Mascherina, sost. f.
Visto che ormai la mascherina è diventata un'indispensabile compagna delle nostre vite, il lasciapassare grazie a cui possiamo entrare nei negozi, nei ristoranti, dopodomani nei cinema e nei teatri, credo meriti raccontare la storia etimologica di questa parola. Chissà che possa insegnarci qualcosa.
Si tratta di una storia relativamente recente, perché nel latino classico - quello del Calonghi, per intenderci - per indicare la maschera si usa il termine persona, dal momento che le maschere di legno indossate sempre in scena dagli attori nelle tragedie e nelle commedie, sono costruite in modo tale da amplificare al massimo possibile il suono della voce. Invece nel latino medievale si è cominciata a diffondere questa parola, proveniente con molta probabilità dal mondo longobardo, con il significato di strega. Perché la strega è una donna che si camuffa, che si nasconde per incutere paura o per ingannare.
Chissà se il diciannovenne Thomas Lyle Williams conosceva questa etimologia, quando nel 1915 a Chicago ha combinato insieme polvere di carbone e vaselina allo stato gelatinoso per creare un prodotto che sua sorella Mabel potesse usare per truccarsi gli occhi. Probabilmente la parola spagnola gli è suonata più esotica e poi voleva trovare un termine diverso da rimmel, dal nome del chimico francese che lo aveva creato a metà dell'Ottocento. Comunque sia le streghe quando vogliono sedurre noi poveri mortali non devono far altro che sbattere i loro occhi con quelle ciglia lunghissime, merito indubbiamente del mascara. E poi visto che Mabel è stata molto soddisfatta del trucco creato dal fratello, Thomas ha deciso di cominciare a venderlo per posta e dopo qualche anno ha fondato la Maybelline, diventata negli anni una delle maggiori fornitrici per le streghe.
Altri etimologisti collegano invece la parola maschera al verbo manducare, ossia mangiare. Perché il manducus, che troviamo ad esempio nelle commedie di Plauto - recitate anch'esse con le personae -, non è solo uno che mangia tanto, ma è anche l'orco. E questo personaggio, come ci insegna anche la famiglia Malaussène, ha spesso bisogno di camuffarsi per ingannare le proprie prede.
Cominciano a diventare sinistre queste maschere. Tant'è vero che gli psicologi parlano di mascafobia che colpisce specialmente i bambini piccoli. Quando si trovano di fronte a volti irriconoscibili, spesso con bocche che non si muovono, facendo sembrare che la voce esca dal nulla, i bambini si spaventano. E si spaventano anche di più quando quelle strane maschere le indossano i loro genitori: chi è quello strano tipo che sembra mio papà, ma ha un'altra faccia? E poi una maschera nasconde le espressioni facciali che permettono ai bambini - ma anche a noi che non lo siamo più da un pezzo - di capire le vere intenzioni di chi abbiamo di fronte. Perché le parole spesso ingannano, almeno quanto uno sbattere di ciglia.
Un'altra scuola di pensiero ritiene che questa parola derivi dall'arabo mascharat, che significa buffonata, scherzo. Gli etimologisti credono che questa parola sia arrivata in Europa a seguito del ritorno dei crociati, che peraltro non erano certo andati laggiù a scherzare. E infatti noi a carnevale, il solo periodo dell'anno in cui licet insanire, ci mascheriamo. Così, per divertirci, mentre il resto dell'anno mettiamo una maschera per far finta di essere migliori di quello che effettivamente siamo. O perché gli altri ci vogliono con quella maschera. E non sempre queste nostre maschere quotidiane riescono a nascondere il fatto che siamo orchi e streghe. I bambini, loro malgrado, devono imparare in fretta ad avere paura di noi.
E noi adesso perché usiamo le mascherine? Non per nascondere, né per sedurre - anche se ormai ci sono mascherine di vari colori il cui scopo è evidentemente quello di attirare l'attenzione, come le piume di un pavone - non per ingannare, né tanto meno per scherzare. Le usiamo per proteggere. A dire la verità io sono convinto che molti di noi pensino che serva unicamente a proteggerci, altrimenti col cavolo che sopporteremmo questo innegabile fastidio. La usiamo perché non vogliamo che gli altri ci infettino, perché sono sempre gli altri a essere malati: è sempre colpa degli altri. Invece dobbiamo indossare la mascherina per non infettare gli altri. Dobbiamo ricordare, tutte le volte che con la mascherina nascondiamo il nostro sorriso o il nostro ghigno, che gli orchi e le streghe possiamo essere noi. Sta a vedere che questa è l'unica maschera che alla fine racconta la verità.
giovedì 28 maggio 2020
domenica 24 maggio 2020
Verba volant (769): specchio...
Specchio, sost. m.
Confesso che è stato piuttosto faticoso arrivare alla fine della Traviata firmata da Sofia Coppola e dalla maison Valentino, tanto sontuosamente quanto inutilmente patinata. Non fosse stato per la musica di Verdi - che praticamente nulla riesce a rovinare - avrei cambiato canale.
Secondo questa versione Violetta Valéry sarebbe una donna parigina, molto bella e molto corteggiata, che rifiuta le attenzioni di un uomo ricco e potente per legarsi a un giovane innamorato e spiantato. Ma alla fine muore. Sipario. Un bell'applauso. Peccato che Verdi e Piave raccontino tutta un'altra storia. Violetta è una puttana, anzi la puttana più ricercata di Parigi, che, grazie al proprio lavoro, vive nella ricchezza, possiede una casa in città e una in campagna, si può permettere vestiti firmati e gioielli, organizza feste sontuose. E che a un certo punto decide di rinunciare a tutto questo per amore di un giovane che dice di amarla, ma che, non disponendo delle cospicue sostanze della propria famiglia, controllate dal padre, lei deve mantenere nel lusso. Visto che però, per amore, ha smesso di "esercitare", i soldi rapidamente finiscono e soprattutto Violetta deve accettare la terribile malattia che per mesi ha cercato di nascondere agli altri e se stessa.
I versi di Piave, che pure scrive con grande cautela, dosando le parole, perché sa che devono superare una censura molto rigida e codina, non lasciano spazio a equivoci di sorta: Violetta fa quel mestiere, fino alla fine dei suoi giorni. E infatti i gestori della Fenice, nel 1853, quando lo spettacolo va in scena per la prima volta, nella locandina scrivono che la scena si svolge a "Parigi e vicinanze nel 1700 circa". Marie Duplessis - la donna che Dumas chiama Marguerite Gautier e Piave Violetta Valéry - è morta da appena sei anni: Verdi e Piave stanno raccontando una storia d'attualità. Non nascondendo nulla, al massimo attenuandone alcuni aspetti.
Perché centosessantatré anni dopo una giovane e talentuosa regista non ha il coraggio di raccontare questa storia? Perché, tra l'altro avendo una fama che le permette di fare sostanzialmente quello che vuole, si censura in questo modo, anche così goffamente? Questa lussuosa versione della Traviata, anche se non ci racconta la vera storia di Violetta, ha comunque un merito: ci racconta, al di là delle intenzioni degli esecutori e dei "mandanti", molto di noi, di questa nostra società così ottusamente maschilista e ipocrita. Ci dice che ci sono argomenti che non vogliamo affrontare - che neppure una donna se vuole avere successo deve affrontare - e soprattutto che non siamo pronti a raccontare una storia in cui una donna, una donna come Violetta, è la vera protagonista, indipendentemente dagli uomini che le girano intorno.
Si può raccontare in prima serata su Rai Uno la favola di una puttana "salvata" da Richard Gere. Ma è meglio non far vedere - neppure su Rai Cinque - la storia di una donna che non aspetta il suo cavaliere su un bianco destriero, ma è lei che rende migliori gli uomini che ne hanno conosciuto il valore. Il vecchio Germont è quello che più lucidamente, di fronte a Violetta che muore, confessa la propria meschinità. Forse dopo qualche mese si sarà dimenticato di quelle parole e tornerà a essere lo stronzo che abbiamo conosciuto nel secondo atto, ma in quel momento cade la sua maschera di ipocrita perbenista - di uno che ha speso soldi per donne così - e capisce che quella che lui ha sempre considerato un essere inferiore è migliore di lui. Non sappiamo se anche Alfredo in quel momento si renda conto di quale fortuna abbia avuto a essere amato, seppur per un breve periodo, da una donna come Violetta: in tutto il dramma non dimostra mai grande perspicacia ed è difficile immaginare che proprio adesso gli si svegli un neurone.
Di tutto questo immagino non si siano resi conto gli incolpevoli e inconsapevoli spettatori della prima, rigorosamente invitati dalla maison. Peccato, immagino che tra di loro fossero parecchi i "clienti" di professioniste come Violetta. E anche qualche ipocrita come Germont. Forse perfino qualche puttana è riuscita ad accaparrarsi l'ambito invito: comprensibile, visto che chi ha da vendere cerca sempre di andare dove ci sono quelli che comprano.
No, meglio non raccontare questa storia, meglio far finta che sia un feuilleton ottocentesco, per non urtare la sensibilità del gentile pubblico, degli invitati illustri. E soprattutto perché così come l'hanno scritta Verdi e Piave non è rappresentabile. Meglio attenuarne la carica eversiva. Meglio sfumare se si vuole fare uno spettacolo di successo. Alla fine lei muore. Sipario. Un bell'applauso.
Traviata è l'unica opera in cui Verdi decide di mettere in scena direttamente il suo pubblico. Lo fa naturalmente in tutte le sue opere, anche in Rigoletto e nel Trovatore, anche quando la scena è ambientata in un tempo lontano, ma in Traviata lo fa senza alcuno schermo. È come se, alzato il sipario, ci fosse sul palco un enorme specchio: chiunque di voi, ci dicono Verdi e Piave, può partecipare a queste feste organizzate da Violetta e da Flora. Per tradire Verdi e Piave basta decidere di togliere quello specchio, come ha fatto Sofia Coppola, come ha fatto Liliana Cavani nella celebre edizione della Scala del 1990 - dove per sicurezza quest'opera non è stata rappresentata per quasi trent'anni - come fanno quasi tutti i grandi teatri - ma voglio citare la Traviata del Festival Verdi di Parma del 2007 in cui Violetta è una puttana senza infingimenti. Meglio raccontare soltanto una storia d'amore finita male.
Confesso che è stato piuttosto faticoso arrivare alla fine della Traviata firmata da Sofia Coppola e dalla maison Valentino, tanto sontuosamente quanto inutilmente patinata. Non fosse stato per la musica di Verdi - che praticamente nulla riesce a rovinare - avrei cambiato canale.
Secondo questa versione Violetta Valéry sarebbe una donna parigina, molto bella e molto corteggiata, che rifiuta le attenzioni di un uomo ricco e potente per legarsi a un giovane innamorato e spiantato. Ma alla fine muore. Sipario. Un bell'applauso. Peccato che Verdi e Piave raccontino tutta un'altra storia. Violetta è una puttana, anzi la puttana più ricercata di Parigi, che, grazie al proprio lavoro, vive nella ricchezza, possiede una casa in città e una in campagna, si può permettere vestiti firmati e gioielli, organizza feste sontuose. E che a un certo punto decide di rinunciare a tutto questo per amore di un giovane che dice di amarla, ma che, non disponendo delle cospicue sostanze della propria famiglia, controllate dal padre, lei deve mantenere nel lusso. Visto che però, per amore, ha smesso di "esercitare", i soldi rapidamente finiscono e soprattutto Violetta deve accettare la terribile malattia che per mesi ha cercato di nascondere agli altri e se stessa.
I versi di Piave, che pure scrive con grande cautela, dosando le parole, perché sa che devono superare una censura molto rigida e codina, non lasciano spazio a equivoci di sorta: Violetta fa quel mestiere, fino alla fine dei suoi giorni. E infatti i gestori della Fenice, nel 1853, quando lo spettacolo va in scena per la prima volta, nella locandina scrivono che la scena si svolge a "Parigi e vicinanze nel 1700 circa". Marie Duplessis - la donna che Dumas chiama Marguerite Gautier e Piave Violetta Valéry - è morta da appena sei anni: Verdi e Piave stanno raccontando una storia d'attualità. Non nascondendo nulla, al massimo attenuandone alcuni aspetti.
Perché centosessantatré anni dopo una giovane e talentuosa regista non ha il coraggio di raccontare questa storia? Perché, tra l'altro avendo una fama che le permette di fare sostanzialmente quello che vuole, si censura in questo modo, anche così goffamente? Questa lussuosa versione della Traviata, anche se non ci racconta la vera storia di Violetta, ha comunque un merito: ci racconta, al di là delle intenzioni degli esecutori e dei "mandanti", molto di noi, di questa nostra società così ottusamente maschilista e ipocrita. Ci dice che ci sono argomenti che non vogliamo affrontare - che neppure una donna se vuole avere successo deve affrontare - e soprattutto che non siamo pronti a raccontare una storia in cui una donna, una donna come Violetta, è la vera protagonista, indipendentemente dagli uomini che le girano intorno.
Si può raccontare in prima serata su Rai Uno la favola di una puttana "salvata" da Richard Gere. Ma è meglio non far vedere - neppure su Rai Cinque - la storia di una donna che non aspetta il suo cavaliere su un bianco destriero, ma è lei che rende migliori gli uomini che ne hanno conosciuto il valore. Il vecchio Germont è quello che più lucidamente, di fronte a Violetta che muore, confessa la propria meschinità. Forse dopo qualche mese si sarà dimenticato di quelle parole e tornerà a essere lo stronzo che abbiamo conosciuto nel secondo atto, ma in quel momento cade la sua maschera di ipocrita perbenista - di uno che ha speso soldi per donne così - e capisce che quella che lui ha sempre considerato un essere inferiore è migliore di lui. Non sappiamo se anche Alfredo in quel momento si renda conto di quale fortuna abbia avuto a essere amato, seppur per un breve periodo, da una donna come Violetta: in tutto il dramma non dimostra mai grande perspicacia ed è difficile immaginare che proprio adesso gli si svegli un neurone.
Di tutto questo immagino non si siano resi conto gli incolpevoli e inconsapevoli spettatori della prima, rigorosamente invitati dalla maison. Peccato, immagino che tra di loro fossero parecchi i "clienti" di professioniste come Violetta. E anche qualche ipocrita come Germont. Forse perfino qualche puttana è riuscita ad accaparrarsi l'ambito invito: comprensibile, visto che chi ha da vendere cerca sempre di andare dove ci sono quelli che comprano.
No, meglio non raccontare questa storia, meglio far finta che sia un feuilleton ottocentesco, per non urtare la sensibilità del gentile pubblico, degli invitati illustri. E soprattutto perché così come l'hanno scritta Verdi e Piave non è rappresentabile. Meglio attenuarne la carica eversiva. Meglio sfumare se si vuole fare uno spettacolo di successo. Alla fine lei muore. Sipario. Un bell'applauso.
Traviata è l'unica opera in cui Verdi decide di mettere in scena direttamente il suo pubblico. Lo fa naturalmente in tutte le sue opere, anche in Rigoletto e nel Trovatore, anche quando la scena è ambientata in un tempo lontano, ma in Traviata lo fa senza alcuno schermo. È come se, alzato il sipario, ci fosse sul palco un enorme specchio: chiunque di voi, ci dicono Verdi e Piave, può partecipare a queste feste organizzate da Violetta e da Flora. Per tradire Verdi e Piave basta decidere di togliere quello specchio, come ha fatto Sofia Coppola, come ha fatto Liliana Cavani nella celebre edizione della Scala del 1990 - dove per sicurezza quest'opera non è stata rappresentata per quasi trent'anni - come fanno quasi tutti i grandi teatri - ma voglio citare la Traviata del Festival Verdi di Parma del 2007 in cui Violetta è una puttana senza infingimenti. Meglio raccontare soltanto una storia d'amore finita male.
Invece abbiamo bisogno che quello specchio continui a riflettere le nostre meschinità, perché noi spettatori continuiamo a partecipare a quelle feste volgari, continuiamo a pagare per avere i corpi delle donne, che magari preferiamo chiamare escort - noi mica andiamo con le puttane - continuiamo ad avere una doppia morale, per cui di notte andiamo con quelle donne, ma di giorno ci scandalizziamo quando le vediamo nelle strade, non sia mai che nostra figlia "pura siccome un angelo" le veda, continuiamo a credere che le donne, puttane o mogli poco importa, debbano stare un gradino sotto o fare un passo indietro. E quando alzano la testa, le possiamo sempre picchiare. Sipario. Un bell'applauso.
venerdì 22 maggio 2020
Verba volant (768): igiene...
Igiene, sost. f.
Prassagora è stata una delle prime ad arrivare a Sigeo, quando era ancora soltanto un piccolo borgo di pescatori. Nel momento in cui ha saputo da uno dei suoi clienti quello che i re delle città greche stavano organizzando, ha deciso di rischiare il tutto per tutto. D'altra parte ormai cominciava a essere vecchia per continuare a fare quel mestiere: i clienti vogliono ragazze sempre più giovani. E se quella guerra fosse durata un po', magari un paio di anni... Prassagora aveva previsto di guadagnare abbastanza per vivere con tranquillità per il resto della sua vita senza dover più lavorare. E così ha scommesso sulla guerra: è partita da Mileto insieme a due orfane di cui nessuno voleva occuparsi, molto giovani e molto belle, è arrivata a Sigeo, ha affittato una casupola e ha aspettato l'arrivo della flotta. Prassagora sapeva che la voce si sarebbe presto sparsa per il campo greco: i soldati non tardano mai a trovare dove sono le puttane. Basta che Troia resista un paio d'anni e ce l'ho fatta.
È felice di avere sottovalutato la capacità di resistenza dei troiani. Dopo dieci anni di guerra a Sigeo nessuno si guadagna più da vivere facendo il pescatore. Ormai tutti vivono grazie alla guerra: i soldati del campo greco hanno bisogno di tutto, dalle armi alla biada per i cavalli, dal legname per riparare le navi alle primizie per le tavole dei re. E naturalmente prosperano le taverne, le bische, i teatri, i bordelli. E lei gestisce il più grande della città: ha affittato anche le case vicine, le ha sistemate, ha fatto costruire dei bagni, praticamente adesso un'intera strada della cittadina è sua. Ci lavorano trenta ragazze, le cambia ogni sei mesi, va a scegliere le più belle da tutte le città della costa. Da qualche anno ha anche una decina di ragazzi: ai signori piacciono e lei vuole accontentare tutti i suoi clienti. Arrivano anche da Troia, perché Sigeo è diventata una sorta di zona franca. Lì greci e troiani si incontrano, si parlano, e si possono anche sfidare, ma solo giocando a dadi.
Prassagora si stupisce di vedere arrivare Aristarco: lui di solito viene una volta al mese. Sempre lo stesso giorno. Anche lui è stato tra i primi ad arrivare a Sigeo. Faceva il fabbro a Corinto e ha deciso di seguire la flotta. Ha dovuto pagare una grossa tangente a Odisseo, ma da quando, dopo il terzo anno di guerra, è diventato il fornitore ufficiale dell'esercito greco, i suoi affari sono decollati e il suo laboratorio produce armi di continuo: i suoi forni non si spengono neppure di notte.
Che succede, Aristarco? Non ti aspettavo. Fillide è impegnata, ma posso trovarti un'altra ragazza.
No, sono venuto per te.
Aristarco, è stato dieci anni fa, eravamo più giovani, e più poveri, tutti e due. È stato bello, ma ci eravamo promessi che non ne avremmo più riparlato.
No... non è per quello. Voglio parlarti della peste. Sta rovinando i nostri affari. Ne ho parlato anche con gli altri della camera di commercio. Gli incassi delle taverne e delle locande sono più che dimezzati. Hanno dovuto chiudere già cinque bische. Omero, quello che fa finta di essere cieco, ha annullato tutti i suoi spettacoli. E tutte le commesse di guerra sono state dimezzate. Io ho dovuto licenziare cinque operai. Pensa che è due notti che ho fermato la produzione. Gli unici che fanno affari sono quelli che vendono pozioni per guarire la peste, ma quando i clienti si accorgeranno che li stanno truffando...
Si faranno truffare da qualcun altro.
Sì, ma intanto cosa possiamo fare?
Lo so, anche per me le cose stanno andando male. Oggi ho prenotazioni solo per cinque ragazze. E tre sono morte per la peste. Devo essere cauta a prendere i clienti. Non posso rischiare che si ammalino tutte.
Sai che i capi greci stiano prendendo provvedimenti? Tu sei sempre ben informata di quello che avviene nelle loro tende.
A quello che mi hanno riferito nell'ultima assemblea dei re hanno convocato Calcante e quel vecchio imbroglione ha detto che la pestilenza è causata da Apollo, adirato contro Agamennone perché si rifiuta di liberare una sua schiava, una tal Criseide. Sembra che suo padre sia sacerdote di quel dio. Naturalmente Agamennone si è infuriato, ma per ora non ha fatto nulla. Vuole prima capire chi degli altri re abbia pagato Calcante per fare quella profezia. Sospetta sia stato Achille, che vuole prendere il suo posto alle testa alla spedizione. E comunque a loro la spiegazione di Calcante fa comodo. Non vogliono sentirsi dire che è un problema igienico: se avessero fatto costruire delle fogne, se avessero portato dell'acqua pulita al campo, magari costruendo un canale deviando il corso dello Scamandro, non sarebbe scoppiata la peste. Non hanno organizzato neppure un sistema per portare via i rifiuti: ormai sono una collina che sovrasta le tende. Pensa in dieci anni quanti ne hanno prodotti.
Sì, ma noi intanto che facciamo? I soldati stanno morendo come mosche. Hanno di fatto sospeso la guerra: nessuna tregua è mai durata tanti giorni. Non hanno neppure acquistato le armi che mi avevano già ordinato. Ho provato a venderle a un prezzo ribassato a Troia, ma Enea mi ha risposto che non ne hanno bisogno. Immagino che prenda grosse mazzette dai loro fabbri.
Tu paghi ancora Odisseo?
Certo, ha una percentuale su ogni fornitura. Perché? Lo sto pagando poco?
Forse gli hai dato troppi soldi. Un vecchio amico mi ha detto che sicuramente c'è lui dietro la profezia di Calcante. Se Agamennone sarà sfiduciato, la guida della spedizione toccherà o ad Achille o ad Odisseo. Il primo vuole continuare la guerra, ma il secondo vuole tornare, sembra che ci siano problemi nella sua isoletta e comunque ormai ha già tanto denaro che non gli serve conquistare il tesoro di Priamo. La maggioranza dei re sembra sia con lui. Dieci anni sono tanti. E un amico troiano mi ha detto che anche Ettore è disposto a trattare. Troveranno un accordo per gestire la rotta dello stretto. Restituiranno perfino a Menelao quella poveretta di Elena.
Non può finire la guerra. E tutti noi che faremo?
Forse abbiamo guadagnato abbastanza. Potremmo ritirarci. Abbiamo abbastanza oro per vivere felici. Pensaci: potremmo invecchiare insieme in qualche isoletta dell'Egeo.
Altrimenti?
Capisco. Non sono più quella di dieci anni fa. Allora avevi detto che alla fine ci saremmo ritirati. Insieme. Altrimenti, caro Aristarco, potreste fare voi, a spese vostre, quello che i re greci non vogliono fare: pulite il campo acheo, costruite un canale per portare l'acqua dello Scamandro, fate finalmente un sistema di fogne. Poi convincete Agamennone a ridare quella ragazzetta a suo padre. Sono sicura che troverete gli argomenti per farlo. Così, placato il dio, passerà la peste e voi potrete continuare in santa pace i vostri traffici.
Anche tu continuerai a lavorare?
Sì, non ti preoccupare. Il più bel bordello di Sigeo non chiuderà. Almeno finché non cadrà Troia. E credo non succederà tanto presto: forse, caro amico, moriremo qui.
Prassagora è stata una delle prime ad arrivare a Sigeo, quando era ancora soltanto un piccolo borgo di pescatori. Nel momento in cui ha saputo da uno dei suoi clienti quello che i re delle città greche stavano organizzando, ha deciso di rischiare il tutto per tutto. D'altra parte ormai cominciava a essere vecchia per continuare a fare quel mestiere: i clienti vogliono ragazze sempre più giovani. E se quella guerra fosse durata un po', magari un paio di anni... Prassagora aveva previsto di guadagnare abbastanza per vivere con tranquillità per il resto della sua vita senza dover più lavorare. E così ha scommesso sulla guerra: è partita da Mileto insieme a due orfane di cui nessuno voleva occuparsi, molto giovani e molto belle, è arrivata a Sigeo, ha affittato una casupola e ha aspettato l'arrivo della flotta. Prassagora sapeva che la voce si sarebbe presto sparsa per il campo greco: i soldati non tardano mai a trovare dove sono le puttane. Basta che Troia resista un paio d'anni e ce l'ho fatta.
È felice di avere sottovalutato la capacità di resistenza dei troiani. Dopo dieci anni di guerra a Sigeo nessuno si guadagna più da vivere facendo il pescatore. Ormai tutti vivono grazie alla guerra: i soldati del campo greco hanno bisogno di tutto, dalle armi alla biada per i cavalli, dal legname per riparare le navi alle primizie per le tavole dei re. E naturalmente prosperano le taverne, le bische, i teatri, i bordelli. E lei gestisce il più grande della città: ha affittato anche le case vicine, le ha sistemate, ha fatto costruire dei bagni, praticamente adesso un'intera strada della cittadina è sua. Ci lavorano trenta ragazze, le cambia ogni sei mesi, va a scegliere le più belle da tutte le città della costa. Da qualche anno ha anche una decina di ragazzi: ai signori piacciono e lei vuole accontentare tutti i suoi clienti. Arrivano anche da Troia, perché Sigeo è diventata una sorta di zona franca. Lì greci e troiani si incontrano, si parlano, e si possono anche sfidare, ma solo giocando a dadi.
Prassagora si stupisce di vedere arrivare Aristarco: lui di solito viene una volta al mese. Sempre lo stesso giorno. Anche lui è stato tra i primi ad arrivare a Sigeo. Faceva il fabbro a Corinto e ha deciso di seguire la flotta. Ha dovuto pagare una grossa tangente a Odisseo, ma da quando, dopo il terzo anno di guerra, è diventato il fornitore ufficiale dell'esercito greco, i suoi affari sono decollati e il suo laboratorio produce armi di continuo: i suoi forni non si spengono neppure di notte.
Che succede, Aristarco? Non ti aspettavo. Fillide è impegnata, ma posso trovarti un'altra ragazza.
No, sono venuto per te.
Aristarco, è stato dieci anni fa, eravamo più giovani, e più poveri, tutti e due. È stato bello, ma ci eravamo promessi che non ne avremmo più riparlato.
No... non è per quello. Voglio parlarti della peste. Sta rovinando i nostri affari. Ne ho parlato anche con gli altri della camera di commercio. Gli incassi delle taverne e delle locande sono più che dimezzati. Hanno dovuto chiudere già cinque bische. Omero, quello che fa finta di essere cieco, ha annullato tutti i suoi spettacoli. E tutte le commesse di guerra sono state dimezzate. Io ho dovuto licenziare cinque operai. Pensa che è due notti che ho fermato la produzione. Gli unici che fanno affari sono quelli che vendono pozioni per guarire la peste, ma quando i clienti si accorgeranno che li stanno truffando...
Si faranno truffare da qualcun altro.
Sì, ma intanto cosa possiamo fare?
Lo so, anche per me le cose stanno andando male. Oggi ho prenotazioni solo per cinque ragazze. E tre sono morte per la peste. Devo essere cauta a prendere i clienti. Non posso rischiare che si ammalino tutte.
Sai che i capi greci stiano prendendo provvedimenti? Tu sei sempre ben informata di quello che avviene nelle loro tende.
A quello che mi hanno riferito nell'ultima assemblea dei re hanno convocato Calcante e quel vecchio imbroglione ha detto che la pestilenza è causata da Apollo, adirato contro Agamennone perché si rifiuta di liberare una sua schiava, una tal Criseide. Sembra che suo padre sia sacerdote di quel dio. Naturalmente Agamennone si è infuriato, ma per ora non ha fatto nulla. Vuole prima capire chi degli altri re abbia pagato Calcante per fare quella profezia. Sospetta sia stato Achille, che vuole prendere il suo posto alle testa alla spedizione. E comunque a loro la spiegazione di Calcante fa comodo. Non vogliono sentirsi dire che è un problema igienico: se avessero fatto costruire delle fogne, se avessero portato dell'acqua pulita al campo, magari costruendo un canale deviando il corso dello Scamandro, non sarebbe scoppiata la peste. Non hanno organizzato neppure un sistema per portare via i rifiuti: ormai sono una collina che sovrasta le tende. Pensa in dieci anni quanti ne hanno prodotti.
Sì, ma noi intanto che facciamo? I soldati stanno morendo come mosche. Hanno di fatto sospeso la guerra: nessuna tregua è mai durata tanti giorni. Non hanno neppure acquistato le armi che mi avevano già ordinato. Ho provato a venderle a un prezzo ribassato a Troia, ma Enea mi ha risposto che non ne hanno bisogno. Immagino che prenda grosse mazzette dai loro fabbri.
Tu paghi ancora Odisseo?
Certo, ha una percentuale su ogni fornitura. Perché? Lo sto pagando poco?
Forse gli hai dato troppi soldi. Un vecchio amico mi ha detto che sicuramente c'è lui dietro la profezia di Calcante. Se Agamennone sarà sfiduciato, la guida della spedizione toccherà o ad Achille o ad Odisseo. Il primo vuole continuare la guerra, ma il secondo vuole tornare, sembra che ci siano problemi nella sua isoletta e comunque ormai ha già tanto denaro che non gli serve conquistare il tesoro di Priamo. La maggioranza dei re sembra sia con lui. Dieci anni sono tanti. E un amico troiano mi ha detto che anche Ettore è disposto a trattare. Troveranno un accordo per gestire la rotta dello stretto. Restituiranno perfino a Menelao quella poveretta di Elena.
Non può finire la guerra. E tutti noi che faremo?
Forse abbiamo guadagnato abbastanza. Potremmo ritirarci. Abbiamo abbastanza oro per vivere felici. Pensaci: potremmo invecchiare insieme in qualche isoletta dell'Egeo.
Altrimenti?
Capisco. Non sono più quella di dieci anni fa. Allora avevi detto che alla fine ci saremmo ritirati. Insieme. Altrimenti, caro Aristarco, potreste fare voi, a spese vostre, quello che i re greci non vogliono fare: pulite il campo acheo, costruite un canale per portare l'acqua dello Scamandro, fate finalmente un sistema di fogne. Poi convincete Agamennone a ridare quella ragazzetta a suo padre. Sono sicura che troverete gli argomenti per farlo. Così, placato il dio, passerà la peste e voi potrete continuare in santa pace i vostri traffici.
Anche tu continuerai a lavorare?
Sì, non ti preoccupare. Il più bel bordello di Sigeo non chiuderà. Almeno finché non cadrà Troia. E credo non succederà tanto presto: forse, caro amico, moriremo qui.
domenica 17 maggio 2020
Verba volant (767): streaming...
Streaming, sost. m.
In genere questo insolito dizionario evita le parole straniere, ma ormai streaming è una delle parole più usate in questo periodo di lockdown. In pratica, quando non facciamo smart working, guardiamo qualcosa in streaming. A volte anche contemporaneamente, facendo male una cosa e l'altra. In sostanza non potevo più esimermi da questa definizione.
Sapete che io non soffro per la quarantena. Anzi... Però devo ammettere che mi mancano due cose: mangiare fuori e andare a teatro. Magari un giorno parlerò anche della mia passione per il buon cibo, oggi però mi soffermerò sul teatro. Anche perché mi sembra che nessuno si occupi di quando - e con che regole - sarà possibile tornare a vedere gli spettacoli dal vivo.
Naturalmente mi manca anche andare al cinema, ma devo riconoscere che questa nostalgia è meno profonda. Sono assolutamente solidale con gli esercenti dei cinema, specialmente quelli piccoli, quelli di provincia, che già prima della peste facevano una gran fatica ad andare avanti. E appena si potrà, tornerò al cinema del mio paese, anche se daranno un brutto film, perché abbiamo un disperato bisogno che queste piccole sale indipendenti non chiudano. Ma posso vedere un film anche in altri modi e con altri supporti. So che adesso i puristi leveranno indignati gli scudi. State tranquilli, so anch'io che il grande schermo è un'altra cosa rispetto alla televisione e al computer, ma francamente poter evitare gli spettatori maleducati e il nauseabondo odore di popcorn (a me piace molto il popcorn, ma non capisco perché quello dei cinema abbia quell'odore) è per me un vantaggio non da poco, di certo superiore a quello di rinunciare alla poesia della sala.
Il teatro invece bisogna vederlo a teatro. Nonostante gli spettatori maleducati che imperano anche in queste sale. Almeno per ora non hanno sdoganato il popcorn, ma temo non ci vorrà molto. Perché il teatro è anche il qui e ora, ogni spettacolo è una storia a sé, perché ogni giorno chi è sul palco, anche se è lo stesso attore che recita le stesse battute - o lo stesso musicista che suona le stesse note - è una persona diversa e anche noi spettatori siamo diversi ogni giorno e ad ogni spettacolo a cui assistiamo.
Quando facevo un altro mestiere, ho avuto l'opportunità di conoscere Silvano Piccardi. Per questa amicizia mi è capitato di assistere per tre volte - sempre pagando il biglietto, beninteso - allo spettacolo Enigma, di cui ha curato la regia e che interpreta insieme a una splendida Ottavia Piccolo. Naturalmente ogni sera le battute sono state le stesse, ma ho assistito a tre spettacoli in qualche modo diversi, anche perché si sono svolti di fronte a pubblici diversi, uno dei quali composto da una percentuale pericolosamente alta di maleducati. Sono stati diversi perché la seconda volta sapevo già come finiva la storia, mentre la terza ricordavo ormai anche le battute. E soprattutto perché Ottavia e Silvano ogni sera hanno interpretato i loro ruoli con accenti e sfumature diverse.
Detto questo, da appassionato, da abbonato in un piccolo, ma assolutamente meritevole, teatro di provincia, difendo con passione lo streaming, di cui pure tanti cosiddetti appassionati sono strenui detrattori. Non a caso tra questi ci sono i conservatori fondamentalisti che occupano i loggioni dei teatri lirici, difendendo la loro presunta e moribonda ortodossia da ogni novità che considerano una forma di eresia. Credo di aver visto più opere liriche durante queste settimane di peste che negli altri cinquant'anni della mia vita, perché tanti teatri hanno messo a disposizione gratuitamente i loro patrimoni di registrazioni. Tra l'altro ho visto cose che mai avrei potuto vedere, perché non posso fare un salto a Londra per vedere uno spettacolo della Royal Opera House né tornare indietro nel tempo quando era ancora viva Daniela Dessì. E aver visto tutti questi spettacoli è un mio arricchimento che, tra l'altro, mi spinge a voler tornare il prima possibile a teatro. A vedere altre cose naturalmente.
Vedere un'opera sullo schermo del tablet è come andare a teatro? Assolutamente no. Immagino che Platone direbbe che è come la condizione di quei prigionieri incatenati in una caverna che credono che le ombre che si agitano in fondo a essa siano il mondo reale, ossia il livello più basso della conoscenza. Eppure un contadino bolognese - che non sapeva nulla di Platone, ma conosceva Verdi - avrebbe risposto "piutost che gninta, l'è mei piutost". Questa rustica saggezza vale assolutamente anche in questo caso. Credo sia comunque un'esperienza da fare. E che in qualche modo debba continuare, anche quando finirà la peste, anche quando potremo tornare finalmente a teatro.
In genere questo insolito dizionario evita le parole straniere, ma ormai streaming è una delle parole più usate in questo periodo di lockdown. In pratica, quando non facciamo smart working, guardiamo qualcosa in streaming. A volte anche contemporaneamente, facendo male una cosa e l'altra. In sostanza non potevo più esimermi da questa definizione.
Sapete che io non soffro per la quarantena. Anzi... Però devo ammettere che mi mancano due cose: mangiare fuori e andare a teatro. Magari un giorno parlerò anche della mia passione per il buon cibo, oggi però mi soffermerò sul teatro. Anche perché mi sembra che nessuno si occupi di quando - e con che regole - sarà possibile tornare a vedere gli spettacoli dal vivo.
Naturalmente mi manca anche andare al cinema, ma devo riconoscere che questa nostalgia è meno profonda. Sono assolutamente solidale con gli esercenti dei cinema, specialmente quelli piccoli, quelli di provincia, che già prima della peste facevano una gran fatica ad andare avanti. E appena si potrà, tornerò al cinema del mio paese, anche se daranno un brutto film, perché abbiamo un disperato bisogno che queste piccole sale indipendenti non chiudano. Ma posso vedere un film anche in altri modi e con altri supporti. So che adesso i puristi leveranno indignati gli scudi. State tranquilli, so anch'io che il grande schermo è un'altra cosa rispetto alla televisione e al computer, ma francamente poter evitare gli spettatori maleducati e il nauseabondo odore di popcorn (a me piace molto il popcorn, ma non capisco perché quello dei cinema abbia quell'odore) è per me un vantaggio non da poco, di certo superiore a quello di rinunciare alla poesia della sala.
Il teatro invece bisogna vederlo a teatro. Nonostante gli spettatori maleducati che imperano anche in queste sale. Almeno per ora non hanno sdoganato il popcorn, ma temo non ci vorrà molto. Perché il teatro è anche il qui e ora, ogni spettacolo è una storia a sé, perché ogni giorno chi è sul palco, anche se è lo stesso attore che recita le stesse battute - o lo stesso musicista che suona le stesse note - è una persona diversa e anche noi spettatori siamo diversi ogni giorno e ad ogni spettacolo a cui assistiamo.
Quando facevo un altro mestiere, ho avuto l'opportunità di conoscere Silvano Piccardi. Per questa amicizia mi è capitato di assistere per tre volte - sempre pagando il biglietto, beninteso - allo spettacolo Enigma, di cui ha curato la regia e che interpreta insieme a una splendida Ottavia Piccolo. Naturalmente ogni sera le battute sono state le stesse, ma ho assistito a tre spettacoli in qualche modo diversi, anche perché si sono svolti di fronte a pubblici diversi, uno dei quali composto da una percentuale pericolosamente alta di maleducati. Sono stati diversi perché la seconda volta sapevo già come finiva la storia, mentre la terza ricordavo ormai anche le battute. E soprattutto perché Ottavia e Silvano ogni sera hanno interpretato i loro ruoli con accenti e sfumature diverse.
Detto questo, da appassionato, da abbonato in un piccolo, ma assolutamente meritevole, teatro di provincia, difendo con passione lo streaming, di cui pure tanti cosiddetti appassionati sono strenui detrattori. Non a caso tra questi ci sono i conservatori fondamentalisti che occupano i loggioni dei teatri lirici, difendendo la loro presunta e moribonda ortodossia da ogni novità che considerano una forma di eresia. Credo di aver visto più opere liriche durante queste settimane di peste che negli altri cinquant'anni della mia vita, perché tanti teatri hanno messo a disposizione gratuitamente i loro patrimoni di registrazioni. Tra l'altro ho visto cose che mai avrei potuto vedere, perché non posso fare un salto a Londra per vedere uno spettacolo della Royal Opera House né tornare indietro nel tempo quando era ancora viva Daniela Dessì. E aver visto tutti questi spettacoli è un mio arricchimento che, tra l'altro, mi spinge a voler tornare il prima possibile a teatro. A vedere altre cose naturalmente.
Vedere un'opera sullo schermo del tablet è come andare a teatro? Assolutamente no. Immagino che Platone direbbe che è come la condizione di quei prigionieri incatenati in una caverna che credono che le ombre che si agitano in fondo a essa siano il mondo reale, ossia il livello più basso della conoscenza. Eppure un contadino bolognese - che non sapeva nulla di Platone, ma conosceva Verdi - avrebbe risposto "piutost che gninta, l'è mei piutost". Questa rustica saggezza vale assolutamente anche in questo caso. Credo sia comunque un'esperienza da fare. E che in qualche modo debba continuare, anche quando finirà la peste, anche quando potremo tornare finalmente a teatro.
So che tra coloro che sono critici di questa sorta di "tana liberi tutti" degli spettacoli in streaming, oltre ai parrucconi, ci sono anche tanti artisti che temono che questo sia un modo per svilire il loro lavoro. Capisco la vostra preoccupazione, visto che viviamo in una società che non vi considera neppure lavoratori, ma al massimo amatori con del talento e quindi vi chiede tante volte di fare il vostro lavoro gratis. O al massimo con un rimborso spese. Ma non è opponendovi allo streaming che riuscirete a cambiare uno stato di cose in cui viviamo e di cui tanti di noi, e anche di voi, siamo responsabili. Perché ripeto lo streaming - che peraltro non dovrà essere sempre gratuito - permette a noi spettatori di vedere spettacoli che non avremmo mai potuto vedere, per mille ragioni. Ma ci farà conoscere un mondo che conosciamo poco, e male, anche per colpa del sistema contro cui voi lavoratori dello spettacolo e noi spettatori dovremmo combattere, un sistema che a tanti di voi, che non sono star, dà poco e che a noi chiede molto. C'è evidentemente qualcosa che non funziona in questa disparità. E ci farà conoscere anche qualcuno di voi, e forse vi verremo a vedere se sarete nella nostra città. Perché, nonostante viviamo in questo mondo in cui sembra che sappiamo tutto, le informazioni che ci arrivano davvero sono fortemente controllate.
Lo streaming è uno strumento, probabilmente imperfetto, ma a suo modo democratico. Una puttana che vuole ascoltare Traviata non dovrà più sperare di incontrare Richard Gere che la porti all'opera, basta che si colleghi a internet. E forse anche a lei farà bene ascoltare la storia di quella donna che si dimostra così superiore agli uomini che la pagano.
Naturalmente non sappiamo ancora come sarà possibile andare a teatro nel "dopo-peste" - come non sappiamo praticamente nulla di come sarà possibile fare ogni altra cosa, compreso mangiar fuori - ma immagino che le sale dovranno rinunciare a un discreto numero di posti - forse molti posti, quelli che garantiscono l'utile - che sarà più complicato e scomodo andare a teatro, perché immagino i biglietti saranno nominativi - saremo "schedati" noi che vorremo partecipare a questa pericolosa manifestazione del libero pensiero - e sicuramente più costoso. E già adesso, specialmente per l'opera, è molto costoso, per lo più un lusso da privilegiati oppure, come nel caso di molti di noi, la rinuncia a molte altre cose: o vai al Regio o fai altre due e tre cose che ti piace fare.
Le amiche e gli amici che vivono del teatro, della musica e dello spettacolo, perché quello è il loro lavoro, credo che in questi giorni, oltre a chiedere di essere considerati come lavoratori e quindi tutelati perché non hanno lavorato per molti mesi, dovrebbero interrogarsi su cosa sarà il teatro dopodomani, quando le sale dovranno in qualche modo riaprire. E dobbiamo pensarci anche noi spettatori. Perché abbiamo qualche diritto, ma soprattutto molti doveri.
Ad Atene non solo venivano pagati autori, attori e musicisti, ma soprattutto veniva pagato il pubblico: quella comunità voleva che le persone andassero a teatro, considerava il teatro un lavoro, non proprio smart. Perché il teatro era un potente strumento di propaganda e di lotta politica, ma soprattutto era considerato uno strumento di educazione. I cittadini che dovevano votare nell'assemblea e nei tribunali dovevano prima aver visto tragedie e commedie, dovevano aver conosciuto gli uomini e il mondo attraverso il teatro, che era uno degli strumenti della democrazia.
Sono consapevole di non vivere nell'Atene di Pericle - dove per altro sarei morto per la peste - e quindi accetto di non essere pagato per andare a teatro, ma vorrei che le mie tasse servissero anche a garantire che gli spettacoli non siano così costosi, per me e soprattutto per chi ha molto meno di me, ma ha bisogno di conoscere gli uomini e il mondo attraverso il teatro. Che continua a essere uno strumento della democrazia, come ogni altra manifestazione della cultura e dell'arte. E per fare questo abbiamo bisogno anche degli spettacoli attraverso lo schermo di un computer o di un telefonino. A gratis, ma anche pagando, chiedendo che una parte di quei soldi arrivi anche a chi ha realizzato quel lavoro.
Naturalmente non sappiamo ancora come sarà possibile andare a teatro nel "dopo-peste" - come non sappiamo praticamente nulla di come sarà possibile fare ogni altra cosa, compreso mangiar fuori - ma immagino che le sale dovranno rinunciare a un discreto numero di posti - forse molti posti, quelli che garantiscono l'utile - che sarà più complicato e scomodo andare a teatro, perché immagino i biglietti saranno nominativi - saremo "schedati" noi che vorremo partecipare a questa pericolosa manifestazione del libero pensiero - e sicuramente più costoso. E già adesso, specialmente per l'opera, è molto costoso, per lo più un lusso da privilegiati oppure, come nel caso di molti di noi, la rinuncia a molte altre cose: o vai al Regio o fai altre due e tre cose che ti piace fare.
Le amiche e gli amici che vivono del teatro, della musica e dello spettacolo, perché quello è il loro lavoro, credo che in questi giorni, oltre a chiedere di essere considerati come lavoratori e quindi tutelati perché non hanno lavorato per molti mesi, dovrebbero interrogarsi su cosa sarà il teatro dopodomani, quando le sale dovranno in qualche modo riaprire. E dobbiamo pensarci anche noi spettatori. Perché abbiamo qualche diritto, ma soprattutto molti doveri.
Ad Atene non solo venivano pagati autori, attori e musicisti, ma soprattutto veniva pagato il pubblico: quella comunità voleva che le persone andassero a teatro, considerava il teatro un lavoro, non proprio smart. Perché il teatro era un potente strumento di propaganda e di lotta politica, ma soprattutto era considerato uno strumento di educazione. I cittadini che dovevano votare nell'assemblea e nei tribunali dovevano prima aver visto tragedie e commedie, dovevano aver conosciuto gli uomini e il mondo attraverso il teatro, che era uno degli strumenti della democrazia.
Sono consapevole di non vivere nell'Atene di Pericle - dove per altro sarei morto per la peste - e quindi accetto di non essere pagato per andare a teatro, ma vorrei che le mie tasse servissero anche a garantire che gli spettacoli non siano così costosi, per me e soprattutto per chi ha molto meno di me, ma ha bisogno di conoscere gli uomini e il mondo attraverso il teatro. Che continua a essere uno strumento della democrazia, come ogni altra manifestazione della cultura e dell'arte. E per fare questo abbiamo bisogno anche degli spettacoli attraverso lo schermo di un computer o di un telefonino. A gratis, ma anche pagando, chiedendo che una parte di quei soldi arrivi anche a chi ha realizzato quel lavoro.
Soprattutto abbiamo bisogno di far capire a tanti che il teatro è una necessità civica e questo è possibile solo se più persone si rendono conto di cos'è, di cosa racconta, di che opportunità offre alla mente. Se lo streaming contribuirà a questo, se cominceremo a considerare lo streaming anche come una sorta di salario di noi spettatori, allora viva lo streaming.
lunedì 11 maggio 2020
Verba volant (766): credere...
Credere, v. tr.
Non la conosco e quindi non so se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è partita per l'Africa. Non me ne sarebbe importato nulla: sono fatti suoi. Tanto più perché io non credo e come non voglio che nessuno giudichi quello che io credo e non credo, così non giudico gli altri. Però ho espresso la mia stima per quella giovane ragazza che, indipendentemente da quello che credeva, ha fatto una scelta così difficile, una scelta di cui noi, che pure pontifichiamo da dietro le nostre tastiere, non saremmo mai capaci, che noi, con tutti i nostri begli ideali, non avremmo mai il coraggio di fare. Sono stato orgoglioso di Silvia per quello che ha fatto, come fosse la figlia che non ho. E anche preoccupato, perché, da vecchio, penso che questo mondo sia così marcio che perfino l'intelligenza, il coraggio, la passione di una giovane donna come Silvia siano ormai inutili per salvarlo.
Non mi interessava sapere se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è stata rapita. Non me importava nulla: sono fatti suoi. Ho scritto allora che dovevamo pagare. Silenziosamente pagare. Come abbiamo fortunatamente fatto. Perché la cosa importante era riportare a casa sua Silvia, indipendentemente da quello che credeva, perché se lo meritava, per quello che aveva fatto, per quello che voleva fare, anche per il suo entusiasmo irresponsabile, di cui abbiamo un disperato bisogno. È il minimo che noi, noi cinici, noi pavidi, noi ipocriti, potevamo fare. Io sono uno di quelli che a suo tempo ha creduto nella politica e che quindi non sempre le cose si risolvono con i soldi, anche se ormai viviamo in un mondo in cui pare che tutto si possa vendere e comprare, in cui i soldi sono l'unico metro di giudizio. Ma anche uno come me, pensa che in questo caso i soldi siano l'unica soluzione possibile. E Silvia è stata fortunata perché è stata rapita non da fanatici, ma da criminali, e con i criminali alla fine un accordo si trova sempre. Con i criminali riusciamo a intenderci in qualche modo: tra simili ci riconosciamo. Con i fanatici è più difficile.
Adesso non mi interessa sapere se Silvia crede e, se crede, in cosa. Non me ne importa nulla: sono fatti suoi. Non so se ricordate una delle ultime scene del bel film di Nino Manfredi del 1971 Per grazia ricevuta. Quando sta per morire, il vecchio farmacista ateo e anticlericale bacia il crocifisso che un prete gli avvicina alle labbra, sconvolgendo il giovane Benedetto a cui l'uomo aveva insegnato a liberarsi della religione. Il vecchio ateo, di fronte a una paura tutto sommato accettabile, si è piegato, dimostrando di non avere neppure quel poco di coraggio che uno alla fine dovrebbe dimostrare. Se una persona che è stata in una tale prigionia per un anno e mezzo, temendo ogni giorno per la propria vita, ha trovato il conforto in qualcosa in cui credere non mi pare uno scandalo, nemmeno per me che non credo. Perfino se si è convertita per salvarsi, non sentirete da me una parola di biasimo: ha fatto bene. E non capisco poi perché dovrebbero scandalizzarsi i baciapile, quelli che non perdono occasione per ostentare la propria fede. Forse non vi va bene perché non si è affidata alla vostra religione? Immagino che se fosse arrivata con il velo da suora adesso sareste tutti in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, dal vostro santo fascista, ringraziandolo per il miracolo. L'unica cosa per cui dobbiamo ringraziare qualcuno, se ci credete, è che per fortuna i rapitori non erano fanatici come voi, ma semplici banditi.
L'etimologia del verbo credere richiama al significato originario di affidarsi. Io sono disposto ad affidarmi all'intelligenza, al coraggio, alla passione di una giovane donna come Silvia, indipendentemente da quello che lei crede.
Non la conosco e quindi non so se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è partita per l'Africa. Non me ne sarebbe importato nulla: sono fatti suoi. Tanto più perché io non credo e come non voglio che nessuno giudichi quello che io credo e non credo, così non giudico gli altri. Però ho espresso la mia stima per quella giovane ragazza che, indipendentemente da quello che credeva, ha fatto una scelta così difficile, una scelta di cui noi, che pure pontifichiamo da dietro le nostre tastiere, non saremmo mai capaci, che noi, con tutti i nostri begli ideali, non avremmo mai il coraggio di fare. Sono stato orgoglioso di Silvia per quello che ha fatto, come fosse la figlia che non ho. E anche preoccupato, perché, da vecchio, penso che questo mondo sia così marcio che perfino l'intelligenza, il coraggio, la passione di una giovane donna come Silvia siano ormai inutili per salvarlo.
Non mi interessava sapere se Silvia credeva e, se credeva, in cosa, quando è stata rapita. Non me importava nulla: sono fatti suoi. Ho scritto allora che dovevamo pagare. Silenziosamente pagare. Come abbiamo fortunatamente fatto. Perché la cosa importante era riportare a casa sua Silvia, indipendentemente da quello che credeva, perché se lo meritava, per quello che aveva fatto, per quello che voleva fare, anche per il suo entusiasmo irresponsabile, di cui abbiamo un disperato bisogno. È il minimo che noi, noi cinici, noi pavidi, noi ipocriti, potevamo fare. Io sono uno di quelli che a suo tempo ha creduto nella politica e che quindi non sempre le cose si risolvono con i soldi, anche se ormai viviamo in un mondo in cui pare che tutto si possa vendere e comprare, in cui i soldi sono l'unico metro di giudizio. Ma anche uno come me, pensa che in questo caso i soldi siano l'unica soluzione possibile. E Silvia è stata fortunata perché è stata rapita non da fanatici, ma da criminali, e con i criminali alla fine un accordo si trova sempre. Con i criminali riusciamo a intenderci in qualche modo: tra simili ci riconosciamo. Con i fanatici è più difficile.
Adesso non mi interessa sapere se Silvia crede e, se crede, in cosa. Non me ne importa nulla: sono fatti suoi. Non so se ricordate una delle ultime scene del bel film di Nino Manfredi del 1971 Per grazia ricevuta. Quando sta per morire, il vecchio farmacista ateo e anticlericale bacia il crocifisso che un prete gli avvicina alle labbra, sconvolgendo il giovane Benedetto a cui l'uomo aveva insegnato a liberarsi della religione. Il vecchio ateo, di fronte a una paura tutto sommato accettabile, si è piegato, dimostrando di non avere neppure quel poco di coraggio che uno alla fine dovrebbe dimostrare. Se una persona che è stata in una tale prigionia per un anno e mezzo, temendo ogni giorno per la propria vita, ha trovato il conforto in qualcosa in cui credere non mi pare uno scandalo, nemmeno per me che non credo. Perfino se si è convertita per salvarsi, non sentirete da me una parola di biasimo: ha fatto bene. E non capisco poi perché dovrebbero scandalizzarsi i baciapile, quelli che non perdono occasione per ostentare la propria fede. Forse non vi va bene perché non si è affidata alla vostra religione? Immagino che se fosse arrivata con il velo da suora adesso sareste tutti in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, dal vostro santo fascista, ringraziandolo per il miracolo. L'unica cosa per cui dobbiamo ringraziare qualcuno, se ci credete, è che per fortuna i rapitori non erano fanatici come voi, ma semplici banditi.
L'etimologia del verbo credere richiama al significato originario di affidarsi. Io sono disposto ad affidarmi all'intelligenza, al coraggio, alla passione di una giovane donna come Silvia, indipendentemente da quello che lei crede.
giovedì 7 maggio 2020
Verba volant (765): vampa...
Vampa, sost. f.
Anche Victor Hugo è stato giovane, anche se per noi rimane il vecchio dalla folta barba bianca che ci osserva con lo sguardo accigliato dalle foto di Walery e di Nadar, spesso riprodotte sulle copertine dei suoi tanti romanzi. Eppure ha appena trent'anni quando pubblica, ottenendo un immediato successo, il romanzo Notre-Dame de Paris. E cerca di mettere in scena Le Roi s'amuse; in questo caso senza lo stesso fortunato riscontro.
La sera del 22 novembre 1832, quando il dramma va in scena per la prima volta alla Comédie-Française, in platea ci sono Stendhal, Théophile Gautier, Franz Lizst, Honoré de Balzac, Alfred de Musset, per vedere questa nuova opera destinata a superare il successo di Cromwell ed Hernani e a rappresentare il nuovo teatro romantico.
Ma ci sono anche altre orecchie interessate a quel dramma in cui si racconta la storia di un re, che usa il proprio potere per possedere tutte le donne che gli capitano a tiro, e del suo buffone, che prima è complice del suo padrone, ma poi ne diventa vittima, dal momento che il corrotto monarca rapisce e violenta anche la figlia del povero giullare. E quando Triboulet decide di vendicarsi, progettando addirittura di uccidere il re, finirà per assassinare sua figlia. Il conte d'Argout, ministro del re Luigi Filippo, assiste allo spettacolo e lo considera sconveniente, oltraggioso per la morale e politicamente pericoloso. Già il giorno successivo obbliga la Comédie-Française a sospendere le recite e il testo viene bandito da tutti i teatri francesi.
La seconda rappresentazione del dramma avverrà cinquant'anni dopo, il 22 novembre 1882, sempre alla Comédie-Française, e questa volta alla presenza del Presidente della Repubblica. Si vuole rimediare all'affronto in maniera solenne e ufficiale. Ormai il vecchio senatore Hugo è uno dei grandi di Francia, è quello delle foto con la folta barba bianca.
Anche Victor Hugo è stato giovane, anche se per noi rimane il vecchio dalla folta barba bianca che ci osserva con lo sguardo accigliato dalle foto di Walery e di Nadar, spesso riprodotte sulle copertine dei suoi tanti romanzi. Eppure ha appena trent'anni quando pubblica, ottenendo un immediato successo, il romanzo Notre-Dame de Paris. E cerca di mettere in scena Le Roi s'amuse; in questo caso senza lo stesso fortunato riscontro.
La sera del 22 novembre 1832, quando il dramma va in scena per la prima volta alla Comédie-Française, in platea ci sono Stendhal, Théophile Gautier, Franz Lizst, Honoré de Balzac, Alfred de Musset, per vedere questa nuova opera destinata a superare il successo di Cromwell ed Hernani e a rappresentare il nuovo teatro romantico.
Ma ci sono anche altre orecchie interessate a quel dramma in cui si racconta la storia di un re, che usa il proprio potere per possedere tutte le donne che gli capitano a tiro, e del suo buffone, che prima è complice del suo padrone, ma poi ne diventa vittima, dal momento che il corrotto monarca rapisce e violenta anche la figlia del povero giullare. E quando Triboulet decide di vendicarsi, progettando addirittura di uccidere il re, finirà per assassinare sua figlia. Il conte d'Argout, ministro del re Luigi Filippo, assiste allo spettacolo e lo considera sconveniente, oltraggioso per la morale e politicamente pericoloso. Già il giorno successivo obbliga la Comédie-Française a sospendere le recite e il testo viene bandito da tutti i teatri francesi.
La seconda rappresentazione del dramma avverrà cinquant'anni dopo, il 22 novembre 1882, sempre alla Comédie-Française, e questa volta alla presenza del Presidente della Repubblica. Si vuole rimediare all'affronto in maniera solenne e ufficiale. Ormai il vecchio senatore Hugo è uno dei grandi di Francia, è quello delle foto con la folta barba bianca.
Quando Le Roi s'amuse viene nuovamente messo in scena, sono già venticinque anni che in Francia viene regolarmente rappresentata l'opera di un compositore emiliano, che si intitola Rigoletto e che racconta la storia di un buffone la cui figlia viene sedotta e rapita da un duca tanto potente quanto senza morale e infine viene uccisa dal padre che la vorrebbe vendicare. Anche Giuseppe Verdi quando compone quest'opera non è ancora il vecchio senatore dalla barba bianca, il padre della patria che conosciamo grazie al bel ritratto di Giovanni Boldini. La censura obbliga il suo librettista Francesco Maria Piave a trasferire la storia in un fantomatico ducato di Mantova, per non suscitare le ire di nessuna casa regnante italiana ed europea. E comunque l'espediente non rende l'opera esente da censure e tagli, di cui ovviamente il Maestro si lamenta: scrive a Ricordi che ormai Rigoletto può essere firmata invece che da lui e da Piave da don ... mettendo il nome del censore di turno.
Nel gennaio del 1857, sapendo che la Comédie-Française sta per mettere in scena l'opera di Verdi, Hugo intima il teatro di sospendere le rappresentazioni, in quanto Rigoletto deve essere considerata una contraffazione del suo Le Roi s'amuse. Hugo perde la causa e il 27 febbraio 1858 l'opera verdiana va finalmente in scena. Con grande successo. A dire il vero lo scrittore francese non ce l'ha con Verdi, ma con questa causa vuole denunciare l'assurdità del divieto che ancora vige contro la sua opera, dal momento che si può rappresentare, con un altro titolo, lo stesso identico intreccio. Hugo capisce che la censura non è più contro il suo Triboulet, ma proprio contro di lui. E naturalmente vuole combattere.
Peraltro sappiamo che Victor Hugo è andato a vedere Rigoletto e lo ha molto apprezzato.
Insuperabile! Meraviglioso! Potessi anch'io, nei miei drammi, far parlare contemporaneamente quattro personaggi in modo che il pubblico ne percepisca le parole e i diversi sentimenti, e ottenere un effetto uguale a questo.
Scrive così del quartetto del terzo atto, una delle pagine più giustamente celebri del teatro lirico di tutti i tempi.
Ma quei due giovani ribelli, prima di diventare i vecchi e celebrati autori che conosciamo, hanno in comune non solo Ernani e Rigoletto. Entrambi hanno costruito uno dei loro capolavori attorno alla figura di un'emarginata, di una dannata, di una zingara.
Sono trascorsi trentadue anni tra Notre-Dame de Paris e Il trovatore. E in mezzo c'è stato il Quarantotto, la speranza che la rivoluzione potesse trionfare, abbattendo i vecchi regimi e la cultura delle accademie, e insieme l'amarezza per quello che poteva essere e non è stato. Hugo e Verdi si considerano entrambi sconfitti, perché la "loro" rivoluzione è fallita.
Victor Hugo deve lasciare la Francia, meglio l'esilio che sottostare al regime del Secondo Impero, e in questi anni scriverà I miserabili. Giuseppe Verdi può continuare a viaggiare per i diversi stati italiani, ma decide comunque di dedicarsi a opere meno direttamente risorgimentali e più attente alle vicende private dei protagonisti, ai loro drammi e ai loro amori. Nasce così la cosiddetta "trilogia popolare", in cui il Maestro di Busseto racconta i suoi "miserabili", disegnando tre grandi figure di donne: una giovane vittima della lussuria dell'uomo che ella, nonostante tutto, ama e della smania di controllo di un padre troppo possessivo, una cortigiana che con le sue qualità svela la grettezza e l'ipocrisia della buona società parigina a cui "vende" il corpo, ma non l'anima, una zingara che compie un difficile percorso di redenzione dalla cieca vendetta all'amore verso il figlio del proprio nemico. E probabilmente Victor Hugo, l'autore dei personaggi di Blanche e di Esmeralda, ha conosciuto a Parigi Marie Duplessis, la donna che ha ispirato la "signora delle camelie" di Dumas e la "traviata" di Verdi, perché vita e poesia a volte trovano il modo di intrecciarsi in maniera bizzarra.
Gilda, Violetta e Azucena sono tre grandi donne, che emergono in un mondo di uomini che non le capiscono e che per questo le temono.
Verdi non si ispira a Hugo per creare il personaggio di Azucena, che trova nel dramma di Antonio Garcia Gutierrez intitolato El trovador, che legge direttamente in spagnolo. Eppure quando decide di mettere in musica questa tragedia deve avere in mente anche Esmeralda, la donna bellissima, libera e indipendente, che è il vero motore del romanzo di Hugo.
Certamente Leonora è una delle grandi eroine verdiane, la donna che vuole scegliere il proprio destino, a partire dall'uomo da amare. Leonora non accetta quello che il mondo ha preparato per lei, vuole essere lei a decidere, anche la morte se necessario. Ma è Azucena che alla fine rimane impressa nella nostra memoria, il suo vivere ogni giorno la drammatica contraddizione tra la volontà di vendicare la madre, straziata delle fiamme del rogo, e di amare il figlio dell'uomo che ha voluto quel rogo. Azucena sa che la sua vendetta potrà compiersi soltanto se Manrico sarà ucciso, ma sa anche che non potrà essere lei la persona che vendicherà la madre, perché ormai Manrico è suo figlio, perché non conta il sangue che scorre nelle sue vene: è suo figlio perché lei lo ha amato, lo ama e lo amerà come tale. E quando alla fine Manrico fatalmente muore, ucciso dal proprio fratello, la donna non sa che fare, il suo animo è straziato: la figlia che potrebbe gioire perché la madre è finalmente vendicata è sovrastata dalla madre che ha perso il proprio figlio. Garcia Gutierrez ha raccontato tutto questo, ma è la musica di Verdi a dare grandezza a questo personaggio, a partire dal primo brano con cui entra in scena, anticipata dal famoso “coro delle incudini”, quel Stride la vampa che pur sembrando una canzone popolare, la nenia di una vecchia zingara, è il racconto della tragica morte della madre a cui lei ha assistito bambina. E in qualche modo è anche una profezia, anche se Azucena non ha la "fortuna" di venire arsa, la pena a cui è destinata è molto più cruda: deve sopravvivere. La stessa pena a cui è condannato Rigoletto.
Il ribelle Verdi racconta con la sua musica che quella zingara, quella dannata, quella miserabile, è migliore di tutti noi che abbiamo acquistato il biglietto per andare a teatro. E noi potremo impiccare Esmeralda o bruciare Azucena, ma saranno, come Gilda, come Violetta, come Marie, sempre migliori di noi.
Victor Hugo deve lasciare la Francia, meglio l'esilio che sottostare al regime del Secondo Impero, e in questi anni scriverà I miserabili. Giuseppe Verdi può continuare a viaggiare per i diversi stati italiani, ma decide comunque di dedicarsi a opere meno direttamente risorgimentali e più attente alle vicende private dei protagonisti, ai loro drammi e ai loro amori. Nasce così la cosiddetta "trilogia popolare", in cui il Maestro di Busseto racconta i suoi "miserabili", disegnando tre grandi figure di donne: una giovane vittima della lussuria dell'uomo che ella, nonostante tutto, ama e della smania di controllo di un padre troppo possessivo, una cortigiana che con le sue qualità svela la grettezza e l'ipocrisia della buona società parigina a cui "vende" il corpo, ma non l'anima, una zingara che compie un difficile percorso di redenzione dalla cieca vendetta all'amore verso il figlio del proprio nemico. E probabilmente Victor Hugo, l'autore dei personaggi di Blanche e di Esmeralda, ha conosciuto a Parigi Marie Duplessis, la donna che ha ispirato la "signora delle camelie" di Dumas e la "traviata" di Verdi, perché vita e poesia a volte trovano il modo di intrecciarsi in maniera bizzarra.
Gilda, Violetta e Azucena sono tre grandi donne, che emergono in un mondo di uomini che non le capiscono e che per questo le temono.
Verdi non si ispira a Hugo per creare il personaggio di Azucena, che trova nel dramma di Antonio Garcia Gutierrez intitolato El trovador, che legge direttamente in spagnolo. Eppure quando decide di mettere in musica questa tragedia deve avere in mente anche Esmeralda, la donna bellissima, libera e indipendente, che è il vero motore del romanzo di Hugo.
Certamente Leonora è una delle grandi eroine verdiane, la donna che vuole scegliere il proprio destino, a partire dall'uomo da amare. Leonora non accetta quello che il mondo ha preparato per lei, vuole essere lei a decidere, anche la morte se necessario. Ma è Azucena che alla fine rimane impressa nella nostra memoria, il suo vivere ogni giorno la drammatica contraddizione tra la volontà di vendicare la madre, straziata delle fiamme del rogo, e di amare il figlio dell'uomo che ha voluto quel rogo. Azucena sa che la sua vendetta potrà compiersi soltanto se Manrico sarà ucciso, ma sa anche che non potrà essere lei la persona che vendicherà la madre, perché ormai Manrico è suo figlio, perché non conta il sangue che scorre nelle sue vene: è suo figlio perché lei lo ha amato, lo ama e lo amerà come tale. E quando alla fine Manrico fatalmente muore, ucciso dal proprio fratello, la donna non sa che fare, il suo animo è straziato: la figlia che potrebbe gioire perché la madre è finalmente vendicata è sovrastata dalla madre che ha perso il proprio figlio. Garcia Gutierrez ha raccontato tutto questo, ma è la musica di Verdi a dare grandezza a questo personaggio, a partire dal primo brano con cui entra in scena, anticipata dal famoso “coro delle incudini”, quel Stride la vampa che pur sembrando una canzone popolare, la nenia di una vecchia zingara, è il racconto della tragica morte della madre a cui lei ha assistito bambina. E in qualche modo è anche una profezia, anche se Azucena non ha la "fortuna" di venire arsa, la pena a cui è destinata è molto più cruda: deve sopravvivere. La stessa pena a cui è condannato Rigoletto.
Il ribelle Verdi racconta con la sua musica che quella zingara, quella dannata, quella miserabile, è migliore di tutti noi che abbiamo acquistato il biglietto per andare a teatro. E noi potremo impiccare Esmeralda o bruciare Azucena, ma saranno, come Gilda, come Violetta, come Marie, sempre migliori di noi.
domenica 3 maggio 2020
Verba volant (764): normalità...
Normalità, sost. f.
Quando torneremo alla normalità? Perfino uno che non legge i giornali come me sa che questa è la domanda che praticamente tutti si pongono in questi giorni, in maniera più o meno preoccupata, con toni più o meno polemici. Finanche apocalittici. Il 4 maggio? Il 18? Oppure il 1 giugno? O più avanti ancora?
Intanto dovremmo metterci d'accordo su cosa sia questa presunta normalità. Cenare al ristorante? Farsi tagliare i capelli? Andare a messa? Partire per le vacanze? Andare a scuola? Vedere uno spettacolo a teatro o recitare in uno spettacolo a teatro? Incominciare a lavorare? Forse ciascuno di noi ha una propria definizione di "normalità". Immagino che per qualcuno la normalità sia la ripresa del campionato di calcio e per qualcun altro poter tornare ad andare a puttane.
Personalmente l'unica cosa che mi è mancata veramente in questi giorni - e credo che mi mancherà per parecchio altro tempo - è stata quella di andare a teatro e al cinema. Per il resto mi sto godendo questi giorni a casa, senza vedere nessuno. Certo io sono fortunato, perché una casa in cui stare - insieme alla mia "congiunta" - ce l'ho e riesco pure a continuare a pagare le rate del mutuo, visto che ho anche un lavoro, che posso continuare a svolgere dal soggiorno. Perché ho anche un portatile, e un tablet, e un telefonino, e la connessione ad internet per farli funzionare. E quando non lavoro, esattamente come facevo prima, posso continuare a dedicarmi alle cose che mi piace fare, posso continuare a scrivere e a cucinare. Usavo già pochissimo il lievito prima della quarantena - non amo impastare - e quindi non ho particolarmente sofferto la penuria di questo ingrediente.
So bene che tante persone in queste settimane non hanno lavorato e non lavoreranno per un tempo ancora da definire, ma sinceramente credo che la nostra società abbia le risorse per aiutare i ristoratori, gli attori, i bagnini, i barbieri, e tutti gli altri che a differenza di noi stanno soffrendo. E, permettetemi un inciso, tutti loro non devono essere lasciati in balia al nostro buon cuore (che peraltro non esiste). Io posso rinunciare a richiedere al rimborso dell'abbonamento per gli spettacoli che non ho visto, ma non è di queste elemosine che si salverà il teatro. Occorre obbligare tutti noi a pagare le tasse per rendere possibile a tutti questi di ripartire.
Io vorrei che riflettessimo tutti che per molti di noi questa normalità tanto agognata, quella di cui ci parlano continuamente gli spot pubblicitari, alla fine è una specie di lusso, un surplus appunto: il ristorante, la gita nel fine settimana, lo spettacolo a teatro. Sento qualcuno paragonare questa quarantena a una specie di domicilio coatto, tipo gli arresti domiciliari. Credo che occorra usare le parole con moderazione e con giudizio. Ripeto che per molti di noi, molti di noi che possiamo perdere tempo nei social, non c'è stata nessuna privazione della libertà. Semplicemente siamo prudenti e la paura di morire ci spinge a fare le stesse cose che facevamo prima in una maniera un po' diversa.
Poi c'è un mondo al di fuori dei social, per cui invece la normalità, sia che torni il 4 o il 18 o il 1 giugno, è qualcosa di non così invidiabile. C'è chi la casa non ce l'ha proprio e chi considera la casa un luogo in cui è continuamente in pericolo: è quello che succede a tante donne per cui la normalità è la violenza domestica. Ma loro, anche quando noi fortunati potremo uscire - magari per rinchiuderci in un centro commerciale - dovranno rimanere lì, perché non hanno la possibilità di fuggire. Poi c'è chi non ha un lavoro. O ha un lavoro malpagato, insicuro, precario, da cui non può fuggire. E chi non ha nemmeno un computer o l'accesso alla rete. Per molti dei nostri figli la normalità non è la scuola, reale o virtuale, ma la strada, assolutamente reale. Per molti dei nostri figli è assolutamente ininfluente sapere come si svolgerà quest'anno l'esame di maturità, perché hanno dovuto diventare maturi - e mature - molto in fretta. Troppo in fetta.
A sentire tutti questi che invocano la normalità, che hanno nostalgia di quello che c'era prima, sembra che vivessimo in un tempo idillico, in una sorta di eden, da cui questa peste ci ha strappato. Sveglia, il mondo non è quello della pubblicità. No, il mondo prima faceva schifo, per la maggioranza delle donne e degli uomini che vivono in questa pianeta, era un luogo di dolore, e quando tornerà la normalità torneranno esattamente le condizioni di prima, anzi sarà peggio di prima. Così come sarà normale tornare ai livelli di inquinamento di prima, tornare ad avere le acque dei fiumi e dei mari pieni di veleni e così via. Sarà normale essere sommersi dai rifiuti e tutte le cose "belle" che ci siamo lasciati dietro nel mondo prima della peste.
A noi andava bene prima e andrà bene dopo. Ma per tutti gli altri non è così. Perché mentre per pochi di noi la normalità sarà il "dramma" di dover portare la mascherina per alcuni mesi tutte le volte che usciremo di casa, per tutti gli altri il dramma sarà trovare fuori quel mondo che hanno lasciato, con tutte le sue ingiustizie e tutte le sue miserie. E non sarà migliore solo perché noi da questa parte abbiamo sventolato qualche bandiera, abbiamo disegnato un paio di arcobaleni o abbiamo condiviso la foto di un dottore. Dopo saremo stronzi esattamente come lo eravamo prima. E il mondo farà schifo esattamente come lo faceva prima. Perché è questa la normalità.
Quando torneremo alla normalità? Perfino uno che non legge i giornali come me sa che questa è la domanda che praticamente tutti si pongono in questi giorni, in maniera più o meno preoccupata, con toni più o meno polemici. Finanche apocalittici. Il 4 maggio? Il 18? Oppure il 1 giugno? O più avanti ancora?
Intanto dovremmo metterci d'accordo su cosa sia questa presunta normalità. Cenare al ristorante? Farsi tagliare i capelli? Andare a messa? Partire per le vacanze? Andare a scuola? Vedere uno spettacolo a teatro o recitare in uno spettacolo a teatro? Incominciare a lavorare? Forse ciascuno di noi ha una propria definizione di "normalità". Immagino che per qualcuno la normalità sia la ripresa del campionato di calcio e per qualcun altro poter tornare ad andare a puttane.
Personalmente l'unica cosa che mi è mancata veramente in questi giorni - e credo che mi mancherà per parecchio altro tempo - è stata quella di andare a teatro e al cinema. Per il resto mi sto godendo questi giorni a casa, senza vedere nessuno. Certo io sono fortunato, perché una casa in cui stare - insieme alla mia "congiunta" - ce l'ho e riesco pure a continuare a pagare le rate del mutuo, visto che ho anche un lavoro, che posso continuare a svolgere dal soggiorno. Perché ho anche un portatile, e un tablet, e un telefonino, e la connessione ad internet per farli funzionare. E quando non lavoro, esattamente come facevo prima, posso continuare a dedicarmi alle cose che mi piace fare, posso continuare a scrivere e a cucinare. Usavo già pochissimo il lievito prima della quarantena - non amo impastare - e quindi non ho particolarmente sofferto la penuria di questo ingrediente.
So bene che tante persone in queste settimane non hanno lavorato e non lavoreranno per un tempo ancora da definire, ma sinceramente credo che la nostra società abbia le risorse per aiutare i ristoratori, gli attori, i bagnini, i barbieri, e tutti gli altri che a differenza di noi stanno soffrendo. E, permettetemi un inciso, tutti loro non devono essere lasciati in balia al nostro buon cuore (che peraltro non esiste). Io posso rinunciare a richiedere al rimborso dell'abbonamento per gli spettacoli che non ho visto, ma non è di queste elemosine che si salverà il teatro. Occorre obbligare tutti noi a pagare le tasse per rendere possibile a tutti questi di ripartire.
Io vorrei che riflettessimo tutti che per molti di noi questa normalità tanto agognata, quella di cui ci parlano continuamente gli spot pubblicitari, alla fine è una specie di lusso, un surplus appunto: il ristorante, la gita nel fine settimana, lo spettacolo a teatro. Sento qualcuno paragonare questa quarantena a una specie di domicilio coatto, tipo gli arresti domiciliari. Credo che occorra usare le parole con moderazione e con giudizio. Ripeto che per molti di noi, molti di noi che possiamo perdere tempo nei social, non c'è stata nessuna privazione della libertà. Semplicemente siamo prudenti e la paura di morire ci spinge a fare le stesse cose che facevamo prima in una maniera un po' diversa.
Poi c'è un mondo al di fuori dei social, per cui invece la normalità, sia che torni il 4 o il 18 o il 1 giugno, è qualcosa di non così invidiabile. C'è chi la casa non ce l'ha proprio e chi considera la casa un luogo in cui è continuamente in pericolo: è quello che succede a tante donne per cui la normalità è la violenza domestica. Ma loro, anche quando noi fortunati potremo uscire - magari per rinchiuderci in un centro commerciale - dovranno rimanere lì, perché non hanno la possibilità di fuggire. Poi c'è chi non ha un lavoro. O ha un lavoro malpagato, insicuro, precario, da cui non può fuggire. E chi non ha nemmeno un computer o l'accesso alla rete. Per molti dei nostri figli la normalità non è la scuola, reale o virtuale, ma la strada, assolutamente reale. Per molti dei nostri figli è assolutamente ininfluente sapere come si svolgerà quest'anno l'esame di maturità, perché hanno dovuto diventare maturi - e mature - molto in fretta. Troppo in fetta.
A sentire tutti questi che invocano la normalità, che hanno nostalgia di quello che c'era prima, sembra che vivessimo in un tempo idillico, in una sorta di eden, da cui questa peste ci ha strappato. Sveglia, il mondo non è quello della pubblicità. No, il mondo prima faceva schifo, per la maggioranza delle donne e degli uomini che vivono in questa pianeta, era un luogo di dolore, e quando tornerà la normalità torneranno esattamente le condizioni di prima, anzi sarà peggio di prima. Così come sarà normale tornare ai livelli di inquinamento di prima, tornare ad avere le acque dei fiumi e dei mari pieni di veleni e così via. Sarà normale essere sommersi dai rifiuti e tutte le cose "belle" che ci siamo lasciati dietro nel mondo prima della peste.
A noi andava bene prima e andrà bene dopo. Ma per tutti gli altri non è così. Perché mentre per pochi di noi la normalità sarà il "dramma" di dover portare la mascherina per alcuni mesi tutte le volte che usciremo di casa, per tutti gli altri il dramma sarà trovare fuori quel mondo che hanno lasciato, con tutte le sue ingiustizie e tutte le sue miserie. E non sarà migliore solo perché noi da questa parte abbiamo sventolato qualche bandiera, abbiamo disegnato un paio di arcobaleni o abbiamo condiviso la foto di un dottore. Dopo saremo stronzi esattamente come lo eravamo prima. E il mondo farà schifo esattamente come lo faceva prima. Perché è questa la normalità.
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