venerdì 30 novembre 2018

Verba volant (596): zitta...

Zitta, agg. f.

Non è sempre facile leggere le commedie di Aristofane, perché questo genere teatrale vive nell'attualità più di quanto lo faccia la tragedia. Aristofane scrive pensando ai suoi spettatori, partecipa alla politica di tutti i giorni con le sue battute, ma siccome è un grande autore riesce sempre a dire qualcosa anche a noi. Se solo abbiamo la capacità di ascoltarlo.
E' il 411 a.C.: Atene è in guerra da vent'anni contro Sparta. Non è solo il confronto tra due città, ma tra due alleanze che coinvolge tutto il mondo che parla greco. Non c'è posto per i "non allineati": o si sta con Sparta o con Atene, con i valori della tradizione o con quelli dei tempi nuovi, con il governo dei pochi o con la democrazia. Dopo vent'anni quasi interrotti di conflitto, Atene è una città molto provata, quasi prostrata. E soprattutto è agitata al suo interno da un conflitto: anche nella città dell'Attica si confrontano i due schieramenti che si stanno combattendo al di fuori delle Lunghe mura. Da sempre ad Atene c'è una minoranza che odia la democrazia, che detesta quello che Atene è diventata e che vorrebbe farne una sorta di "novella" Sparta. Per molti anni questo gruppo è rimasto nell'ombra, ha avuto paura di dichiararsi, ma più la guerra si fa cruenta, più la condizione della città si fa dura, più queste posizioni trovano inaspettato consenso. A questo punto ormai questa fazione non ha più paura di mettersi in mostra, un colpo di stato oligarchico è ormai sentito come imminente. E da tanti cittadini è auspicato come una liberazione.
Aristofane sa cosa sta per succedere, sa che gli oligarchici - a cui si oppone - stanno per conquistare il potere e allora tenta il tutto per tutto, una mossa apparentemente disperata: mette in scena un colpo di stato, ma lo fa condurre da qualcuno che non è - e non è mai stato e, secondo lui, mai sarà - un soggetto politico, ossia le donne. E così scrive e mette in scena Lisistrata, una delle sue commedie più famose e fortunate.
La protagonista è una donna energica e coraggiosa che convince la sue concittadine a prendere il potere; le donne occupano l'acropoli e si impossessano del tesoro pubblico: è un colpo di stato vero e proprio, in tutta la sua drammaticità. Aristofane però scrive commedie e quindi immagina che questo colpo di stato sia condotto attraverso uno sciopero del sesso, che gli permette di fare le battuttacce che tanto divertivano il suo pubblico e che assicurano alla commedia un successo anche moderno, visto che con il sesso si fa sempre cassetta.
La commedia si conclude con la vittoria di Lisistrata perché anche a Sparta è nato uno stesso "movimento", il #MeToo è diventato globale. L'arrivo ad Atene di un ambasciatore spartano in evidente crisi di astinenza sessuale indica che le donne di tutta la Grecia hanno vinto e che finalmente si farà la pace.
Con questa commedia Aristofane lancia una sfida aperta ai leader democratici ateniesi: siate voi a trattare la pace con Sparta, togliete questo argomento dalle mani degli oligarchici. Il commediografo fu inascoltato e dopo pochi mesi ci fu il colpo di stato, che sancì la fine della democrazia ateniese.
Al di là di quello che è successo - o che sarebbe potuto succedere - nell'Atene del 411 a.C., di questa commedia a noi rimane una suggestione molto forte: cosa potrebbe succedere se qualcuno che non è mai stato un soggetto politico all'improvviso lo diventasse e prendesse il potere?
C'è un illuminante scambio di battute tra le donne che spiegano cosa sta succedendo al rappresentante degli uomini che le ha raggiunte sull'acropoli.
Lisistrata
Dunque, dall'inizio della guerra abbiamo sopportato con pazienza tutto quel che voi uomini avete combinato. Di voi non eravamo nient'affatto contente, però guai ad aprir bocca! Ma spesso, stando in casa, sentivamo che avevate deciso male su un affare importante. E pur addolorate dentro di noi, sorridendo vi chiedevamo…
Ismene
"Oggi, in assemblea, che cosa avete deciso di iscrivere sulla stele riguardo alla tregue?"
Lisistrata
E lui, l’uomo…
Critilla
[facendo voce da uomo] "Che ti riguarda? Vuoi star zitta?"
Lisistrata
E io zitta.
Ismene 
Ma io, zitta non ci sarei stata.

E in qualche modo è ancora una sfida che Aristofane ci lancia. Quelli - e naturalmente quelle, perché il tema dell'emarginazione di genere rimane ancora quasi tutto, a due millenni abbondanti dalla Lisistrata - devono cominciare a parlare. Abbiamo bisogno che non stiate zitte.

giovedì 29 novembre 2018

Verba volant (595): fertile...

Fertile, agg. m. e f.

Ormai se pensiamo a quella vasta regione che - con uno smaccato residuo di eurocentrismo britannico - chiamiamo ancora Medio oriente, immaginiamo il deserto: ci viene in mente la sabbia rovente del film Lawrence d'Arabia o al massimo una distesa di pozzi di petrolio cresciuti in un paesaggio altrimenti brullo. Eppure in prima media ci hanno spiegato - nel libro c'era anche un disegno per farcelo capire meglio - che lì si trovava la cosiddetta "mezzaluna fertile", come viene definita dagli storici quella vasta regione che si estende dalla Mesopotamia alla valle del Nilo, passando per la valle del Giordano. Proprio la presenza di questi grandi fiumi e la loro particolare vocazione agricola hanno fatto sì che in queste terre si sviluppassero le prime grandi civiltà dell'uomo: noi siamo anche i lontanissimi pronipoti di quegli antichissimi popoli.
Mi è tornata in mente questa espressione, leggendo che le sponde dell'Eufrate sono invase da pesci morti. Secondo alcuni studiosi questa moria è stata provocata dallo sversamento di sostanza tossiche nel fiume, mentre altri sostengono che si tratti di una malattia partita da alcuni allevamenti di itticoltura della regione. Comunque sia, questo avvenimento ha di fatto bloccato una delle attività più importanti della regione.
L'Iraq - il cui territorio coincide con la "terra in mezzo ai fiumi", ossia la regione in cui è nata la civiltà sumera, poi quelle assira e babilonese - deve importare dall'estero circa l'80% del grano e del riso necessari per sfamare la sua popolazione. Come probabilmente per quello che riguarda la moria dei pesci, la responsabilità di questa situazione è dell'uomo. L'Eufrate arriva dalla frontiera con la Siria con una portata di 250 metri cubi al secondo: un record negativo. Mentre il Tigri ha una portata dimezzata rispetto al 2003, da 1.680 a 836 metri cubi al secondo. La decisione della Turchia di costruire una serie di grandi dighe sull'alto corso dei due fiumi è un elemento che rende questa situazione sempre peggiore. La mancanza d'acqua ha fatto aumentare la salinità dei terreni, rendendoli di fatto inutilizzabili per scopi agricoli: il 40% delle terre agricole dell'Iraq sta subendo questo processo di salinizzazione. La mancanza d'acqua e il sempre più diffuso bisogno di tagliare gli alberi per avere legna da ardere ha provocato la desertificazione del 50% della terra che era produttiva negli anni Settanta. Il continuo stato di guerra, le lotte tribali, lo stato di insicurezza, la scelta di investire unicamente sull'industria petrolifera hanno provocato i mancati investimenti nell'innovazione e nella meccanizzazione dell'agricoltura e così, per colpa dell'uomo - unicamente per colpa dell'uomo - una delle terre più fertili del mondo è diventata poverissima e costretta a vivere con le importazioni straniere, naturalmente pagate a caro prezzo. Un terzo della popolazione irachena vive nelle aree rurali e naturalmente sono queste persone quelle che stanno soffrendo di più; secondo i dati delle organizzazioni internazionali il 69% della popolazione irachena definita in "povertà estrema" vive proprio in queste aree.
E la stessa cosa sta succedendo in Palestina, visto che ormai si sta prosciugando il Giordano, di cui la Bibbia esalta la ricchezza di acqua e la capacità di portare fertilità. Nel Libro di Giobbe è scritto che il fiume "durante tutti i giorni della mietitura è gonfio fin sopra tutte le sponde": oggi il fiume è perennemente in secca e il Mar morto si ritira di un metro ogni anno. 
Anche il Nilo sta sparendo. Alla continua riduzione della portata del fiume che per millenni ha nutrito il "granaio del mondo" - per questo combatterono Ottaviano e Antonio, non certo per la bellezza di Cleopatra - potrebbe causare un danno inimmaginabile e drammatico la costruzione della diga Renaissance in Etiopia. Riempire in tre anni un bacino idrico di oltre settanta miliardi di metri cubi d'acqua distruggerebbe il 51% dell’agricoltura egiziana, che impiega un quarto della popolazione del paese.
Questo è quello che succede davvero nel mondo. Quando ci sono queste condizioni di sussistenza, francamente credo che qualunque altra analisi debba essere ricondotta a questo. Per anni abbiamo letto articoli e saggi sullo scontro di civiltà o analisi geopolitiche sulla situazione mediorientale, ma continuiamo a dimenticare, più o meno scientemente, questo dato di fatto: in una regione fertile, in una delle regioni potenzialmente più fertili del mondo, si soffre la fame, per responsabilità precise e definite degli uomini.
Desertum fecerunt et pacem appellaverunt: così dicevano i nemici di Roma. Guardando alla condizione di quelle terre, quei popoli non possono neppure dire questo. Abbiamo fatto un deserto e lo abbiamo chiamato guerra.

martedì 27 novembre 2018

Verba volant (594): rapsodia...

Rapsodia, sost. f.

Nell'antica Grecia i rapsodi erano artigiani, che andando di città in città, di villaggio in villaggio, cucivano insieme - è questo il significato etimologico di questa parola - versi che avevano raccolto lungo i loro viaggi. Spesso inventavano loro stessi le storie che cantavano, ma preferivano attribuirle a qualcun altro ed è per questo che le due grandi rapsodie giunte fino a noi da quei tempi lontanissimi sono state attribuite a un uomo che non è mai esistito.
Confesso che, per le mie passioni musicali, se dico la parola rapsodia io penso immediatamente a Gershwin, al trillo del clarinetto che introduce quel brano che per me è capace di raccontare musicalmente il Novecento, nelle sue speranze e nelle sue ansie, nella sua velocità, e anche nella sua pazzia. In questi giorni però, complice un film che porta lo stesso titolo, voglio associare questa parola a uno dei brani più famosi dei Queen. E forse l'antica definizione di rapsodo ben si adatta al genio di Freddy Mercury.
Le continue sorprese musicali che ci riservano i sei minuti di Bohemian Rhapsody rischiano di mettere in ombra un testo capace di raccontarci una storia che è allo stesso tempo personale e universale, proprio come quelle dei rapsodi. Noi siamo costretti a leggere il drammatico duello tra Achille ed Ettore, che è il culmine drammatico dell'Iliade, ma quello non era un testo destinato alla lettura: sono versi che devono essere cantati e aver perso la musica di Omero è una delle più gravi perdite della storia della cultura umana. Speriamo non succeda lo stesso a chi abiterà questo pianeta tra mille anni, speriamo non siano costretti a leggere solo i libretti del grande melodramma italiano, senza poter ascoltare la musica di Verdi. E speriamo possano ascoltare la musica di Bohemian Rhapsody, mentre cercano di capirne il testo.
E lo capiranno, perché anche tra mille anni, le donne e gli uomini che vivranno in questo pianeta soffriranno perché Achille non può non uccidere Ettore, perché Ettore ha ucciso l'uomo che egli amava, anche se sa che dopo toccherà anche a lui inevitabilmente morire, anzi Achille vuole morire, perché ha perso Patroclo, e per questo vuole uccidere Ettore. E allo stesso modo quelle donne e quegli uomini soffriranno sentendo il drammatico racconto di un giovane uomo che ha ucciso una parte di sé e che non è pentito di quello che ha fatto, solo preoccupato per le persone che si lascia dietro, per sua madre prima di tutto. Sentiranno il coraggio e l'orgoglio che sta dietro quel gesto estremo, quell'uccisione, perché "tutti lo possono vedere", anzi tutti lo devono vedere.
Achille, se Omero avesse immaginato i suoi versi accompagnati dalla forza della chitarra di Brian May, avrebbe potuto cantare:
Just gotta get out, just gotta get right out of here.
Nothing really matters,
anyone can see,
nothing really matters,
nothing really matters to me.

domenica 25 novembre 2018

Verba volant (593): volontaria...

Volontaria, sost. f.

Silvia Romano è una giovane donna, laureata da poco, che fa l'istruttrice in una palestra e che ha deciso di dedicare una parte della propria vita, facendo la volontaria per un'organizzazione, la Africa Milele onlus, che sta gestendo alcuni progetti umanitari in Kenya. Questa sua esperienza di vita l'ha già portata due volte in Africa e questa volta purtroppo è stata rapita, presumibilmente da una banda armata che ha l'obiettivo di chiedere un riscatto per la sua liberazione. Di Silvia abbiamo imparato a conoscere il sorriso, grazie alle foto che ha condiviso sui social, come fanno gran parte delle sue coetanee - e come facciamo troppo spesso anche noi, che invece abbiamo l'età per essere i suoi genitori. Di Silvia conosciamo qualche frase, presa qua e là sempre dai social, frasi che probabilmente non ci parrebbero così degne di nota, se non fosse stata rapita. 
A questo punto occorre fare di tutto affinché Silvia torni il prima possibile a casa. Se è necessario pagare, pagheremo, come abbiamo già fatto e come faremo in futuro in casi simili. Quello però che non dovremmo fare è parlare di Silvia per dire cose che con Silvia non c'entrano nulla. Non ho letto quello che un noto e mi dicono arguto giornalista - uno di quelli che vanno per la maggiore e che piacciono tanto a voi "spiriti belli" - ha scritto su di lei; non l'ho letto perché non leggo mai quello che scrive quel tizio. E non ho letto quello che tanti hanno scritto pro e contro quello che ha scritto quel giornalista; non ho letto nulla di questa polemica perché semplicemente non me ne frega un cazzo. E perché invece secondo me bisogna parlare di quella ragazza, di quello che pensa, di quello che fa, e anche dei rischi che ha corso e che corre per fare quello che fa. E' la stessa differenza che c'è tra leggere un romanzo e tutti i commenti a quel romanzo. Puoi anche leggere tutto quello che è stato scritto su un romanzo, ma questo non significa che tu conosca il romanzo.
E francamente trovo che sia anche una forma di paternalistica violenza parlare di Silvia per parlare d'altro. E chissà perché questa cosa la facciamo noi maschi alle spalle di una donna, di una giovane donna. Chi siamo noi per dire quello che Silvia doveva o non doveva fare, che titolo abbiamo per giudicare sulle sue scelte. Dovremmo forse prima giudicare le scelte che abbiamo fatto noi, le cose che abbiamo e quelle che non abbiamo fatto, e, visto che spesso il bilancio è impietoso, dovremmo cominciare a tacere e lasciare che le giovani donne come Silvia facciano le loro scelte. Commetteranno degli errori? Mi pare sia inevitabile: è la vita che è fatta così. Forse siamo solo invidiosi perché faranno qualcosa di meglio di quello che abbiamo fatto noi.

mercoledì 21 novembre 2018

Verba volant (592): muro...

Muro, sost. m.

Dopo più di un mese di viaggio, dopo più di 4.500 chilometri percorsi a piedi, la prima parte della carovana di donne e di uomini - ma sono in grande maggioranza donne - partita dall'Honduras a metà ottobre, è arrivata a Tijuana, al confine con la California, a soli ventisette chilometri da San Diego. Sono duemila persone, e presto ne arriveranno almeno tre volte tante. Non sappiamo di preciso quanti siano quelli che si sono messi in cammino dall'America centrale: le stime oscillano tra 10 e 17mila, ma certamente sappiamo che ormai quella massa è partita e non ha alcuna intenzione di tornare indietro. Non fermi un popolo che si è messo in marcia.
A Tijuana hanno trovato il "muro" costruito da Trump, i 5.700 soldati inviati lungo il confine meridionale degli Stati Uniti per fermare l'"invasione", come l'ha chiamata il presidente, che ha usato questo tema nella campagna elettorale di metà mandato, riuscendo a vincere quelle difficili elezioni. Sono più uomini di quanti quel paese ne stia schierando in Iraq. E hanno trovato il "muro" costruito dalla burocrazia: chi vuole chiedere asilo negli Stati Uniti deve presentarsi a un posto di frontiera, senza tentare di entrare di nascosto, pena la perdita di ogni diritto presso le autorità statunitensi. Ossia devono aspettare il verdetto dell’agenzia per l'immigrazione, che può arrivare anche dopo molti mesi.
Ma il "muro" più solido contro cui si sono imbattuti in questi giorni le donne e gli uomini dell'Honduras non l'ha costruito Trump, non l'hanno eretto gli Stati Uniti: sono i più poveri tra i cittadini di Tijuana, sono i 2.500 profughi che aspettano già da mesi in quel varco della frontiera, sono quelli che già c'erano e che non vogliono i "nuovi" arrivati. A Tijuana sono già cominciati gli scontri, dentro e fuori i campi di accoglienza dei migranti, scontri fomentati anche dai cartelli del narcotraffico, che hanno evidentemente tutto l'interesse a concentrare in quell'area i disordini e a mantenere il loro controllo su un confine che per loro è vitale. Paradossalmente questo muro sarà reso ancora più solido da quelli che sono arrivati in questi giorni, in queste ore, che a loro volta vedranno quelli che arriveranno domani e dopodomani come terribili concorrenti. Quando la meta era lontana era facile essere solidali, ma ora che il traguardo è lì vicino, apparentemente a portata di mano, il rischio che si scatenino gli istinti peggiori della massa è molto forte. E' la lotta dei penultimi contro gli ultimi e siccome gli ultimi sono destinati a crescere - ci saranno sempre dei "nuovi" ultimi - questo è un conflitto destinato ad aumentare in maniera esponenziale. Agli Stati Uniti basterà stare a guardare: sarà sufficiente farne entrare pochissimi, per rendere quelli rimasti fuori ancora più cattivi, ancora più spietati. Trump ha già vinto la sua battaglia: perché non esiste muro più solido - e più economico per lui - della cattiveria degli uomini.
E' tragico il destino di quelle donne e quegli uomini, che sono fuggiti per entrare in nuova prigione.
All in all it was just a brick in the wall
All in all it was just bricks in the wall

martedì 20 novembre 2018

Verba volant (591): pozzo

Pozzo, sost. m.

Diogene Laerzio attribuisce a Democrito questa massima:
In verità nulla sappiamo, giacché la verità sta in fondo al pozzo.
Questa frase risuonava nella mente del pittore Jean-Léon Gérôme quando nel 1896 dipinse una delle sue opere più famose, intitolata La Verità che esce dal pozzo.
La Verità è una bellissima donna che esce nuda da un grande pozzo, parzialmente coperto di foglie, ma il tuo sguardo non cade sul suo corpo perfetto, sulla sua pelle chiarissima, che pure illumina il quadro, ma ti colpisce prima di tutto il suo urlo: la Verità sta chiamando, anzi sta chiamando proprio te, ti sta rimproverando con tutto il fiato che ha in gola perché hai permesso che rimanesse intrappolata laggiù. E poi vedi il suo piede uscito dal pozzo, rappresentato nell'istante prima in cui lo sta per mettere a terra e su cui evidentemente farà leva per uscire del tutto e quindi per raggiungerti. Capisci che si avventerà su di te con un balzo e solo a questo punto noti la frusta con cui ti colpirà. La Verità di Gérôme ti spaventa, perché ne vedi la furia, ma soprattutto perché sai di essere in colpa.
Siamo nella Francia che si sta dividendo sull'affare Dreyfus e certamente con questo quadro Gérôme prende posizione, indicando con chiarezza da che parte sta, ma francamente mi sembra riduttivo leggere solo in questa maniera così contingente l'opera. Bisogna interpretare questo quadro partendo dal frammento di Democrito che, nella sua icastica concisione, ci toglie ogni speranza: la verità è laggiù e là rimarrà. Anzi è in qualche modo rassicurante sapere che la verità è confinata in fondo a quel pozzo, è qualcosa con cui non saremo costretti a fare i conti. Finché la verità starà nel pozzo noi possiamo continuare a vivacchiare qui sopra. Gérôme ci dice però che non potremo più stare tranquilli, che alla fine, prima o poi, la verità verrà fuori e allora la sua vendetta contro la nostra meschineria sarà spietata.
Ogni giorno dobbiamo decidere da che parte stare, se continuare a credere che la verità non troverà la forza per risalire o fare come se potesse essere qui accanto a noi da un momento all'altro. Se far finta di nulla e sperare di cavarcela o prendere posizione. Qualcuno ha la forza d'animo e l'onestà intellettuale di dire la verità semplicemente perché è giusto così, noi "normali" abbiamo probabilmente bisogno di sapere che un giorno da quel pozzo potrà uscire una nostra sorella - o una nostra figlia - che sarà veramente furiosa per quello che non abbiamo fatto.

domenica 18 novembre 2018

Verba volant (590): gilé...

Gilé, sost. m.

Vedo alcuni entusiasmarsi - immagino in buona fede - per la protesta dei gilet gialli che sabato 17 novembre hanno fermato la Francia, per protestare contro il presidente Macron e il rincaro del prezzo dei carburanti.
Io detesto Macron, la politica ultracapitalista del suo governo e tutto quello che lui rappresenta nella politica francese ed europea. E credo anche che sarebbe finalmente necessaria una forma di protesta un po' più violenta di quella a cui ci siamo abituati in questa epoca dell'ipocrita "politicamente corretto": una protesta che non danneggia, che non fa male, soprattutto economicamente, al nostro nemico, è assolutamente inutile. Poi capisco che protestare non pacificamente può comportare dei costi, ma - come diceva qualcuno che se ne intendeva - la rivoluzione non è un pranzo di gala. Nonostante tutto questo, io non voglio indossare un gilet giallo, perché in politica non vale la regola che il nemico del nostro nemico è nostro amico.
Sabato è scesa in piazza una Francia reazionaria, di destra, vandeana, che si è unita su un obiettivo di carattere assolutamente egoista e privato, ossia la riduzione, per sé, del prezzo della benzina. Naturalmente il movimento si è affrettato a dire che questa battaglia è apartitica, né di destra né di sinistra, ma solo nell'interesse dei cittadini. Se vi viene in mente qualcun altro che dice le stesse cose in qualche altro paese europeo, non è un caso, perché questo è il mantra che ci sentiamo ripetere da ormai diversi anni da parte delle destre nei paesi occidentali. La Francia di destra che è stata orgogliosamente e violentemente vandeana e monarchica, che ha sostenuto a viso aperto il fronte dei nemici di Dreyfus e il regime di Vichy, che ha votato con una certa spavalderia guascona una destra smaccatamente fascista come quella di Le Pen padre, adesso preferisce imbellettarsi in questo modo. E con buoni risultati mi pare.
La cosa curiosa di questa vicenda è che questa destra che si finge apartitica si scontra contro un personaggio che è diventato presidente in nome di questa stessa ipocrisia: Macron è un esponente della destra finanziaria che descrive se stesso come una specie di superamento delle categorie di destra e di sinistra. E anche questo è qualcosa che abbiamo già sentito da qualche altra parte, se la memoria non mi inganna nel discorso di fondazione di un partito italiano sedicente democratico. Quindi in Francia un governo di destra - ma che finge di non esserlo - deve fare i conti con la protesta di un movimento rurale di destra - che finge di non esserlo. Praticamente tutta la politica si svolge da una parte dello schieramento, data l'irrilevanza culturale e politica dell'altro.
Proprio la Francia ci ha insegnato che le rivoluzioni si cominciano - e hanno un qualche successo - quando i cittadini hanno fame: la povertà è una molla potente per scatenare la rabbia delle persone. Ma le rivoluzioni hanno successo quando oltre a combattere la povertà, oltre a essere contro la crisi economica, si pongono un obiettivo politico e si propongono di cambiare la società e il mondo. La protesta dei gilet gialli chiede solo di abbassare il prezzo della benzina, ma ovviamente, essendo un movimento conservatore e di destra, sostenuto e finanziato dalle forze del capitale, non si pone l'obiettivo di sovvertire l'ordine che permette ai padroni del petrolio di lucrare su questo bene e di distruggere il pianeta. La protesta dei gilet gialli è l'arma che una parte del fronte conservatore usa contro l'altra parte per condizionarla, per dire: guarda che ci sono anch'io, che devi fare i conti con me.
La rivoluzione è un'altra cosa. La rivoluzione è togliere il loro potere economico e politico ai padroni del petrolio, rinunciando per sempre a questo combustibile. Questo sarebbe il motivo per bloccare - finalmente con un po' di violenza - un paese.       

sabato 17 novembre 2018

Considerazioni libere (427): a proposito di Mickey Mouse...

Novant'anni non sono poi tanti: noi possiamo ragionevolmente sperare di arrivare a quel traguardo (anche perché per avere la pensione dovremo lavorare fino agli ottanta). Però pensate a com'era il mondo novant'anni fa, quando all'Universal's Colony theatre di New York venne proiettato per la prima volta Steamboat Willie, un cartone animato di appena sette minuti che due giovani non ancora trentenni, Walt Disney e Ub Iwerks, avevano realizzato nelle settimane precedenti in un garage. Steamboat Willie fu il primo cartone animato a presentare una colonna sonora con musiche, effetti sonori e dialoghi, anche se non intelligibili, completamente sincronizzata; fu un successo e grazie a quel successo è nato il mito di Mickey Mouse, che proprio con quel cartone animato fece il suo esordio sul grande schermo e cominciò una fortunata carriera che continua ancora. E per questo proprio oggi festeggiamo i novant'anni di Topolino, come chiamiamo in Italia quel personaggio.
Nel mondo del 1928 non era così comune vivere fino a novant'anni, dovevi essere molto ricco o molto sano. E comunque ci pensava la guerra a ucciderti. Quando Mickey Mouse cominciò il suo lungo viaggio la Grande guerra era finita da appena dieci anni ed era un ricordo ancora molto vivo. 
E una nuova guerra stava covando sotto le ceneri delle macerie di quel terribile conflitto. Un anno dopo sarebbe crollata la borsa di Wall street, dando il via a una crisi economica su larga internazionale che segnò in maniera drammatica, specialmente in Europa, i decenni successivi. I fascismi in Europa prendevano vigore e portavano il mondo a un nuovo conflitto.
Mickey Mouse non lo sapeva mentre fischiettava, fingendosi il capitano del battello a vapore su cui faceva il mozzo e mentre corteggiava Minni "suonando" una capra. Solo per pochissimi anni gli fu possibile essere un monello scapestrato: in fretta dovette mettere la testa a posto e diventare un detective. Poi naturalmente partecipò anche alla seconda guerra mondiale e poi alla "guerra fredda" e alla corsa allo spazio, insieme al suo amico Eta Beta. Certamente Mickey Mouse nel 1928, mentre era sul battello a pelare patate, non poteva immaginare che dall'altra parte dell'Atlantico una scrittrice geniale aveva pubblicato proprio quell'anno un piccolo libro intitolato Orlando, la storia incredibile di un personaggio che invece non metterà mai la testa a posto.
Forse anche Mickey Mouse, come Orlando, un giorno si è chiesto
Siamo dunque fatti in modo tale da dover prendere la morte a piccole dosi, giorno per giorno, per continuare ad affrontare l'impresa di vivere?
Ma poi non ha avuto tempo, ha dovuto attraversare il Novecento, diventando anche lui quello che dovevano diventare i miti del "secolo breve", uno strumento per far vendere ogni genere di prodotto, un ambasciatore del consumismo capitalista tra i bambini. Il topo ribelle e anarchico di Steamboat Willie è diventato il testimonial di un'azienda di telefonia.
Alla fine novant'anni sono tanti: come siamo invecchiati male, Topolino.

giovedì 15 novembre 2018

Verba volant (589): giornalista...

Giornalista, sost. m. e f.

In questi giorni ho visto molti amici esibire con orgoglio il proprio tesserino dell'ordine dei "pennivendoli". Vi capisco, amici giornalisti, umanamente e professionalmente vi capisco. Io sono stato un funzionario di partito e ora sono un impiegato comunale, due categorie che non godono di una buona stampa, e quindi mi sono sempre incazzato - e mi incazzo ancora - quando si fanno generalizzazioni sulla categoria a cui appartengo, perché ho conosciuto funzionari di partito molto seri e conosco impiegati pubblici che lavorano molto. Quindi quando vi dicono che siete delle "puttane" avete ragione di arrabbiarvi.
Ma proprio perché solidarizzo con la vostra incazzatura, permettetemi di sottolineare due cose. Voi fate un lavoro molto particolare, così particolare che se chi è al governo non si arrabbia con voi, significa che lo state facendo male. Ovviamente so che le parole sono pericolose come le pietre, ma un conto è dirvi che siete "puttane" e un altro conto è impedirvi di fare il vostro lavoro. Non difendo quelli che oggi sono al governo - sono ormai molti anni che non difendo quelli che sono al governo - e sono convinto che siano capacissimi non solo di insultarvi, ma anche di limitare la vostra libertà: e su questo tutti noi dobbiamo vigilare e non dobbiamo lasciarvi soli nella battaglia. L'altra nota che vorrei farvi è che, come io mi arrabbio di più con i miei colleghi fancazzisti piuttosto che con quelli che ci chiamano genericamente "fannulloni", credo che anche voi dovreste essere molto arrabbiati con i vostri colleghi che fanno le "puttane", e mi pare non siano pochissimi.
Tra l'altro una vostra battaglia seria e non corporativa contro le "puttane" potrebbe aiutare tutti noi a riflettere sulla libertà di stampa, che è un tema vitale per la società. E lo è tanto di più oggi che non esiste più la stampa e in cui la libertà scarseggia. Viviamo in una società in cui sono spariti - anzi in cui qualcuno ha fatto sparire - i cosiddetti corpi intermedi, e in cui vengono sempre più drammaticamente ristretti gli ambiti democratici, in cui chi è al potere cerca un contatto diretto e plebiscitario con il "popolo" e in cui le libertà democratiche sono compresse, magari a favore di quelle civili. In questo quadro i giornalisti possono o difendere i corpi intermedi e i i cittadini o diventare strumenti di quel collegamento plebiscitario tra potere e popolo. Mi pare che molti di voi abbiate scelto questa seconda opzione, anche perché avete partecipato con accanimento a distruggere i corpi intermedi, ad esempio i partiti, anche perché pensavate di prenderne il posto. C'è un quotidiano in Italia, uno dei più importanti - non ne farò il nome, ma è facilmente intuibile - che si è dedicato con abnegazione - e con successo - a distruggere la sinistra politica di questo paese, pensando di diventarne in una fase successiva il soggetto egemone, fatto salvo che invece la sinistra è morta, anche per colpa di quel giornale, e ora quei giornalisti temono giustamente per l'insorgere di una destra sempre più pericolosa.
E così in Italia assistiamo a una riduzione della libertà - anche di stampa - che si accompagna a una riduzione drammatica della stampa. In poco più di un decennio i due maggiori quotidiani italiani sono passati da 960mila copie vendute a 370mila e una riduzione analoga hanno avuto tutti gli altri quotidiani italiani. So bene che in questo decennio sono cambiate molte cose, c'è la rete, ci sono i social, c'è una diffusione incredibile di free-press, che spesso è l'unica carta stampata che il popolo legge. Ma questo crescere di strumenti non ha fatto aumentare la libertà di informazione. Tutt'altro.
Un'altra piccola cosa: è giusto protestare quando il potere cerca di limitare la libertà di azione dei giornalisti, ma cosa succede quando è il mercato che limita questa libertà, quando sono i padroni dei giornali a mettere dei paletti? Io scenderei volentieri in piazza a fianco dei giornalisti italiani se cominciassimo a farci anche queste domande. Non pretendo nemmeno di avere delle risposte, anche perché immagino che le mie sarebbero un po' troppo radicali per molti di voi, ma credo sarebbe già sufficiente condividere domande e preoccupazioni. Oppure possiamo far finta che ci vada bene così, che tanto passeranno anche questi - in fondo è passato anche Napoleone - e che voi resisterete avvinghiati ai vostri tesserini.   

venerdì 9 novembre 2018

Verba volant (588): melagrana...

Melagrana, sost. f.

Diciamoci la verità: se era per quel codardo di Adamo noi saremmo ancora nudi nell'eden, a girare in tondo e a guardare l'erba che cresce, come pesci rossi in una palla di vetro. Tutte le cose belle della vita - l'amore, la poesia, la passione, la musica - le dobbiamo a Eva, a quel suo gesto ribelle di cogliere e mangiare il frutto proibito. Ma come sempre avviene - siccome le storie le scrivono gli uomini - il ruolo della donna è stato sminuito e così ci hanno raccontato che è stato il diavolo - un maschio, ovviamente - a tentarla. E' ora di dare a Eva quello che è di Eva.
Ma che frutto era il frutto proibito? Probabilmente era una melagrana. L'ignoto cantastorie che girava per i villaggi lungo le rive del Giordano e che si è inventato questa storia - e che certo non poteva immaginarsi che avrebbe avuto una tale fortuna - dovendo raccontare un frutto capace di scatenare un tale finimondo, pensò immediatamente a quello del melograno; e probabilmente fecero lo stesso i suoi ascoltatori: erano talmente tutti certi che fosse una melagrana, che non si sono nemmeno presi la briga di specificarlo, quando alla fine hanno deciso di mettere su papiro quella leggenda. Che altro frutto poteva essere?
La melagrana è il frutto della dea babilonese Ishtar e della divinità anatolica Cibele, in sostanza di quell'antichissima divinità che ebbe nomi diversi e che è conosciuta anche come la Grande madre.
E così, viaggiando da oriente a occidente, questo frutto è arrivato nell'antica Grecia. Ade, il dio degli inferi, si innamorò di Core, la bellissima figlia di Demetra, la dea della fertilità e delle messi. Folle di passione, decise di rapirla e non voleva liberarla, nonostante la giovane piangesse, non toccasse cibo e chiedesse continuamente di tornare dalla madre. Zeus, spaventato dal fatto che gli uomini avevano smesso di fare sacrifici da quando la giovane era stata rapita e Demetra per il dolore aveva inaridito i loro campi e distrutto i raccolti, riuscì a convincere il fratello e finalmente Ade permise a Core di tornare dalla madre, ma a una condizione: che non avesse mangiato nulla mentre era negli inferi. La ragazza era piena di gioia, stava per tornare sulla terra, ai suoi affetti, ma ricordò che - cedendo alla debolezza della sete - aveva mangiato sei chicchi di una melagrana raccolta nel giardino di Ade. Sei chicchi non erano un frutto intero, ma erano pur sempre un cibo degli inferi, e quindi Ade e Demetra dovettero trovare un accordo: per sei mesi all'anno Core - ossia la ragazza, perché questo significa quel nome - sarebbe diventata Persefone, la potente regina degli inferi, la dea a cui le donne si affidavano nel momento di partorire, e per gli altri sei mesi sarebbe tornata sulla terra, insieme alla madre. E' questo andare e tornare della dea che regola l'alternare dell'estate e dell'inverno e quindi la vita di noi mortali.
La melagrana è il frutto delle donne, del tempo in cui le donne erano dee, prima che gli uomini cominciassero a inventare delle storie per relegarle in una posizione subalterna, al ruolo di comparse. Ma poteva succedere che un maschio pentito raccontasse di nuovo la storia di quando le donne erano dee: e infatti durante il Rinascimento Leonardo e Botticelli dipinsero entrambi una Madonna della melagrana. E quel frutto svelava che quella donna era a un tempo Eva e Maria, Core e Persefone, in sostanza la dea della vita.
Ho ripensato a queste storie così lontane guardando la foto di Amal, la bambina di sette anni morta il 1° novembre scorso in Yemen, in quella terra da dove vengono le melagrane. Amal è morta perché per giorni non ha potuto né mangiare né bere. Amal non è potuta diventare una donna, perché nel suo paese gli uomini stanno facendo una guerra terribile e perché questa guerra - come tutte le guerre - ha distrutto ogni melograno, ogni altro albero, ha seccato ogni sorgente, ha violato l'ordine rigoroso della natura.
Amal deve essere per noi l'immagine di Eva, anche se non ha potuto ribellarsi a quello che qualcun altro ha deciso per lei, e quella di una Maria che ha conosciuto solo la passione. Amal è la figlia che ci è stata rapita, che è stata portata agli inferi e che non siamo più in grado di salvare. E' la dea che non abbiamo voluto che fosse.

martedì 6 novembre 2018

Verba volant (587): profezia...

Profezia, sost. f.

Quest'anno gli organizzatori del Festival Verdi di Parma hanno voluto mettere in scena il Macbeth, un'opera tra le meno note del Maestro di Busseto che, dopo essere stata rappresentata, con la direzione dello stesso Verdi, a Firenze nel 1847, è stata dimenticata fino a una storica messa in scena alla Scala del '52, con la Callas nel ruolo di Lady Macbeth. L'opera, su libretto di Francesco Maria Piave, è molto fedele alla tragedia di Shakespeare, la sua più breve e una delle più rappresentate.
E' utile riflettere su Macbeth, perché questa tragedia non parla solo della brama per il potere, ma affronta un tema che in qualche modo riguarda tutti noi.
L'inizio della tragedia è notissimo: tre donne appaiono ai generali scozzesi Macbeth e Banco, che stanno tornando dopo una battaglia in cui hanno valorosamente combattuto alla testa delle loro truppe e sconfitto i nemici del re Duncan. E le tre streghe fanno a entrambi una profezia: annunciano a Macbeth che sarà re e a Banco che sarà padre di re. Quella profezia è come la scintilla che fa scoppiare l'ambizione di Macbeth: decide di uccidere Duncan, che sarà ospite nel suo castello, per prenderne il posto.
Ma se le streghe non fossero apparse a Macbeth, egli avrebbe comunque ucciso Duncan? Avrebbe comunque commesso tanti atroci delitti pur di diventare re? Sarebbe diventato re? E' uno strano gioco quello delle streghe: per essere certe che la loro profezia si compirà, diventano loro stesse protagoniste della storia e in qualche modo fanno in modo di determinarne l'esito. Macbeth è in qualche maniera predestinato al male? Se così fosse, se ci fosse un potere capace di determinare le nostre vite, non saremmo colpevoli di quello che facciamo. Quanto noi uomini siamo davvero liberi? Mi sembra questa la domanda che ci pone Shakespeare.
Sarebbe comodo pensare che il nostro destino è già scritto. Eppure, nonostante l'apparizione delle streghe, certamente Macbeth poteva non uccidere Duncan; e forse non lo avrebbe fatto se Lady Macbeth non fosse intervenuta ad armare la mano del marito. Anche su questo si apre un'altra parentesi interessante: Shakespeare non dà un nome a Lady Macbeth, che tutti nel dramma chiamano appunto così. Macbeth e sua moglie sono davvero due persone distinte o siamo noi uomini, nella nostra contraddittorietà a essere molte cose contemporaneamente? Noi siamo liberi, ci dicono Shakespeare e Verdi, e di questa libertà spesso abusiamo.
Nel programma del Festival c'è stata una bella serata dedicata proprio al dramma scespiriano: Sergio Rubini ha ridotto la tragedia a una sorta di monologo. Ascoltate in questo modo, recitate da un unico attore, le battute della tragedia, in un alternarsi di voci, ho avuto l'impressione che in fondo Shakespeare abbia messo in scena un solo personaggio, al cui interno si agita un conflitto. Ciascuno di noi è a un tempo Macbeth e Lady Macbeth, l'ambizione senza coraggio e la determinazione che non conosce scoramento, a un tempo Macbeth e Banco, la forza malvagia dell'uomo votato al male e il rigore dell'uomo retto, capace anche di sfidare le streghe, il Macbeth codardo e impaurito di fronte alle streghe e quello tornato coraggioso quando sa che il suo destino è segnato, e forse noi siamo anche le streghe, siamo noi che creiamo le tentazioni in cui fatalmente, ma non inesorabilmente, cadremo. 
Uno dei passi più famosi del dramma è il monologo di Macbeth del terzo atto, che comincia con una sorta di invocazione: tomorrow, and tomorrow, and tomorrow. E' una riflessione sulla vanità della vita. Rubini ha voluto chiudere il suo monologo con questi versi, che non chiudono il dramma, ma che ne rappresentano indubbiamente un punto focale.
Life's but a walking shadow, a poor player,
that struts and frets his hour upon the stage,
and then is heard no more. It is a tale
told by an idiot, full of sound and fury,
signifying nothing.
La vita è solo un’ombra che cammina: / un povero istrione, / che si dimena, e va pavoneggiandosi / sulla scena del mondo, un’ora sola: / e poi non s’ode più. / Favola raccontata da un’idiota, / tutta piena di strepito e furore, / che non vuol dir niente.
E' l'attore che ha concluso il suo racconto, ma siamo anche noi, tutti noi, che ci illudiamo che la nostra vita sia così importante, che le cose che facciamo, che diciamo, che scriviamo, siano così memorabili e che invece saranno spazzate vie, tutte, con un alito di vento.

sabato 3 novembre 2018

Verba volant (586): maglietta...

Maglietta, sost. f.

Non conosco Selene Ticchi, non so perché sia diventata fascista, anzi così volgarmente fascista da partecipare lo scorso 28 ottobre a una manifestazione davanti alla tomba di Mussolini a Predappio con quella maglietta oscena.
Però conosco la sua città, Budrio, che dista poco meno di nove chilometri da Granarolo, il paese in cui sono cresciuto e in cui ho cominciato a fare politica.
Chissà quante volte Selene Ticchi è stata in piazza a Budrio e ha visto la lapide che ricorda i caduti della Resistenza. Il 21 ottobre 1944, a Vigorso ci fu un combattimento in cui furono uccisi otto partigiani - e altri otto furono fatti prigionieri e uccisi il giorno successivo - a cui seguì la rappresaglia contro la famiglia di contadini che aveva ospitato quel distaccamento partigiano, durante la quale i tedeschi uccisero altre sette persone. Budrio è una città che ha sempre ricordato quell'episodio così significativo della propria storia e di tutta la Resistenza bolognese.
Anche perché Budrio ha sempre coltivato la memoria del proprio essere socialista. Tante volte Selene Ticchi avrà passeggiato sotto i portici della strada centrale di Budrio, dedicata a Leonida Bissolati e, siccome i simboli contano, la toponomastica del centro di quella città è come un breviario degli eroi del socialismo: non ne manca davvero nessuno. La piazza centrale in cui tante volte Selene Ticchi si è fermata con le sue amiche è dedicata al figlio più illustre di Budrio, lo scienziato e matematico Quirico Filopanti, l'inventore dei fusi orari, politico garibaldino e socialista, che da deputato, alla seduta di insediamento della Camera del 1876, si rifiutò di giurare fedeltà al re, venendo espulso. Ho letto che Selene Ticchi vive a Mezzolara, la frazione più importante di quel comune, la cui storia, come quella di tutta la bassa bolognese, è stata scandita dalle lotte dei contadini e dei braccianti, dalle loro organizzazioni politiche, sindacali, cooperative.
Ho visto che Selene Ticchi è più o meno una mia coetanea. Quando io andavo a scuola, tra la metà degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, non ho avuto degli insegnanti fascisti, ma neppure smaccatamente progressisti: diciamo che la media era il tipo del democristiano non troppo bigotto. In tempi e con intenzioni didattiche diverse, quegli insegnanti mi hanno fatto leggere, tra gli altri, i romanzi di Primo Levi e di Mario Rigoni Stern e mi hanno spiegato che i campi di concentramento erano una cosa "cattiva". Immagino che l'esperienza scolastica di Selene Ticchi sia stata simile alla mia: i libri da leggere erano gli stessi, i film da guardare gli stessi, le gite da fare le stesse. Anche lei ha avuto sicuramente tra le mani l'edizione Einaudi di Se questo è uomo, con il titolo tra le due righe rosse orizzontali che ho avuto io. Anche lei ha letto almeno una volta i versi che aprono quel libro.
Poi Budrio è una città grande - più grande di Granarolo - e anche orgogliosa del proprio livello culturale: c'era anche il liceo classico. A Budrio c'era - e c'è ancora per fortuna - un bel teatro dove sono stati rappresentati tanti spettacoli che poi andavano a Bologna; quando ero ragazzo io, c'era una bella libreria, come quelle della città; c'era - e suppongo ci sia ancora - una realtà associativa vitale.
Nonostante tutto questo - questa storia, questi simboli, questa scuola, questa cultura diffusa - Selene Ticchi è diventata fascista. E' diventata così fascista da indossare con orgoglio una maglietta con una scritta che ridicolizza il nome di Auschwitz. Come è successo? Possiamo anche pensare che un deficiente sia potuto nascere e crescere in qualunque città, anzi che potrà nascere e crescere in qualunque città e in qualunque contesto. Possiamo anche pensare che se uno è deficiente, orgogliosamente deficiente, non ci puoi fare nulla. E uno può diventare fascista anche nella socialista Budrio, uno può diventare fascista anche se a scuola gli hanno fatto leggere Se questo è un uomo.
Capisco, ma non riesco ad accontentarmi del tutto di questa risposta. Ho fatto per un po' di anni il politico e credo che se a Budrio, come a Granarolo, come in tutte le nostre città, ci sono i fascisti - e ve ne sono sempre di più - sia anche per nostra responsabilità, perché mentre dicevamo di essere socialisti non ci siamo comportati sempre come tali e abbiamo in qualche modo tradito la storia di cui eravamo gli eredi. E per esempio abbiamo organizzato in maniera fredda e burocratica le manifestazioni per ricordare la storia della Resistenza, come fossero impegni gravosi, di cui avremmo fatto volentieri a meno. Anche noi, come Selene Ticchi, passavamo per le vie delle nostre città, senza guardare ai nomi degli uomini a cui sono intitolate. 
Non voglio trovare giustificazioni per quella maglietta, perché non ce ne possono essere. Però vorrei chiedere agli insegnanti che oggi fanno leggere a scuola quei libri, quei libri che continuano a essere "giusti" e che devono continuare a essere letti, di pensare a come lo stanno facendo, se il modo in cui lo stanno facendo è efficace. Perché non stanno solo spiegando un romanzo, ma stanno raccontando a quei ragazzi un pezzo della loro storia e insieme costruendo un po' del loro futuro.