigenze dei loro territori e dei Comuni che le compongono. Pensate solo alla gestione del territorio o dei fiumi. Ad esempio non è naturale che Ferrara e Rovigo costituiscano una nuova Provincia che abbia come compito precipuo la tutela del delta? E gli esempi potrebbero essere molti altri. Credo che anche la gestione delle calamità e soprattutto della ricostruzione - che adesso è molto complicata, come ci dicono gli amici di Modena - potrebbero essere più semplici in un quadro come questo. Dove però si dovrebbe e potrebbe lavorare meglio sulla prevenzione.
Visto però che è molto più facile abolirle, andrà a finire così. Un bell’applauso.
sabato 8 febbraio 2014
Verba volant (59): triviale...
Premessa d'obbligo: la parola di oggi mi è stata suggerita da un'amica italiana di Facebook che vive negli Stati Uniti e che quindi guarda alle nostre beghe con sufficiente distanza, anche se con una notevole dose di incazzatura.
Questo aggettivo deriva dal latino trivium, che significa letteralmente l'incrocio di tre vie e che quindi è un luogo molto trafficato, dove si radunano molte persone; trivialis quindi è passato rapidamente dal significato di frequentato e popolare a quello di sguaiato, grossolano, scurrile. Qualcosa del genere è successo al termine volgare che nel Trecento, ai tempi di Dante e Boccaccio, indicava la lingua e i dialetti parlati dal popolo, appartenenti all'uso corrente, colloquiale e familiare, e in pochissimo tempo è passato a significare ordinario, rozzo, triviale appunto.
In sostanza la lingua ci dice che se qualcosa è popolare finisce per diventare scurrile e rozzo. Dal momento che i social network sono molto frequentati devono inevitabilmente diventare triviali e scurrili? Evidentemente sì, almeno a leggere quello che sta succedendo in questi giorni.
Mi è capitato di dirlo altre volte: non è colpa della rete se la società fa schifo, la rete soltanto amplifica quello che ciascuno di noi dice e fa e dal momento che spesso quello che diciamo e facciamo non è proprio commendevole, la rete lo rappresenta, ma appunto si limita a questo.
In questi giorni abbiamo assistito in rete a un violentissimo e becero attacco sessista contro il presidente della Camera, che in Italia - come è noto - è una donna. Ci sono validissime ragioni politiche per criticare Laura Boldrini come politico e come presidente della Camera, eppure queste ragioni sono state messe di lato e si è preferito usare contro di lei argomenti di carattere sessuale, dando la stura a ogni genere di volgarità.
Come noto, un noto mestatore genovese - sarebbe ora di smettere di chiamarlo ex-comico e usare una definizione più calzante - ha gettato in rete questa domanda “cosa faresti in macchina con lei?“, scatenando volutamente un campionario di trivialità che è facile immaginare e che finivano praticamente tutte per alludere, pesantemente, al sesso del presidente della Camera. Naturalmente se il presidente della Camera fosse stato un uomo né il mestatore né i mestati avrebbero utilizzato questo indecente campionario di volgarità. A meno che non fosse omosessuale dichiarato: in questo caso le volgarità a sfondo sessuale sarebbero state sicuramente prevalenti rispetto alle critiche politiche.
Ripeto che il problema non è nato in rete. Qualche giorno fa un deputato del partito del mestatore ha insultato sette deputate del Pd usando un termine triviale, con un riferimento esplicito al sesso. Anche in questo caso ci sarebbero stati molti modi per attaccare quelle sette deputate e il loro infelice partito, eppure quel deputato, in uno scatto d’ira, non ha trovato di meglio che definirle come le ha definite.
Ora mi rendo conto che dopo questa definizione mi attirerò le ire funeste dei seguaci del mestatore. Non me ne importa nulla naturalmente. Anzi non mi interessa neppure fare un discorso politico. Faccio solo notare che il partito del mestatore si vanta di dar voce alle persone e le persone dicono queste bestialità.
Il problema è evidentemente nella nostra società maschilista, nella nostra incapacità di uomini di parlare - nel bene e nel male - delle donne se non come oggetti sessuali, mentre dovremmo lodarle o criticarle per quello che dicono e che fanno.
Stante così le cose, i social, proprio in forza della loro popolarità e del fatto di essere molto frequentati - come moderni trivii - finiscono inevitabilmente per essere triviali, per scatenare ogni genere di volgarità, specialmente di carattere sessuale e soprattutto contro le donne, che siano politici, sportivi, attrici o che siano persone comuni, le nostre colleghe, le nostre compagne di scuola, le donne che vediamo tutti i giorni.
Con altrettanta evidenza però non possiamo accettare supinamente che popolare e triviale continuino a essere sinonimi, non possiamo considerarlo come un fatto inevitabile. Dobbiamo lavorare affinché non sia più così, pur consapevoli che sarà faticoso perché ci sono troppe spinte che tendono a portarci indietro.
Ieri, ad esempio, nella pagina internet di un grande quotidiano nazionale che non citerò - dirò solo che il suo fondatore si vanta di essere assiduo frequentatore del papa, anche se lui si limita a un educato “buongiorno e buonasera” - accanto a un articolo dove giustamente si difendeva il presidente della Camera dagli attacchi sessisti del genovese, c’era la pubblicità di un caffé. Per pubblicizzare questo prodotto era trasmesso un breve filmato in cui una bella donna, con fare ammiccante, si mette una goccia di caffé sulle spalle scoperte. Nulla di particolare, è una pubblicità come se ne vedono tante purtroppo, ma per me quella pubblicità non è meno grave del becero post di Grillo e delle minacce sessuali fatte dai suoi seguaci. Anzi, è più pericolosa, perché mostra sempre quel lato della donna, il suo corpo e il suo utilizzo come oggetto sessuale.
Perché popolare e triviale non siano più sinonimi il cammino è ancora lungo.
venerdì 7 febbraio 2014
Verba volant (58): poltrona...
Curiosa è l'etimologia di questa parola. Si tratta dell'accrescitivo di poltro, un termine di antica origine gallica attestato nell'italiano del Trecento con due significati piuttosto contrastanti: in alcuni casi infatti indica il letto o il cuscino e in altri il cavallo non ancora domato, con un evidente affinità semantica con puledro.
E’ il primo significato però a prevalere; scrive ad esempio Dante nel Purgatorio:
come fan bestie spaventate e poltre.Mentre l'Ariosto scrive:
mi piace di posar le poltre membra.Comunque sia, la poltrona è il sedile ampio e comodo, per una sola persona, fornito di schienale e braccioli, per lo più imbottito, dove appunto si può poltrire.
Curiosamente il Pianigiani ci informa che nel XVI secolo poltrona indicava la donna di mal affare, la meretrice, per significare evidentemente che gli uomini di quel tempo pensavano di stare più comodi andando con queste signore che stando a casa propria. Altri tempi, come si può ben vedere dalle cronache di questi giorni.
La poltrona è sostanzialmente un posto comodo e infatti nei teatri con questo termine si indicano i posti nelle prime file della platea, quelli che costano di più. A essere sinceri questi posti non sono sempre così comodi, specialmente per chi - come me - ha le gambe lunghe, ma si tratta certamente di posti ambiti, per seguire meglio quello che si svolge sul palcoscenico.
E qui arriviamo al significato più recente di questa parola: la poltrona è infatti il posto ambito per antonomasia, l’incarico di prestigio e di potere.
Non per nulla uno degli status che compete al Mega-Direttore Galattico e agli altri massimi dirigenti dell’azienda dove lavora il ragionier Ugo Fantozzi, è la poltrona in pelle umana, insieme alla serra di piante di ficus, alla scrivania in mogano con piano di cristallo, ai tre telefoni, al dittafono, al quadro ecclesiastico, al tappeto e alla moquette per terra, e all’acquario dove nuotano gli impiegati più meritevoli.
In questi giorni abbiamo scoperto che ci sono dei veri e propri collezionisti di poltrone. Ad esempio nella famiglia Mastrapasqua se ne contano addirittura quarantacinque (ora quarantaquattro, come i gatti della celebre canzone), peraltro equamente divise: venticinque (o ventiquattro) il marito e venti la moglie.
L’esangue Mastrapasqua - deve essere faticoso svolgere una tale messe di incarichi ed è quindi comprensibile la magrezza dell’uomo - è stato ingiustamente additato per questa bulimica fame di poltrone.
E’ abbastanza curioso che lo facciano i grandi giornali italiani nei cui consigli di amministrazione siedono alcuni personaggi i cui nomi figurano in decine di altri organigrammi aziendali. Il cosiddetto capitalismo italiano infatti è una sorta di consorteria di pochissime persone che occupano e rioccupano le stesse posizioni da decenni, scambiandosi favori e poltrone, appunto.
Ed è altrettanto curioso che il povero ex-residente dell’Inps debba essere sbeffeggiato da un personaggio come Letta, la cui famiglia, come quella di molti altri satrapi della sua razza, ha costruito la propria fortuna sull’accumulo di cariche e prebende. Adesso Letta, provando a ricostruirsi una verginità che ha perso al tempo delle scuole elementari, ha detto che è inammissibile che il presidente di un ente pubblico nazionale ricopra anche altri incarichi. Immagino che la soluzione escogitata dall’uomo dalle balle d’acciaio sia quella di trasformare l’Inps in un ente privato: in questo modo il suo presidente potrà sedere in quanti altri consigli d’amministrazione vorrà.
Mastrapasqua è malato - sono d’accordo - e dovrebbe essere curato, ma in quelle lucrose venticinque poltrone - per tacere di quelle della moglie - qualcuno deve pur averlo messo a sedere. Non è che vengono assegnate con il gioco della sedia e che Mastrapasqua - per una fortuita combinazione - si è ritrovato al termine della musica proprio sopra ad ogni poltrona. Anzi in qualcuna di quelle cariche è stato nominato proprio in forza di quelle già accumulate, secondo l’antico adagio per cui soldo chiama soldo.
Per cui, fatta passare l’indignazione - e passerà rapidamente, mentre noi ce ne stiamo qui seduti in poltrona con in mano il nostro bravo telecomando - loro continueranno a sedersi sulle loro poltrone di pelle umana.
Comunque, ripensandoci, forse quelli del XVI secolo non hanno poi avuto tutti i torti ad associare poltrone e puttane. Anche oggi c’è una certa affinità tra chi siede nelle poltrone e chi fa il mestiere più antico del mondo. Spero che le puttane che leggono regolarmente Verba volant non si offendano per il paragone.
lunedì 3 febbraio 2014
Considerazioni libere (384): a proposito di una deriva non inevitabile...
Nei limiti dei 140 caratteri imposti con saggezza da Twitter ho scritto: "nonostante quello che è successo molti anni dopo, io penso ancora che quello fu un fatto importante". Questa brevissima frase ha scatenato alcuni commenti, per lo più negativi, di alcuni amici - "sinistri" come me naturalmente - che ritengono che quell'episodio sia l'inizio di una deriva che ha portato alla morte del maggior partito di centrosinistra in Italia e alla nascita, sulle ceneri di quella troppo breve esperienza politica, di un partito di centro moderato, come è l'attuale Pd. Naturalmente sapete che penso tutto il male possibile del Pd, ma non è di questo che voglio parlare oggi, anche per rispondere un po' più compiutamente a quei compagni.
Sinceramente non credo che nella decisione, lunga e sofferta, che portò la maggioranza delle iscritte e degli iscritti del Pci a far nascere la "cosa", che poi avremmo chiamato Pds, ci sia in nuce il germe che ha portato al Pd e a Renzi. Io ad esempio partecipai con passione a quella fase e ci misi entusiasmo e vidi anche entusiasmo, nonostante il fatto che per molti fu un passaggio complicato e doloroso.
Come sapete parlo di me perché questo conosco e su questo posso testimoniare. I miei genitori erano iscritti al Pci, le persone che conoscevo e stimavo erano iscritte al Pci, il Pci in casa mia era il partito. Semplicemente. Io non ero iscritto al Pci, perché - probabilmente a causa dell'ingenuità e del velleitarismo tipici dei vent'anni - mi consideravo socialista e non mi sembrava corretto iscrivermi a un partito che aveva ancora nel nome quell'aggettivo - comunista - che consideravo sbagliato, nonostante mi fosse stato spiegato - e ne fossi intimamente convinto - che la storia del Pci era ben diversa da quella del Pcus e dei partiti comunisti che avevano piegato le rivoluzioni ungherese e cecoslovacca e che guidavano le dittature dell'Europa orientale. Ero tanto consapevole di questa differenza che non solo votavo Pci e lavoravo alle Feste dell'Unità, ma venni candidato ed eletto nelle liste del partito nel Comune dove allora vivevo.
Quando uscì Palombella rossa di Nanni Moretti mi accorsi improvvisamente che quello che sentivo io era condiviso, era in qualche modo nell'aria, e quindi accolsi con gioia l'annuncio della Bolognina. Come sapete non fu un passaggio semplice, ma vi invito a riguardare il documentario La cosa, sempre di Moretti, e vedrete e sentirete interventi di compagni di base di grande spessore. Io li ricordo i vecchi della mia sezione che sostennero la nascita del nuovo partito con convinzione e non per pigra adesione al funzionario di turno venuto dalla città che illustrava la mozione del segretario - come troppo sbrigativamente dissero quelli che non ci conoscevano e non ci amavano. Peraltro negli anni successivi ho avuto la ventura di fare il funzionario che veniva dalla città e vi assicuro che non era mai semplice convincere quei compagni, perché erano persone abituate a ragionare e che di politica ne capivano.
Il Pds non fu soltanto - come qualcuno adesso dice - la risposta tattica di un gruppo dirigente che vedeva attorno a sé crollare non solo il comunismo internazionale, ma anche il quadro politico italiano. In quegli anni - bisogna sempre ricordarlo - sparirono la Dc e il Psi, travolti, anche ingiustamente, dalla storia che andava in tutt'altra direzione.
Allora volevamo davvero fare un partito diverso, perché - dobbiamo per onestà ricordare anche questo ai nostalgici del Pci, senza se e senza ma - quel partito era sentito da molti come una casa troppo chiusa, un luogo incapace di aprirsi. Volevamo essere un partito saldamente inserito nell'Internazionale socialista e anche - non ma anche, fate attenzione - aperto a movimenti nuovi, penso ad esempio all'esperienza dell'ambientalismo che in Italia è stata così sfortunata. A me allora sembrava possibile e sembrava possibile a molti altri che ci hanno creduto. Eravamo tutti degli illusi? Forse, però eravamo in tanti.
Poi è vero che se siamo arrivati a suicidarci e ad affidarci al maghetto di Firenze vuol dire che abbiamo fatto tantissimi errori; però io rivendico con forza che l'errore di base non fu quella scelta. Da lì potevamo essere qualcosa che non siamo riusciti a diventare, anche perché ad esempio non abbiamo riflettuto a sufficienza sul tema della forma partito, un argomento allora spesso evocato, ma sui cui non lavorammo, tanto che, quando il modello di partito che eravamo si è rilevato del tutto inadeguato, non c'era altro modello con cui sostituirlo, lasciando campo libero all'ideologia delle primarie e al plebiscitarismo del leader, attraverso cui è potuto emergere Renzi. Soprattutto negli anni dopo non abbiamo più riflettuto sul cosa voleva dire essere di sinistra e abbiamo immaginato che l'andare al governo - come abbiamo fatto, seppur in maniera indiretta e a volte rocambolesca - bastasse da solo a costruire un'identità. Non è dal governo che si costruisce un partito, tanto è vero che il Pci era stato costruito proprio perché al governo non c'era mai andato e anzi non superò mai del tutto il trauma - forse inevitabile - della solidarietà nazionale.
Ci sono stati errori di singoli - spesso gravi - per ambizione personale e ci sono stati errori collettivi. Però non era inevitabile morire. Se è successo è perché ce la siamo cercata, ma non perché è nato il Pds.