venerdì 30 aprile 2010
"Amore dopo amore" di Derek Walcott
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognun sorriderà al benvenuto dell'altro
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E' festa: la tua vita è in tavola.
Considerazioni libere (105): a proposito di madri e di bambini...
Anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo in maniera così secca e brutale, per molte donne indiane fare la madre surrogata è diventato se non un lavoro, certamente un modo per contribuire in maniera rilevante al mantenimento della propria famiglia.
Non lo ammette naturalmente il parlamento indiano, che però era ben consapevole di quello che faceva quando ha approvato, nel 2002, una legge che permette di impiantare gli ovuli fecondati di una coppia nell'utero di un'altra donna, che ha quindi il compito di portare avanti la gravidanza; questa decisione, anche se nessuno lo dichiara ufficialmente, è stata presa per favorire il cosiddetto "turismo medico", che sta diventando una voce importante nell'economia indiana. Non lo ammettono i molti medici che praticano gli impianti e che anzi si proclamano benefattori, perché permettono a tante famiglie di avere figli, naturalmente dietro il pagamento di parcelle in dollari. Non lo ammettono nemmeno le donne che accettano di essere per una o due volte una madre surrogata, di mettere al mondo un figlio che non è loro e che non vedranno mai più, loro non lo ammettono per pudore, sono le uniche in questa storia che ne hanno ancora e sanno cosa significa.
Nel 2007 la più celebre conduttrice tv degli Stati Uniti Oprah Winfrey - una che entra sempre nelle classifiche delle donne con maggior potere nel mondo - ha deciso di parlare in tono estremamente elogiativo della clinica per l'infertilità Akanksha, che si trova nella città di Anand, nella parte nord-occidentale dell'India; da allora la clinica feconda ovuli, impianta embrioni, li fa crescere e infine consegna i bambini al ritmo di quasi uno alla settimana alle riconoscenti famiglie statunitensi che si sono rivolte ad essa. Le famiglie - non solo statunitensi, ma anche inglesi, francesi, israeliane, giapponesi - in lista di attesa sono centinaia e tutte loro alimentano un indotto fatto di viaggi, pernottamenti negli alberghi, cene nei ristoranti e così via.
Le donne che hanno accettato di portare a termine la gravidanza per conto di queste coppie vivono tutte insieme in due edifici della clinica, lontane dalle loro famiglie. Ciascuna di loro riceve 50 dollari al mese e altri 500 dollari alla
fine di ogni trimestre e il saldo dopo il parto; una donna che "lavora" per la clinica Akanksha riceve dai cinquemila ai seimila dollari per ogni parto, un po' di più se il parto è gemellare, cosa per altro abbastanza frequente, dopo le cure contro l'infertilità. Se la donna perde il bambino può tenere i soldi che ha guadagnato fino al quel momento, se decidesse di abortire dovrebbe restituire i soldi e pagare i danni alla clinica, cosa peraltro che non si è mai verificata. Per molte donne indiane cinquemila dollari è molto di più di quanto potrebbero guadagnare in anni di lavoro. Le cliniche mettono annunci nei giornali locali e ingaggiano delle "reclutatrici" che definiscono, in maniera piuttosto ipocrita "assistenti sanitarie sociali".
Durante i nove mesi della gestazione le donne vivono di fatto come recluse in dormitori allestiti dalle stesse cliniche, ufficialmente per poter essere sottoposte a controlli medici, anche se questi sono piuttosto rari, se non al momento dell'"assunzione". Ma nessuna di loro ha dove altro andare; quasi tutte loro vengono dalle campagne e non possono rimanere nei loro villaggi, anche per non alimentare pettegolezzi e voci sulle loro gravidanze. Tutte loro aspettano, sanno che saranno sottoposte a un taglio cesareo, perché più veloce rispetto al parto naturale, anche se più rischioso - soprattutto per loro - e naturalmente sperano di non perdere il bambino, il che significherebbe la perdita del saldo.
La salute e il benessere di queste donne non interessa molto alle cliniche, che devono garantire solo la salute del neonato che dovranno consegnare alle famiglie che hanno pagato per avere un figlio. Nel maggio del 2009 una donna di nome Easwari è morta in seguito a una emorragia seguita al parto, perché la clinica non era attrezzata per affrontare queste complicazioni; le denunce del marito sono cadute nel vuoto e la clinica continua tuttora la sua attività. Il consiglio di ricerca medica dell'India ha presentato una serie di linee guida sulla maternità surrogata che condannano alcune procedure già largamente utilizzate nelle cliniche indiane, ma le autorità non intendono affrontare una legislazione del settore, che rischierebbe di compromettere il settore.
Una coppia statunitense o europea paga tra i 15 e i 20 mila dollari per tutta la procedura, dalla fecondazione al parto. Nei pochi stati degli Usa dove questa pratica è permessa il costo varia dai 50 ai 100 mila dollari. Inoltre le donne indiane non bevono e non fumano e questa è una garanzia per le ansiose mamme statunitensi. Non esistono dati attendibili, ma le cliniche della fertilità in India dovrebbero essere oltre 350, attirando ciascuna centinaia di clienti. La confederazione degli industriali indiani stima che nel 2011 il giro di affari del turismo medico, compreso quello legato alla fertilità, sarà di 2,2 milardi di dollari. Di fronte alla crescita di questo fenomeno le autorità indiane hanno deciso di non esercitare nessun tipo di controllo, di fatto permettendo lo sfruttamento di queste donne.
La Winfrey nel presentare il caso di una coppia americana che è riuscita finalmente ad avere figli grazie alla clinica Akanksha ha detto che tutto si è concluso bene, dal momento che loro sono i felici genitori del loro bambino e la donna indiana è stata aiutata. Purtroppo non è così o almeno non è solo così: le cliniche e i genitori dei paesi ricchi sfruttano la povertà delle donne indiane e ottengono da loro condizioni che probabilmente non accetterebbero, se non fossero in condizione di bisogno per sé e per i propri figli. E' davvero un atto di altruismo da parte delle famiglie statunitensi ed europee o è un modo per risparmiare?
C'è un'affermazione che mi ha molto colpito e con cui voglio concludere questa "considerazione" per lasciarla alla vostra riflessione. Una madre statunitense ha raccontato la sua esperienza e il brevissimo incontro con la donna che per nove mesi avrebbe portato in grembo suo figlio; tra loro non c'è più stato alcun contatto, perché "la clinica preferisce mantenere una linea di separazione, io sono la madre, lei il recipiente".
p.s. devo questa storia al giornalista statunitense Scott Carney, autore di un articolo su Mother Jones, tradotto e pubblicato nel nr. 843 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
Non lo ammette naturalmente il parlamento indiano, che però era ben consapevole di quello che faceva quando ha approvato, nel 2002, una legge che permette di impiantare gli ovuli fecondati di una coppia nell'utero di un'altra donna, che ha quindi il compito di portare avanti la gravidanza; questa decisione, anche se nessuno lo dichiara ufficialmente, è stata presa per favorire il cosiddetto "turismo medico", che sta diventando una voce importante nell'economia indiana. Non lo ammettono i molti medici che praticano gli impianti e che anzi si proclamano benefattori, perché permettono a tante famiglie di avere figli, naturalmente dietro il pagamento di parcelle in dollari. Non lo ammettono nemmeno le donne che accettano di essere per una o due volte una madre surrogata, di mettere al mondo un figlio che non è loro e che non vedranno mai più, loro non lo ammettono per pudore, sono le uniche in questa storia che ne hanno ancora e sanno cosa significa.
Nel 2007 la più celebre conduttrice tv degli Stati Uniti Oprah Winfrey - una che entra sempre nelle classifiche delle donne con maggior potere nel mondo - ha deciso di parlare in tono estremamente elogiativo della clinica per l'infertilità Akanksha, che si trova nella città di Anand, nella parte nord-occidentale dell'India; da allora la clinica feconda ovuli, impianta embrioni, li fa crescere e infine consegna i bambini al ritmo di quasi uno alla settimana alle riconoscenti famiglie statunitensi che si sono rivolte ad essa. Le famiglie - non solo statunitensi, ma anche inglesi, francesi, israeliane, giapponesi - in lista di attesa sono centinaia e tutte loro alimentano un indotto fatto di viaggi, pernottamenti negli alberghi, cene nei ristoranti e così via.
Le donne che hanno accettato di portare a termine la gravidanza per conto di queste coppie vivono tutte insieme in due edifici della clinica, lontane dalle loro famiglie. Ciascuna di loro riceve 50 dollari al mese e altri 500 dollari alla
fine di ogni trimestre e il saldo dopo il parto; una donna che "lavora" per la clinica Akanksha riceve dai cinquemila ai seimila dollari per ogni parto, un po' di più se il parto è gemellare, cosa per altro abbastanza frequente, dopo le cure contro l'infertilità. Se la donna perde il bambino può tenere i soldi che ha guadagnato fino al quel momento, se decidesse di abortire dovrebbe restituire i soldi e pagare i danni alla clinica, cosa peraltro che non si è mai verificata. Per molte donne indiane cinquemila dollari è molto di più di quanto potrebbero guadagnare in anni di lavoro. Le cliniche mettono annunci nei giornali locali e ingaggiano delle "reclutatrici" che definiscono, in maniera piuttosto ipocrita "assistenti sanitarie sociali".
Durante i nove mesi della gestazione le donne vivono di fatto come recluse in dormitori allestiti dalle stesse cliniche, ufficialmente per poter essere sottoposte a controlli medici, anche se questi sono piuttosto rari, se non al momento dell'"assunzione". Ma nessuna di loro ha dove altro andare; quasi tutte loro vengono dalle campagne e non possono rimanere nei loro villaggi, anche per non alimentare pettegolezzi e voci sulle loro gravidanze. Tutte loro aspettano, sanno che saranno sottoposte a un taglio cesareo, perché più veloce rispetto al parto naturale, anche se più rischioso - soprattutto per loro - e naturalmente sperano di non perdere il bambino, il che significherebbe la perdita del saldo.
La salute e il benessere di queste donne non interessa molto alle cliniche, che devono garantire solo la salute del neonato che dovranno consegnare alle famiglie che hanno pagato per avere un figlio. Nel maggio del 2009 una donna di nome Easwari è morta in seguito a una emorragia seguita al parto, perché la clinica non era attrezzata per affrontare queste complicazioni; le denunce del marito sono cadute nel vuoto e la clinica continua tuttora la sua attività. Il consiglio di ricerca medica dell'India ha presentato una serie di linee guida sulla maternità surrogata che condannano alcune procedure già largamente utilizzate nelle cliniche indiane, ma le autorità non intendono affrontare una legislazione del settore, che rischierebbe di compromettere il settore.
Una coppia statunitense o europea paga tra i 15 e i 20 mila dollari per tutta la procedura, dalla fecondazione al parto. Nei pochi stati degli Usa dove questa pratica è permessa il costo varia dai 50 ai 100 mila dollari. Inoltre le donne indiane non bevono e non fumano e questa è una garanzia per le ansiose mamme statunitensi. Non esistono dati attendibili, ma le cliniche della fertilità in India dovrebbero essere oltre 350, attirando ciascuna centinaia di clienti. La confederazione degli industriali indiani stima che nel 2011 il giro di affari del turismo medico, compreso quello legato alla fertilità, sarà di 2,2 milardi di dollari. Di fronte alla crescita di questo fenomeno le autorità indiane hanno deciso di non esercitare nessun tipo di controllo, di fatto permettendo lo sfruttamento di queste donne.
La Winfrey nel presentare il caso di una coppia americana che è riuscita finalmente ad avere figli grazie alla clinica Akanksha ha detto che tutto si è concluso bene, dal momento che loro sono i felici genitori del loro bambino e la donna indiana è stata aiutata. Purtroppo non è così o almeno non è solo così: le cliniche e i genitori dei paesi ricchi sfruttano la povertà delle donne indiane e ottengono da loro condizioni che probabilmente non accetterebbero, se non fossero in condizione di bisogno per sé e per i propri figli. E' davvero un atto di altruismo da parte delle famiglie statunitensi ed europee o è un modo per risparmiare?
C'è un'affermazione che mi ha molto colpito e con cui voglio concludere questa "considerazione" per lasciarla alla vostra riflessione. Una madre statunitense ha raccontato la sua esperienza e il brevissimo incontro con la donna che per nove mesi avrebbe portato in grembo suo figlio; tra loro non c'è più stato alcun contatto, perché "la clinica preferisce mantenere una linea di separazione, io sono la madre, lei il recipiente".
p.s. devo questa storia al giornalista statunitense Scott Carney, autore di un articolo su Mother Jones, tradotto e pubblicato nel nr. 843 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura
martedì 27 aprile 2010
Considerazioni libere (104): a proposito di energia nucleare...
Ammetto di avere qualche pregiudizio sull'energia nucleare, però non posso non notare che i più entusiasti sostenitori di questa forma di energia sono quelli che vendono la tecnologia per realizzare le centrali nucleari e allora, istintivamente, comincio a sospettare. So bene che una centrale nucleare non produce lo stesso tipo di inquinamento di una centrale a carbone o a petrolio, eppure questi "ambientalisti", che sostengono la necessità di sviluppare il nucleare come unica forma di energia pulita, mi pare dimentichino troppi aspetti, a partire da quello dello stoccaggio delle scorie. Dimenticano anche di dire che l'uranio è anch'esso una fonte esauribile e che se davvero si facessero tutte le centrali che i costruttori di centrali sperano di realizzare le scorte del pianeta sarebbero destinate a finire entro pochi decenni. Il nostro capo del governo, convinto nuclearista, ha annunciato una campagna di informazione radio-televisiva per spiegarci quanto è utile il nucleare. Nell'attesa della "pubblicità progresso" a favore dell'atomo, mi sembra utile raccontare quello che sta succedendo adesso in Africa.
Il Niger è uno dei più importanti produttori mondiali di uranio. In questo paese africano, uno dei più poveri del mondo, all'ultimo posto secondo i parametri fissati dallo Human Development Index, il maggior concessionario impegnato nello sfruttamento delle miniere di uranio è la società francese Areva, il cui maggior azionista, con il 90% delle quote, è lo stesso Tesoro francese. Da anni Areva sfrutta alcune miniere intorno alle città di Akokan a di Arlit, a circa 850 chilometri a norest della capitale Niamey. Nonostante Areva si sia impegnata a bonificare l'area di queste due città, dove vivono oltre 80 mila persone, i risultati delle ultime analisi sono sconfortanti: nell'aria di Akokan è stata registrata una concentrazione di radon, un gas naturale tossico, 500 volte superiore a quella normale, anche perché le pietre utilizzate per la costruzione delle strade vengono dallo scarto radioattivo della produzione mineraria; ad arlit l'80% dei campioni di acqua analizzata registra livelli di tossicità superiori ai limiti fissati dall'organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo gli ultimi studi chi trascorresse meno di un'ora al giorno in queste due città sarebbe esposto a una quantità di radiazioni superiore a quella annuale fissata come limite dalla International Commission on Radiological protection, che è il limite accolto dalla legislazioni di molti paesi. Per intenderci, per legge nessun cittadino francese potrebbe vivere esposto a queste concentrazioni di radiazioni - e, fortunatamente per loro, nessuno lo è, neppure chi vive a fianco di una delle tante centrali nucleari che ci sono in Francia - ma i cittadini di Akokan e Arlit vivono ogni giorno esposte a queste radiazioni, per garantire l'energia "pulita" alle famiglie francesi. Inoltre l'attività estrattiva richiede moltissima acqua, ma in quella regione del Niger le risorse idriche sono già scarse e quindi la presenza delle miniere ha di fatto cancellato ogni forma di agricoltura e di allevamento, costringendo molte popolazioni che vivevano lì, come i Tuareg, i Kounta, i Fula, a cercare nuove terre.
I dati sono ben conosciuti dalle autorità nigerine, così come gli effetti sull'economia, ma le compagnie occidentali sono troppo potenti e così tra qualche anno Areva aprirà una terza grande miniera a Imouraren, che potrebbe rimanere attiva per circa 35 anni, con un effetto devastante sul territorio. Solo nel 2009 il governo di Niamey ha autorizzato l'avvio di 139 progetti di ricerca dell'uranio a compagnie canadesi, cinesi e australiane. Se mai torneremo a costruire centrali nucleari nel nostro paese quasi certamente una parte dell'uranio verrà da qui.
Naturalmente non c'è solo il Niger. Tra il 2006 e il 2009 sono state aperte nuove miniere in Namibia, in Malawi, in Sudafrica. E nuove ne apriranno nella Repubblica Centrafricana, in Botswana e in molti altri paesi. In previsione dello sfruttamento delle miniere di uranio il governo del Botswana ha cacciato la popolazione dei Boscimani dalla regione del Kalahari. Le grandi compagnie hanno capito che l'effetto Chernobyl sta svanendo e sperano che il nucleare torni in molti paesi e si stanno preparando, grazie alla compiacenza - per non dir di peggio - dei governi africani.
Pensiamoci quando vedremo i prossimi spot sul nucleare energia pulita.
Il Niger è uno dei più importanti produttori mondiali di uranio. In questo paese africano, uno dei più poveri del mondo, all'ultimo posto secondo i parametri fissati dallo Human Development Index, il maggior concessionario impegnato nello sfruttamento delle miniere di uranio è la società francese Areva, il cui maggior azionista, con il 90% delle quote, è lo stesso Tesoro francese. Da anni Areva sfrutta alcune miniere intorno alle città di Akokan a di Arlit, a circa 850 chilometri a norest della capitale Niamey. Nonostante Areva si sia impegnata a bonificare l'area di queste due città, dove vivono oltre 80 mila persone, i risultati delle ultime analisi sono sconfortanti: nell'aria di Akokan è stata registrata una concentrazione di radon, un gas naturale tossico, 500 volte superiore a quella normale, anche perché le pietre utilizzate per la costruzione delle strade vengono dallo scarto radioattivo della produzione mineraria; ad arlit l'80% dei campioni di acqua analizzata registra livelli di tossicità superiori ai limiti fissati dall'organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo gli ultimi studi chi trascorresse meno di un'ora al giorno in queste due città sarebbe esposto a una quantità di radiazioni superiore a quella annuale fissata come limite dalla International Commission on Radiological protection, che è il limite accolto dalla legislazioni di molti paesi. Per intenderci, per legge nessun cittadino francese potrebbe vivere esposto a queste concentrazioni di radiazioni - e, fortunatamente per loro, nessuno lo è, neppure chi vive a fianco di una delle tante centrali nucleari che ci sono in Francia - ma i cittadini di Akokan e Arlit vivono ogni giorno esposte a queste radiazioni, per garantire l'energia "pulita" alle famiglie francesi. Inoltre l'attività estrattiva richiede moltissima acqua, ma in quella regione del Niger le risorse idriche sono già scarse e quindi la presenza delle miniere ha di fatto cancellato ogni forma di agricoltura e di allevamento, costringendo molte popolazioni che vivevano lì, come i Tuareg, i Kounta, i Fula, a cercare nuove terre.
I dati sono ben conosciuti dalle autorità nigerine, così come gli effetti sull'economia, ma le compagnie occidentali sono troppo potenti e così tra qualche anno Areva aprirà una terza grande miniera a Imouraren, che potrebbe rimanere attiva per circa 35 anni, con un effetto devastante sul territorio. Solo nel 2009 il governo di Niamey ha autorizzato l'avvio di 139 progetti di ricerca dell'uranio a compagnie canadesi, cinesi e australiane. Se mai torneremo a costruire centrali nucleari nel nostro paese quasi certamente una parte dell'uranio verrà da qui.
Naturalmente non c'è solo il Niger. Tra il 2006 e il 2009 sono state aperte nuove miniere in Namibia, in Malawi, in Sudafrica. E nuove ne apriranno nella Repubblica Centrafricana, in Botswana e in molti altri paesi. In previsione dello sfruttamento delle miniere di uranio il governo del Botswana ha cacciato la popolazione dei Boscimani dalla regione del Kalahari. Le grandi compagnie hanno capito che l'effetto Chernobyl sta svanendo e sperano che il nucleare torni in molti paesi e si stanno preparando, grazie alla compiacenza - per non dir di peggio - dei governi africani.
Pensiamoci quando vedremo i prossimi spot sul nucleare energia pulita.
lunedì 26 aprile 2010
"Confessione. Alle rovine dello Yuanmingyuan" di Yang Lian
nascita
possa questa pietra taciturna
testimoniare la mia nascita
possa questo canto
risuonare
nella nebbia fluttuante
in cerca dei miei occhi
dove si infrange la luce grigia
archi e colonne proiettano ombre
e ricordi più oscuri della terra bruciata
immobili come nell’estrema agonia
braccia tese convulsamente al cielo
come ultime volontà
consegnate al tempo
ultime volontà
divenute la maledizione della mia nascita
sono venuto tra queste rovine
in cerca di quella debole stella intempestiva
sola speranza che mi ha illuminato
destino – nuvole cieche
segnano impietosamente la mia anima
non per piangere la morte! non è la morte
che mi ha attratto verso questo mondo desolato
io resisto a tutta
la desolazione e la vergogna
le fasce del neonato
sono un sole incompatibile con la tomba
nella mia precoce solitudine
chi sa
a quale spiaggia porta questa strada
fosforescente che cantando va verso la notte
un orizzonte segreto
ondeggiando porta a galla sogni remoti
quasi infinitamente remoti
invece della meridiana spezzata sepolta nel fango
c’è solo il vento che alzando una canzone
indica la mia aurora
da "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci (VII)
20 maggio 1929
Cara Giulia,
chi ti ha detto che io possa scrivere di piú? Purtroppo non è vero. Posso scrivere solo due volte al mese e solo per Pasqua e Natale dispongo di una lettera straordinaria. Ti ricordi ciò che ti diceva Bianco, nel 23, quando partii? Bianco aveva ragione dal punto di vista della sua esperienza; avevo sempre avuto una invincibile avversione all’epistolografia. Da quando sono in carcere ho scritto almeno il doppio di lettere che nel periodo antecedente: devo aver scritto almeno 200 lettere, un vero orrore!
Cosí non è esatto che io non sia calmo. Sono invece piú che calmo, sono apatico e passivo. E non me ne maraviglio e neanche faccio uno sforzo qualsiasi per uscire dal marasma. D’altronde, forse questo è una forza e non uno stato di marasma. Ci sono stati dei lunghi periodi in cui mi sentivo molto isolato, tagliato fuori da ogni vita che non fosse la mia propria; soffrivo terribilmente; un ritardo di corrispondenza, l’assenza di risposte congrue a ciò che avevo domandato,
mi provocavano stati di irritazione che mi stancavano molto. Poi il tempo è passato e si è sempre piú allontanata la prospettiva del periodo anteriore; tutto ciò che di accidentale, di transitorio esisteva nella zona dei sentimenti e della volontà è andato via via scomparendo e sono rimasti solo i motivi essenziali e permanenti della vita. È naturale che ciò avvenisse, ti pare? Per qualche tempo non si può evitare che il passato e le immagini del passato siano dominanti, ma, in fondo, questo guardare sempre al passato finisce con l’essere incomodo e inutile. Io credo di aver superato la crisi che si produce in tutti, nei primi anni di carcere, e che spesso determina una netta rottura col passato, in senso radicale. A dire il vero, questa crisi l’ho sentita e vista negli altri, piú che in me stesso, mi ha fatto sorridere e questo era già un superamento. Io non avrei mai creduto che tanta gente avesse una cosí grande paura della morte; ebbene è proprio in questa paura che consiste la causa di tutti i fenomeni psicologici carcerari. In Italia dicono che uno diventa vecchio quando incomincia a pensare alla morte; mi pare una osservazione molto assennata. In carcere questa svolta psicologica si verifica appena il carcerato sente di essere preso nella morsa e di non poterle piú sfuggire: avviene un cambiamento rapido e radicale, tanto piú forte quanto piú fino a quel punto si era presa poco sul serio la propria vita di idee e di convinzioni. Io ne ho visto abbrutirsi in modo incredibile. E mi ha servito, come ai ragazzi spartani serviva il vedere la depravazione degli iloti.
Cosí adesso sono assolutamente calmo e non mi fa stare in ansia neanche la mancanza di notizie prolungata, sebbene sappia che ciò potrebbe essere evitato con un po’ di buona volontà… anche da parte tua. Poi Tania provvede a darmi tutte le notizie che riceve lei. Mi ha trasmesso, per esempio, le caratteristiche dei bambini fissate da tuo padre, che mi hanno interessato molto, per molti giorni. E altre notizie, commentate da lei con molta grazia. Bada che non voglio farti dei rimproveri! Ho riletto in questi giorni le tue lettere da un anno in qua e ciò mi ha fatto sentire nuovamente la tua tenerezza. Sai che quando ti scrivo, qualche volta mi pare di essere troppo secco e arcigno, in confronto a te che cosí naturalmente mi scrivi. Mi pare di essere come quando qualche volta ti ho fatto piangere, specialmente la prima volta, ti ricordi?, quando fui proprio cattivo per partito preso. Vorrei sapere cosa ti ha scritto Tania del suo viaggio a Turi. Perché mi pare che Tania concepisca la mia vita in modo troppo idillico e arcadico, tanto che mi tormenta non poco. Non riesce a persuadersi che io debbo stare entro certi limiti e che non deve mandarmi nulla che io non abbia domandato, perché non ho a mia disposizione un magazzino particolare. Adesso mi annunzia alcune cose, assolutamente inutili e che non potrò mai utilizzare, invece di attenersi strettamente a ciò che io le ho raccomandato. Ti mando due fotografie: la grande riproduce i due figli di mia sorella Teresina: Franco e Maria, l’altra mia madre con in braccio la stessa bambina un po’ piú grandicella. Mio padre sostiene che la bambina rassomiglia a Giuliano; io non sono in grado di giudicare. Certo il maschietto non rassomiglia a nessuno della mia famiglia: è il ritratto del padre, che è un sardo autentico, mentre noi siamo solo metà sardi: la bambina invece ha piú l’aria di famiglia. Qual’è il tuo giudizio?
Ho finito di leggere in questi giorni una storia della Russia del prof. Platonof, dell’ex Università di Pietroburgo, un grosso volume di circa 1000 pagine. Mi pare una vera truffa editoriale. Chi era questo prof. Platonof? Mi pare che la storiografia del passato fosse molto bassa, se questo prof. Platonof ne era uno dei corifei, come vedo scritto dal prof. Lo Gatto nei suoi lavori sulla cultura russa. Sull’origine delle città e del commercio russo al tempo dei Normanni ho letto una ventina di pagine dello storico belga Pirenne, che valgono tutta la zuppa di cavoli del Platonof. Il volume arriva solo fino al 1905 con due pagine supplementari fino all’abdicazione del granduca Michele e con in nota la data della morte di Nicola II, ma ha il titolo di Storia dalle origini fino al 1918: una doppia truffa, come vedi.
Cara Giulia, scrivimi sui commenti di Delio all’epistola che gli scrivo; ti abbraccio teneramente.
Antonio
Cara Giulia,
chi ti ha detto che io possa scrivere di piú? Purtroppo non è vero. Posso scrivere solo due volte al mese e solo per Pasqua e Natale dispongo di una lettera straordinaria. Ti ricordi ciò che ti diceva Bianco, nel 23, quando partii? Bianco aveva ragione dal punto di vista della sua esperienza; avevo sempre avuto una invincibile avversione all’epistolografia. Da quando sono in carcere ho scritto almeno il doppio di lettere che nel periodo antecedente: devo aver scritto almeno 200 lettere, un vero orrore!
Cosí non è esatto che io non sia calmo. Sono invece piú che calmo, sono apatico e passivo. E non me ne maraviglio e neanche faccio uno sforzo qualsiasi per uscire dal marasma. D’altronde, forse questo è una forza e non uno stato di marasma. Ci sono stati dei lunghi periodi in cui mi sentivo molto isolato, tagliato fuori da ogni vita che non fosse la mia propria; soffrivo terribilmente; un ritardo di corrispondenza, l’assenza di risposte congrue a ciò che avevo domandato,
mi provocavano stati di irritazione che mi stancavano molto. Poi il tempo è passato e si è sempre piú allontanata la prospettiva del periodo anteriore; tutto ciò che di accidentale, di transitorio esisteva nella zona dei sentimenti e della volontà è andato via via scomparendo e sono rimasti solo i motivi essenziali e permanenti della vita. È naturale che ciò avvenisse, ti pare? Per qualche tempo non si può evitare che il passato e le immagini del passato siano dominanti, ma, in fondo, questo guardare sempre al passato finisce con l’essere incomodo e inutile. Io credo di aver superato la crisi che si produce in tutti, nei primi anni di carcere, e che spesso determina una netta rottura col passato, in senso radicale. A dire il vero, questa crisi l’ho sentita e vista negli altri, piú che in me stesso, mi ha fatto sorridere e questo era già un superamento. Io non avrei mai creduto che tanta gente avesse una cosí grande paura della morte; ebbene è proprio in questa paura che consiste la causa di tutti i fenomeni psicologici carcerari. In Italia dicono che uno diventa vecchio quando incomincia a pensare alla morte; mi pare una osservazione molto assennata. In carcere questa svolta psicologica si verifica appena il carcerato sente di essere preso nella morsa e di non poterle piú sfuggire: avviene un cambiamento rapido e radicale, tanto piú forte quanto piú fino a quel punto si era presa poco sul serio la propria vita di idee e di convinzioni. Io ne ho visto abbrutirsi in modo incredibile. E mi ha servito, come ai ragazzi spartani serviva il vedere la depravazione degli iloti.
Cosí adesso sono assolutamente calmo e non mi fa stare in ansia neanche la mancanza di notizie prolungata, sebbene sappia che ciò potrebbe essere evitato con un po’ di buona volontà… anche da parte tua. Poi Tania provvede a darmi tutte le notizie che riceve lei. Mi ha trasmesso, per esempio, le caratteristiche dei bambini fissate da tuo padre, che mi hanno interessato molto, per molti giorni. E altre notizie, commentate da lei con molta grazia. Bada che non voglio farti dei rimproveri! Ho riletto in questi giorni le tue lettere da un anno in qua e ciò mi ha fatto sentire nuovamente la tua tenerezza. Sai che quando ti scrivo, qualche volta mi pare di essere troppo secco e arcigno, in confronto a te che cosí naturalmente mi scrivi. Mi pare di essere come quando qualche volta ti ho fatto piangere, specialmente la prima volta, ti ricordi?, quando fui proprio cattivo per partito preso. Vorrei sapere cosa ti ha scritto Tania del suo viaggio a Turi. Perché mi pare che Tania concepisca la mia vita in modo troppo idillico e arcadico, tanto che mi tormenta non poco. Non riesce a persuadersi che io debbo stare entro certi limiti e che non deve mandarmi nulla che io non abbia domandato, perché non ho a mia disposizione un magazzino particolare. Adesso mi annunzia alcune cose, assolutamente inutili e che non potrò mai utilizzare, invece di attenersi strettamente a ciò che io le ho raccomandato. Ti mando due fotografie: la grande riproduce i due figli di mia sorella Teresina: Franco e Maria, l’altra mia madre con in braccio la stessa bambina un po’ piú grandicella. Mio padre sostiene che la bambina rassomiglia a Giuliano; io non sono in grado di giudicare. Certo il maschietto non rassomiglia a nessuno della mia famiglia: è il ritratto del padre, che è un sardo autentico, mentre noi siamo solo metà sardi: la bambina invece ha piú l’aria di famiglia. Qual’è il tuo giudizio?
Ho finito di leggere in questi giorni una storia della Russia del prof. Platonof, dell’ex Università di Pietroburgo, un grosso volume di circa 1000 pagine. Mi pare una vera truffa editoriale. Chi era questo prof. Platonof? Mi pare che la storiografia del passato fosse molto bassa, se questo prof. Platonof ne era uno dei corifei, come vedo scritto dal prof. Lo Gatto nei suoi lavori sulla cultura russa. Sull’origine delle città e del commercio russo al tempo dei Normanni ho letto una ventina di pagine dello storico belga Pirenne, che valgono tutta la zuppa di cavoli del Platonof. Il volume arriva solo fino al 1905 con due pagine supplementari fino all’abdicazione del granduca Michele e con in nota la data della morte di Nicola II, ma ha il titolo di Storia dalle origini fino al 1918: una doppia truffa, come vedi.
Cara Giulia, scrivimi sui commenti di Delio all’epistola che gli scrivo; ti abbraccio teneramente.
Antonio
sabato 24 aprile 2010
per il 25 aprile...
Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano.
da "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino
venerdì 23 aprile 2010
"Gioia del sogno" di Juan Ramón Jiménez
giovedì 22 aprile 2010
Considerazioni libere (103): a proposito di case e di ferrovie...
In questi giorni in Kenya, in particolare nelle vaste periferie della sua capitale Nairobi si sta consumando, nell'indifferenza dell'opinione pubblica, l'allontanamento di migliaia di persone che vivevano lì da anni. La legittima necessità di potenziare il sistema stradale e ferroviario del paese e la volontà, per molte ragioni giustificata, di allontanare le persone che vivono sotto le linee elettriche hanno spinto il governo ad avviare un grande piano di demolizioni, dalle conseguenze sociali drammatiche e per ora difficilmente prevedibili.
Attualmente a Nairobi più di due milioni di persone - circa il 55% della popolazione totale della città - vivono in 168 insediamenti, che rappresentano però soltanto il 5% della superficie totale della città: questa convivenza forzata, con un'altissima densità demografica, prova grandi problemi dal punto di vista igienico e sanitario. Questi insediamenti sono nati per l'incapacità dei vari governi di affrontare il problema della realizzazione di residenze a basso costo per i poveri; per questa ragione, negli ultimi trent'anni migliaia di residenti hanno invaso le poche terre libere, incluse quelle poste ai lati delle strade, delle linee ferroviarie, dei servizi pubblici, creando delle strutture semi-permanenti. Nel corso degli anni la maggior parte delle famiglie che possiedono degli edifici in queste zone hanno pagato una “tassa” all’amministrazione locale o ai "capi-villaggio" o alla stessa polizia, in cambio di un permesso, più o meno ufficiale, per occupare gli spazi dove vivono. Fino al febbraio del 2004 anche la compagnia dei trasporti ferroviari, la Kenya Railways, ha emesso ricevute per gli "affitti" pagati dalle famiglie che occupavano pezzi di terreno nei corridoi operativi della rete ferroviaria. Evidentamente si tratta di una situazione dai rischi sociali altissimi, ma la soluzione rischia di essere peggiore del male.
Il 21 marzo scorso la stessa Kenya Railways ha pubblicato un annuncio sulla stampa, intimando alle circa 50.000 persone che vivono in una fascia di 30 metri su entrambi i lati della ferrovia, di abbandonare entro 30 giorni le loro case, pena la denuncia se non lo faranno. Trascorso questo periodo, le abitazioni, così come i banchi e le povere attività economiche saranno demolite. Né la Kenya Railways né il governo kenyota hanno offerto a queste persone una sistemazione alternativa dove vivere. Il loro accesso, già estremamente precario, all'acqua potabile e ai servizi igienici sarà ulteriormente compromesso, così come la possibilità di avere servizi sanitari e scolastici. Trenta giorni sono troppo pochi per trovare una nuova soluzione e fatalmente queste persone si trasferiranno in aree già occupate, creando tensioni con gli occupanti precedenti. Da parte delle autorità è mancato qualsiasi tipo di coinvolgimento della popolazione, che è stata semplicemente informata del futuro sgombero e naturalmente c'è il rischio che chi eseguirà gli sfratti, che sia la polizia o personale privato incaricato dalla Kenya Railways, non rispetti i diritti di queste persone.
Questo non è progresso.
Attualmente a Nairobi più di due milioni di persone - circa il 55% della popolazione totale della città - vivono in 168 insediamenti, che rappresentano però soltanto il 5% della superficie totale della città: questa convivenza forzata, con un'altissima densità demografica, prova grandi problemi dal punto di vista igienico e sanitario. Questi insediamenti sono nati per l'incapacità dei vari governi di affrontare il problema della realizzazione di residenze a basso costo per i poveri; per questa ragione, negli ultimi trent'anni migliaia di residenti hanno invaso le poche terre libere, incluse quelle poste ai lati delle strade, delle linee ferroviarie, dei servizi pubblici, creando delle strutture semi-permanenti. Nel corso degli anni la maggior parte delle famiglie che possiedono degli edifici in queste zone hanno pagato una “tassa” all’amministrazione locale o ai "capi-villaggio" o alla stessa polizia, in cambio di un permesso, più o meno ufficiale, per occupare gli spazi dove vivono. Fino al febbraio del 2004 anche la compagnia dei trasporti ferroviari, la Kenya Railways, ha emesso ricevute per gli "affitti" pagati dalle famiglie che occupavano pezzi di terreno nei corridoi operativi della rete ferroviaria. Evidentamente si tratta di una situazione dai rischi sociali altissimi, ma la soluzione rischia di essere peggiore del male.
Il 21 marzo scorso la stessa Kenya Railways ha pubblicato un annuncio sulla stampa, intimando alle circa 50.000 persone che vivono in una fascia di 30 metri su entrambi i lati della ferrovia, di abbandonare entro 30 giorni le loro case, pena la denuncia se non lo faranno. Trascorso questo periodo, le abitazioni, così come i banchi e le povere attività economiche saranno demolite. Né la Kenya Railways né il governo kenyota hanno offerto a queste persone una sistemazione alternativa dove vivere. Il loro accesso, già estremamente precario, all'acqua potabile e ai servizi igienici sarà ulteriormente compromesso, così come la possibilità di avere servizi sanitari e scolastici. Trenta giorni sono troppo pochi per trovare una nuova soluzione e fatalmente queste persone si trasferiranno in aree già occupate, creando tensioni con gli occupanti precedenti. Da parte delle autorità è mancato qualsiasi tipo di coinvolgimento della popolazione, che è stata semplicemente informata del futuro sgombero e naturalmente c'è il rischio che chi eseguirà gli sfratti, che sia la polizia o personale privato incaricato dalla Kenya Railways, non rispetti i diritti di queste persone.
Questo non è progresso.
"Matteotti: eroe tutto prosa" di Carlo Rosselli
Matteotti è diventato il simbolo dell'antifascismo e dell'eroismo antifascista. In qualunque riunione si faccia il suo nome, il pubblico balza in piedi o applaude.
Comitati Matteotti, Fondi Matteotti, Circoli Matteotti, Case Matteotti. Matteotti, come l'ombra di Banco, accompagna Mussolini. E Mussolini lo sa.
Eppure, nessun uomo fu meno simbolo, meno "eroe", nel senso usuale dell'espressione, di Matteotti.
Gli mancavano per questo le doti di popolarità, di oratoria, di facilità che creano nel popolo il feticcio; e la sua vita breve non registra neppure uno di quei gesti drammatici che colpiscono la fantasia e promuovono ad "eroe" il semplice mortale.
Matteotti possedeva però in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d'un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava. Quando lo conobbi a Torino, insieme a Gobetti, ricordo che entrambi rimanemmo colpiti dalla sua serietà e dal suo stile antiretorico e ci comunicammo la nostra impressione. Era magro, smilzo nella persona,non assumeva pose gladiatorie, rideva volentieri, ma da tutto il suo atteggiamento e soprattutto da certe sue dichiarazioni brevi si sprigionava una grande energia.
L'antifascismo era in Matteotti un fatto istintivo, intimo, d'ordine morale prima che politico. Tra lui e i fascisti correva una differenza di razza e di clima.
Due mondi, due concezioni opposte della vita. In questo senso egli poteva dirsi veramente l'anti-Mussolini.
Le astuzie tattiche e oratorie di Mussolini restavano senza presa su Matteotti. Quando Mussolini parlava alla Camera entrando in quello stato di eccitazione morbosa che pare contraddistingua la sua oratoria e possa esercitare un fascino magnetico, Matteotti, pessimo medium, restava impenetrabile e ai passaggi goffi rideva col suo riso un po' stridulo e nervoso.
Quando invece era Matteotti a parlare, Mussolini gettava fiamme dagli occhi.
Eppure Matteotti non era eloquente; o per lo meno la sua eloquenza era tutto l'opposto dell'oratoria tradizionale socialista. Ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente. Metodo salveminiano. Quando affermava, provava.
Niente esasperò più i fascisti del metodo di analisi di Matteotti che sgonfiava un dopo l'altro tutti i loro palloni retorici.
"Abbiamo lasciato 3.000 morti per le strade d'Italia", tuonava Mussolini. "Pardon, 144, secondo il vostro giornale", replicava Matteotti.
"Il fascismo ha messo fine agli scioperi. Le ferrovie camminano. L'autorità dello Stato è stata restaurata". Matteotti, tra la stupefazione dei fascisti, interrompeva per rinfacciare al duce gli articoli del '19-20 inneggianti agli scioperi, alla invasione delle fabbriche,delle terre, dei negozi.
Dopo la famosa requisitoria di Matteotti contro i metodi elettorali fascisti (maggio 1924) gridata alla Camera tra altissime minacce e interruzioni, Mussolini pubblicò il 3 giugno sul "Popolo d'Italia" il seguente corsivo: "Mussolini ha trovato fin troppo longanime la condotta della maggioranza, perché l'On. Matteotti ha tenuto un discorso mostruosamente provocatorio che avrebbe meritato qualche cosa di più tangibile che l'epiteto "masnada" lanciato dall'On. Giunta".
L'8 giugno il giornale dichiarava che "Matteotti è una molecola di questa masnada che una mossa energica del Duce penserà a spazzare".
Il 10 giugno Dumini, Volpi e Putato spazzavano....
Il 3 gennaio 1925 Mussolini dichiarava: "Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa cranerie, un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere la tesi?".
Due cose colpiscono in questa disperata difesa: il "morbosa follia" che tocca uno degli aspetti della personalità mussoliniana (Mussolini è intelligentissimo, ma la sua intelligenza si innesta su un fondo psicopatico), ed il "mi rassomigliava". Dopo l'assassinio, Mussolini è stato costretto ad ammirare Matteotti. Ma Matteotti ha sempre disprezzato Mussolini.
Il socialismo di Matteotti fu una cosa estremamente seria. Non l'avventura del giovane borghese eretico che è rivoluzionario a venti anni, radicale a trenta (matrimonio più carriera), forcaiolo a quaranta. No. Fu una consapevole e maschia elezione del destino.
Nato ricco, dovette superare le difficoltà che ai socialisti ricchi giustamente si oppongono. Non lo superò con le sparate demagogiche, con le rinunce mistiche, o profondendo denari in banchetti elettorali o in paternalismi cooperativi e sindacali. Ma partecipando in persona prima al moto di emancipazione proletaria, costituendo libere istituzioni operaie, organizzando i contadini delle sue terre ai quali dirigeva manifesti di una sobrietà che era poco in uso attorno al '19.
Solo a un temperamento del suo stampo poteva venire in mente, nel corso delle elezioni del 1924, di scendere in Piazza Colonna con un pentolino di colla ad appiccicare sotto il naso dei fascisti i manifesti elettorali del partito che erano stati tutti stracciati. Matteotti, l'economista, il giurista, il ricco Matteotti appiccicava manifesti, scorazzava l'Italia per mettere in piedi le traballanti organizzazioni. Saltava dai treni, si travestiva per sottrarsi agli inseguimenti fascisti, prendeva con disinvoltura le bastonate e, nel pieno della lotta, faceva una punta a Asolo per i funerali della Duse, rientrando poi in camion coi fascisti, perché cosi spiegò, gli pareva giusto che il proletariato italiano fosse rappresentato ai funerali della Duse.
Quanto al camion fascista era stato necessario servirsene per essere presente a una adunanza del partito.
Se i fascisti lo avessero riconosciuto sarebbe stata la fine. Ma Matteotti scherzava ormai con la morte, con grande orrore dei compagni posapiano.
Era fatale quindi che morisse l'antifascista-tipo Matteotti, eroe tutto prosa. Come dovevano morire nello stesso torno di tempo Amendola e Gobetti. Come dovranno morire, se non li salveremo, Rossi, Gramsci, Bauer e molti altri Matteotti che si sono formati in questi anni. Tutti caratteri, psicologie, che sono l'opposto del carattere e della sensibilità mussoliniana.
Mussolini sente, sa quali sono i suoi autentici avversari. Ha il fiuto dell'oppositore. Imbattibile con uomini del suo stampo. singolarmente impotente con uomini che sfuggono al suo orizzonte mentale. Perciò li sopprime.
Uccidendo Matteotti ha indicato all'antifascismo quali debbono essere le sue preoccupazioni costanti e supreme: il carattere; l'antirettorica; l'azione.
dall'Almanacco Socialista 1934
Comitati Matteotti, Fondi Matteotti, Circoli Matteotti, Case Matteotti. Matteotti, come l'ombra di Banco, accompagna Mussolini. E Mussolini lo sa.
Eppure, nessun uomo fu meno simbolo, meno "eroe", nel senso usuale dell'espressione, di Matteotti.
Gli mancavano per questo le doti di popolarità, di oratoria, di facilità che creano nel popolo il feticcio; e la sua vita breve non registra neppure uno di quei gesti drammatici che colpiscono la fantasia e promuovono ad "eroe" il semplice mortale.
Matteotti possedeva però in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d'un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava. Quando lo conobbi a Torino, insieme a Gobetti, ricordo che entrambi rimanemmo colpiti dalla sua serietà e dal suo stile antiretorico e ci comunicammo la nostra impressione. Era magro, smilzo nella persona,non assumeva pose gladiatorie, rideva volentieri, ma da tutto il suo atteggiamento e soprattutto da certe sue dichiarazioni brevi si sprigionava una grande energia.
L'antifascismo era in Matteotti un fatto istintivo, intimo, d'ordine morale prima che politico. Tra lui e i fascisti correva una differenza di razza e di clima.
Due mondi, due concezioni opposte della vita. In questo senso egli poteva dirsi veramente l'anti-Mussolini.
Le astuzie tattiche e oratorie di Mussolini restavano senza presa su Matteotti. Quando Mussolini parlava alla Camera entrando in quello stato di eccitazione morbosa che pare contraddistingua la sua oratoria e possa esercitare un fascino magnetico, Matteotti, pessimo medium, restava impenetrabile e ai passaggi goffi rideva col suo riso un po' stridulo e nervoso.
Quando invece era Matteotti a parlare, Mussolini gettava fiamme dagli occhi.
Eppure Matteotti non era eloquente; o per lo meno la sua eloquenza era tutto l'opposto dell'oratoria tradizionale socialista. Ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente. Metodo salveminiano. Quando affermava, provava.
Niente esasperò più i fascisti del metodo di analisi di Matteotti che sgonfiava un dopo l'altro tutti i loro palloni retorici.
"Abbiamo lasciato 3.000 morti per le strade d'Italia", tuonava Mussolini. "Pardon, 144, secondo il vostro giornale", replicava Matteotti.
"Il fascismo ha messo fine agli scioperi. Le ferrovie camminano. L'autorità dello Stato è stata restaurata". Matteotti, tra la stupefazione dei fascisti, interrompeva per rinfacciare al duce gli articoli del '19-20 inneggianti agli scioperi, alla invasione delle fabbriche,delle terre, dei negozi.
Dopo la famosa requisitoria di Matteotti contro i metodi elettorali fascisti (maggio 1924) gridata alla Camera tra altissime minacce e interruzioni, Mussolini pubblicò il 3 giugno sul "Popolo d'Italia" il seguente corsivo: "Mussolini ha trovato fin troppo longanime la condotta della maggioranza, perché l'On. Matteotti ha tenuto un discorso mostruosamente provocatorio che avrebbe meritato qualche cosa di più tangibile che l'epiteto "masnada" lanciato dall'On. Giunta".
L'8 giugno il giornale dichiarava che "Matteotti è una molecola di questa masnada che una mossa energica del Duce penserà a spazzare".
Il 10 giugno Dumini, Volpi e Putato spazzavano....
Il 3 gennaio 1925 Mussolini dichiarava: "Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa cranerie, un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere la tesi?".
Due cose colpiscono in questa disperata difesa: il "morbosa follia" che tocca uno degli aspetti della personalità mussoliniana (Mussolini è intelligentissimo, ma la sua intelligenza si innesta su un fondo psicopatico), ed il "mi rassomigliava". Dopo l'assassinio, Mussolini è stato costretto ad ammirare Matteotti. Ma Matteotti ha sempre disprezzato Mussolini.
Il socialismo di Matteotti fu una cosa estremamente seria. Non l'avventura del giovane borghese eretico che è rivoluzionario a venti anni, radicale a trenta (matrimonio più carriera), forcaiolo a quaranta. No. Fu una consapevole e maschia elezione del destino.
Nato ricco, dovette superare le difficoltà che ai socialisti ricchi giustamente si oppongono. Non lo superò con le sparate demagogiche, con le rinunce mistiche, o profondendo denari in banchetti elettorali o in paternalismi cooperativi e sindacali. Ma partecipando in persona prima al moto di emancipazione proletaria, costituendo libere istituzioni operaie, organizzando i contadini delle sue terre ai quali dirigeva manifesti di una sobrietà che era poco in uso attorno al '19.
Solo a un temperamento del suo stampo poteva venire in mente, nel corso delle elezioni del 1924, di scendere in Piazza Colonna con un pentolino di colla ad appiccicare sotto il naso dei fascisti i manifesti elettorali del partito che erano stati tutti stracciati. Matteotti, l'economista, il giurista, il ricco Matteotti appiccicava manifesti, scorazzava l'Italia per mettere in piedi le traballanti organizzazioni. Saltava dai treni, si travestiva per sottrarsi agli inseguimenti fascisti, prendeva con disinvoltura le bastonate e, nel pieno della lotta, faceva una punta a Asolo per i funerali della Duse, rientrando poi in camion coi fascisti, perché cosi spiegò, gli pareva giusto che il proletariato italiano fosse rappresentato ai funerali della Duse.
Quanto al camion fascista era stato necessario servirsene per essere presente a una adunanza del partito.
Se i fascisti lo avessero riconosciuto sarebbe stata la fine. Ma Matteotti scherzava ormai con la morte, con grande orrore dei compagni posapiano.
Era fatale quindi che morisse l'antifascista-tipo Matteotti, eroe tutto prosa. Come dovevano morire nello stesso torno di tempo Amendola e Gobetti. Come dovranno morire, se non li salveremo, Rossi, Gramsci, Bauer e molti altri Matteotti che si sono formati in questi anni. Tutti caratteri, psicologie, che sono l'opposto del carattere e della sensibilità mussoliniana.
Mussolini sente, sa quali sono i suoi autentici avversari. Ha il fiuto dell'oppositore. Imbattibile con uomini del suo stampo. singolarmente impotente con uomini che sfuggono al suo orizzonte mentale. Perciò li sopprime.
Uccidendo Matteotti ha indicato all'antifascismo quali debbono essere le sue preoccupazioni costanti e supreme: il carattere; l'antirettorica; l'azione.
dall'Almanacco Socialista 1934
martedì 20 aprile 2010
"L'avere" di Vinícius de Moraes
Resta, al sommo di tutto, questa capacità di tenerezza
Questa perfetta intimità con il silenzio
Resta questa voce intima che chiede perdono di tutto:
- Pietà! perché essi non hanno colpa d’esser nati…
Resta quest’antico rispetto per la notte, questo parlar fioco
Questa mano che tasta prima di stringere, questo timore
Di ferire toccando, questa forte mano d’uomo
Piena di dolcezza verso tutto ciò che esiste.
Resta quest’immobilità, questa economia di gesti
Quest’inerzia ogni volta maggiore di fronte all’infinito
Questa balbuzie infantile di chi vuol esprimere l’inesprimibile
Questa irriducibile ricusa della poesia non vissuta.
Resta questa comunione con i suoni, questo sentimento
Di materia in riposo, questa angustia della simultaneità
Del tempo, questa lenta decomposizione poetica
In cerca d’una sola vita, una sola morte, un solo Vinícius.
Resta questo cuore che brucia come un cero
In una cattedrale in rovina, questa tristezza
Davanti al quotidiano; o quest’improvvisa allegria
Di sentir passi nella notte che si perdono senza memoria…
Resta questa voglia di piangere davanti alla bellezza
Questa collera di fronte all’ingiustizia e all’equivoco
Questa immensa pena di se stesso, questa immensa
Pena di se stesso e della sua forza inutile.
Resta questo sentimento dell’infanzia sventrato
Di piccole assurdità, questa sciocca capacità
Di rider per niente, questo ridicolo desiderio d’esser utile
E questo coraggio di compromettersi senza necessità.
Resta questa distrazione, questa disponibilità, questa vaghezza
Di chi sa che tutto è già stato come è nel tornar ad essere
E allo stesso tempo questa volontà di servire, questa contemporaneità
Con il domani di quelli che non ebbero ieri né oggi.
Resta questa incoercibile facoltà di sognare
Di trasformare la realtà, dentro questa incapacità
Di non accettarla se non come è, e quest’ampia visione
Degli avvenimenti, e questa impressionante
E non necessaria prescienza, e questa memoria anteriore
Di mondi inesistenti, e questo eroismo
Statico, e questa piccolissima luce indecifrabile
Cui i poeti a volte danno il nome di speranza.
Resta questo desiderio di sentirsi uguale a tutti
Di riflettersi in sguardi senza curiosità e senza storia
Resta questa povertà intrinseca, questa vanità
Di non voler essere principe se non del proprio regno.
Resta questo dialogo quotidiano con la morte, questa curiosità
Di fronte al momento a venire, quando, di fretta
Ella verrà a socchiudermi la porta come una vecchia amante
Senza sapere che è la mia ultima innamorata.
domenica 18 aprile 2010
Considerazioni libere (102): a proposito di una montagna sacra e di una miniera...
I Dongria Kondh sono circa 8.000 persone e vivono sulle colline di Niyamgiri, nello stato indiano di Orissa, nella parte orientale del paese: sono una delle tribù più isolate del continente indiano e vivono in piccoli villaggi disseminati lungo i pendii delle colline, un territorio di grande bellezza, dominato dalle foreste, in cui si trovano molte specie di animali, tra cui tigri, elefanti e leopardi. Con la loro religione e con il loro stile di vita hanno contribuito, da secoli, a tenere in vita questo delicato sistema ecologico, alimentando le dense foreste dell’area e proteggendo la sua ricchissima fauna. Infatti i Dongria Kondh si sono dati il nome di Jharnia, ovvero "protettori dei torrenti", perché a loro spetta il compito, sacro secondo la loro religione, di proteggere la montagna Niyam Dongar e i fiumi che sgorgano dalle sue foreste. Secondo la religione dei Dongria Kondh la cima di questa montagna è la dimora del loro dio e quindi un luogo sacro, da proteggere.
Ora la multinazionale inglese Vedanta Resources ha progettato di aprire un'imponente miniera di bauxite proprio sulla cima di quella montagna, con conseguenze devastanti per quel piccolo popolo. Conseguenze non solo materiali, ma anche culturali e religiose.
La Vedanta ha già in attività una miniera di bauxite e una raffineria di alluminio ai piedi della collina. Altri gruppi Kondh stanno già subendo gli effetti dell'inquinamento provocati da queste attività. Molte famiglie sono state sfrattate per far posto alla raffineria e ora non hanno né casa né la possibilità di coltivare la terra. La raffineria inquina l'aria e l'acqua del fiume, un bene fondamentale per quella popolazione. Naturalmente sono i più poveri, specialmente i paria e le donne, coloro che stanno soffrendo di più per questa situazione, quelli che ricavavano il loro sostentamento dalla terra e dal fiume. "Una volta ci lavavamo nel fiume, ma ora ho paura di portarci i miei figli. Entrambi hanno avuto vesciche e irritazioni cutanee", ha raccontato una madre alle organizzazioni che stanno lottando per difendere i diritti dei Kondh. Nonostante queste testimonianze, che raccontano anche di epidemie tra il bestiame e di danni ai raccolti, e nonostante la commissione per il controllo dell’inquinamento del governo dello Stato di Orissa abbia dichiarato che le emissioni chimiche provenienti dalla raffineria sono "continue e allarmanti", la Vedanta ha in progetto di aumentare fino a sei volte l'attività della raffineria e appunto di aprire una nuova miniera sulla cima della montagna sacra, che si è rivelata ricca del prezioso minerale.
La Corte Suprema indiana ha approvato il progetto e naturalmente la Vedanta si sta facendo forte di questa sentenza, nonostante le resistenzze della popolazione. Probabilmente la necessità di aumentare la ricchezza del paese e la volontà di non scontetare un così importante investitore, ha fatto velo rispetto alla necessità di tutelare una popolazione, la sua cultura e la sue religione. Una delle condizioni imposte dalla Corte è stata la destinazione di parte dei profitti minerari a progetti di "sviluppo tribale". Ma i Dongria Kondh sostengono che non ci può essere risarcimento che possa compensare la perdita della loro montagna sacra, con tutto ciò che questo comporta: la distruzione di un ambiente e di una cultura assolutamente unici. I rappresentanti della comunità sono decisi a combattere: "La miniera porta profitti solamente ai ricchi. Se la compagnia distruggerà la nostra montagna e le nostre foreste per soldi, noi diventeremo tutti mendicanti. Noi non vogliamo la miniera e non vogliamo alcun tipo di aiuto da parte della compagnia".
Una commisisone dell’OCSE ha indagato sulle attività della compagnia inglese e ha concluso che Vedanta aveva mancato di "rispetto dei diritti umani" nei confronti dei Dongria Kondh; la commissione concludeva il suo rapporto definendo "essenziale" un cambiamento d’atteggiamento della compagnia. L'azione di organizzazioni come Survival e Amnesty International e la decisione della chiesa anglicana di condannare l'azione della Vedanta e di vendere le proprie azioni della compagnia, perché incompatibili con i valori etici della chiesa, ha spinto il governo britannico ad avviare un'indagine e nelle sue conclusioni, pubblicate nel mese di marzo di quest'anno, ha di fatto ribadito le critiche delle organizzazioni umanitarie e dell'Ocse. La Vedanta ha dichiarato di non accettare il giudizio del governo inglese in quanto la compagnia sarebbe "prevalentemente indiano, in termini sia di proprietà che di struttura direttiva"; la Vedanta, pur essendo di proprietà di un uomo di affari indiano, è una compagnia britannica, costituita nel Regno Unito allo scopo di essere quotata alla borsa londinese e quindi sottoposta alle leggi che regolano le compagnie britanniche.
Speriamo che la lotta dei Dongria Kondh sia alla fine vittoriosa, ma per questo è necessario che questa storia sia raccontata, raccontata e ancora raccontata.
Ora la multinazionale inglese Vedanta Resources ha progettato di aprire un'imponente miniera di bauxite proprio sulla cima di quella montagna, con conseguenze devastanti per quel piccolo popolo. Conseguenze non solo materiali, ma anche culturali e religiose.
La Vedanta ha già in attività una miniera di bauxite e una raffineria di alluminio ai piedi della collina. Altri gruppi Kondh stanno già subendo gli effetti dell'inquinamento provocati da queste attività. Molte famiglie sono state sfrattate per far posto alla raffineria e ora non hanno né casa né la possibilità di coltivare la terra. La raffineria inquina l'aria e l'acqua del fiume, un bene fondamentale per quella popolazione. Naturalmente sono i più poveri, specialmente i paria e le donne, coloro che stanno soffrendo di più per questa situazione, quelli che ricavavano il loro sostentamento dalla terra e dal fiume. "Una volta ci lavavamo nel fiume, ma ora ho paura di portarci i miei figli. Entrambi hanno avuto vesciche e irritazioni cutanee", ha raccontato una madre alle organizzazioni che stanno lottando per difendere i diritti dei Kondh. Nonostante queste testimonianze, che raccontano anche di epidemie tra il bestiame e di danni ai raccolti, e nonostante la commissione per il controllo dell’inquinamento del governo dello Stato di Orissa abbia dichiarato che le emissioni chimiche provenienti dalla raffineria sono "continue e allarmanti", la Vedanta ha in progetto di aumentare fino a sei volte l'attività della raffineria e appunto di aprire una nuova miniera sulla cima della montagna sacra, che si è rivelata ricca del prezioso minerale.
La Corte Suprema indiana ha approvato il progetto e naturalmente la Vedanta si sta facendo forte di questa sentenza, nonostante le resistenzze della popolazione. Probabilmente la necessità di aumentare la ricchezza del paese e la volontà di non scontetare un così importante investitore, ha fatto velo rispetto alla necessità di tutelare una popolazione, la sua cultura e la sue religione. Una delle condizioni imposte dalla Corte è stata la destinazione di parte dei profitti minerari a progetti di "sviluppo tribale". Ma i Dongria Kondh sostengono che non ci può essere risarcimento che possa compensare la perdita della loro montagna sacra, con tutto ciò che questo comporta: la distruzione di un ambiente e di una cultura assolutamente unici. I rappresentanti della comunità sono decisi a combattere: "La miniera porta profitti solamente ai ricchi. Se la compagnia distruggerà la nostra montagna e le nostre foreste per soldi, noi diventeremo tutti mendicanti. Noi non vogliamo la miniera e non vogliamo alcun tipo di aiuto da parte della compagnia".
Una commisisone dell’OCSE ha indagato sulle attività della compagnia inglese e ha concluso che Vedanta aveva mancato di "rispetto dei diritti umani" nei confronti dei Dongria Kondh; la commissione concludeva il suo rapporto definendo "essenziale" un cambiamento d’atteggiamento della compagnia. L'azione di organizzazioni come Survival e Amnesty International e la decisione della chiesa anglicana di condannare l'azione della Vedanta e di vendere le proprie azioni della compagnia, perché incompatibili con i valori etici della chiesa, ha spinto il governo britannico ad avviare un'indagine e nelle sue conclusioni, pubblicate nel mese di marzo di quest'anno, ha di fatto ribadito le critiche delle organizzazioni umanitarie e dell'Ocse. La Vedanta ha dichiarato di non accettare il giudizio del governo inglese in quanto la compagnia sarebbe "prevalentemente indiano, in termini sia di proprietà che di struttura direttiva"; la Vedanta, pur essendo di proprietà di un uomo di affari indiano, è una compagnia britannica, costituita nel Regno Unito allo scopo di essere quotata alla borsa londinese e quindi sottoposta alle leggi che regolano le compagnie britanniche.
Speriamo che la lotta dei Dongria Kondh sia alla fine vittoriosa, ma per questo è necessario che questa storia sia raccontata, raccontata e ancora raccontata.
sabato 17 aprile 2010
da "Elogio della pazzia" di Erasmo da Rotterdam
Ma per non seguitar all'infinito e per offrirvi il succo della cosa, a parer mio tutta la religione cristiana ha una specie di parentela con la pazzia e non va punto d'accordo con la sapienza. Ne volete le prove? Osservate anzitutto che quelli che piú trovano piacere nelle funzioni sacre e in tutte le cose di religione, che si strofinano sempre agli altari sono ragazzi, vecchi, donne, ignoranti. È madre natura che ve li spinge, si sa; nient'altro. In secondo luogo vedete tutti quei primi fondatori di religione: costoro abbracciavano una vita di straordinaria semplicità ed erano della cultura nemici irriconciliabili. Infine non si trovano pazzi piú dissennati di coloro che si son lasciati prendere una volta da ardore di pietà cristiana: eccoli profondere i loro averi, non curarsi di offese, lasciarsi ingannare, non far differenza fra amici e nemici, aver in orrore il piacere, ingrassare a forza di digiuni, veglie, lagrime, lavori e ingiurie, aver in uggia la vita, non bramar che la morte; in una parola son diventati pare assolutamente ottusi ad ogni senso comune, come se il loro animo vivesse altrove non dentro il corpo. E questa che cos'altro è se non pazzia? Non c'è da meravigliarsi se gli Apostoli sembravano briachi di vin dolce o se san Paolo parve addirittura al giudice Festo un pazzo. Ma poiché ho indossato ormai la pelle del leone, orsú facciamo vedere anche questo, che tutta la sognata felicità dei cristiani, quella felicità cui aspirano con tanti travagli, non è altro - mi si perdoni la parola, si consideri piuttosto la cosa - che una specie di pazzia e dissennatezza. Anzitutto sono all'incirca d'accordo cristiani e platonici che l'anima umana è immersa nel corpo e ad esso legata come con una catena, onde la grossolanità del corpo le impedisce di contemplare il vero e di goderne. Gli è per questo che Platone definisce la filosofia contemplazione della morte, come quella che allontana la mente dalle cose visibili e corporee proprio come fa la morte. Pertanto finché l'anima usa rettamente degli organi corporei è chiamata sana; ma quando spezzati ormai i suoi vincoli tenta di affermarsi in libertà, meditando quasi quasi di fuggire da quel carcere, allora chiamano ciò insania follia.
Se invece la cosa si verifica per zelo religioso, non si può parlare forse dello stesso genere di pazzia, ma di un altro cosí vicino al precedente che gran parte degli uomini lo giudica pazzia né piú né meno, specialmente allorché degli omiciattoli, pochi pochini, dissentono per tutto il loro modo di vivere dal resto del genere umano. Suole pertanto capitare a costoro nella realtà ciò che secondo la fantasia di Platone succedeva ai prigionieri dell'antro (i quali vedevano solamente l'ombra delle cose) e a quel fuggiasco che al suo ritorno nell'antro annunciò ai compagni di aver vedute le cose nella realtà e che si sbagliavano della grossa essi a credere che non esistesse altro che quelle misere ombre. Lui infatti, ormai sapiente, compiange e deplora la loro pazzia per esser posseduti da sí grande illusione; gli altri alla loro volta ridono di lui, come di un matto che sragiona e lo cacciano via da loro.
La folla parimenti quanto piú le cose sono corporee tanto piú sgrana gli occhi, credendo non esista altro che quelle; mentre gli spiriti religiosi le trascurano quanto piú son vicine al corpo, per lasciarsi rapire completamente nella contemplazione delle cose invisibili. Gli uomini di mondo dunque mettono in primo luogo le ricchezze, poi subito dopo le comodità corporali e l'ultimo posto lo lasciano all'anima, alla cui esistenza peraltro la maggior parte neppur ci crede, dacché non si vede con gli occhi. Tutt'al contrario le persone pie in primo luogo tendono con tutte le forze a Dio, che è l'essere piú semplice di tutti, e secondariamente si curano di ciò che piú a Dio si avvicina cioè dell'anima; cosí trascurano il corpo e sprezzano di cuore il denaro e lo fuggono come immondizie. O se son costretti a trattare qualcosa di tal sorte lo fanno di mal animo e con disdegno: hanno come se non avessero posseggono come se non possedessero. In tutta la vita l'uomo religioso rifugge da tutto ciò che s'apparenta col corpo per lasciarsi rapire verso l'eterno l'invisibile lo spirituale. E dunque poiché fra le due specie di uomini profondo è il disaccordo in ogni punto da ciò nasce che gli uni paiono agli altri dei pazzi. Ma questa parola s'addice meglio agli uomini religiosi che alla gente comune, a mio modo di vedere.
Se invece la cosa si verifica per zelo religioso, non si può parlare forse dello stesso genere di pazzia, ma di un altro cosí vicino al precedente che gran parte degli uomini lo giudica pazzia né piú né meno, specialmente allorché degli omiciattoli, pochi pochini, dissentono per tutto il loro modo di vivere dal resto del genere umano. Suole pertanto capitare a costoro nella realtà ciò che secondo la fantasia di Platone succedeva ai prigionieri dell'antro (i quali vedevano solamente l'ombra delle cose) e a quel fuggiasco che al suo ritorno nell'antro annunciò ai compagni di aver vedute le cose nella realtà e che si sbagliavano della grossa essi a credere che non esistesse altro che quelle misere ombre. Lui infatti, ormai sapiente, compiange e deplora la loro pazzia per esser posseduti da sí grande illusione; gli altri alla loro volta ridono di lui, come di un matto che sragiona e lo cacciano via da loro.
La folla parimenti quanto piú le cose sono corporee tanto piú sgrana gli occhi, credendo non esista altro che quelle; mentre gli spiriti religiosi le trascurano quanto piú son vicine al corpo, per lasciarsi rapire completamente nella contemplazione delle cose invisibili. Gli uomini di mondo dunque mettono in primo luogo le ricchezze, poi subito dopo le comodità corporali e l'ultimo posto lo lasciano all'anima, alla cui esistenza peraltro la maggior parte neppur ci crede, dacché non si vede con gli occhi. Tutt'al contrario le persone pie in primo luogo tendono con tutte le forze a Dio, che è l'essere piú semplice di tutti, e secondariamente si curano di ciò che piú a Dio si avvicina cioè dell'anima; cosí trascurano il corpo e sprezzano di cuore il denaro e lo fuggono come immondizie. O se son costretti a trattare qualcosa di tal sorte lo fanno di mal animo e con disdegno: hanno come se non avessero posseggono come se non possedessero. In tutta la vita l'uomo religioso rifugge da tutto ciò che s'apparenta col corpo per lasciarsi rapire verso l'eterno l'invisibile lo spirituale. E dunque poiché fra le due specie di uomini profondo è il disaccordo in ogni punto da ciò nasce che gli uni paiono agli altri dei pazzi. Ma questa parola s'addice meglio agli uomini religiosi che alla gente comune, a mio modo di vedere.
venerdì 16 aprile 2010
"Epiloghi" di Derek Walcott
Le cose non esplodono:
vengon meno, sbiadiscono,
come il sole sbiadisce dalla carne,
come la schiuma esala nella sabbia,
come il fulmineo lampo dell'amore
non ha un epilogo tonante,
muore invece con un suono di fiori
che sbiadiscono come fa la carne
sotto la pietra pomice sudante,
tutto concorre a dare questa forma
finchè restiamo soli col silenzio
che circonda la testa di Beethoven.
giovedì 15 aprile 2010
Considerazioni libere (101): a proposito dell'Italia di oggi...
Credo che uno straniero che volesse capire davvero cosa è diventato il nostro paese - al di là di certe interpretazioni caricaturali, che pure ogni tanto si leggono sulla stampa degli altri paesi - dovrebbe sapere cosa è successo in questi giorni ad Adro: queste cronache riuscirebbero a illuminarlo molto più di tante analisi, per quanto accurate e approfondite.
La vicenda è abbastanza nota, ma credo comunque sia utile fare un breve riepilogo dei fatti, prima di qualche riflessione. Adro è un comune di poco più di 7.000 abitanti della provincia di Brescia, nella zona della Franciacorta: un pezzo della tipica provincia dell'Italia centrosettentrionale, un paese contadino che è cresciuto, grazie al lavoro e all'impegno di tanti, ed è diventato ricco.
Alcuni giorni fa il sindaco leghista ha deciso di lanciare una sorta di ultimatum a una quarantina di famiglie morose, i cui bambini frequentano la mensa dell'istituto comprensivo (scuola materna, elementare e media): gli alunni non in regola con il pagamento del servizio non avrebbero potuto più accedervi. La decisione è stata in un primo momento congelata dal preside, ma il sindaco è andato avanti, forte dell'appoggio dei suoi cittadini, che, attraverso una loro associazione, gestiscono il servizio. E questa partecipazione attiva dei genitori - sia detto tra parentesi - è anche un esempio interessante di nuovo welfare; ad Adro, oltre a quello che poi vedremo - e che può essere criticato - c'è anche un pezzo importante di innovazione, sul cui valore positivo dovremo riflettere. Perché nulla è mai semplicemente bianco o nero.
"È stata la rivolta degli italiani - ha spiegato il sindaco - mi chiedevano perché dobbiamo essere solo noi italiani a pagare la mensa? La crisi esiste per tutti". Tra le famiglie in ritardo con il pagamento della mensa non ci sono naturalmente solo stranieri, ma anche italiani, ma questo diventa un particolare irrilevante, nella mente della maggioranza dei genitori che hanno alimentato la polemica e spinto il sindaco a prendere questa decisione. Il sindaco dal suo punto di vista ha fatto bene, ha assecondato i suoi cittadini - e suoi elettori - e quindi può affermare che "la linea dura paga, perché il numero delle famiglie in ritardo con i pagamenti è calato da 42 a 26 nelle ultime ore". Per poi arrivare a 24. Per alcuni anni mi sono occupato, da amministratore, dei servizi educativi nel Comune dove vivo e so bene che tra coloro che non pagano c'è una quota fisiologica di "furbetti", di famiglie che potrebbero farlo, ma non lo fanno; ci sono però anche famiglie in cui lavora un solo genitore o in cui il lavoro è precario, indipendentemente dalla nazionalità delle persone, e il denaro non c'è per pagare tutti i sospesi della famiglia.
Certamente per questi amministratori e per le famiglie che li sostengono, pur partecipando in maniera attiva alla gestione del servizio, la mensa non rappresenta un momento educativo, come invece io ritengo che sia. E quindi considero profondamente ingiusto che i bambini paghino colpe - anche quando si tratti di famiglie di "furbetti" - dei loro genitori.
Pochi giorni dopo un cittadino di Adro, un imprenditore nel settore informatico ha deciso di pagare al Comune i 10mila euro necessari a ripianare i debiti delle 24 famiglie morose, impegnandosi a pagare i pasti dei bimbi poveri fino alla fine dell’anno. Lo ha fatto in maniera anonima, accompagnando il suo gesto con una lettera che spiega bene il senso di questa azione. Vi consiglio di leggere queste due pagine, che egli ha intitolato significativamente "Io non ci sto". In sintesi l'imprenditore, che si dichiara elettore del centrodestra, dice che i suoi compaesani "si sono dimenticati in poco tempo da dove vengono". "So perfettamente che fra le 40 famiglie morose, alcune sono di furbetti che ne approfittano, ma di furbi ne conosco molti. Alcuni sono milionari e vogliono fare la morale ad altri. In questo caso, nel dubbio, sto con i primi. Agli extracomunitari chiedo il rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, con fermezza ed educazione, cercando di essere il primo a rispettarle. Tirare in ballo i bambini, non è compreso nell’educazione. Sono certo che uno di quei bambini diventerà medico o imprenditore o infermiere e il suo rispetto vale la mia spesa: molti studieranno per riscattare la loro vita, mentre i nostri figli faranno le notti in discoteca a bearsi con i valori del grande fratello".
Non è mancata la reazione dei genitori. In Comune è arrivata una petizione firmata da 200 di loro che si definiscono "in regola con la retta". "Tutti risentiamo della crisi — si legge nel documento consegnato al sindaco — e tutti facciamo sacrifici. Non siamo un ente assistenziale, facciamo fatica anche noi a far quadrare i conti, ma è un dovere pagare un servizio che ci viene fornito". I genitori minacciano uno sciopero delle rette per protestare contro il benefattore, sostenuti dal sindaco, che non ha mancato di criticare il gesto del suo concittadino: "Si fa l'elemosina per levarsi dinnanzi il miserabile che la chiede. Quell'imprenditore non ha risolto il problema, lo ha solo rimandato a settembre. E adesso altre 200 famiglie non pagheranno più la retta. I conti, alla fine, li manderò tutti a quel sedicente benefattore".
A un livello più generale, in questa profonda frattura si sta dibattendo il nostro paese. Non si trovano più le ragioni per stare insieme in una comunità più larga, ma si difendono strenuamente i propri interessi. Per un cittadino di Adro che decide di schierarsi a favore del bene della propria comunità, ce ne sono duecento che non esitano a contrapporre il proprio "particulare". La sua lettera è molto dura e sembrerebbe efficace, ma evidentemente non è riuscita a intaccare le convinzioni profonde dei propri concittadini, che non si vergognano che vengano messe a nudo le loro piccinerie, ma le difendono, forti del numero.
Ci sono molte ragioni per essere pessimisti sul futuro di questo paese.
La vicenda è abbastanza nota, ma credo comunque sia utile fare un breve riepilogo dei fatti, prima di qualche riflessione. Adro è un comune di poco più di 7.000 abitanti della provincia di Brescia, nella zona della Franciacorta: un pezzo della tipica provincia dell'Italia centrosettentrionale, un paese contadino che è cresciuto, grazie al lavoro e all'impegno di tanti, ed è diventato ricco.
Alcuni giorni fa il sindaco leghista ha deciso di lanciare una sorta di ultimatum a una quarantina di famiglie morose, i cui bambini frequentano la mensa dell'istituto comprensivo (scuola materna, elementare e media): gli alunni non in regola con il pagamento del servizio non avrebbero potuto più accedervi. La decisione è stata in un primo momento congelata dal preside, ma il sindaco è andato avanti, forte dell'appoggio dei suoi cittadini, che, attraverso una loro associazione, gestiscono il servizio. E questa partecipazione attiva dei genitori - sia detto tra parentesi - è anche un esempio interessante di nuovo welfare; ad Adro, oltre a quello che poi vedremo - e che può essere criticato - c'è anche un pezzo importante di innovazione, sul cui valore positivo dovremo riflettere. Perché nulla è mai semplicemente bianco o nero.
"È stata la rivolta degli italiani - ha spiegato il sindaco - mi chiedevano perché dobbiamo essere solo noi italiani a pagare la mensa? La crisi esiste per tutti". Tra le famiglie in ritardo con il pagamento della mensa non ci sono naturalmente solo stranieri, ma anche italiani, ma questo diventa un particolare irrilevante, nella mente della maggioranza dei genitori che hanno alimentato la polemica e spinto il sindaco a prendere questa decisione. Il sindaco dal suo punto di vista ha fatto bene, ha assecondato i suoi cittadini - e suoi elettori - e quindi può affermare che "la linea dura paga, perché il numero delle famiglie in ritardo con i pagamenti è calato da 42 a 26 nelle ultime ore". Per poi arrivare a 24. Per alcuni anni mi sono occupato, da amministratore, dei servizi educativi nel Comune dove vivo e so bene che tra coloro che non pagano c'è una quota fisiologica di "furbetti", di famiglie che potrebbero farlo, ma non lo fanno; ci sono però anche famiglie in cui lavora un solo genitore o in cui il lavoro è precario, indipendentemente dalla nazionalità delle persone, e il denaro non c'è per pagare tutti i sospesi della famiglia.
Certamente per questi amministratori e per le famiglie che li sostengono, pur partecipando in maniera attiva alla gestione del servizio, la mensa non rappresenta un momento educativo, come invece io ritengo che sia. E quindi considero profondamente ingiusto che i bambini paghino colpe - anche quando si tratti di famiglie di "furbetti" - dei loro genitori.
Pochi giorni dopo un cittadino di Adro, un imprenditore nel settore informatico ha deciso di pagare al Comune i 10mila euro necessari a ripianare i debiti delle 24 famiglie morose, impegnandosi a pagare i pasti dei bimbi poveri fino alla fine dell’anno. Lo ha fatto in maniera anonima, accompagnando il suo gesto con una lettera che spiega bene il senso di questa azione. Vi consiglio di leggere queste due pagine, che egli ha intitolato significativamente "Io non ci sto". In sintesi l'imprenditore, che si dichiara elettore del centrodestra, dice che i suoi compaesani "si sono dimenticati in poco tempo da dove vengono". "So perfettamente che fra le 40 famiglie morose, alcune sono di furbetti che ne approfittano, ma di furbi ne conosco molti. Alcuni sono milionari e vogliono fare la morale ad altri. In questo caso, nel dubbio, sto con i primi. Agli extracomunitari chiedo il rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, con fermezza ed educazione, cercando di essere il primo a rispettarle. Tirare in ballo i bambini, non è compreso nell’educazione. Sono certo che uno di quei bambini diventerà medico o imprenditore o infermiere e il suo rispetto vale la mia spesa: molti studieranno per riscattare la loro vita, mentre i nostri figli faranno le notti in discoteca a bearsi con i valori del grande fratello".
Non è mancata la reazione dei genitori. In Comune è arrivata una petizione firmata da 200 di loro che si definiscono "in regola con la retta". "Tutti risentiamo della crisi — si legge nel documento consegnato al sindaco — e tutti facciamo sacrifici. Non siamo un ente assistenziale, facciamo fatica anche noi a far quadrare i conti, ma è un dovere pagare un servizio che ci viene fornito". I genitori minacciano uno sciopero delle rette per protestare contro il benefattore, sostenuti dal sindaco, che non ha mancato di criticare il gesto del suo concittadino: "Si fa l'elemosina per levarsi dinnanzi il miserabile che la chiede. Quell'imprenditore non ha risolto il problema, lo ha solo rimandato a settembre. E adesso altre 200 famiglie non pagheranno più la retta. I conti, alla fine, li manderò tutti a quel sedicente benefattore".
A un livello più generale, in questa profonda frattura si sta dibattendo il nostro paese. Non si trovano più le ragioni per stare insieme in una comunità più larga, ma si difendono strenuamente i propri interessi. Per un cittadino di Adro che decide di schierarsi a favore del bene della propria comunità, ce ne sono duecento che non esitano a contrapporre il proprio "particulare". La sua lettera è molto dura e sembrerebbe efficace, ma evidentemente non è riuscita a intaccare le convinzioni profonde dei propri concittadini, che non si vergognano che vengano messe a nudo le loro piccinerie, ma le difendono, forti del numero.
Ci sono molte ragioni per essere pessimisti sul futuro di questo paese.
mercoledì 14 aprile 2010
"Il futuro" di Julio Cortázar
E so molto bene che non ci sarai.
Non ci sarai nella strada,
non nel mormorio che sgorga di notte
dai pali che la illuminano,
neppure nel gesto di scegliere il menu,
o nel sorriso che alleggerisce il “tutto completo” delle sotterranee,
nei libri prestati e nell’arrivederci a domani.
Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
né ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
né qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
né là fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.
martedì 13 aprile 2010
Considerazioni lbere (100): a proposito di computer e di veleni...
Sono arrivato alla "considerazione" nr. 100: un traguardo forse modesto, ma per me comunque importante; come sempre ringrazio le amiche e gli amici che in questi mesi hanno avuto la pazienza di leggere queste mie note. Senza la vostra attenzione avrebbe avuto molto meno senso continuare a tenere in vita questo blog.
In questi mesi ho utilizzato questo spazio, oltre che per dire la mia su alcuni temi, soprattutto per dare voce a notizie che hanno goduto di pochissima attenzione sulle cronache dei giornali e delle televisioni. E mi pare doveroso dedicare questa centesima "considerazione" proprio a una di queste storie, che ho trovato nel nr. 841 di Internazionale: vi consiglio di leggere l'articolo che il giornalista tedesco Clemens Höges ha scritto sulla discarica di prodotti elettronici di Accra.
Accra è la capitale del Ghana; in un sobborgo di questa città si trova una discarica che la gente del posto ha ribattezzato Sodoma e Gomorra. Non c'è nulla di pruriginoso in questo nome, ma un modo per cercare di dare un nome all'inferno. E infernale è davvero questa discarica: in questa grande spianata arrivano moltissimi computer che noi non usiamo più, perché o sono rotti o sono ormai obsoleti. I ragazzi di Sodoma e Gomorra li raccolgono, li smembrano, e cercano di recuperare quanto più materiale è possibile. Ci sono ragazzi di 16/18 anni che bruciano di continuo i computer, utilizzando la gommapiuma dei frigoriferi, che produce una fiamma capace di sciogliere anche la plastica più resistente. Poi ci sono bambini dagli 8 ai 14 anni che si muovono tra i rifiuti e le parti bruciate per raccogliere cavi di rame, pezzi di alluminio, viti e prese d'acciaio. I ragazzi più grandi coordinano questo esercito di pezzenti, stanno alle bilance, controllano il materiale raccolto dai bambini e lo rivendono alle fonderie. Un bambino di dieci anni può guadagnare due cedi ghanesi al giorno (circa un euro), il sufficiente per mangiare, ma non per affittare un posto in una baracca per la notte; chi sta ai fuochi guadagna qualcosa di più e si può permettere di dormire in una baracca di sei metri quadri, insieme ad altri due ragazzi. Le bambine portano da bere ai loro coetanei che stanno ai fuochi, il lavoro più faticoso e pericoloso.
A Sodoma e Gomorra, a causa di questi fuochi, l'aria è nera e irrespirabile, il fumo brucia la gola, l'acqua del fiume è nera e densa. I bambini vivono immersi in una nebbia nera. Nella terra, nell'aria, nell'acqua ci sono altissime concentrazioni di piombo, cadmio, arsenico, diossina, tutti elementi cancerogeni.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite ogni anno si producono circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, 3 milioni soltanto negli Stati Uniti e 2,3 milioni in Cina. Ma questi numeri sono destinati ad aumentare, grazie soprattutto ai paesi in via di sviluppo. Lo stesso rapporto calcola che in Sudafrica e in Cina la produzione di rifiuti elettronici aumenterà del 400%, in India del 500% e lo stesso in alcuni paesi dell'Africa, come il Senegal e l'Uganda. Noi abbiamo sempre bisogno di computer sempre più potenti, sempre più veloci, sempre più leggeri. I ragazzi di Sodoma e Gomorra probabilmente non vedranno mai un computer funzionante, e non saprebbero neppure usarlo, perché non vanno a scuola.
Smaltire un monitor in Germania, rispettando tutte le normative in difesa della salute dei cittadini e dell'ambiente, costa circa 3,50 euro, portarlo in un container in Ghana costa soltanto 1,50 euro. Nel 1989 è stata firmata la Convenzione di Basilea che dovrebbe regolare i rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri su questo tema, impedendo che questi ultimi diventino le discariche dei primi. Gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l'accordo e anche dove è stato fatto ci sono molti modi per aggirarlo. In Germania ad esempio i rifiuti elettronici non possono essere esportati, ma si possono vendere i computer che possono essere riparati o anche i computer vecchi, che pure non riescono più a supportare nessun programma che viene utilizzato oggi. Questi computer partono dalla Germania come computer teoricamente utilizzabili, ma una volta arrivati in Ghana vanno ad alimentare la discarica di Sodoma e Gomorra. Ci sono grandi interessi in ballo, e anche la grande criminalità ha capito che ci sono enormi possibilità di guadagno.
E così i nostri vecchi computer, i telefonini che non usiamo più, gli elettrodomestici che abbiamo deciso di cambiare diventano veleno per i bambini di Accra. I ragazzi che "lavorano" a Sodoma e Gomorra faticano a superare i venticinque anni. Il piombo provoca prima mal di testa e crampi allo stomaco, poi danneggia il sistema nervoso e il cervello. Gli elementi chimici nascosti nel fumo provocano tumori. Non ci sono stati finora indagini sugli effetti, ma le stesse autorità del posto, che pure lamentano di non avere gli strumenti e le risorse per analizzare quello che sta succedendo, affermano che è difficile trovare qualcuno che abbia più di venticinque anni tra chi lavora laggiù. Naturalmente non c'è nessuna assistenza sanitaria per i ragazzi di Sodoma e Gomorra.
Mi rendo conto che è facile cadere in una forma di moralismo: noi abbiamo da buttare via e loro muoiono per i veleni che noi buttiamo. E mi rendo anche conto che è difficile agire personalmente e singolarmente perché questo non accada, anche se un consumo più intelligente sarebbe possibile. Almeno non smettiamo di considerarla un'ingiustizia.
In questi mesi ho utilizzato questo spazio, oltre che per dire la mia su alcuni temi, soprattutto per dare voce a notizie che hanno goduto di pochissima attenzione sulle cronache dei giornali e delle televisioni. E mi pare doveroso dedicare questa centesima "considerazione" proprio a una di queste storie, che ho trovato nel nr. 841 di Internazionale: vi consiglio di leggere l'articolo che il giornalista tedesco Clemens Höges ha scritto sulla discarica di prodotti elettronici di Accra.
Accra è la capitale del Ghana; in un sobborgo di questa città si trova una discarica che la gente del posto ha ribattezzato Sodoma e Gomorra. Non c'è nulla di pruriginoso in questo nome, ma un modo per cercare di dare un nome all'inferno. E infernale è davvero questa discarica: in questa grande spianata arrivano moltissimi computer che noi non usiamo più, perché o sono rotti o sono ormai obsoleti. I ragazzi di Sodoma e Gomorra li raccolgono, li smembrano, e cercano di recuperare quanto più materiale è possibile. Ci sono ragazzi di 16/18 anni che bruciano di continuo i computer, utilizzando la gommapiuma dei frigoriferi, che produce una fiamma capace di sciogliere anche la plastica più resistente. Poi ci sono bambini dagli 8 ai 14 anni che si muovono tra i rifiuti e le parti bruciate per raccogliere cavi di rame, pezzi di alluminio, viti e prese d'acciaio. I ragazzi più grandi coordinano questo esercito di pezzenti, stanno alle bilance, controllano il materiale raccolto dai bambini e lo rivendono alle fonderie. Un bambino di dieci anni può guadagnare due cedi ghanesi al giorno (circa un euro), il sufficiente per mangiare, ma non per affittare un posto in una baracca per la notte; chi sta ai fuochi guadagna qualcosa di più e si può permettere di dormire in una baracca di sei metri quadri, insieme ad altri due ragazzi. Le bambine portano da bere ai loro coetanei che stanno ai fuochi, il lavoro più faticoso e pericoloso.
A Sodoma e Gomorra, a causa di questi fuochi, l'aria è nera e irrespirabile, il fumo brucia la gola, l'acqua del fiume è nera e densa. I bambini vivono immersi in una nebbia nera. Nella terra, nell'aria, nell'acqua ci sono altissime concentrazioni di piombo, cadmio, arsenico, diossina, tutti elementi cancerogeni.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite ogni anno si producono circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, 3 milioni soltanto negli Stati Uniti e 2,3 milioni in Cina. Ma questi numeri sono destinati ad aumentare, grazie soprattutto ai paesi in via di sviluppo. Lo stesso rapporto calcola che in Sudafrica e in Cina la produzione di rifiuti elettronici aumenterà del 400%, in India del 500% e lo stesso in alcuni paesi dell'Africa, come il Senegal e l'Uganda. Noi abbiamo sempre bisogno di computer sempre più potenti, sempre più veloci, sempre più leggeri. I ragazzi di Sodoma e Gomorra probabilmente non vedranno mai un computer funzionante, e non saprebbero neppure usarlo, perché non vanno a scuola.
Smaltire un monitor in Germania, rispettando tutte le normative in difesa della salute dei cittadini e dell'ambiente, costa circa 3,50 euro, portarlo in un container in Ghana costa soltanto 1,50 euro. Nel 1989 è stata firmata la Convenzione di Basilea che dovrebbe regolare i rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri su questo tema, impedendo che questi ultimi diventino le discariche dei primi. Gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l'accordo e anche dove è stato fatto ci sono molti modi per aggirarlo. In Germania ad esempio i rifiuti elettronici non possono essere esportati, ma si possono vendere i computer che possono essere riparati o anche i computer vecchi, che pure non riescono più a supportare nessun programma che viene utilizzato oggi. Questi computer partono dalla Germania come computer teoricamente utilizzabili, ma una volta arrivati in Ghana vanno ad alimentare la discarica di Sodoma e Gomorra. Ci sono grandi interessi in ballo, e anche la grande criminalità ha capito che ci sono enormi possibilità di guadagno.
E così i nostri vecchi computer, i telefonini che non usiamo più, gli elettrodomestici che abbiamo deciso di cambiare diventano veleno per i bambini di Accra. I ragazzi che "lavorano" a Sodoma e Gomorra faticano a superare i venticinque anni. Il piombo provoca prima mal di testa e crampi allo stomaco, poi danneggia il sistema nervoso e il cervello. Gli elementi chimici nascosti nel fumo provocano tumori. Non ci sono stati finora indagini sugli effetti, ma le stesse autorità del posto, che pure lamentano di non avere gli strumenti e le risorse per analizzare quello che sta succedendo, affermano che è difficile trovare qualcuno che abbia più di venticinque anni tra chi lavora laggiù. Naturalmente non c'è nessuna assistenza sanitaria per i ragazzi di Sodoma e Gomorra.
Mi rendo conto che è facile cadere in una forma di moralismo: noi abbiamo da buttare via e loro muoiono per i veleni che noi buttiamo. E mi rendo anche conto che è difficile agire personalmente e singolarmente perché questo non accada, anche se un consumo più intelligente sarebbe possibile. Almeno non smettiamo di considerarla un'ingiustizia.
lunedì 12 aprile 2010
"La spaccapietre" di Suryakant Tripathi Nirala
Lei spaccava pietre.
La vidi io sulla strada di Allahabad
lei spaccava pietre.
Non albero ombroso
ai cui piedi sedere,
nero il corpo, giovinezza piena,
chini gli occhi, mentre intenta al lavoro.
Pesante martello in mano,
ripetutamente colpiva –
davanti la fila degli alberi, i palazzi, i bastioni.
Saliva la calura,
estate,
forma ardente del giorno.
Si levò il vento bruciante,
terra ardente come cotone,
si sparsero scintille di polvere,
fu quasi il meriggio:
lei spaccava pietre.
Vedendomi, mi guardò una volta
volse lo sguardo al palazzo, corda spezzata.
Nessuno vedendo,
mi guardò con quello sguardo
che picchiato non piange.
Si dispose naturale sitar,
udii io quel vibrar di corde che mai avevo udito
dopo un attimo tremò elegante,
scivolarono gocce dalla fronte,
ripreso il lavoro di nuovo disse:
“Io spacco pietre”.
domenica 11 aprile 2010
Considerazioni libere (99): a proposito di acqua e di Coca Cola...
Il Rajasthan è il più grande stato indiano - oltre 340.000 kmq - e uno dei più popolosi con i suoi 56 milioni di abitanti; è anche uno dei più aridi, una delle sue attrazioni è il deserto di Thar, il terzo per estensione dell'intera Asia. Dal 1999 nel villaggio di Kala Dera, a circa 40 chilometri dalla capitale Jaipur, è in funzione uno stabilimento della Coca-Cola, che produce bibite gassate e l'acqua in bottiglia Kinley. La Coca-Cola è tornata nel mercato indiano nel '93, dopo sedici anni di divieto di commercializzazione dei suoi prodotti; attualmente ha 52 stabilimenti di imbottigliamento e di pompaggio delle acque ed è leader nel mercato delle bevande analcoliche in quel paese, che conta una popolazione di oltre un miliardo di persone. La decisione di aprire uno stabilimento in quell'area, notoriamente arida, è stato il frutto di un accordo tra la Coca-Cola e il governo per la trasformazione di quel distretto, prevalentemente agricolo, in un polo industriale.
Nonostante questi progetti gran parte dei 13.000 abitanti di Kala Dera e degli altri villaggi che ci sono lì intorno continuano a lavorare nell'agricoltura, producendo miglio, arachidi, frumento e ceci. I lavoratori impiegati presso l’impianto della Coca-Cola variano dai 60 ai 250, a seconda della stagione.
Secondo un dossier elaborato nel 2004 dai ricercatori del Central Ground Water Board e dal Rajasthan Pollution Control Board, l’impianto della Coca-Cola ha utilizzato 1.370.694 metri cubi di acqua nel 2002 e 1.740.301 metri cubi nei primi nove mesi del 2003. La Coca-Cola ha pagato al governo del Rajastan una tassa di concessione annua di 5.000 rupie (110 dollari) nei tre anni dal 2000 al 2002 e di 24.246 rupie nel 2003
(610 dollari). Il dossier ha denunciato come l’impianto della Coca-Cola abbia creato uno “squilibrio ecologico-idrologico” nell’area. Occorre ricordare che in nessun distretto del Rajastan c'è l'accesso all'acqua potabile nelle case.
Nel ditretto di Jaipur di registra da alcuni anni un progressivo abbassamento delle falde acquifere; secondo alcuni ricercatori è passato da 40 a 80 piedi, ma il presidente del consiglio di villaggio di Kala Dera denuncia che sia sceso fino a 125 piedi. Il progressivo abbassamento delle falde ha diversi impatti sull’agricoltura locale: l'aumento dei costi di produzione, la diminuzione della produttività, la diminuzione della superficie di terra lavorabile, l'aumento della disoccupazione. Gli attivisti dei 32 comitati di lotta sorti nel distretto riportano che negli ultimi 4-5 anni la produzione di frumento è calata da 10 a 2 quintali per ettaro. Inoltre i pozzi dei villaggi utilizzati per l’uso domestico sono a rischio di essiccamento.
Ad aggravare la situazione è stata l'eccezionale siccità di quest'anno, la più grave dal 1972, secondo i dati dell'Indian Meteorological Department; nonostante la mancanza delle piogge monsoniche che alimentano le falde, i dirigenti della Coca-Cola hanno deciso di mantenere la produzione a pieno regime, rendendo ancora più grave la situazione per oltre diecimila famiglie.
Gli attivisti dei comitati di lotta continuano la loro protesta, nonostante la Coca-Cola goda di forti appoggi sia dal Partito del Congresso, ora al governo, sia dalle forze di opposizione. I comitati dichiarano che ogni giorno 24 tir, ciascuno con 1.100 imballaggi, trasportano i prodotti finiti fuori dagli stabilimenti; mentre i dirigenti della Coca-Cola non forniscono dati ufficiali sulla produzione.
I dirigenti della Coca-Cola si difendono ricordando cosa hanno fatto e continuano a fare di positivo per la regione. L'azienda ha costruito una strada nel villaggio e ha donato un campo medico per la distribuzione di medicinali. Dona borse di studio agli studenti meritori in tredici scuole della zona e macchine da cucire per cinquanta vedove. Inoltre hanno finanziato l'installazione di 27 impianti per l'irrigazione a goccia, per consumare meno acqua. I tecnici dell'azienda sostengono infatti che l'agricoltura sia la maggior responsabile dell'abbassamento delle falde. I comitati ribattono che i beneficiari dei sussidi per l’irrigazione a goccia sono stati solo alcuni benestanti, persone influenti che hanno sostenuto le attività della Coca-Cola e che comunque possono permettersi la costosa manutenzione di questo tipo di impianto.
A supportare la protesta dei comitati di lotta ci sono inoltre i risultati di un'indagine indipendente del prestigioso Environmental Research Institute di New Delhi, pubblicati nel 2009. Nel rapporto si legge che le attività della Coca-Cola di Kala Dera "continueranno a contribuire al peggioramento della situazione idrica e ad essere fonte di stress per le comunità locali".
Ho cercato di raccogliere e riferire le notizie in maniera asettica, probabilmente non riuscendoci; forse hanno una parte di ragione i manager della Coca-Cola quando affermano che lo spostamento dell'azienda da Kala Dera sarebbe un danno per la regione e che le tecniche utilizzate dai contadini indiani contribuiscono all'abbassamento delle falde. Ma hanno ragione gli attivisti dei comitati a continuare a denunciare un modello di sviluppo in cui c'è qualcuno che guadagna e qualcuno che progressivamente ci rimette. A Kala Dera ci sta perdendo l'ambiente e ci stanno rimettendo, a un prezzo durissimo, un gran numero di famiglie.
Nonostante questi progetti gran parte dei 13.000 abitanti di Kala Dera e degli altri villaggi che ci sono lì intorno continuano a lavorare nell'agricoltura, producendo miglio, arachidi, frumento e ceci. I lavoratori impiegati presso l’impianto della Coca-Cola variano dai 60 ai 250, a seconda della stagione.
Secondo un dossier elaborato nel 2004 dai ricercatori del Central Ground Water Board e dal Rajasthan Pollution Control Board, l’impianto della Coca-Cola ha utilizzato 1.370.694 metri cubi di acqua nel 2002 e 1.740.301 metri cubi nei primi nove mesi del 2003. La Coca-Cola ha pagato al governo del Rajastan una tassa di concessione annua di 5.000 rupie (110 dollari) nei tre anni dal 2000 al 2002 e di 24.246 rupie nel 2003
(610 dollari). Il dossier ha denunciato come l’impianto della Coca-Cola abbia creato uno “squilibrio ecologico-idrologico” nell’area. Occorre ricordare che in nessun distretto del Rajastan c'è l'accesso all'acqua potabile nelle case.
Nel ditretto di Jaipur di registra da alcuni anni un progressivo abbassamento delle falde acquifere; secondo alcuni ricercatori è passato da 40 a 80 piedi, ma il presidente del consiglio di villaggio di Kala Dera denuncia che sia sceso fino a 125 piedi. Il progressivo abbassamento delle falde ha diversi impatti sull’agricoltura locale: l'aumento dei costi di produzione, la diminuzione della produttività, la diminuzione della superficie di terra lavorabile, l'aumento della disoccupazione. Gli attivisti dei 32 comitati di lotta sorti nel distretto riportano che negli ultimi 4-5 anni la produzione di frumento è calata da 10 a 2 quintali per ettaro. Inoltre i pozzi dei villaggi utilizzati per l’uso domestico sono a rischio di essiccamento.
Ad aggravare la situazione è stata l'eccezionale siccità di quest'anno, la più grave dal 1972, secondo i dati dell'Indian Meteorological Department; nonostante la mancanza delle piogge monsoniche che alimentano le falde, i dirigenti della Coca-Cola hanno deciso di mantenere la produzione a pieno regime, rendendo ancora più grave la situazione per oltre diecimila famiglie.
Gli attivisti dei comitati di lotta continuano la loro protesta, nonostante la Coca-Cola goda di forti appoggi sia dal Partito del Congresso, ora al governo, sia dalle forze di opposizione. I comitati dichiarano che ogni giorno 24 tir, ciascuno con 1.100 imballaggi, trasportano i prodotti finiti fuori dagli stabilimenti; mentre i dirigenti della Coca-Cola non forniscono dati ufficiali sulla produzione.
I dirigenti della Coca-Cola si difendono ricordando cosa hanno fatto e continuano a fare di positivo per la regione. L'azienda ha costruito una strada nel villaggio e ha donato un campo medico per la distribuzione di medicinali. Dona borse di studio agli studenti meritori in tredici scuole della zona e macchine da cucire per cinquanta vedove. Inoltre hanno finanziato l'installazione di 27 impianti per l'irrigazione a goccia, per consumare meno acqua. I tecnici dell'azienda sostengono infatti che l'agricoltura sia la maggior responsabile dell'abbassamento delle falde. I comitati ribattono che i beneficiari dei sussidi per l’irrigazione a goccia sono stati solo alcuni benestanti, persone influenti che hanno sostenuto le attività della Coca-Cola e che comunque possono permettersi la costosa manutenzione di questo tipo di impianto.
A supportare la protesta dei comitati di lotta ci sono inoltre i risultati di un'indagine indipendente del prestigioso Environmental Research Institute di New Delhi, pubblicati nel 2009. Nel rapporto si legge che le attività della Coca-Cola di Kala Dera "continueranno a contribuire al peggioramento della situazione idrica e ad essere fonte di stress per le comunità locali".
Ho cercato di raccogliere e riferire le notizie in maniera asettica, probabilmente non riuscendoci; forse hanno una parte di ragione i manager della Coca-Cola quando affermano che lo spostamento dell'azienda da Kala Dera sarebbe un danno per la regione e che le tecniche utilizzate dai contadini indiani contribuiscono all'abbassamento delle falde. Ma hanno ragione gli attivisti dei comitati a continuare a denunciare un modello di sviluppo in cui c'è qualcuno che guadagna e qualcuno che progressivamente ci rimette. A Kala Dera ci sta perdendo l'ambiente e ci stanno rimettendo, a un prezzo durissimo, un gran numero di famiglie.
venerdì 9 aprile 2010
da "Saggio sulla libertà" di John Stuart Mill
Per mostrare piú chiaramente quanto male si faccia con il rifiutar d’ascoltare delle opinioni perché noi le abbiamo condannate in anticipazione nel nostro proprio giudizio sarebbe desiderabile stabilire la discussione su di un caso determinato. Io scelgo di preferenza i casi che mi sono meno favorevoli, quelli nei quali l’argomento contro la libertà di opinioni e dal punto di vista della verità e dal punto di vista della utilità è considerato come il piú forte.
Poniamo che le opinioni combattute siano la credenza in Dio ed in una vita futura o non importa qualche altra fra le dottrine di morale generalmente accettate. Dar battaglia su questo terreno è come offrire un gran vantaggio ad un avversario di mala fede, poiché esso dirà sicuramente (e con lui molte persone che non desiderano punto d’essere in malafede): "Queste sono dunque dottrine che voi non ritenete abbastanza certe per esser poste sotto la protezione della legge? La credenza in Dio è una di quelle opinioni di cui non si può sentirsi sicuro senza pretendere all’infallibilità?".
Ma io domando che mi si permetta di notare come il sentirsi certo di una dottrina qualunque essa sia, non è ciò che io dico pretendere all’infallibilità. Io con questo intendo il mettersi a decidere una tale questione anche per conto degli altri, senza permetter loro di sentire ciò che si può obbiettare dall’altro canto. Io non denuncio e biasimo meno questa pretesa se essa si fa innanzi per sostenere le mie piú solenni convinzioni. Un uomo ha un bell’essere positivamente convinto non soltanto della felicità ma anche delle conseguenze perniciose, non soltanto delle conseguenze perniciose ma anche (per adoperar delle espressioni che io pienamente condanno) dell’immoralità e della empietà di un’opinione; se nondimeno in conseguenza di questo giudizio personale egli impedisca a questa opinione di parlare in propria difesa egli afferma la propria infallibilità. E questa affermazione è ben lungi dall’essere meno pericolosa o meno biasimevole perché l’opinione è detta immorale od empia; al contrario questo è il caso piú fatale di tutti.
Queste sono precisamente le occasioni in cui gli uomini commettono quegli spaventevoli errori che suscitano la stupefazione e l’orrore della posterità. Noi ne troviamo degli esempi memorabili nella storia quando vediamo il braccio della legge occupato a distruggere gli uomini migliori e le piú nobili dottrine: e questo purtroppo con grande successo quanto agli uomini; quanto alle dottrine parecchie hanno sopravvissuto per essere proprio quasi per derisione invocate in difesa di una simile condotta verso di quelle che non le accettavano o che ne rifiutavano la interpretazione comune.
Non si può ricordare abbastanza sovente alla specie umana che vi è stato un uomo il quale si chiamò Socrate e che vi fu un memorabile conflitto tra quest’uomo da una parte e le autorità legali e l’opinione pubblica dall’altra. Egli era nato in un secolo e in un paese ricchi di grandezze individuali; la sua memoria ci è stata trasmessa da quelli che conoscono meglio lui e l’età sua come la memoria dell’uomo piú virtuoso del suo tempo. Noi lo conosciamo al tempo stesso come il caposcuola e il prototipo di tutti quei grandi maestri di virtú che vennero dopo di lui attraverso la sorgente dell’inspirazione di Platone e del giudizio utilitarismo di Aristotele, “i maestri di color che sanno”, i due creatori di qualunque filosofia etica e non etica. Questo maestro riconosciuto da tutti i pensatori eminenti a lui posteriori, quest’uomo la cui gloria sempre crescente da piú che duemila anni supera quella di tutti gli altri nomi che resero illustre la sua città natale fu mandato a morte dai suoi concittadini dopo una condanna legale come colpevole d’empietà e d’immoralità. Empietà perché negava gli dei riconosciuti dallo Stato; a vero dire il suo accusatore afferma ch’egli non credeva in alcuno. Immoralità perché corrompeva la gioventú con le sue dottrine e coi suoi insegnamenti. Si hanno tutte le ragioni per credere che il tribunale lo abbia trovato in coscienza colpevole di questi delitti; ed esso condannò ad essere mandato a morte come un volgare malfattore l’uomo che fra i suoi contemporanei era probabilmente il piú benemerito verso la specie umana.
Passiamo all’altro unico esempio di iniquità giudiziaria per ricordare il quale dopo la morte di Socrate non si debba scendere un gradino piú basso. Noi alludiamo all’avvenimento che si compí sul calvario piú di diciotto secoli or sono. L’uomo che lasciò in tutti quelli che l’avevano veduto e sentito una tale impressione della sua grandezza morale che diciotto secoli hanno reso omaggio a lui come all’Onnipotente fu condannato a morte ignominiosa come bestemmiatore. Perché? Non soltanto gli uomini non riconobbero punto il loro benefattore, ma lo presero per il contrario di quello ch’egli era e lo trattarono come un prodigio di empietà. Ed ora sono ritenuti essi come tali a cagione del modo con cui lo trattarono. I sentimenti che animano oggi la specie umana a proposito di questi dolorosi avvenimenti la rendono estremamente ingiusta nel suo giudizio sugli sciagurati attori.
Questi secondo ogni apparenza non erano peggiori della generalità degli uomini: erano all’incontro uomini che possedevano in modo completo piú che completo forse il sentimento religioso morale e patriottico del loro tempo e del loro paese; di quelli uomini insomma che sono fatti in ogni tempo, compreso il nostro, per traversare la vita rispettati e senza macchia. Quando il gran sacerdote si stracciò gli abiti sentendo pronunciare le parole che secondo le idee del suo paese costituivano il piú nero dei delitti la sua indignazione e il suo orrore erano probabilmente cosí sinceri come oggi i sentimenti morali e religiosi professati dalla generalità delle persone pie e rispettabili. E molti di quelli che ora fremono della sua condotta avrebbero agito allo stesso modo se avessero vissuto in quell’epoca e fossero stati ebrei. I cristiani ortodossi che sono tentati a credere uomini assai peggiori di loro quelli che lapidavano i primi martiri dovrebbero ricordarsi che San Paolo fu tra questi persecutori.
Poniamo che le opinioni combattute siano la credenza in Dio ed in una vita futura o non importa qualche altra fra le dottrine di morale generalmente accettate. Dar battaglia su questo terreno è come offrire un gran vantaggio ad un avversario di mala fede, poiché esso dirà sicuramente (e con lui molte persone che non desiderano punto d’essere in malafede): "Queste sono dunque dottrine che voi non ritenete abbastanza certe per esser poste sotto la protezione della legge? La credenza in Dio è una di quelle opinioni di cui non si può sentirsi sicuro senza pretendere all’infallibilità?".
Ma io domando che mi si permetta di notare come il sentirsi certo di una dottrina qualunque essa sia, non è ciò che io dico pretendere all’infallibilità. Io con questo intendo il mettersi a decidere una tale questione anche per conto degli altri, senza permetter loro di sentire ciò che si può obbiettare dall’altro canto. Io non denuncio e biasimo meno questa pretesa se essa si fa innanzi per sostenere le mie piú solenni convinzioni. Un uomo ha un bell’essere positivamente convinto non soltanto della felicità ma anche delle conseguenze perniciose, non soltanto delle conseguenze perniciose ma anche (per adoperar delle espressioni che io pienamente condanno) dell’immoralità e della empietà di un’opinione; se nondimeno in conseguenza di questo giudizio personale egli impedisca a questa opinione di parlare in propria difesa egli afferma la propria infallibilità. E questa affermazione è ben lungi dall’essere meno pericolosa o meno biasimevole perché l’opinione è detta immorale od empia; al contrario questo è il caso piú fatale di tutti.
Queste sono precisamente le occasioni in cui gli uomini commettono quegli spaventevoli errori che suscitano la stupefazione e l’orrore della posterità. Noi ne troviamo degli esempi memorabili nella storia quando vediamo il braccio della legge occupato a distruggere gli uomini migliori e le piú nobili dottrine: e questo purtroppo con grande successo quanto agli uomini; quanto alle dottrine parecchie hanno sopravvissuto per essere proprio quasi per derisione invocate in difesa di una simile condotta verso di quelle che non le accettavano o che ne rifiutavano la interpretazione comune.
Non si può ricordare abbastanza sovente alla specie umana che vi è stato un uomo il quale si chiamò Socrate e che vi fu un memorabile conflitto tra quest’uomo da una parte e le autorità legali e l’opinione pubblica dall’altra. Egli era nato in un secolo e in un paese ricchi di grandezze individuali; la sua memoria ci è stata trasmessa da quelli che conoscono meglio lui e l’età sua come la memoria dell’uomo piú virtuoso del suo tempo. Noi lo conosciamo al tempo stesso come il caposcuola e il prototipo di tutti quei grandi maestri di virtú che vennero dopo di lui attraverso la sorgente dell’inspirazione di Platone e del giudizio utilitarismo di Aristotele, “i maestri di color che sanno”, i due creatori di qualunque filosofia etica e non etica. Questo maestro riconosciuto da tutti i pensatori eminenti a lui posteriori, quest’uomo la cui gloria sempre crescente da piú che duemila anni supera quella di tutti gli altri nomi che resero illustre la sua città natale fu mandato a morte dai suoi concittadini dopo una condanna legale come colpevole d’empietà e d’immoralità. Empietà perché negava gli dei riconosciuti dallo Stato; a vero dire il suo accusatore afferma ch’egli non credeva in alcuno. Immoralità perché corrompeva la gioventú con le sue dottrine e coi suoi insegnamenti. Si hanno tutte le ragioni per credere che il tribunale lo abbia trovato in coscienza colpevole di questi delitti; ed esso condannò ad essere mandato a morte come un volgare malfattore l’uomo che fra i suoi contemporanei era probabilmente il piú benemerito verso la specie umana.
Passiamo all’altro unico esempio di iniquità giudiziaria per ricordare il quale dopo la morte di Socrate non si debba scendere un gradino piú basso. Noi alludiamo all’avvenimento che si compí sul calvario piú di diciotto secoli or sono. L’uomo che lasciò in tutti quelli che l’avevano veduto e sentito una tale impressione della sua grandezza morale che diciotto secoli hanno reso omaggio a lui come all’Onnipotente fu condannato a morte ignominiosa come bestemmiatore. Perché? Non soltanto gli uomini non riconobbero punto il loro benefattore, ma lo presero per il contrario di quello ch’egli era e lo trattarono come un prodigio di empietà. Ed ora sono ritenuti essi come tali a cagione del modo con cui lo trattarono. I sentimenti che animano oggi la specie umana a proposito di questi dolorosi avvenimenti la rendono estremamente ingiusta nel suo giudizio sugli sciagurati attori.
Questi secondo ogni apparenza non erano peggiori della generalità degli uomini: erano all’incontro uomini che possedevano in modo completo piú che completo forse il sentimento religioso morale e patriottico del loro tempo e del loro paese; di quelli uomini insomma che sono fatti in ogni tempo, compreso il nostro, per traversare la vita rispettati e senza macchia. Quando il gran sacerdote si stracciò gli abiti sentendo pronunciare le parole che secondo le idee del suo paese costituivano il piú nero dei delitti la sua indignazione e il suo orrore erano probabilmente cosí sinceri come oggi i sentimenti morali e religiosi professati dalla generalità delle persone pie e rispettabili. E molti di quelli che ora fremono della sua condotta avrebbero agito allo stesso modo se avessero vissuto in quell’epoca e fossero stati ebrei. I cristiani ortodossi che sono tentati a credere uomini assai peggiori di loro quelli che lapidavano i primi martiri dovrebbero ricordarsi che San Paolo fu tra questi persecutori.
giovedì 8 aprile 2010
da "Lettere dal carcere" (VI) di Antonio Gramsci
14 gennaio 1929
Carissima Giulia,
attendo ancora la tua risposta alla mia ultima lettera. Quando avremo ripreso una conversazione regolare (se pure a lunghi intervalli), ti scriverò tante cose sulla mia vita, sulle mie impressioni ecc. ecc. Intanto tu devi informarmi sul come Delio interpreta il Meccano. Questo mi interessa molto, perché non ho mai saputo decidere, se il Meccano, togliendo al bambino il suo proprio spirito inventivo, sia il giocattolo moderno che piú si può raccomandare. Cosa ne pensi tu e cosa ne pensa tuo padre? In generale io penso che la cultura moderna (tipo americano), della quale il meccano è l’espressione, renda l’uomo un po’ secco, macchinale, burocratico, e crei una mentalità astratta (in un senso diverso da quello che per "astratto" s’intendeva nel secolo scorso). C’è stata l’astrattezza determinata da una intossicazione metafisica, e c’è l’astrattezza determinata da una intossicazione matematica. Come deve essere interessante osservare le reazioni di questi principi pedagogici nel cervello di un piccolo bambino, che poi è nostro e al quale siamo legati da ben altro sentimento che non sia il semplice "interesse scientifico".
Carissima, scrivimi a lungo. Ti abbraccio forte, forte.
Antonio
Carissima Giulia,
attendo ancora la tua risposta alla mia ultima lettera. Quando avremo ripreso una conversazione regolare (se pure a lunghi intervalli), ti scriverò tante cose sulla mia vita, sulle mie impressioni ecc. ecc. Intanto tu devi informarmi sul come Delio interpreta il Meccano. Questo mi interessa molto, perché non ho mai saputo decidere, se il Meccano, togliendo al bambino il suo proprio spirito inventivo, sia il giocattolo moderno che piú si può raccomandare. Cosa ne pensi tu e cosa ne pensa tuo padre? In generale io penso che la cultura moderna (tipo americano), della quale il meccano è l’espressione, renda l’uomo un po’ secco, macchinale, burocratico, e crei una mentalità astratta (in un senso diverso da quello che per "astratto" s’intendeva nel secolo scorso). C’è stata l’astrattezza determinata da una intossicazione metafisica, e c’è l’astrattezza determinata da una intossicazione matematica. Come deve essere interessante osservare le reazioni di questi principi pedagogici nel cervello di un piccolo bambino, che poi è nostro e al quale siamo legati da ben altro sentimento che non sia il semplice "interesse scientifico".
Carissima, scrivimi a lungo. Ti abbraccio forte, forte.
Antonio
mercoledì 7 aprile 2010
"I migranti" di Derek Walcott
L’onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche
selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce
smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini
emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali
che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura
che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme,
come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come
fa il pacciame luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno
nel fango, mentre il fumo di un cipresso segnala Sachsenhausen…
e quelli che non stanno sopra il treno, che non hanno muli o cavalli,
quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina per cucire
sul carretto a mano perché da tempo le bestie hanno lasciato
i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia del perdono,
alle campane di pietra sui ciottoli della domenica e al cono
della guglia del campanile aranciato che buca le nubi sopra i tigli,
quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda del carro
come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce
e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio che hanno
il colore degli stagni dove posano le anitre, e per le quali
c’è un solo cielo e una sola stagione nel corso di un anno
ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,
si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua
della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno
una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele,
e del suono del latte in estate dentro le zangole piene,
e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco
quel lago e anche le locande, la birra che si beve,
e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,
ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non si vede
che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro
c’è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,
dove il solo governo è quello dell’albero di pomi e le forze
schierate dell’esercito sono gli striscioni di orzo
all’interno di umili tenute, e questa è la visione
che a poco a poco si restringe dentro le pupille
di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,
rigido e con la fronte che diventa fredda come le pietre
che ci hanno bucato le scarpe e grigia come le nuvole
che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere
sotto i pioppi e sopra le palme, nell’ingannevole aurora
di questo nuovo secolo che è il vostro.
Considerazioni libere (98): a proposito dei soldi dell'Africa...
E' uscito in questi giorni un rapporto intitolato Illicit financial flow from Africa: hidden resources for development, curato dal Global Financial Integrity, un centro studi no-profit che ha sede a Washington. Vale la pena analizzare alcuni dei dati che emergono da questo studio.
La ricerca degli esperti del Gfi si è concentrata sul flusso di capitali che, in maniera illecita, sono usciti dall'Africa. Prima si sono valutati e conteggiati i flussi economici in ingresso, sommando le variazioni del debito con l'estero dei vari paesi e il netto dell'investimento diretto di capitali stranieri, poi si sono conteggiate le spese, impiegate sia nel ripianamento del deficit corrente sia nell'aumento delle riserve valutarie delle varie banche centrali. La differenza tra le somme che sono entrate e quelle che sono state effettivamente impiegate si è con ogni probabilità volatizzata in conti esteri. A questa analisi si è aggiunto l'esame del cosiddetto mispricing, ossia la pratica che permette di occultare capitali, aumentando sui documenti doganali il valore delle importazioni e riducendo quello delle esportazioni. Solo valutando questi dati, reperibili comunque negli studi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale e quindi sostanzialmente pubblici, i tecnici del Gfi hanno calcolato che dal 1970 al 2008 sono "spariti" 854 miliardi di dollari.
Qui rimaniamo nell'ambito di frodi e trucchi a livello statale, i tecnici del Gfi non hanno gli strumenti per valutare l'impatto del mispricing tra aziende, ossia con accordi tra società acquirenti e venditrici, né è possibile valutare l'entità del contrabbando. Qui il calcolo è solo presuntivo, ad ogni modo nel rapporto si valuta che nei 38 anni studiati la cifra complessiva che è transitata dall'Africa alle banche e alle società finanziarie dei paesi occidentali sia pari a 1.800 miliardi di dollari. Comunque solo con gli 854 miliardi di dollari documentati sarebbe stato possibile ripianare il debito estero dell'Africa, pari a 250 miliardi di dollari, e investirne altri 600 per lo sviluppo del continente.
L'Africa continua a essere il continente più povero del mondo, ma ci sono politici, alti funzionari, militari, imprenditori che hanno accumulato, grazie alla complicità di governi, funzionari, banchieri dei paesi occidentali enormi fortune all'estero. Questa enorme massa di denaro ha alimentato l'economia dei paesi ricchi, ma è stata letteralmente sottratta alle donne e agli uomini dell'Africa.
La mancanza di democrazia in gran parte dei paesi dell'Africa, le continue guerre e l'instabilità di quasi tutto il continente, la mancanza di controlli, le pratiche dettate dall'urgenza di finanziare gli aiuti umanitari e le politiche di sviluppo hanno permesso di creare questo sistema perverso. Naturalmente per fare questi trucchi è necessario anche un sistema finanziario internazionale che lo permetta e lo nasconda e quindi sono stati utilizzati i cosiddetti paradisi fiscali, ci si è fatto scudo del segreto bancario, insomma sono stati utilizzati tutti quei sistemi che i più spregiudicati tra gli uomini della finanza del mondo sviluppato hanno alimentato, con la passiva connivenza di troppi governi, nonostante alcune reiterate minacce di controlli.
In altre "considerazioni" ho raccontato alcune storie specifiche, come quelle legate alla costruzione delle grandi dighe nella Repubblica Democratica del Congo e in Etiopia, credo sia necessario avere almeno la percezione di cosa avviene a livello globale: una storia che non ci piace.
La ricerca degli esperti del Gfi si è concentrata sul flusso di capitali che, in maniera illecita, sono usciti dall'Africa. Prima si sono valutati e conteggiati i flussi economici in ingresso, sommando le variazioni del debito con l'estero dei vari paesi e il netto dell'investimento diretto di capitali stranieri, poi si sono conteggiate le spese, impiegate sia nel ripianamento del deficit corrente sia nell'aumento delle riserve valutarie delle varie banche centrali. La differenza tra le somme che sono entrate e quelle che sono state effettivamente impiegate si è con ogni probabilità volatizzata in conti esteri. A questa analisi si è aggiunto l'esame del cosiddetto mispricing, ossia la pratica che permette di occultare capitali, aumentando sui documenti doganali il valore delle importazioni e riducendo quello delle esportazioni. Solo valutando questi dati, reperibili comunque negli studi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale e quindi sostanzialmente pubblici, i tecnici del Gfi hanno calcolato che dal 1970 al 2008 sono "spariti" 854 miliardi di dollari.
Qui rimaniamo nell'ambito di frodi e trucchi a livello statale, i tecnici del Gfi non hanno gli strumenti per valutare l'impatto del mispricing tra aziende, ossia con accordi tra società acquirenti e venditrici, né è possibile valutare l'entità del contrabbando. Qui il calcolo è solo presuntivo, ad ogni modo nel rapporto si valuta che nei 38 anni studiati la cifra complessiva che è transitata dall'Africa alle banche e alle società finanziarie dei paesi occidentali sia pari a 1.800 miliardi di dollari. Comunque solo con gli 854 miliardi di dollari documentati sarebbe stato possibile ripianare il debito estero dell'Africa, pari a 250 miliardi di dollari, e investirne altri 600 per lo sviluppo del continente.
L'Africa continua a essere il continente più povero del mondo, ma ci sono politici, alti funzionari, militari, imprenditori che hanno accumulato, grazie alla complicità di governi, funzionari, banchieri dei paesi occidentali enormi fortune all'estero. Questa enorme massa di denaro ha alimentato l'economia dei paesi ricchi, ma è stata letteralmente sottratta alle donne e agli uomini dell'Africa.
La mancanza di democrazia in gran parte dei paesi dell'Africa, le continue guerre e l'instabilità di quasi tutto il continente, la mancanza di controlli, le pratiche dettate dall'urgenza di finanziare gli aiuti umanitari e le politiche di sviluppo hanno permesso di creare questo sistema perverso. Naturalmente per fare questi trucchi è necessario anche un sistema finanziario internazionale che lo permetta e lo nasconda e quindi sono stati utilizzati i cosiddetti paradisi fiscali, ci si è fatto scudo del segreto bancario, insomma sono stati utilizzati tutti quei sistemi che i più spregiudicati tra gli uomini della finanza del mondo sviluppato hanno alimentato, con la passiva connivenza di troppi governi, nonostante alcune reiterate minacce di controlli.
In altre "considerazioni" ho raccontato alcune storie specifiche, come quelle legate alla costruzione delle grandi dighe nella Repubblica Democratica del Congo e in Etiopia, credo sia necessario avere almeno la percezione di cosa avviene a livello globale: una storia che non ci piace.
lunedì 5 aprile 2010
Storie (II). "L'incontro..."
"Signor comandante, mi scusi. Ho capito di aver sbagliato. Lo so che ci avete ordinato di non sparare ai civili. Mi scusi. Lo so che adesso il villaggio è in rivolta, perché ho ucciso quel poveretto. Ho avuto paura, signor comandante. Mi scusi. Lo so, adesso lo so, che era disarmato, che era solo un povero matto. Signor comandante, ho sbagliato. Avrebbe dovuto vedere come correva veloce. Ho fatto uno sbaglio ad allontanarmi dai miei compagni, lo so. Sembrava un fulmine, signor comandante, l'ho visto correre. Mi scusi, signor comandante. Ho sparato. Correva verso di me. Ho sbagliato ad abbandonare la mia posizione. Era veloce, sembrava un fulmine. Correva. Ho avuto paura. Ho sparato. Dica a sua madre che non ha sofferto. Ho avuto paura, signor comandante".
Mia madre non vuole più che esca da solo. Non mi piace stare sempre in casa, non posso più correre. A me piace correre. Da quando ci sono tutti questi rumori, di giorno e di notte, questi lampi nel cielo, senza che venga poi a piovere, mia madre non vuole più che esca da solo. Mia madre dice che quei rumori e quei lampi sono cattivi e che posso uscire solo se sono con lei. A me piace correre: sono il più veloce di tutti. Da quando sono cominciati i rumori e i lampi, mia madre è strana. Tutta la gente è strana. Li vedo dalla finestra, camminare veloci, lungo i muri delle case, tutti sembrano tristi. Quando usciamo per comprare le cose da mangiare, in giro vedo solo donne, bambini e vecchi. Sono tutti tristi, guardano verso la collina da dove vengono i rumori e i lampi. In paese non ci sono più uomini e non ci sono più i miei amici. Io sono più veloce di tutti i miei amici, nessuno corre più veloce di me. Mi piacciono i miei amici, loro sono diversi da me, loro parlano e mi chiamano lepre, perché corro più veloce di tutti loro. I miei amici si sono tutti sposati e hanno avuto dei bambini, mi piace correre insieme ai bambini. Da quando sono cominciati i rumori non posso più correre. Mia madre chiude la porta e tiene la chiave sempre con lei. La tiene nella tasca del grembiule, insieme alla piccola fotografia di mio padre. Mia madre non è come me, mia madre parla. Chissà se mio padre parla o se è come me. Chissà se mio padre corre più veloce di me. Vorrei fargli vedere come so correre veloce. Corro più veloce di tutti. Mi piace correre. Quando non c'erano i rumori e i lampi, correvo per i campi e gli amici urlavano, quando mi vedevano. Mi chiamano lepre, perché nessuno corre come me. Io non ho mai visto mio padre, non l'ho mai visto come vedo mia madre. Vedo tutti i giorni la fotografia che è sopra il camino. In paese non ho mai visto nessuno con dei vestiti come mio padre. Mio padre non è un contadino: porta i pantaloni e la giacca dello stesso colore, e porta uno strano berretto. Porta gli stivali lucidi e una grande cintura. E poi tiene in mano una strana cosa, non so come si chiama. In paese non ho mai visto nessuno con in mano una cosa così. Mia madre dice sempre che un giorno incontrerò mio padre in un posto bellissimo. Io molte volte di notte immagino di vedere mio padre, e gli corro incontro più veloce che posso. Nessuno corre più veloce di me. A me piace correre. Quando ero piccolo andavo lontano e mi riportavano a casa i padri dei miei amici. Stamattina i rumori e i lampi sono più forti del solito. Ma io non ho paura. La nostra vicina sta urlando, piange, mia madre esce e non chiude a chiave la porta. Forse posso uscire. E' tanto tempo che non esco da solo. Corro per la strada. Qualcuno mi ha visto, sento urlare lepre dietro di me. Che bello tornare a correre. Sono il più veloce di tutti, corro nei campi. Se potesse vedermi mio padre, se potesse vedere come corro veloce. Nessuno corre più veloce di me. C'è qualcuno là in fondo. E' mio padre, il berretto, gli stivali, la grande cintura e ha in mano quella cosa, proprio come nella fotografia. Guarda come corro veloce.
"Dottore, questa notte è stata terribile. Ho sognato ancora quell'uomo. Dottore, perché quell'uomo mi sorrideva?"
Questa opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
Mia madre non vuole più che esca da solo. Non mi piace stare sempre in casa, non posso più correre. A me piace correre. Da quando ci sono tutti questi rumori, di giorno e di notte, questi lampi nel cielo, senza che venga poi a piovere, mia madre non vuole più che esca da solo. Mia madre dice che quei rumori e quei lampi sono cattivi e che posso uscire solo se sono con lei. A me piace correre: sono il più veloce di tutti. Da quando sono cominciati i rumori e i lampi, mia madre è strana. Tutta la gente è strana. Li vedo dalla finestra, camminare veloci, lungo i muri delle case, tutti sembrano tristi. Quando usciamo per comprare le cose da mangiare, in giro vedo solo donne, bambini e vecchi. Sono tutti tristi, guardano verso la collina da dove vengono i rumori e i lampi. In paese non ci sono più uomini e non ci sono più i miei amici. Io sono più veloce di tutti i miei amici, nessuno corre più veloce di me. Mi piacciono i miei amici, loro sono diversi da me, loro parlano e mi chiamano lepre, perché corro più veloce di tutti loro. I miei amici si sono tutti sposati e hanno avuto dei bambini, mi piace correre insieme ai bambini. Da quando sono cominciati i rumori non posso più correre. Mia madre chiude la porta e tiene la chiave sempre con lei. La tiene nella tasca del grembiule, insieme alla piccola fotografia di mio padre. Mia madre non è come me, mia madre parla. Chissà se mio padre parla o se è come me. Chissà se mio padre corre più veloce di me. Vorrei fargli vedere come so correre veloce. Corro più veloce di tutti. Mi piace correre. Quando non c'erano i rumori e i lampi, correvo per i campi e gli amici urlavano, quando mi vedevano. Mi chiamano lepre, perché nessuno corre come me. Io non ho mai visto mio padre, non l'ho mai visto come vedo mia madre. Vedo tutti i giorni la fotografia che è sopra il camino. In paese non ho mai visto nessuno con dei vestiti come mio padre. Mio padre non è un contadino: porta i pantaloni e la giacca dello stesso colore, e porta uno strano berretto. Porta gli stivali lucidi e una grande cintura. E poi tiene in mano una strana cosa, non so come si chiama. In paese non ho mai visto nessuno con in mano una cosa così. Mia madre dice sempre che un giorno incontrerò mio padre in un posto bellissimo. Io molte volte di notte immagino di vedere mio padre, e gli corro incontro più veloce che posso. Nessuno corre più veloce di me. A me piace correre. Quando ero piccolo andavo lontano e mi riportavano a casa i padri dei miei amici. Stamattina i rumori e i lampi sono più forti del solito. Ma io non ho paura. La nostra vicina sta urlando, piange, mia madre esce e non chiude a chiave la porta. Forse posso uscire. E' tanto tempo che non esco da solo. Corro per la strada. Qualcuno mi ha visto, sento urlare lepre dietro di me. Che bello tornare a correre. Sono il più veloce di tutti, corro nei campi. Se potesse vedermi mio padre, se potesse vedere come corro veloce. Nessuno corre più veloce di me. C'è qualcuno là in fondo. E' mio padre, il berretto, gli stivali, la grande cintura e ha in mano quella cosa, proprio come nella fotografia. Guarda come corro veloce.
"Dottore, questa notte è stata terribile. Ho sognato ancora quell'uomo. Dottore, perché quell'uomo mi sorrideva?"
Questa opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
domenica 4 aprile 2010
"Cento poesie d'amore, 48" di Adonis
Certo (questa è una parola che non ho detto - è dettata da lei)
certo, quando ci incontreremo
le foreste dei nostri giorni rinnoveranno le foglie,
quei campi che nei nostri corpi sospirano
cambieranno i fiori, e il luogo dell'incontro sembrerà
un letto che la mano
delle terre intesse di desiderio e incanto.
Benvenuta,
tu lava risalente dai vulcani spenti dei miei desideri,
(queste parole non sono state pronunciate da me, sono dettate da lei).
certo, quando ci incontreremo
le foreste dei nostri giorni rinnoveranno le foglie,
quei campi che nei nostri corpi sospirano
cambieranno i fiori, e il luogo dell'incontro sembrerà
un letto che la mano
delle terre intesse di desiderio e incanto.
Benvenuta,
tu lava risalente dai vulcani spenti dei miei desideri,
(queste parole non sono state pronunciate da me, sono dettate da lei).
sabato 3 aprile 2010
Considerazioni libere (97): a proposito di minori, alcol e regole...
Per i miei assidui e pazienti lettori che non sono bolognesi riassumo brevemente una vicenda di cui in questi giorni si parla molto nella mia città. Mercoledì scorso, il 31 marzo, una ragazza bolognese di 15 anni, insieme a tre coetanei, è andata al cinema; dopo il film, invece di andare a mangiare una pizza - come la giovane aveva detto alla madre, con l'impegno di rientrare entro mezzanotte - i quattro sono andati in un locale del centro. Qui la ragazza pare abbia bevuto tre mojito e sei vodke. Uscita dal locale si è sentita male, ha chiamato la madre ed è stata immediatamente portata all'ospedale. Ora la ragazza sta bene, ma ha rischiato moltissimo: un altro bicchiere e sarebbe entrata in coma etilico. La madre, dopo aver sporto denuncia contro il gestore del bar che non ha controllato l'età dei ragazzi, ha scritto una lettera a una televisione locale bolognese per stigmatizzare il comportamento dei gestori dei locali, colpevoli di dare alcol ai minorenni, senza alcun tipo di controllo. Nei giornali di questi giorni, i gestori si difendono, lamentando l'impossibilità di riuscire a controllare tutte le persone che entrano nei locali, spiegando che in molti casi i maggiorenni prendono da bere anche per i minorenni, per aggirare i controlli. Le associazioni di categoria hanno preso posizione, smentendo la madre. I politici "proibizionisti" non hanno mancato di fare dichiarazioni per chiedere regole più severe su bar e discoteche e la polemica si è alimentata con le solite parti in commedia. Il Comune promette controlli più severi, anche con l'utilizzo di vigili urbani in borghese nei locali.
Questa la vicenda e le polemiche - non molto fruttuose - che ne sono seguite. Francamente credo che, come spesso succede, si sia perso di vista l'elemento essenziale del problema.
Certamente ci sono gestori dei locali che chiudono anche due occhi e non rinunciano ai loro guadagni, chiedendo le carte di identità ai loro troppo giovani clienti. So bene, anche per diretta esperienza, che è difficile controllare tutti, specialmente in certe serate, e che spesso sono gli stessi ragazzi - e le ragazze - a ingannare deliberatamente i baristi. Vi assicuro che a volte non è facile dire che una ragazza è minorenne e che altrettanto spesso i ragazzi più grandi sono "complici" dei loro amici più giovani. Però è possibile controllare ed è un dovere etico che ogni gestore dovrebbe sentire. E quindi è sacrosanto fare dei controlli e punire, anche severamente, chi non rispetta le regole che ci sono e che vanno semplicemente applicate. Però non possiamo pretendere che i gestori dei locali diventino un'agenzia educativa; le famiglie non possono pensare che i loro figli troveranno sempre un barista attento e coscienzioso che vigilierà su di loro.
La responsabilità di questa storia, finita per fortuna bene, è prima di tutto della ragazza che, pur sentendosi abbastanza grande per uscire di sera con i suoi amici, non è in grado di controllarsi e di capire che il suo fisico non può sopportare quella dose di alcol. Poi c'è la responsabilità degli amici che non hanno capito quello che stava succedendo e non hanno fatto nulla per fermare il gioco pericoloso della loro amica. E poi c'è la responsabilità della madre e del padre della ragazza. E questa sinceramente mi sembra la più grave tra le tante emerse. Quando hanno dato il permesso a loro figlia di stare fuori fino a mezzanotte, quando le hanno dato i soldi per il cinema e per la cena (non dovevano essere pochi: tre mojito e sei vodke in un bar del centro costano parecchio), hanno valutato se la loro figlia era abbastanza matura per una responsabilità del genere? Conoscevano gli amici con cui stava uscendo? Evidentemente no, perché né la loro figlia né i suoi amici sono abbastanza maturi. Sicuramente è stata la prima volta che la ragazza ha osato tanto, ma francamente viene il sospetto che forse altre volte ci abbia provato, magari con quantità meno forti. In genere si scopre per gradi fino a che punto possiamo arrivare a reggere l'alcol, fino alla sera in cui non ci si rende conto che il limite è stato raggiunto, con tutte le conseguenza del caso - penso ci siamo passati in molti: in questo caso o la ragazza ha provato per la prima volta e nel caso non era certo pronta per uscire da sola oppure aveva già fatto delle "tappe di avvicinamento" ed è grave che la madre non se ne sia accorta. Quindi la madre, oltre a denunciare il barista, farebbe bene anche a capire dove ha sbagliato.
Questa la vicenda e le polemiche - non molto fruttuose - che ne sono seguite. Francamente credo che, come spesso succede, si sia perso di vista l'elemento essenziale del problema.
Certamente ci sono gestori dei locali che chiudono anche due occhi e non rinunciano ai loro guadagni, chiedendo le carte di identità ai loro troppo giovani clienti. So bene, anche per diretta esperienza, che è difficile controllare tutti, specialmente in certe serate, e che spesso sono gli stessi ragazzi - e le ragazze - a ingannare deliberatamente i baristi. Vi assicuro che a volte non è facile dire che una ragazza è minorenne e che altrettanto spesso i ragazzi più grandi sono "complici" dei loro amici più giovani. Però è possibile controllare ed è un dovere etico che ogni gestore dovrebbe sentire. E quindi è sacrosanto fare dei controlli e punire, anche severamente, chi non rispetta le regole che ci sono e che vanno semplicemente applicate. Però non possiamo pretendere che i gestori dei locali diventino un'agenzia educativa; le famiglie non possono pensare che i loro figli troveranno sempre un barista attento e coscienzioso che vigilierà su di loro.
La responsabilità di questa storia, finita per fortuna bene, è prima di tutto della ragazza che, pur sentendosi abbastanza grande per uscire di sera con i suoi amici, non è in grado di controllarsi e di capire che il suo fisico non può sopportare quella dose di alcol. Poi c'è la responsabilità degli amici che non hanno capito quello che stava succedendo e non hanno fatto nulla per fermare il gioco pericoloso della loro amica. E poi c'è la responsabilità della madre e del padre della ragazza. E questa sinceramente mi sembra la più grave tra le tante emerse. Quando hanno dato il permesso a loro figlia di stare fuori fino a mezzanotte, quando le hanno dato i soldi per il cinema e per la cena (non dovevano essere pochi: tre mojito e sei vodke in un bar del centro costano parecchio), hanno valutato se la loro figlia era abbastanza matura per una responsabilità del genere? Conoscevano gli amici con cui stava uscendo? Evidentemente no, perché né la loro figlia né i suoi amici sono abbastanza maturi. Sicuramente è stata la prima volta che la ragazza ha osato tanto, ma francamente viene il sospetto che forse altre volte ci abbia provato, magari con quantità meno forti. In genere si scopre per gradi fino a che punto possiamo arrivare a reggere l'alcol, fino alla sera in cui non ci si rende conto che il limite è stato raggiunto, con tutte le conseguenza del caso - penso ci siamo passati in molti: in questo caso o la ragazza ha provato per la prima volta e nel caso non era certo pronta per uscire da sola oppure aveva già fatto delle "tappe di avvicinamento" ed è grave che la madre non se ne sia accorta. Quindi la madre, oltre a denunciare il barista, farebbe bene anche a capire dove ha sbagliato.
Considerazioni libere (96): a proposito dei bambini di Falluja...
Tra qualche mese le truppe occidentali lasceranno l'Iraq. Prima c'era la dittatura di Saddam Hussein, ora ci sono un presidente e un parlamento eletti democraticamente. Nessuno, neppure coloro che hanno criticato più aspramente i motivi che hanno spinto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a intervenire in quel paese, può negare che questa sia una cosa positiva. Eppure...
Eppure i medici di Falluja stanno registrando un aumento anomalo di malformazioni congenite e di tumori nei bambini. Falluja è stata uno degli obiettivi degli scontri nella parte occidentale del paese, teatro di due offensive delle truppe statunitensi nel 2004. Non esistono dati precisi. Ci sono bambini che nascono con due teste, altri che hanno tumori multipli, altri ancora con problemi al sistema nervoso centrale. Il giornalista del Guardian Martin Chulov ha intervistato alcuni medici e pediatri che lavorano a Falluja, ha raccolto dati, testimonianze, in un articolo che vi invito a leggere. Il dottor Bassam Allah, primario del reparto pediatrico dell'ospedale della città ha dichiarato: "Mi creda, adesso è come se stessimo curando pazienti subito dopo Hiroshima".
Un aumento dei tumori infantili si registra da diversi anni a Bassora, una delle città più colpite già nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, e anche a Najaf, dove ci sono stati intensi combattimenti nel 2004, i tumori stanno aumentando, come a Falluja. Gli stessi medici non sono certi delle cause che hanno scatenato questo aumento di tumori. O meglio non riescono a individuare una sola causa. Forse l'utilizzo di armi proibite - il Pentagono ha ammesso che a Falluja è stato utilizzato il fosforo bianco - forse l'aumento dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, forse la malnutrizione e le mancate cure durante la gravidanza, forse un effetto legato alla condizione psicologica delle madri. Certo chi ha voluto e chi ha condotto la guerra, direttamente o indirettamente, è responsabile di tutto questo.
Il ritorno alla democrazia in Iraq giustifica i bambini deformi e malati di Bassora e di Falluja? Forse sì, forse il sacrificio di quei bambini è necessario per garantire un futuro diverso e migliore per molti altri bambini. Eppure...
Eppure c'è qualcosa che morde la coscienza a leggere queste notizie, a vedere i filmati che accompagnano l'articolo di Chulov. Vorrei che la politica desse una risposta a questi interrogativi. Credo che una buona politica potrebbe spiegarci che i bambini deformi e malati di Falluja sono un male necessario, ma dovrebbe impegnarsi con altrettanta energia a curare i malati e ad eliminare i fattori di rischio; a Falluja non sta avvenendo né una cosa né l'altra, purtroppo. Una buona politica potrebbe convincerci che i bambini di Falluja sono il sacrificio doloroso e necessario che il mondo deve alla crescita della sua civiltà, ma onestamente ora nessuno è in grado di dirci che l'Iraq di domani sarà migliore del paese che abbiamo conosciuto.
Eppure i medici di Falluja stanno registrando un aumento anomalo di malformazioni congenite e di tumori nei bambini. Falluja è stata uno degli obiettivi degli scontri nella parte occidentale del paese, teatro di due offensive delle truppe statunitensi nel 2004. Non esistono dati precisi. Ci sono bambini che nascono con due teste, altri che hanno tumori multipli, altri ancora con problemi al sistema nervoso centrale. Il giornalista del Guardian Martin Chulov ha intervistato alcuni medici e pediatri che lavorano a Falluja, ha raccolto dati, testimonianze, in un articolo che vi invito a leggere. Il dottor Bassam Allah, primario del reparto pediatrico dell'ospedale della città ha dichiarato: "Mi creda, adesso è come se stessimo curando pazienti subito dopo Hiroshima".
Un aumento dei tumori infantili si registra da diversi anni a Bassora, una delle città più colpite già nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, e anche a Najaf, dove ci sono stati intensi combattimenti nel 2004, i tumori stanno aumentando, come a Falluja. Gli stessi medici non sono certi delle cause che hanno scatenato questo aumento di tumori. O meglio non riescono a individuare una sola causa. Forse l'utilizzo di armi proibite - il Pentagono ha ammesso che a Falluja è stato utilizzato il fosforo bianco - forse l'aumento dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, forse la malnutrizione e le mancate cure durante la gravidanza, forse un effetto legato alla condizione psicologica delle madri. Certo chi ha voluto e chi ha condotto la guerra, direttamente o indirettamente, è responsabile di tutto questo.
Il ritorno alla democrazia in Iraq giustifica i bambini deformi e malati di Bassora e di Falluja? Forse sì, forse il sacrificio di quei bambini è necessario per garantire un futuro diverso e migliore per molti altri bambini. Eppure...
Eppure c'è qualcosa che morde la coscienza a leggere queste notizie, a vedere i filmati che accompagnano l'articolo di Chulov. Vorrei che la politica desse una risposta a questi interrogativi. Credo che una buona politica potrebbe spiegarci che i bambini deformi e malati di Falluja sono un male necessario, ma dovrebbe impegnarsi con altrettanta energia a curare i malati e ad eliminare i fattori di rischio; a Falluja non sta avvenendo né una cosa né l'altra, purtroppo. Una buona politica potrebbe convincerci che i bambini di Falluja sono il sacrificio doloroso e necessario che il mondo deve alla crescita della sua civiltà, ma onestamente ora nessuno è in grado di dirci che l'Iraq di domani sarà migliore del paese che abbiamo conosciuto.
"Arcipelaghi" di Derek Walcott
Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All'orlo della pioggia una vela.
Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un'intera razza.
La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.
Il gocciolio si tende come le corde di un'arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell'Odissea.
All'orlo della pioggia una vela.
Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un'intera razza.
La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.
Il gocciolio si tende come le corde di un'arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell'Odissea.
Considerazioni libere (95): a proposito della pillola Ru486...
L'avvio in questi giorni dell'utilizzo negli ospedali italiani della pillola abortiva Ru486 ha riacceso il dibattito su un tema così delicato come l'aborto. Le dichiarazioni degli appena eletti presidenti del Piemonte e del Veneto, Cota e Zaia - al di là della subitanea correzione di rotta imposta da Bossi - ha scatenato un dibattito che, anche a sinistra, ha immediatamente allontanato la questione dal tema centrale: la tutela della salute della donna. Alle improvvide dichiarazioni degli esponenti leghisti ha subito fatto eco il plauso del cardinale di turno e quindi a ruota le prese di posizione dei politici dell'uno e dell'altro schieramento e quindi dei commentatori che si sono cimentati in analisi sul rapporto tra Lega e gerachie ecclesiastiche e così via. Sullo sfondo rimangono le donne, i loro drammi, le loro difficili scelte: di questo ormai non si occupa più nessuno.
In questo clima, è stata una piacevole sorpresa l'intervista che è pubblicata questa mattina sul Corriere della sera a Giorgio Lambertenghi Deliliers, che è presidente dell'Associazione medici cattolici di Milano e che conseguentemente si dichiara "anti-abortista al 100 per 100". Al di là di questa affermazione di principio, che non condivido, l'intervista a Lambertenghi Deliliers rappresenta una posizione di grande equilibrio, in cui mi riconosco completamente. Il suo ragionamento parte da due affermazioni di fondo. Il medico dice che "la legge va rispettata. In difesa delle donne che altrimenti rischiano di tornare ad abortire clandestinamente". Poi afferma che "l'aborto non è mai una passeggiata". Coerentemente con questi principi, il dottor Lambertenghi Deliliers spiega che la donna - e anche i suoi genitori, quando si tratta di una minorenne - deve essere pienamente informata e che la Ru486 deve essere somministrata in ambiente protetto, in modo che l'aborto possa avvenire in ospedale, per evitare le conseguenze di possibili effetti collaterali. L'elemento centrale, al di là di ogni posizione ideologica, rimane la tutela della salute della donna.
A me piacerebbe che tutti quelli che in questi giorni si dovranno occupare di questa delicata questione si attenessero a questi semplici principi. L'aborto è una cosa troppo seria e drammatica per farne una battaglia ideologica, avulsa dalle circostanze, dalle storie e dalle condizioni di salute di ciascuna delle pazienti che in questi giorni decideranno di abortire, utilizzando la pillola Ru486. Francamente trovo altrettanto stonate le dichiarazioni della coppia Cota-Zaia e quelle di chi plaude il fatto che la Puglia, sottinteso la Puglia di Vendola, sarà la prima regione a utilizzare questo sistema.
Non è questione di chi arriverà per primo, né se sarà una regione governata dal centrodestra o dal centrosinistra, l'importante è che la scelta sia consapevole e che avvenga nelle massime condizioni di sicurezza. Se si valuterà necessario un ricovero di qualche giorno è bene che avvenga così, se paziente e medici valuteranno che sarà sufficiente la somministrazione in day hospital è giusto che questa sia la scelta. Occorre tenere conto infatti non solo delle implicazioni strettamente cliniche, ma anche di quelle psicologiche; se una donna riterrà meglio affrontare questo difficile momento della sua vita accanto alle persone che ama è bene che sia così. In alcuni altri casi probabilmente è meglio che un ricovero eviti alla donna l'ulteriore stress provocato da una situazione familiare complicata.
In una mia precedente "considerazione" (la nr. 90, per la precisione), che ho dedicato al dramma degli aborti selettivi in Cina e in India, ho citato una frase di Bill Clinton che mi pare riassuma meglio di ogni altra la posizione che un laico dovrebbe avere sull'argomento: l'aborto deve essere "sicuro, legale e raro".
In questo clima, è stata una piacevole sorpresa l'intervista che è pubblicata questa mattina sul Corriere della sera a Giorgio Lambertenghi Deliliers, che è presidente dell'Associazione medici cattolici di Milano e che conseguentemente si dichiara "anti-abortista al 100 per 100". Al di là di questa affermazione di principio, che non condivido, l'intervista a Lambertenghi Deliliers rappresenta una posizione di grande equilibrio, in cui mi riconosco completamente. Il suo ragionamento parte da due affermazioni di fondo. Il medico dice che "la legge va rispettata. In difesa delle donne che altrimenti rischiano di tornare ad abortire clandestinamente". Poi afferma che "l'aborto non è mai una passeggiata". Coerentemente con questi principi, il dottor Lambertenghi Deliliers spiega che la donna - e anche i suoi genitori, quando si tratta di una minorenne - deve essere pienamente informata e che la Ru486 deve essere somministrata in ambiente protetto, in modo che l'aborto possa avvenire in ospedale, per evitare le conseguenze di possibili effetti collaterali. L'elemento centrale, al di là di ogni posizione ideologica, rimane la tutela della salute della donna.
A me piacerebbe che tutti quelli che in questi giorni si dovranno occupare di questa delicata questione si attenessero a questi semplici principi. L'aborto è una cosa troppo seria e drammatica per farne una battaglia ideologica, avulsa dalle circostanze, dalle storie e dalle condizioni di salute di ciascuna delle pazienti che in questi giorni decideranno di abortire, utilizzando la pillola Ru486. Francamente trovo altrettanto stonate le dichiarazioni della coppia Cota-Zaia e quelle di chi plaude il fatto che la Puglia, sottinteso la Puglia di Vendola, sarà la prima regione a utilizzare questo sistema.
Non è questione di chi arriverà per primo, né se sarà una regione governata dal centrodestra o dal centrosinistra, l'importante è che la scelta sia consapevole e che avvenga nelle massime condizioni di sicurezza. Se si valuterà necessario un ricovero di qualche giorno è bene che avvenga così, se paziente e medici valuteranno che sarà sufficiente la somministrazione in day hospital è giusto che questa sia la scelta. Occorre tenere conto infatti non solo delle implicazioni strettamente cliniche, ma anche di quelle psicologiche; se una donna riterrà meglio affrontare questo difficile momento della sua vita accanto alle persone che ama è bene che sia così. In alcuni altri casi probabilmente è meglio che un ricovero eviti alla donna l'ulteriore stress provocato da una situazione familiare complicata.
In una mia precedente "considerazione" (la nr. 90, per la precisione), che ho dedicato al dramma degli aborti selettivi in Cina e in India, ho citato una frase di Bill Clinton che mi pare riassuma meglio di ogni altra la posizione che un laico dovrebbe avere sull'argomento: l'aborto deve essere "sicuro, legale e raro".
Iscriviti a:
Post (Atom)