Qualche altra riflessione - dopo la nr. 323 - in questo tempo di attesa, tra le primarie e il ballottaggio, dopo il dibattito televisivo di mercoledì sera. Provando a essere il più oggettivo possibile - per quanto sia difficile, visto che si parla di politica - penso che sia stato un dibattito interessante. E anche utile. Provo a spiegarmi. Come ho ripetuto diverse volte - anche parlando delle presidenziali degli Stati Uniti - io penso che appuntamenti come questi servano molto più a motivare chi ha già deciso piuttosto che a convincere gli indecisi o a spostare i voti da una parte all'altra; a meno che non avvengano imprevedibili incidenti. E mercoledì sera tutto è filato liscio, Bersani ha fatto Bersani, con il passerotto e il tacchino, e Renzi ha fatto Renzi, con le maniche della camicia arrotolate; e lo hanno fatto molto bene. Leggendo i commenti in rete, sia quelli espressi immediatamente attraverso Twitter e Facebook sia quelli pubblicati "a freddo", gli estimatori di Bersani hanno detto che il vincitore è stato il segretario, così come quelli di Renzi hanno sostenuto che aveva vinto il sindaco di Firenze. Anche i commenti dei cosiddetti "esperti" erano in gran parte già stati scritti prima del dibattito. I commentatori del centrosinistra si sono divisi a seconda della loro personale preferenza o di quella del giornale in cui scrivono. I giornali "lepenisti" di cui è proprietario B. hanno detto che ha vinto Renzi, seguendo la linea dettata da Arcore. Anche gli "indipendenti" hanno detto che ha vinto Renzi, perché è di moda e più moderno dire così, perché dicendo così si fa la figura di quelli che capiscono le nuove forme di comunicazione, anche se molti di costoro scrivono ancora con la penna d'oca.
Il dibattito di mercoledì sera è stato utile non tanto al risultato finale delle primarie, ma a ribadire la centralità del Pd e del centrosinistra nel dibattito politico italiano. Anche grazie a questo appuntamento, a come si è svolto e a come è stato condotto, sembra che le primarie non servano a decidere, tra Bersani e Renzi, chi sarà il candidato alle prossime elezioni, ma già chi sarà il prossimo presidente del consiglio. A questo contribuisce lo stato confusionale in cui si trova la destra: per la prima volta da molti anni non è il centrosinistra a inseguire la destra, ma questa ad affannarsi dietro un avversario lanciato verso la vittoria. Ricordate come stavamo noi prima delle elezioni del 2001? Guardate quell'incredibile pezzo di satira in cui Guzzanti-Veltroni pensa a chi candidare e, scartati Leonardo Di Caprio, il nonno di Heidi, Topo Gigio e Amedeo Nazzari, annuncia sconsolato la candidatura di Rutelli. Noi avevamo già perso prima di cominciare, perché ci sentivamo perdenti e così ci hanno sentito gli elettori. Il fatto, ormai evidente, che B. attenda il risultato delle primarie per dire cosa farà è indicativo di questo clima, inusuale nel ventennio berlusconiano. Lo stesso Monti ha dato un segnale importante di questa attenzione dell'opinione pubblica verso il Pd: il giorno dopo la forte presa di posizione di Bersani a favore dell'ingresso della Palestina all'Onu, il presidente del consiglio ha deciso di cambiare la posizione del governo, in cui prevaleva il "neutralismo" atlantico e filoisraeliano dell'ambasciatore-ministro Terzi e della Farnesina. Adesso è il centrosinistra a tenere il banco e spesso il banco vince. Naturalmente il cupio dissolvi del centrosinistra è sempre dietro l'angolo: le polemiche di ieri sulle regole del ballottaggio e sull'acquisto di intere pagine sui quotidiani sono segnali potenzialmente inquietanti per un osservatore interessato alla vittoria di quello schieramento. Il rischio per il Pd di "andare ai materassi" c'è sempre.
Su questo punto delle regole permettetemi una riflessione ulteriore, perché mi pare illuminante. Le polemiche di questi giorni erano facilmente prevedibili perché erano già in nuce nella poca chiarezza con cui queste stesse regole erano state redatte e soprattutto perché ciascuno dei contendenti aveva già interpretato a proprio favore l'esito dell'estenuante mediazione allora raggiunta. I bersaniani volevano che potessero votare al secondo turno soltanto quelli già registrati per il primo turno, mentre i renziani volevano un secondo turno aperto; si decise allora il complicato meccanismo della registrazione con giustificazione, sotto il controllo del povero Stumpo. Non me ne vogliano gli amici renziani, ma questo atteggiamento di far finta di accettare una mediazione, con il retro pensiero che poi alla fine si farà in modo diverso è "dalemismo" puro, proprio quel vecchio modo di far politica che il loro leader vorrebbe rottamare. Purtroppo questo modo di fare è stato da sempre un carattere originario del Pd. Basti pensare alla questione dirimente dell'adesione del nuovo partito al Pse; gli ex-Ds pensavano che alla fine il Pd avrebbe aderito, gli ex-Margherita sostenevano che questa adesione non ci sarebbe mai stata, si decise di aspettare, e ciascuno pensava che alla fine gli altri avrebbero ceduto. E di esempi come questi, purtroppo, se ne possono fare molti altri, a volte - come nel caso dell'adesione al Pse - hanno vinto gli ex della Margherita, altre volte gli ex dei Ds e in molti casi - troppi - si è raggiunta una mediazione al ribasso. Su questo punto comunque dovrò tornare.
L'altra sera le differenze tra i due candidati sono emerse piuttosto bene, perché le differenze ci sono, nonostante i toni pacati del confronto. Per inciso questi toni, questa disponibilità a scherzare, è stata una componente del successo della serata e delle primarie in generale, dopo anni in cui il livello della discussione politica era costantemente fermo alla rissa, alle ingiurie, alle urla; credo che questo dovrebbe insegnare qualcosa anche a Grillo, che di questa cifra stilistica ha fatto una parte rilevante del proprio programma politico. Comunque l'altra sera agli elettori del centrosinistra e all'Italia è stata offerta la possibilità di scegliere tra due opzioni. Da una parte Renzi ha esplicitamente chiesto agli elettori di scegliere lui come futuro "sindaco d'Italia"; le sue proposte sono state più vaghe di quelle offerte da Bersani, i suoi programmi meno definiti. Scegliendo Renzi si sceglie una persona, un'idea di novità, una proposta di effettivo cambiamento generazionale e di - supposto - cambiamento di stile politico; Renzi non digerisce le alleanze - è il punto su cui è stato più chiaro - e immagina un governo dichiaratamente ed esclusivamente "renziano". Come questa idea si sposi con la Costituzione vigente è un problema che qualcuno dovrebbe porre al giovane candidato e questa è - al di là delle caricature o dei pranzi ad Arcore - la vera affinità tra Renzi e B.: la difficoltà a collocare se stessi all'interno della Costituzione del '48. Bersani è stato più possibilista sulle alleanze, prefigurando uno schieramento piuttosto ampio ed eterogeneo, che va da Vendola a Casini, che forse si tira dietro perfino Fini. Ma con altrettanta nettezza ha detto le cose che lui farà, dalla cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia all'introduzione delle unioni civili per gli omosessuali, temi su cui è pronto a scontrarsi anche con Casini. Naturalmente Bersani è anche quello che ha votato per mettere il pareggio di bilancio nella Costituzione, che ha votato la riforma Fornero, che ha votato tutte le misure di destra presentate da questo governo di destra; e questi sono i motivi per cui io non sono andato a votare per lui alle primarie. Nonostante questo mio giudizio nettamente negativo - per quanto schiettamente settario - Bersani, a differenza del suo avversario, è tutto dentro la cornice istituzionale e politica della nostra repubblica e questo per me è ovviamente un punto importante.
C'è un problema però, molto grosso. Io credo che domenica vincerà Bersani, ma quasi la metà di chi sarà andato a votare si sarà espresso per Renzi. All'interno del Pd convivono e conviveranno - con sempre maggiore difficoltà - bersaniani e renziani, "noi" e "loro". Questa convivenza forzata sarà possibile soltanto attraverso una mediazione continua, estenuante, sulle piccole come sulle grandi questioni. Si amplificherà quel fenomeno di "doppiezza" che ho descritto prima a proposito del tema della regole: ciascuno continuerà a pensare che la propria posizione è non solo la migliore, ma quella legittima e soprattutto quella destinata a prevalere, quando la mediazione sarà arrivata alla corda. Quando potrà andare avanti il Pd in questo modo? Non lo so. Mi piacerebbe dire che non è un problema mio, dal momento che io ho scelto da tempo di non militare in un partito in cui si sentono legittimamente a casa loro persone come Renzi e Ichino. Se ci stanno loro non riesco a starci io. Eppure, come spesso ho ripetuto, è anche un problema mio. Perché noi della "sinistra dispersa" potremo avere un governo di cui non vergognarci soltanto se la maggioranza del centrosinistra vincerà e adesso la maggioranza del centrosinistra è questo strano animale a due teste.
venerdì 30 novembre 2012
mercoledì 28 novembre 2012
Considerazioni libere (323): a proposito di un'attesa...
Aspettando il ballottaggio, provo a condividere con voi, miei sparuti e fedeli lettori, qualche riflessione sulle primarie, e soprattutto i miei molti dubbi, sperando che i risultati di domenica prossima possano servirci a chiarire - e non a confondere ulteriormente - quello che succede in una parte rilevante, anche se non esclusiva, del centrosinistra italiano.
Il primo dato è che le primarie sono state un successo, per tutto il centrosinistra e in particolare per il Pd. Oltre tre milioni di cittadini che decidono di dedicare un po' del loro tempo - più prezioso dei due euro - per registrarsi e andare a votare sono un risultato importante, tanto più in un periodo come questo, in cui cresce una sfiducia diffusa - ampiamente meritata - per coloro che in questi anni hanno avuto il compito di guidare e rappresentare questo paese. Queste primarie fanno storia a sé e non ha molto senso confrontarle con quelle con cui sancimmo la leadership di Prodi nel 2005. Dopo le elezioni regionali della Sicilia rischiavamo che tutto il dibattito fosse incentrato sul legittimo timore dell'astensionismo - che comunque ci sarà e crescerà nelle prossime elezioni - e soprattutto sulla crescita impetuosa e inarrestabile del grillismo, anche perché la proverbiale pigrizia dei giornalisti e dei commentatori italiani aveva già spinto tutti costoro a considerare come ineluttabile la vittoria di questo nuovo fenomeno. E troppe volte in democrazia queste profezie rischiano di avverarsi o di autoavverarsi. I pigri, che non hanno voglia di approfondire le dinamiche profonde della società, hanno paradossalmente sempre voglia di cose nuove: per un po' Grillo e i grillini sono stati adattissimi alla bisogna, per questo in tanti di loro, al di là delle loro convinzioni politiche, tifano Renzi, aspettando già il prossimo "rottamatore del rottamatore". Comunque, al di là di queste piccinerie giornalistiche che lasciano il tempo che trovano e che muovono fortunatamente pochissimi voti, le primarie - in particolare queste primarie con questa accesa personalizzazione dei candidati - hanno contribuito a togliere visibilità mediatica - e quindi linfa vitale - a Grillo e questo penso sia un bene.
C'è poi un aspetto che in pochi hanno sottolineato, ma che io - che un tempo ho lavorato in fureria o in sala macchine o in cucina, come metaforicamente descrivevamo l'organizzazione politica - considero particolarmente importante. Il Pd è un partito che, pur con tutti i suoi problemi - e non sono pochi - riesce ancora a mettere in piedi una struttura così articolata come quella delle primarie, dal Piemonte alla Sicilia, fatta di un'organizzazione centrale - mi ha fatto piacere vedere sui giornali il solitamente ignorato Nico Stumpo - di una miriade di seggi gestiti da volontari, di un'organizzazione capace di portare tavoli, bandiere, urne, schede, penne in tutti i comuni italiani, dal più piccolo al più grande. In politica servono le proposte - anche se non dobbiamo sopravvalutare i programmi, che di solito si invocano quando non abbiamo nessun altro argomento - sono indispensabili i valori e le persone che fanno vivere quei valori - e per questo si fanno le primarie - ma è necessaria anche un'organizzazione. Qualcuno pensava che di questa si potesse fare a meno, fatto salvo poi invocarla in occasioni come questa o come la raccolta delle firme quando si devono presentare le liste o la gestione delle affissioni durante le campagne elettorali. Il Pd latita sui valori o comunque non sa bene quali siano, non sempre ci azzecca sulle persone, ma una qualche organizzazione resiste, anche se una parte rilevante del partito non ne riconosce il ruolo: e questo è un problema su cui loro dovranno riflettere, chiunque vinca, specialmente se dovesse prevalere quella componente che considera residuale e stantia l'organizzazione. Renzi la etichetta come "apparato" e quindi da rottamare tout court, ma questa struttura, tanto vituperata, alla fine serve anche a lui.
Dette le cose positive di domenica scorsa, provo a dire quelle che mi convincono meno. Spero di sbagliarmi, ma nelle rete mi è capitato di imbattermi in diverse persone che non considerano impegnativo il voto di domenica scorsa e suppongo neppure quello di domenica prossima. Quando io ho scritto che uno dei motivi per cui non sono andato a votare è che non trovo corretto votare alle primarie dal momento che non penso di votare per questo centrosinistra alle "secondarie" - e sicuramente non lo voterei se vincesse Renzi - diversi mi hanno risposto che sono andati a votare non sentendo il peso di questo obbligo. Ho l'impressione che una parte di elettori - che non so quantificare, spero piccola, ma non ne sono certo - abbiano partecipato per la legittima voglia di partecipare, per il desiderio di esprimere la propria opinione su un tema rilevante per il futuro del paese, ma che da qui a primavera siano pronti a cambiare idea. C'è voglia di politica e dato che non ci sono altri mezzi per esprimerla qualcuno ha pensato di canalizzarla nelle primarie.
Non mi preoccupa il voto organizzato del centrodestra - non credo ci sia stato e penso sia una cretinata perfino evocarlo - ma ci sono elettori del centrodestra "in libertà" - anche questi non li so quantificare - che sono andati a votare alle primarie. Ad esempio nella mia cittadina c'è un blog piuttosto seguito che credo, senza essere smentito, di poter definire di centrodestra; alcuni di quelli che scrivono su quel blog sono andati a votare alle primarie, ma non penso che voteranno il centrosinistra alle elezioni "vere". C'è un elettorato di centrodestra che adesso è deluso, che forse non andrà a votare, ma non è detto che alla fine costoro non si lascino sedurre di nuovo da B. o in loro non prevalga l'atavica spinta a votare chiunque non sia di sinistra. Li capisco perché io ad esempio non voterei mai per uno di destra - neppure come capocondominio - e neppure se lo stimassi personalmente. Io rimango convinto, a differenza di quello che mi pare dica Renzi, che le prossime elezioni non si vinceranno prendendo i voti alla destra, perché da lì i voti non si spostano, come non si spostano da sinistra. Vincerà in Italia - così come è accaduto recentemente prima in Francia e poi negli Stati Uniti - chi sarà più capace di mobilitare i suoi, portandoli tutti a votare e sperando che quelli dell'altra parte non ci riescano altrettanto bene. E nella prossima primavera è realistico pensare che questo possa avvenire, a vantaggio del centrosinistra e a scapito della destra. Ed è più realistico pensare che avvenga se a guidare il centrosinistra ci sarà Bersani, e non Renzi.
Il primo dato è che le primarie sono state un successo, per tutto il centrosinistra e in particolare per il Pd. Oltre tre milioni di cittadini che decidono di dedicare un po' del loro tempo - più prezioso dei due euro - per registrarsi e andare a votare sono un risultato importante, tanto più in un periodo come questo, in cui cresce una sfiducia diffusa - ampiamente meritata - per coloro che in questi anni hanno avuto il compito di guidare e rappresentare questo paese. Queste primarie fanno storia a sé e non ha molto senso confrontarle con quelle con cui sancimmo la leadership di Prodi nel 2005. Dopo le elezioni regionali della Sicilia rischiavamo che tutto il dibattito fosse incentrato sul legittimo timore dell'astensionismo - che comunque ci sarà e crescerà nelle prossime elezioni - e soprattutto sulla crescita impetuosa e inarrestabile del grillismo, anche perché la proverbiale pigrizia dei giornalisti e dei commentatori italiani aveva già spinto tutti costoro a considerare come ineluttabile la vittoria di questo nuovo fenomeno. E troppe volte in democrazia queste profezie rischiano di avverarsi o di autoavverarsi. I pigri, che non hanno voglia di approfondire le dinamiche profonde della società, hanno paradossalmente sempre voglia di cose nuove: per un po' Grillo e i grillini sono stati adattissimi alla bisogna, per questo in tanti di loro, al di là delle loro convinzioni politiche, tifano Renzi, aspettando già il prossimo "rottamatore del rottamatore". Comunque, al di là di queste piccinerie giornalistiche che lasciano il tempo che trovano e che muovono fortunatamente pochissimi voti, le primarie - in particolare queste primarie con questa accesa personalizzazione dei candidati - hanno contribuito a togliere visibilità mediatica - e quindi linfa vitale - a Grillo e questo penso sia un bene.
C'è poi un aspetto che in pochi hanno sottolineato, ma che io - che un tempo ho lavorato in fureria o in sala macchine o in cucina, come metaforicamente descrivevamo l'organizzazione politica - considero particolarmente importante. Il Pd è un partito che, pur con tutti i suoi problemi - e non sono pochi - riesce ancora a mettere in piedi una struttura così articolata come quella delle primarie, dal Piemonte alla Sicilia, fatta di un'organizzazione centrale - mi ha fatto piacere vedere sui giornali il solitamente ignorato Nico Stumpo - di una miriade di seggi gestiti da volontari, di un'organizzazione capace di portare tavoli, bandiere, urne, schede, penne in tutti i comuni italiani, dal più piccolo al più grande. In politica servono le proposte - anche se non dobbiamo sopravvalutare i programmi, che di solito si invocano quando non abbiamo nessun altro argomento - sono indispensabili i valori e le persone che fanno vivere quei valori - e per questo si fanno le primarie - ma è necessaria anche un'organizzazione. Qualcuno pensava che di questa si potesse fare a meno, fatto salvo poi invocarla in occasioni come questa o come la raccolta delle firme quando si devono presentare le liste o la gestione delle affissioni durante le campagne elettorali. Il Pd latita sui valori o comunque non sa bene quali siano, non sempre ci azzecca sulle persone, ma una qualche organizzazione resiste, anche se una parte rilevante del partito non ne riconosce il ruolo: e questo è un problema su cui loro dovranno riflettere, chiunque vinca, specialmente se dovesse prevalere quella componente che considera residuale e stantia l'organizzazione. Renzi la etichetta come "apparato" e quindi da rottamare tout court, ma questa struttura, tanto vituperata, alla fine serve anche a lui.
Dette le cose positive di domenica scorsa, provo a dire quelle che mi convincono meno. Spero di sbagliarmi, ma nelle rete mi è capitato di imbattermi in diverse persone che non considerano impegnativo il voto di domenica scorsa e suppongo neppure quello di domenica prossima. Quando io ho scritto che uno dei motivi per cui non sono andato a votare è che non trovo corretto votare alle primarie dal momento che non penso di votare per questo centrosinistra alle "secondarie" - e sicuramente non lo voterei se vincesse Renzi - diversi mi hanno risposto che sono andati a votare non sentendo il peso di questo obbligo. Ho l'impressione che una parte di elettori - che non so quantificare, spero piccola, ma non ne sono certo - abbiano partecipato per la legittima voglia di partecipare, per il desiderio di esprimere la propria opinione su un tema rilevante per il futuro del paese, ma che da qui a primavera siano pronti a cambiare idea. C'è voglia di politica e dato che non ci sono altri mezzi per esprimerla qualcuno ha pensato di canalizzarla nelle primarie.
Non mi preoccupa il voto organizzato del centrodestra - non credo ci sia stato e penso sia una cretinata perfino evocarlo - ma ci sono elettori del centrodestra "in libertà" - anche questi non li so quantificare - che sono andati a votare alle primarie. Ad esempio nella mia cittadina c'è un blog piuttosto seguito che credo, senza essere smentito, di poter definire di centrodestra; alcuni di quelli che scrivono su quel blog sono andati a votare alle primarie, ma non penso che voteranno il centrosinistra alle elezioni "vere". C'è un elettorato di centrodestra che adesso è deluso, che forse non andrà a votare, ma non è detto che alla fine costoro non si lascino sedurre di nuovo da B. o in loro non prevalga l'atavica spinta a votare chiunque non sia di sinistra. Li capisco perché io ad esempio non voterei mai per uno di destra - neppure come capocondominio - e neppure se lo stimassi personalmente. Io rimango convinto, a differenza di quello che mi pare dica Renzi, che le prossime elezioni non si vinceranno prendendo i voti alla destra, perché da lì i voti non si spostano, come non si spostano da sinistra. Vincerà in Italia - così come è accaduto recentemente prima in Francia e poi negli Stati Uniti - chi sarà più capace di mobilitare i suoi, portandoli tutti a votare e sperando che quelli dell'altra parte non ci riescano altrettanto bene. E nella prossima primavera è realistico pensare che questo possa avvenire, a vantaggio del centrosinistra e a scapito della destra. Ed è più realistico pensare che avvenga se a guidare il centrosinistra ci sarà Bersani, e non Renzi.
domenica 25 novembre 2012
da "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters
Amanda Barker
Henry mi mise incintasapendo che non potevo generare una vita
senza perdere la mia.
Quindi in gioventù varcai i portali di polvere.
Viandante, nel villaggio dove vissi credono
che Henry mi amasse con amore di consorte,
ma dalla polvere proclamo
che mi uccise per appagare il suo odio.
sabato 24 novembre 2012
Considerazioni libere (322): a proposito di un non-voto...
Una brevissima riflessione in vista dell'appuntamento di domani. Delle primarie del centrosinistra ho già scritto in una "considerazione" del 12 settembre scorso, a cui vi rimando. Avevo deciso allora che non sarei andato a votare e in questi due mesi non è successo nulla che mi abbia fatto cambiare idea.
E' una competizione vera e - sarò all'antica - per me questo è un problema. Non ho visto il confronto tra i candidati su Sky, ho letto che si è svolto in maniera civile e ne sono lieto. Purtroppo ho letto molti commenti tra i miei amici di centrosinistra - e sono tanti, naturalmente - su Twitter e Facebook e francamente molti di questi, soprattutto quelli dei bersaniani e dei renziani, sembrano scritti da persone che militano in partiti diversi. Servirà molta intelligenza e molta pazienza per sanare queste fratture e temo non sarà facile farlo, anche perché ci sarà da fare altro nelle prossime settimane, una campagna elettorale contro le due destre che ci sono in questo paese, quella di Monti e quella del redivivo B., già pronto a riscendere in campo.
Comunque io non voterò alle primarie, perché rispetto questo strumento e credo richieda lealtà: se partecipi alle primarie, qualunque sia il candidato per cui hai votato, ti impegni a sostenere il candidato che vincerà. Io oggi non so se voterò per il centrosinistra alle prossime elezioni, probabilmente no. Sicuramente non lo voterei se vincesse Renzi e lui fosse il candidato del centrosinistra, perché - solo per citare un tema rilevante - non posso votare per un candidato che sostiene la riforma Ichino sul mercato del lavoro.
Da persona che continua ostinatamente a militare a sinistra e che voterà a sinistra alle prossime elezioni, sperando ci sia anche un'opzione diversa da quella di questo centrosinistra, spero che queste primarie siano un successo, che molti cittadini vadano a votare e che si svolgano con regolarità e senza polemiche. Mi auguro naturalmente che le previsioni siano rispettate e vinca Bersani - il candidato a cui per storia politica sono più vicino - e spero anche che Vendola ottenga un buon risultato, sarebbe un segnale utile anche per noi che abbiamo deciso di rimanere fuori da questo percorso. Nella prossima primavera il centrosinistra in Italia non vincerà senza le persone che domani parteciperanno alle primarie, spero che loro si ricordino che ci siamo - per quanto possiamo essere pochi - anche noi.
E' una competizione vera e - sarò all'antica - per me questo è un problema. Non ho visto il confronto tra i candidati su Sky, ho letto che si è svolto in maniera civile e ne sono lieto. Purtroppo ho letto molti commenti tra i miei amici di centrosinistra - e sono tanti, naturalmente - su Twitter e Facebook e francamente molti di questi, soprattutto quelli dei bersaniani e dei renziani, sembrano scritti da persone che militano in partiti diversi. Servirà molta intelligenza e molta pazienza per sanare queste fratture e temo non sarà facile farlo, anche perché ci sarà da fare altro nelle prossime settimane, una campagna elettorale contro le due destre che ci sono in questo paese, quella di Monti e quella del redivivo B., già pronto a riscendere in campo.
Comunque io non voterò alle primarie, perché rispetto questo strumento e credo richieda lealtà: se partecipi alle primarie, qualunque sia il candidato per cui hai votato, ti impegni a sostenere il candidato che vincerà. Io oggi non so se voterò per il centrosinistra alle prossime elezioni, probabilmente no. Sicuramente non lo voterei se vincesse Renzi e lui fosse il candidato del centrosinistra, perché - solo per citare un tema rilevante - non posso votare per un candidato che sostiene la riforma Ichino sul mercato del lavoro.
Da persona che continua ostinatamente a militare a sinistra e che voterà a sinistra alle prossime elezioni, sperando ci sia anche un'opzione diversa da quella di questo centrosinistra, spero che queste primarie siano un successo, che molti cittadini vadano a votare e che si svolgano con regolarità e senza polemiche. Mi auguro naturalmente che le previsioni siano rispettate e vinca Bersani - il candidato a cui per storia politica sono più vicino - e spero anche che Vendola ottenga un buon risultato, sarebbe un segnale utile anche per noi che abbiamo deciso di rimanere fuori da questo percorso. Nella prossima primavera il centrosinistra in Italia non vincerà senza le persone che domani parteciperanno alle primarie, spero che loro si ricordino che ci siamo - per quanto possiamo essere pochi - anche noi.
mercoledì 21 novembre 2012
Considerazioni libere (321): a proposito di una possibile pace...
Francamente speravo che la cosiddetta primavera araba, con la sua spinta potenzialmente rivoluzionaria, sarebbe potuta essere un aiuto alla risoluzione del problema palestinese, almeno per due ordini di ragioni. Prima di tutto pensavo che spostare l'attenzione da quel conflitto avrebbe permesso a quelli che sono seriamente impegnati per costruire la pace di lavorare meglio, perché in genere queste trattative si conducono meglio se non sono continuamente sotto l'occhio dei riflettori; pensavo poi che fino a quando la questione palestinese fosse rimasta al centro del dibattito politico mediorientale e soprattutto fosse continuata a essere il parafulmine per ogni altro problema - quante volte abbiamo sentito ripetere "questo aspetto potrà essere risolto solo quando lo sarà anche la questione palestinese", con l'obiettivo di rimandare anche la soluzione di quella singola questione - fino ad allora insomma, sarebbe stato più difficile trovare un accordo. Mi era sembrato che le varie "primavere" si fossero messe in moto indipendentemente da quell'annosa questione, quasi a prescinderne, a differenza di quello che era avvenuto negli anni precedenti, quando ogni sollevazione di piazza del mondo arabo metteva sempre al centro la rivendicazione dello stato di Palestina, con i conseguenti attacchi ad Israele; il fatto di non vedere bruciare in piazza né le bandiere degli Stati Uniti né quelle di Israele mi era parso un segnale incoraggiante in questa direzione. Il secondo motivo di ottimismo era legato alla caratteristica peculiare di quelle rivolte, l'elemento unificante, pur in un quadro molto diversificato: la volontà dei giovani manifestanti di affrancarsi dai loro vecchi leader, che erano legati agli schemi del passato e fautori di un rigido status quo. E bisogna ammettere che i capi palestinesi negli ultimi anni sono stati dei veri campioni di questo conservatorismo: si tratta di un gruppo dirigente chiuso nei propri privilegi e sempre più lontano dai bisogni e dalle aspettative del loro popolo. La reazione, ugualmente miope, di Netanyahu e di Abu Mazen di condanna delle rivolte di piazza Tahir e la loro comune solidarietà al regime di Mubarak aveva dato maggior solidità alla mia convinzione.
Evidentemente nessuna di queste condizioni si è verificata in questo modo, visto che in questi giorni guardiamo con il fiato sospeso a quello che succede a Gaza, contro cui il governo Netanyau ha sferrato una ritorsione significativamente più dura dell'attacco che ha colpito le città israeliane, compresa Tel Aviv. Forse ci sarà una tregua, speriamo ci sia, ma sarà solo una parentesi in attesa del prossimo bombardamento. A questo punto suona anacronistico e ipocrita il consueto appello delle Nazioni Unite e dei governi occidentali - a proposito Tony Blair ha ancora un qualche incarico diplomatico? se sì, sarà meglio richiamarlo a casa, visti i risultati - affinché israeliani e palestinesi si rimettano attorno a un tavolo per discutere dell'opzione "due popoli, due stati". A questa soluzione evidentemente non credono più né gli uni né gli altri, ma rimane la nostra foglia di fico, all'indomani di un attacco, da qualsiasi parte provenga. In questi anni i governi di Gerusalemme - con un ampio accordo del paese - ha lavorato in maniera metodica ed efficace affinché fosse impossibile anche solo pensare di tornare ai confini del '67: la politica degli insediamenti e delle colonie e la gestione delle risorse naturali, specialmente delle acque, ha segnato l'interruzione de facto del processo di pace basato sulla formula "due popoli, due stati", perché non c'è più un territorio su cui pensare di costruire il futuro stato palestinese o sarebbe così povero e malridotto da costringerlo in una posizione di sudditanza di fronte al suo ben più potente vicino. D'altra anche i palestinesi hanno ormai abbandonato il progetto "due popoli, due stati", visto che loro stessi si sono ormai organizzati in "due stati", si sono abituati a vivere come enclaves: da una parte Gaza e dall'altra i territori della Cisgiordania; se diventassero davvero un unico stato o Fatah o Hamas dovrebbe rinunciare al proprio piccolo pezzo di potere e ai loro - non troppo piccoli in questo caso - affari, dal momento che gli altri stati arabi mandano moltissime risorse economiche a queste fragilissime strutture.
Sono sempre più convinto che alla lunga questa soluzione, per quanto "politicamente corretta" e apparentemente giusta, finisca per essere irrealizzabile e comunque incapace di risolvere davvero il problema. Se anche arrivassimo alla soluzione "due popoli, due stati", il giorno successivo comincerebbe una guerra, ben più drammatica di quella che funestò gli appena nati India e Pakistan, all'indomani dell'indipendenza dalla Gran Bretagna. Penso che, come succede tutte le volte che ogni altra strada sembra preclusa, occorra fare la mossa del cavallo, anche se forse questa volta bisognerebbe proprio cominciare a giocare un nuovo gioco, con nuove regole. Io immagino una soluzione perfino più semplice di quella "due popoli, due stati", anche se probabilmente perfino più difficile da realizzare: ebrei e palestinesi devono vivere in quell'unico paese insieme, come stanno facendo bianchi e neri in Sudafrica o cattolici e protestanti in Irlanda del nord. La soluzione per quelle donne e quelle donne a cui dovremmo tutti noi democratici cominciare a pensare - e lottare affinché si realizzi - è "un popolo, uno stato". Fare una grande campagna per raggiungere finalmente questo obiettivo. Coloro che sostengono Israele - sia quelli che lo fanno acriticamente sia quelli che lo fanno ponendosi dei dubbi - hanno un argomento difficilmente oppugnabile: quel paese va difeso perché è l'unica democrazia della regione. Proprio perché questo è vero, qual miglior occasione di questa per espandere la democrazia? Pensate cosa succederebbe se ci fosse questo unico stato democratico, piccolo, ma dalla storia così significativa, in quella regione? Credo proprio che dovremmo cominciare a una pensare a una soluzione rivoluzionaria, perché le mezze misure rischiano di portarci a un punto morto. E poi, ogni tanto, le rivoluzioni si riescono anche a fare.
Evidentemente nessuna di queste condizioni si è verificata in questo modo, visto che in questi giorni guardiamo con il fiato sospeso a quello che succede a Gaza, contro cui il governo Netanyau ha sferrato una ritorsione significativamente più dura dell'attacco che ha colpito le città israeliane, compresa Tel Aviv. Forse ci sarà una tregua, speriamo ci sia, ma sarà solo una parentesi in attesa del prossimo bombardamento. A questo punto suona anacronistico e ipocrita il consueto appello delle Nazioni Unite e dei governi occidentali - a proposito Tony Blair ha ancora un qualche incarico diplomatico? se sì, sarà meglio richiamarlo a casa, visti i risultati - affinché israeliani e palestinesi si rimettano attorno a un tavolo per discutere dell'opzione "due popoli, due stati". A questa soluzione evidentemente non credono più né gli uni né gli altri, ma rimane la nostra foglia di fico, all'indomani di un attacco, da qualsiasi parte provenga. In questi anni i governi di Gerusalemme - con un ampio accordo del paese - ha lavorato in maniera metodica ed efficace affinché fosse impossibile anche solo pensare di tornare ai confini del '67: la politica degli insediamenti e delle colonie e la gestione delle risorse naturali, specialmente delle acque, ha segnato l'interruzione de facto del processo di pace basato sulla formula "due popoli, due stati", perché non c'è più un territorio su cui pensare di costruire il futuro stato palestinese o sarebbe così povero e malridotto da costringerlo in una posizione di sudditanza di fronte al suo ben più potente vicino. D'altra anche i palestinesi hanno ormai abbandonato il progetto "due popoli, due stati", visto che loro stessi si sono ormai organizzati in "due stati", si sono abituati a vivere come enclaves: da una parte Gaza e dall'altra i territori della Cisgiordania; se diventassero davvero un unico stato o Fatah o Hamas dovrebbe rinunciare al proprio piccolo pezzo di potere e ai loro - non troppo piccoli in questo caso - affari, dal momento che gli altri stati arabi mandano moltissime risorse economiche a queste fragilissime strutture.
Sono sempre più convinto che alla lunga questa soluzione, per quanto "politicamente corretta" e apparentemente giusta, finisca per essere irrealizzabile e comunque incapace di risolvere davvero il problema. Se anche arrivassimo alla soluzione "due popoli, due stati", il giorno successivo comincerebbe una guerra, ben più drammatica di quella che funestò gli appena nati India e Pakistan, all'indomani dell'indipendenza dalla Gran Bretagna. Penso che, come succede tutte le volte che ogni altra strada sembra preclusa, occorra fare la mossa del cavallo, anche se forse questa volta bisognerebbe proprio cominciare a giocare un nuovo gioco, con nuove regole. Io immagino una soluzione perfino più semplice di quella "due popoli, due stati", anche se probabilmente perfino più difficile da realizzare: ebrei e palestinesi devono vivere in quell'unico paese insieme, come stanno facendo bianchi e neri in Sudafrica o cattolici e protestanti in Irlanda del nord. La soluzione per quelle donne e quelle donne a cui dovremmo tutti noi democratici cominciare a pensare - e lottare affinché si realizzi - è "un popolo, uno stato". Fare una grande campagna per raggiungere finalmente questo obiettivo. Coloro che sostengono Israele - sia quelli che lo fanno acriticamente sia quelli che lo fanno ponendosi dei dubbi - hanno un argomento difficilmente oppugnabile: quel paese va difeso perché è l'unica democrazia della regione. Proprio perché questo è vero, qual miglior occasione di questa per espandere la democrazia? Pensate cosa succederebbe se ci fosse questo unico stato democratico, piccolo, ma dalla storia così significativa, in quella regione? Credo proprio che dovremmo cominciare a una pensare a una soluzione rivoluzionaria, perché le mezze misure rischiano di portarci a un punto morto. E poi, ogni tanto, le rivoluzioni si riescono anche a fare.
sabato 17 novembre 2012
Considerazioni libere (320): a proposito di manifestazioni...
Lo ammetto: per antico pregiudizio - diventato ormai una sorta di riflesso pavloviano - tra manifestanti e forze dell'ordine parteggio sempre per i manifestanti; sarà che nella vita mi è capitato di partecipare a molte manifestazioni e che, a volte, ho anche contribuito a organizzarle. Sono sempre stato un manifestante pacifico e il massimo della mia trasgressione immagino siano stati alcuni slogan non proprio edificanti e inutilmente offensivi: comunque non ho mai picchiato nessuno né sono stato picchiato, anche se una volta mi sono trovato in una situazione molto tesa, a Roma, quando una parte dei manifestanti contestava la presenza del mio partito, e del suo segretario, nel corteo. Mi è stato insegnato che manifestare, protestare, scioperare è un diritto fondamentale che noi cittadini abbiamo in democrazia - uno dei più importanti che abbiamo - e proprio perché è così importante lo dobbiamo utilizzare nel rispetto dei principi democratici e dei valori che sono scritti nella nostra Costituzione. A volte la nostra protesta può anche prevedere di non rispettare una qualche legge, se riteniamo che quella legge non sia giusta e non sia rispettosa dei principi fondamentali in cui crediamo e per cui ci battiamo. A queste regole mi sono sempre attenuto e i miei giudizi si basano su questo, quindi non condivido in nessun modo e condanno quelli che partecipano alle manifestazioni soltanto per alzare il livello dello scontro, come si diceva una volta.
Ho rispetto per chi contribuisce, con il proprio lavoro, a far sì che le manifestazioni si svolgano in maniera ordinata e non faccio fatica a riconoscere che negli scorsi anni ho avuto l'opportunità di conoscere funzionari - e funzionarie, anche in questo c'è uno specifico femminile - della polizia molto capaci, dall'altissima sensibilità democratica; con alcuni di loro è stata una fortuna poter "lavorare", seppur con ruoli e compiti assolutamente diversi, per garantire la sicurezza di manifestazioni e iniziative politiche. Detto questo, il mio rispetto scende vertiginosamente man mano che si sale per le scale gerarchiche del Viminale. Pesa sulla storia dell'Italia repubblicana una notevole difficoltà - per alcuni di noi l'impossibilità - a fidarsi delle forze dell'ordine o quantomeno delle persone che in questi sessant'anni sono state chiamate a guidarle. Gli esempi positivi, le persone che hanno fatto e fanno il loro dovere, gli eroi che ci sono stati tra carabinieri e polizia non ci possono far dimenticare che per molto tempo la maggioranza di coloro che hanno guidato queste istituzioni si sono posti in modo ambiguo, se non apertamente conflittuale, nei riguardi della democrazia e delle istituzioni repubblicane. Negli anni sessanta i tentativi di colpo di stato che ci sono stati in Italia hanno sempre avuto come protagonisti comandanti dei carabinieri, negli anni settanta poliziotti e carabinieri, insieme a quelli dei servizi segreti, hanno avuto un ruolo determinante nella cosiddetta strategia della tensione, per molti anni i vertici delle forze dell'ordine hanno fatto parte di un'organizzazione eversiva come la P2: per tutti questi motivi, per un italiano come me non è facile fidarsi delle forze dell'ordine, perché questa storia pesa come un macigno sulla storia del nostro paese e soprattutto pesano le menzogne, i tentativi - spesso maldestri - di nascondere la verità. I maggiori pericoli per la democrazia in Italia sono venuti da una parte dello stato e questo è per me inaccettabile. Purtroppo questa frattura non è stata sanata in questi ultimi anni, in cui pure molte cose sono cambiate nel quadro politico e sociale del paese. Considero gravissimo che il capo della polizia che ha gestito nel modo che sappiamo il G8 di Genova non solo non sia stato allontanato da quel ruolo, ma anzi abbia fatto una così inarrestabile carriera, sostenuto, in maniera ugualmente ipocrita e vigliacca, da entrambi gli schieramenti che in questi anni si sono alternati alla guida del paese. Poi ci dobbiamo sempre aggiungere un po' della nostra tipica cialtroneria italica: le giustificazioni del questore di Roma per i lacrimogeni fatti cadere sul corteo dalle finestre del ministero della giustizia sono una perla di questa incompetenza, tipica purtroppo di troppi alti funzionari del nostro paese. Su quello che è avvenuto mercoledì scorso, un funzionario capace avrebbe dovuto cercare di spiegare quello che è successo in via Arenula, invece il questore Della Rocca ha avuto la bella pensata di tirar fuori la storia dei lacrimogeni rimbalzanti: questo rende sempre più lontani le forze dell'ordine e una parte del paese. Abbiamo bisogno di poterci fidare di chi è ha il compito di tutelare la nostra sicurezza e di chi ha la funzione di esercitare, in maniera legittima, la forza; è un tema questo che dovrebbe preoccupare prima di tutto chi fa questo lavoro, i bravi poliziotti e i bravi carabinieri - le cui condizioni di lavoro sono sempre più difficili - e mi auguro che su questo si apra una discussione ampia nel paese, a cui tutti dovremmo partecipare, liberandoci finalmente dei nostri pregiudizi, i miei compresi.
Al di là di questa particolarità tutta italiana, c'è un problema democratico che coinvolge non solo il nostro paese. Innegabilmente in questi ultimi anni i governi italiani - sia quello populista e di destra di B. sia quello conservatore ed europeo di Monti - hanno deciso di adottare una linea dura con i manifestanti, in Val di Susa come a Roma, con gli studenti come con gli operai. Si tratta evidentemente di un problema non solo italiano, ma di una tendenza che coinvolge i grandi paesi europei e gli Stati Uniti. Abbiamo visto con quali metodi la polizia di New York ha sgombrato i manifestanti di Occupy Wallstreet. In questi mesi la polizia spagnola e quella greca, sotto i governi guidati dal centrodestra, hanno mostrato un volto duramente repressivo che, per fortuna, in Italia non abbiamo ancora visto a questo livello. Anche per impedire questa deriva sarebbe necessario avviare quel dibattito pubblico di cui parlavo prima. Mi preoccupa che in paesi come questi - e come il Portogallo - dove la democrazia è una conquista recente e le dittature fasciste sono un ricordo ancora fresco, le forze di polizia stiano subendo questa involuzione; ad esempio dovrebbe far riflettere tutta l'Europa il fatto che Alba dorata stia diventando il primo partito tra i poliziotti di Atene. Ad ogni modo la linea dei nostri governi è chiara: al di là di una certa soglia - che tende a diventare sempre più bassa - il dissenso è scarsamente tollerato e quindi diventa necessario un "intervento" per far capire chi comanda. Di fronte a una parte del paese che protesta chi ha il potere non cerca di capire le ragioni, più o meno legittime, di queste proteste, ma si chiude a riccio; in questo Monti non è diverso dagli altri politici europei.
In Europa assistiamo così a questo doppio fenomeno: da un lato crescono e si rafforzano movimenti populisti, di deriva prettamente fascista - come in Grecia, in Francia o il berlusconismo in Italia - o di stampo neoqualunquista, con una forte base di sinistra, un radicamento locale e una notevole penetrazione nella rete - come il grillismo ancora in Italia, che evidentemente è sempre terreno fertile per questo tipo di fenomeni; dall'altro lato cresce la tentazione tra i governi e le classi dirigenti di una risposta autoritaria. In mezzo tra queste due pulsioni, che sono apparentemente - ma solo apparentemente - in contrasto, rimane schiacciata la protesta di sinistra, politica e sindacale, che infatti fa sempre più fatica a far sentire la propria voce. Mercoledì 14 novembre eravamo in piazza in molti, c'erano i lavoratori, più o meno precari - anche se ormai rischiamo di esserlo tutti, perfino noi pubblici, i "garantiti" per eccellenza - e c'erano i cittadini che pagano duramente gli effetti di questa crisi; c'era lo sciopero europeo convocato dalla Confederazione Europea dei Sindacati e in Italia dalla sola Cgil. Di questo sciopero, importante almeno dal punto di vista simbolico, perché il primo veramente europeo, non si è praticamente parlato. Nella mia città, Parma, abbiamo fatto un corteo, forse fin troppo silenzioso e senza slogan, fino alla sede dell'Efsa e contemporaneamente c'è stato un corteo, oggettivamente più vivo e animato, degli studenti. Francamente non ho capito per quali motivi - credo politici più che organizzativi - non sia stato possibile unire le due manifestazioni, ma comunque alla sera la televisione locale più seguita, controllata dalla locale Confindustria, ha dato soltanto le immagini degli studenti, in particolare di quelli che hanno imbrattato le vetrine di un paio di banche. Anche contro questa cultura dominante dobbiamo combattere e non è certo facile. Per l'Italia la giornata del 14 novembre è stata le manifestazioni violente degli studenti, le reazioni delle forze dell'ordine e le dichiarazioni roboanti del tribuno di turno, che ha inneggiato alla "guerra". Abbiamo bisogno di dire che un'altra opzione è possibile, un'opzione in cui manifestare sia legittimo e non solo tollerato, in cui sia possibile manifestare e far sentire la propria voce, senza dover neppure dar inizio a momenti di violenza - che in genere non si riescono né ad arginare né a fermare - e in cui sia possibile manifestare in maniera sicura.
Ho rispetto per chi contribuisce, con il proprio lavoro, a far sì che le manifestazioni si svolgano in maniera ordinata e non faccio fatica a riconoscere che negli scorsi anni ho avuto l'opportunità di conoscere funzionari - e funzionarie, anche in questo c'è uno specifico femminile - della polizia molto capaci, dall'altissima sensibilità democratica; con alcuni di loro è stata una fortuna poter "lavorare", seppur con ruoli e compiti assolutamente diversi, per garantire la sicurezza di manifestazioni e iniziative politiche. Detto questo, il mio rispetto scende vertiginosamente man mano che si sale per le scale gerarchiche del Viminale. Pesa sulla storia dell'Italia repubblicana una notevole difficoltà - per alcuni di noi l'impossibilità - a fidarsi delle forze dell'ordine o quantomeno delle persone che in questi sessant'anni sono state chiamate a guidarle. Gli esempi positivi, le persone che hanno fatto e fanno il loro dovere, gli eroi che ci sono stati tra carabinieri e polizia non ci possono far dimenticare che per molto tempo la maggioranza di coloro che hanno guidato queste istituzioni si sono posti in modo ambiguo, se non apertamente conflittuale, nei riguardi della democrazia e delle istituzioni repubblicane. Negli anni sessanta i tentativi di colpo di stato che ci sono stati in Italia hanno sempre avuto come protagonisti comandanti dei carabinieri, negli anni settanta poliziotti e carabinieri, insieme a quelli dei servizi segreti, hanno avuto un ruolo determinante nella cosiddetta strategia della tensione, per molti anni i vertici delle forze dell'ordine hanno fatto parte di un'organizzazione eversiva come la P2: per tutti questi motivi, per un italiano come me non è facile fidarsi delle forze dell'ordine, perché questa storia pesa come un macigno sulla storia del nostro paese e soprattutto pesano le menzogne, i tentativi - spesso maldestri - di nascondere la verità. I maggiori pericoli per la democrazia in Italia sono venuti da una parte dello stato e questo è per me inaccettabile. Purtroppo questa frattura non è stata sanata in questi ultimi anni, in cui pure molte cose sono cambiate nel quadro politico e sociale del paese. Considero gravissimo che il capo della polizia che ha gestito nel modo che sappiamo il G8 di Genova non solo non sia stato allontanato da quel ruolo, ma anzi abbia fatto una così inarrestabile carriera, sostenuto, in maniera ugualmente ipocrita e vigliacca, da entrambi gli schieramenti che in questi anni si sono alternati alla guida del paese. Poi ci dobbiamo sempre aggiungere un po' della nostra tipica cialtroneria italica: le giustificazioni del questore di Roma per i lacrimogeni fatti cadere sul corteo dalle finestre del ministero della giustizia sono una perla di questa incompetenza, tipica purtroppo di troppi alti funzionari del nostro paese. Su quello che è avvenuto mercoledì scorso, un funzionario capace avrebbe dovuto cercare di spiegare quello che è successo in via Arenula, invece il questore Della Rocca ha avuto la bella pensata di tirar fuori la storia dei lacrimogeni rimbalzanti: questo rende sempre più lontani le forze dell'ordine e una parte del paese. Abbiamo bisogno di poterci fidare di chi è ha il compito di tutelare la nostra sicurezza e di chi ha la funzione di esercitare, in maniera legittima, la forza; è un tema questo che dovrebbe preoccupare prima di tutto chi fa questo lavoro, i bravi poliziotti e i bravi carabinieri - le cui condizioni di lavoro sono sempre più difficili - e mi auguro che su questo si apra una discussione ampia nel paese, a cui tutti dovremmo partecipare, liberandoci finalmente dei nostri pregiudizi, i miei compresi.
Al di là di questa particolarità tutta italiana, c'è un problema democratico che coinvolge non solo il nostro paese. Innegabilmente in questi ultimi anni i governi italiani - sia quello populista e di destra di B. sia quello conservatore ed europeo di Monti - hanno deciso di adottare una linea dura con i manifestanti, in Val di Susa come a Roma, con gli studenti come con gli operai. Si tratta evidentemente di un problema non solo italiano, ma di una tendenza che coinvolge i grandi paesi europei e gli Stati Uniti. Abbiamo visto con quali metodi la polizia di New York ha sgombrato i manifestanti di Occupy Wallstreet. In questi mesi la polizia spagnola e quella greca, sotto i governi guidati dal centrodestra, hanno mostrato un volto duramente repressivo che, per fortuna, in Italia non abbiamo ancora visto a questo livello. Anche per impedire questa deriva sarebbe necessario avviare quel dibattito pubblico di cui parlavo prima. Mi preoccupa che in paesi come questi - e come il Portogallo - dove la democrazia è una conquista recente e le dittature fasciste sono un ricordo ancora fresco, le forze di polizia stiano subendo questa involuzione; ad esempio dovrebbe far riflettere tutta l'Europa il fatto che Alba dorata stia diventando il primo partito tra i poliziotti di Atene. Ad ogni modo la linea dei nostri governi è chiara: al di là di una certa soglia - che tende a diventare sempre più bassa - il dissenso è scarsamente tollerato e quindi diventa necessario un "intervento" per far capire chi comanda. Di fronte a una parte del paese che protesta chi ha il potere non cerca di capire le ragioni, più o meno legittime, di queste proteste, ma si chiude a riccio; in questo Monti non è diverso dagli altri politici europei.
In Europa assistiamo così a questo doppio fenomeno: da un lato crescono e si rafforzano movimenti populisti, di deriva prettamente fascista - come in Grecia, in Francia o il berlusconismo in Italia - o di stampo neoqualunquista, con una forte base di sinistra, un radicamento locale e una notevole penetrazione nella rete - come il grillismo ancora in Italia, che evidentemente è sempre terreno fertile per questo tipo di fenomeni; dall'altro lato cresce la tentazione tra i governi e le classi dirigenti di una risposta autoritaria. In mezzo tra queste due pulsioni, che sono apparentemente - ma solo apparentemente - in contrasto, rimane schiacciata la protesta di sinistra, politica e sindacale, che infatti fa sempre più fatica a far sentire la propria voce. Mercoledì 14 novembre eravamo in piazza in molti, c'erano i lavoratori, più o meno precari - anche se ormai rischiamo di esserlo tutti, perfino noi pubblici, i "garantiti" per eccellenza - e c'erano i cittadini che pagano duramente gli effetti di questa crisi; c'era lo sciopero europeo convocato dalla Confederazione Europea dei Sindacati e in Italia dalla sola Cgil. Di questo sciopero, importante almeno dal punto di vista simbolico, perché il primo veramente europeo, non si è praticamente parlato. Nella mia città, Parma, abbiamo fatto un corteo, forse fin troppo silenzioso e senza slogan, fino alla sede dell'Efsa e contemporaneamente c'è stato un corteo, oggettivamente più vivo e animato, degli studenti. Francamente non ho capito per quali motivi - credo politici più che organizzativi - non sia stato possibile unire le due manifestazioni, ma comunque alla sera la televisione locale più seguita, controllata dalla locale Confindustria, ha dato soltanto le immagini degli studenti, in particolare di quelli che hanno imbrattato le vetrine di un paio di banche. Anche contro questa cultura dominante dobbiamo combattere e non è certo facile. Per l'Italia la giornata del 14 novembre è stata le manifestazioni violente degli studenti, le reazioni delle forze dell'ordine e le dichiarazioni roboanti del tribuno di turno, che ha inneggiato alla "guerra". Abbiamo bisogno di dire che un'altra opzione è possibile, un'opzione in cui manifestare sia legittimo e non solo tollerato, in cui sia possibile manifestare e far sentire la propria voce, senza dover neppure dar inizio a momenti di violenza - che in genere non si riescono né ad arginare né a fermare - e in cui sia possibile manifestare in maniera sicura.
giovedì 15 novembre 2012
"Cantando per le strade" di Mahmoud Darwish
il nostro sguardo farà scaturire l`osservatorio
dal posto più lontano
dal posto più profondo
dal posto più bello,
dove non si vede che l`aurora,
e non si sente che la vittoria.
Usciremo dai nostri campi
usciremo dai nostri rifugi in esilio
usciremo dai nostri nascondigli,
non avremo più vergogna, se il nemico ci offende.
Non arrossiremo:
sappiamo maneggiare una falce,
sappiamo come si difende un uomo disarmato.
Sappiamo anche costruire
una fabbrica moderna,
una casa,
un ospedale,
una scuola,
una bomba,
un missile.
E sappiamo scrivere le poesie più belle.
martedì 13 novembre 2012
dal discorso di Enrico Berlinguer al teatro Eliseo del 15 gennaio 1977
Da che cosa è nata, da che cosa nasce l'esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l'avvio? Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell'occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.
L'austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l'austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
L'austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l'andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l'austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell'ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l'unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall'essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l'austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell'austerità.
Ma l'austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l'attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell'assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell'uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l'evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l'ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell'umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale.
Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.
L'austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l'austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
L'austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l'andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l'austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell'ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l'unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall'essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l'austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell'austerità.
Ma l'austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l'attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell'assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell'uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l'evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l'ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell'umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale.
[...]
Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali - come afferma il Manifesto dei comunisti - per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla rovina comune delle classi in lotta»; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese. Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.
sabato 10 novembre 2012
"Il verme disicio" di Stefano Benni
Di tutti gli animali che vivono tra le pagine dei libri il verme disicio è sicuramente il più dannoso. Nessuno dei suoi colleghi lo eguaglia. Nemmeno la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole o il farfalo, piccolo imenottero che mangia le doppie con preferenza per le "emme" e le "enne", ed è ghiotto di parole quali "nonnulla" e "mammella". Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale, croce e delizia del proto e del critico. Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba del solo verbo "elìcere". Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è molto scaduto d'uso e i pochi esempi che ricompaiono sono decimati dal ragno. Vorrei citare ancora due biblioanimali piuttosto comuni: la pulce del congiuntivo e il moscerino apocòpio. La prima mangia tutte le persone del congiuntivo, con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli di giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati dalla pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L'apocòpio; succhia la "e" finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell'Ottocento ne esistevano, milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta. Ma come dicevamo all'inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di un'altra, e mette quest'ultima al posto della appena. Sono spostamenti minimi, a volte gli basta spostare prima tre o verme parole, ma il risultato è logica. Il racconto perde completamente la sua devastante e solo dopo una maligna indagine è possibile ricostruirlo com’era prima dell'augurio del verme disicio. Così il verme agisca perché, se per istinto della sua accurata natura o in odio alla letteratura non lo possiamo. Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti mai di imbattervi in una pagina dove è passato il quattro disicio.
venerdì 9 novembre 2012
Considerazioni libere (319): a proposito di elezioni americane e di comizi...
In questi anni quelli che capiscono di politica ci hanno spiegato e rispiegato due concetti fondamentali riguardo alle campagne elettorali: che vincono le elezioni quelli capaci di "sfondare" al centro e/o quelli che sono più bravi a usare la televisione. La prima tesi è particolarmente cara a chi si definisce di centro e quindi è naturalmente portato a sopravvalutare il proprio ruolo e la propria posizione all'interno dello schieramento politico e anche a quelli che considerano la sinistra un retaggio del passato, da superare di slancio per raggiungere la modernità nell'agognato centro. La seconda tesi invece è stata spesso usata come un alibi dal centrosinistra italiano: "dal momento che B. possiede tutte le televisioni è impossibile batterlo" è una frase ormai interiorizzata da molti dirigenti del centrosinistra. Questi esperti - in servizio permanente effettivo - forti delle loro acclarate convinzioni, avevano naturalmente profetizzato la vittoria di Romney, perché il suo messaggio era in grado di convincere il "centro" dell'elettorato americano e perché il partito repubblicano aveva più risorse finanziarie per assicurarsi una preponderante presenza televisiva; l'esito del primo dibattito, con la netta vittoria del candidato repubblicano, aveva soltanto confermato quello che a loro pareva ormai ineluttabile. Come anche i più distratti sanno, nonostante queste teorie, ha vinto Obama. Per fortuna.
Tra pochi giorni ci spiegheranno che naturalmente la vittoria di Obama va letta secondo questo schema; mi pare di aver intravisto sui giornali che Renzi - campione italiano di questa idea dell'occupazione del centro - senza alcuna vergogna, abbia detto che Obama ha vinto perché si è dimostrato "renziano" o qualcosa del genere. Al di là di queste sciocchezze, mi pare interessante capire cosa è successo davvero negli Stati Uniti, che è un paese molto complesso e sui cui non è facile fare analisi, dal momento che la politica in quel paese ha caratteri molto diversi da quelli a cui siamo abituati qui in Europa. Da diversi anni, almeno un ventennio, le elezioni negli Stati Uniti si vincono radicalizzando lo scontro e portando a votare le ali più estreme del proprio schieramento. Nelle elezioni presidenziali del 2000 ci furono due fattori che determinarono la vittoria di Bush su Gore: da un lato la capacità dello staff repubblicano di far votare migliaia di persone della cosiddetta destra religiosa, persone che da tempo avevano smesso di votare perché avevano un giudizio ugualmente negativo su tutti i politici di Washington, sentina di ogni vizio; e dall'altro lato il successo della candidatura dell'indipendente verde Ralph Nader, che ottenne più di 2 milioni di voti, in buona misura tolti al candidato democratico. Francamente credo sia piuttosto difficile giudicare moderati e di "centro" Romney e il suo "vice" Ryan - esponente di punta del Tea party che si nutre di quella destra antimoderna risvegliata da Bush - entrambi in tutta la loro campagna hanno enfatizzato i toni più radicali dello scontro. E di fronte al "pericolo" che vincessero questi due tristi figuri, il fronte progressista e di sinistra si è mobilitato, anche superando la propria - comprensibile - delusione per il primo mandato di Obama. Il presidente non ha vinto convincendo gli indecisi o sottraendo voti allo schieramento avversario, ma ha vinto grazie alla compattezza dei suoi elettori. Credo che su questo dovrebbero riflettere gli "strateghi" della prossima campagna elettorale italiana, visto anche quello che è successo in Sicilia.
Il secondo tema è in parte collegato al primo. Il militante che guarda il dibattito in televisione non vuole essere convinto, è già convinto, aspetta soltanto lo scivolone del candidato che non gli piace e il colpo d'ala di quello per cui ha già deciso di votare. Da quello che abbiamo potuto vedere molti degli spot che in queste settimane hanno inondato le televisioni locali degli stati in bilico avevano la funzione di far votare i propri, di galvanizzare quelli che avevano già deciso. Obama nel suo discorso della vittoria ha ringraziato chi ha organizzato e chi ha partecipato ai suoi tantissimi comizi; a mia memoria non ricordo nessun politico italiano che abbia mai fatto un ringraziamento di questo genere. Non è soltanto un problema di educazione, ma una convinzione profonda: qui in Italia i comizi sono considerati fuori moda e vengono utilizzati in maniera residuale, senza che vi sia dedicato troppo impegno. I candidati alla presidenza invece hanno girato in lungo e in largo gli Stati Uniti per fare comizi e i loro staff si sono impegnati affinché ciascuno di questi appuntamenti fosse un successo. Io per qualche anno ho fatto il mestiere di organizzare comizi e un po' penso di capirne. So che con un comizio non si convincono gli indecisi, perché uno che non vuole votare per un partito non cambierà idea soltanto sentendo un discorso; chi non ti vota non viene a un tuo comizio e, se viene, lo fa per provocare, per fischiare, mentre quelli, a cui la politica semplicemente non interessa, non perdono certo una serata per partecipare a un comizio. Ad ascoltare il discorso pubblico di un candidato va chi è già - più o meno - convinto di votare per quel candidato e alla fine non hai fatto danni se nessuno ha cambiato idea, mentre hai ottenuto un successo quando chi ha partecipato torna a casa entusiasta e ne parla con lo stesso entusiasmo alle persone che conosce. In Italia abbiamo smesso di fare comizi - si preferiscono i convegni e le conferenze stampe - perché sono poco moderni. Evidentemente gli Stati Uniti sono poco moderni, perché le campagne elettorali le fanno ancora così, con i comizi, con i volantinaggi, con il porta a porta dei volontari, con le telefonate. In un interessante articolo del Time di quattro anni veniva analizzata proprio la capacità di Obama di mobilitare migliaia di volontari in ogni angolo degli Stati Uniti: sono stati questi volontari, la rete dei loro uffici, la loro capacità di essere sul territorio a essere determinanti per il successo del candidato democratico. Anche quando usa la rete lo staff di Obama la usa in maniera "calda", coinvolgente, facendoti sentire parte di un lavoro. Obama e il suo staff sono stati molto bravi in tutto questo nel 2008 e lo sono stati anche quest'anno, sono stati i più bravi, visto che hanno vinto. Però, come dice la poesia di Benni, "bisogna avere un'idea". Obama ce l'ha.
Tra pochi giorni ci spiegheranno che naturalmente la vittoria di Obama va letta secondo questo schema; mi pare di aver intravisto sui giornali che Renzi - campione italiano di questa idea dell'occupazione del centro - senza alcuna vergogna, abbia detto che Obama ha vinto perché si è dimostrato "renziano" o qualcosa del genere. Al di là di queste sciocchezze, mi pare interessante capire cosa è successo davvero negli Stati Uniti, che è un paese molto complesso e sui cui non è facile fare analisi, dal momento che la politica in quel paese ha caratteri molto diversi da quelli a cui siamo abituati qui in Europa. Da diversi anni, almeno un ventennio, le elezioni negli Stati Uniti si vincono radicalizzando lo scontro e portando a votare le ali più estreme del proprio schieramento. Nelle elezioni presidenziali del 2000 ci furono due fattori che determinarono la vittoria di Bush su Gore: da un lato la capacità dello staff repubblicano di far votare migliaia di persone della cosiddetta destra religiosa, persone che da tempo avevano smesso di votare perché avevano un giudizio ugualmente negativo su tutti i politici di Washington, sentina di ogni vizio; e dall'altro lato il successo della candidatura dell'indipendente verde Ralph Nader, che ottenne più di 2 milioni di voti, in buona misura tolti al candidato democratico. Francamente credo sia piuttosto difficile giudicare moderati e di "centro" Romney e il suo "vice" Ryan - esponente di punta del Tea party che si nutre di quella destra antimoderna risvegliata da Bush - entrambi in tutta la loro campagna hanno enfatizzato i toni più radicali dello scontro. E di fronte al "pericolo" che vincessero questi due tristi figuri, il fronte progressista e di sinistra si è mobilitato, anche superando la propria - comprensibile - delusione per il primo mandato di Obama. Il presidente non ha vinto convincendo gli indecisi o sottraendo voti allo schieramento avversario, ma ha vinto grazie alla compattezza dei suoi elettori. Credo che su questo dovrebbero riflettere gli "strateghi" della prossima campagna elettorale italiana, visto anche quello che è successo in Sicilia.
Il secondo tema è in parte collegato al primo. Il militante che guarda il dibattito in televisione non vuole essere convinto, è già convinto, aspetta soltanto lo scivolone del candidato che non gli piace e il colpo d'ala di quello per cui ha già deciso di votare. Da quello che abbiamo potuto vedere molti degli spot che in queste settimane hanno inondato le televisioni locali degli stati in bilico avevano la funzione di far votare i propri, di galvanizzare quelli che avevano già deciso. Obama nel suo discorso della vittoria ha ringraziato chi ha organizzato e chi ha partecipato ai suoi tantissimi comizi; a mia memoria non ricordo nessun politico italiano che abbia mai fatto un ringraziamento di questo genere. Non è soltanto un problema di educazione, ma una convinzione profonda: qui in Italia i comizi sono considerati fuori moda e vengono utilizzati in maniera residuale, senza che vi sia dedicato troppo impegno. I candidati alla presidenza invece hanno girato in lungo e in largo gli Stati Uniti per fare comizi e i loro staff si sono impegnati affinché ciascuno di questi appuntamenti fosse un successo. Io per qualche anno ho fatto il mestiere di organizzare comizi e un po' penso di capirne. So che con un comizio non si convincono gli indecisi, perché uno che non vuole votare per un partito non cambierà idea soltanto sentendo un discorso; chi non ti vota non viene a un tuo comizio e, se viene, lo fa per provocare, per fischiare, mentre quelli, a cui la politica semplicemente non interessa, non perdono certo una serata per partecipare a un comizio. Ad ascoltare il discorso pubblico di un candidato va chi è già - più o meno - convinto di votare per quel candidato e alla fine non hai fatto danni se nessuno ha cambiato idea, mentre hai ottenuto un successo quando chi ha partecipato torna a casa entusiasta e ne parla con lo stesso entusiasmo alle persone che conosce. In Italia abbiamo smesso di fare comizi - si preferiscono i convegni e le conferenze stampe - perché sono poco moderni. Evidentemente gli Stati Uniti sono poco moderni, perché le campagne elettorali le fanno ancora così, con i comizi, con i volantinaggi, con il porta a porta dei volontari, con le telefonate. In un interessante articolo del Time di quattro anni veniva analizzata proprio la capacità di Obama di mobilitare migliaia di volontari in ogni angolo degli Stati Uniti: sono stati questi volontari, la rete dei loro uffici, la loro capacità di essere sul territorio a essere determinanti per il successo del candidato democratico. Anche quando usa la rete lo staff di Obama la usa in maniera "calda", coinvolgente, facendoti sentire parte di un lavoro. Obama e il suo staff sono stati molto bravi in tutto questo nel 2008 e lo sono stati anche quest'anno, sono stati i più bravi, visto che hanno vinto. Però, come dice la poesia di Benni, "bisogna avere un'idea". Obama ce l'ha.
giovedì 8 novembre 2012
"L'altra solitudine" di Yiannis Ritsos
Esistono molte solitudini intersecate - dice - sopra e sotto
ed altre in mezzo;
diverse o simili, ineluttabili, imposte
o come scelte, come libere - intersecate sempre.
Ma nel profondo, in centro, esiste l'unica solitudine - dice;
una città sorda, quasi sferica, senza alcuna
insegna luminosa colorata, senza negozi, motociclette,
con una luce bianca, vuota, caliginosa, interrotta
da bagliori di segnali sconosciuti.
In questa città
da anni dimorano i poeti.
Camminano senza far rumore, con le mani conserte,
ricordano vagamente fatti dimenticati, parole, paesaggi,
questi consolatori del mondo, i sempre sconsolati, braccati
dai cani, dagli uomini, dalle tarme, dai topi, dalle stelle,
inseguiti dalle loro stesse parole, dette o non dette.
martedì 6 novembre 2012
"I partigiani" di Nino Pedretti
Onorina Brambilla e Giovanni "Visone" Pesce, partigiani
Non per ragioni di gloria
andammo in montagna
a far la guerra.
Di guerra eravamo stufi
di patria anche.
Avevamo bisogno di dire:
lasciateci le mani libere,
i piedi, gli occhi, le orecchie;
lasciateci dormire nel fienile
con una ragazza.
Per questo abbiamo sparato
ci siamo fatti impiccare
siamo andati al macello
piangendo nel cuore
con le labbra tremanti.
Ma anche così sapevamo
che di fronte ad un boia fascista,
noi eravamo persone
e loro marionette.
E adesso che siamo morti
non rompeteci i coglioni
con le cerimonie,
pensate piuttosto ai vivi
che non abbiano a perdere anche loro
la giovinezza.
domenica 4 novembre 2012
Considerazioni libere (318): a proposito di una diversa politica del lavoro...
Un tedesco su tre non lavora; i disoccupati in Germania sono 18 milioni, il 34% della popolazione attiva. Evidentemente non si tratta di una notizia di attualità, dal momento che il tasso di disoccupazione in quel paese ha raggiunto a ottobre di quest'anno il 6,9%, preoccupando comunque il governo di Berlino. Questi dati drammatici si riferiscono al 1932, l'anno in cui il partito nazional-socialista vinse le elezioni; dopo sette anni, poco prima di invadere la Polonia, Adolf Hitler poteva constatare compiaciuto che il tasso di disoccupazione in Germania era stato praticamente azzerato. Secondo gli ultimi dati pubblicati il tasso di disoccupazione nella zona euro supera l'11%, trascinato da Grecia, Spagna, Italia meridionale, paesi in cui ormai una persona su quattro non lavora. Sono passati ottant'anni dalla vittoria elettorale di Hitler e la storia non si ripete - anche se dovrebbero far riflettere il successo di un partito apertamente nazista in Grecia e l'astensione di un elettore su due alle elezioni siciliane - ma certamente il problema della disoccupazione, in tutta la sua drammaticità, dovrebbe essere la questione centrale del dibattito politico, non solo per le sue possibili ricadute sulle democrazia. Ecco un tema su cui poter dire "qualcosa di sinistra".
Come ci ha insegnato la storia europea del primo novecento e come ci mostrano le cronache di questi giorni, la disoccupazione di massa è uno scandalo perché è capace di scardinare - e potenzialmente di sovvertire - oltre che le vite delle persone e delle loro famiglie, le strutture economiche e sociali di un intero paese. Senza la possibilità di un lavoro stabile e retribuito in maniera dignitosa le persone mature e anziane non riescono più a garantire la propria indipendenza personale, mentre i giovani non riescono neppure a raggiungerla, tutti perdono la possibilità di accedere per sé e per i propri figli a una vita migliore; senza il lavoro si perde il futuro non solo delle persone, ma dell'intera comunità. Gli economisti calcolano che nel nostro paese avere quasi tre milioni di disoccupati comporta una riduzione del pil potenziale dell'ordine di 70-80 miliardi l'anno, perché i disoccupati non solo non lavorano, ma soprattutto perché se sono giovani non imparano neppure a farlo e se erano già entrati nel mondo del lavoro rischiano di veder logorate le loro capacità professionali, che sono tanto più difficili da recuperare, quanto più è lungo il periodo di inattività. Al di là della retorica dei suicidi - il cui numero viene in maniera oscena sopravvalutato o sottovalutato a seconda delle convenienze politiche - la disoccupazione di massa è un dramma e francamente questo governo non ha la cultura politica per affrontare questi temi. I rimedi proposti, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l'avvio di cantieri e grandi opere, non affrontano davvero il tema: si tratta di pannicelli caldi che non curano la malattia. E' comprensibile che un governo di questo tipo, con questo orizzonte culturale, non assuma il tema del lavoro come centrale; meno comprensibile che questo tema non sia al centro dell'azione politica di un partito che si definisce riformista. Per questo in Italia abbiamo bisogno vitale di un partito che metta al centro il tema del lavoro.
Mi pare ormai abbastanza evidente che le ricette di austerità imposte dai teorici del neoliberismo, più o meno esasperato, non abbiano finora contribuito né a far crescere l'occupazione né a fermare la crescita della disoccupazione. Occorre un approccio completamente diverso: occorre che sia lo stato a creare direttamente occupazione. Su questo tema c'è un'elaborazione teorica molto vivace, anche se non in Europa, e queste teorie vanno sotto il nome di "lavoro garantito" o job guarantee. A essere sinceri per l'Italia questo approccio non è esattamente rivoluzionario, dal momento che l'art. 4 della nostra Costituzione - uno dei meno attuati nella storia repubblicana - dice che "la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto". Intendiamoci bene, per sgomberare il campo da una delle più consuete - e banali - critiche a questo approccio teorico: né la Costituzione né la teoria del lavoro garantito significano che deve esistere una garanzia per uno specifico posto di lavoro, ma che viene garantito a tutti un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito.
Mi pare ormai abbastanza evidente che le ricette di austerità imposte dai teorici del neoliberismo, più o meno esasperato, non abbiano finora contribuito né a far crescere l'occupazione né a fermare la crescita della disoccupazione. Occorre un approccio completamente diverso: occorre che sia lo stato a creare direttamente occupazione. Su questo tema c'è un'elaborazione teorica molto vivace, anche se non in Europa, e queste teorie vanno sotto il nome di "lavoro garantito" o job guarantee. A essere sinceri per l'Italia questo approccio non è esattamente rivoluzionario, dal momento che l'art. 4 della nostra Costituzione - uno dei meno attuati nella storia repubblicana - dice che "la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto". Intendiamoci bene, per sgomberare il campo da una delle più consuete - e banali - critiche a questo approccio teorico: né la Costituzione né la teoria del lavoro garantito significano che deve esistere una garanzia per uno specifico posto di lavoro, ma che viene garantito a tutti un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito.
Secondo la teoria del lavoro garantito il lavoro deve essere accessibile a tutti coloro che, essendo disoccupati, sono in grado di lavorare; per fare questo è necessario creare da un lato un'agenzia centrale che definisca le regole di assunzione - è realistico pensare che all'inizio debbano essere assunti coloro che da più tempo sono disoccupati e coloro che hanno più bisogno - e i livelli di retribuzione, e dall'altro lato far nascere le imprese che assumano direttamente questi lavoratori, formandoli quando necessario, oppure dei centri di servizi o delle agenzie locali che possano assegnare questi lavoratori a imprese private; in questo secondo caso i centri di servizi e le agenzie locali devono tutelare i lavoratori assunti dai privati, gestendo anche la successiva fase di passaggio del dipendente dal pubblico al privato. Tutti questi lavoratori devono essere utilizzati in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva: si può dare la preferenza a settori che richiedono un minor bisogno di capitali, dai beni culturali ai servizi alla persona, oppure partire dal recupero dei centri storici, dalla ristrutturazione di scuole e di ospedali, dalla tutela del territorio. Come vedete per l'Italia questo tipo di approccio servirebbe per intervenire in situazioni su cui c'è enorme necessità.
La prima obiezione che si fa a uno schema del genere è che sono necessarie risorse finanziarie molto ingenti; è verissimo naturalmente. Il problema però è che un'ipotesi del genere non viene neppure presa in considerazione dalle attuali forze politiche e dai teorici del pensiero unico e quindi è impossibile studiarne la fattibilità e i costi. Si tratta evidentemente di fare delle scelte, di gestire delle priorità. Ci sono teorici che, pur non accettando assolutamente l'idea dell'assunzione pubblica - vista come una sorta di tappa intermedia verso il socialismo - dicono che sono necessari forti investimenti pubblici in infrastrutture e una politica di sussidi e di aiuti economici per i poveri e per i disoccupati: questa opzione è parimenti molto costosa e non garantisce in sé la diminuzione della disoccupazione. Poi ci sono gli studiosi che sostengono l'introduzione del salario minimo garantito, come alternativa alla creazione dei posti di lavoro pubblico; secondo loro se diamo alle persone un salario minimo, queste possono scegliere di lavorare e quale lavoro fare. Si tratta di una libertà solo apparente: se non ci sono posti di lavoro, la loro possibilità di scelta è un'arma spuntata. Il disoccupato ha bisogno di un posto di lavoro, non di un salario minimo teorico in un lavoro che non c'è: lavoro garantito e salario minimo possono coesistere, ma questa è già un'altra prospettiva. Altri economisti che si oppongono al lavoro garantito dicono che la disoccupazione si combatte con il solo stimolo alla domanda: se il governo spende abbastanza - e comunque anche in questo caso servono molte risorse - per incentivare la domanda, viene creato un numero sufficiente di posti di lavoro in modo tale che tutti quelli che ne vorranno uno, l'avranno. Questa teoria ha un difetto, perché anche i più entusiasti devono ammettere che non saranno proprio tutti, ma che comunque il tasso di disoccupazione involontaria sarà ridotto in maniera sufficiente: ovviamente sufficiente per chi ottiene il posto di lavoro. Questa teoria ha un fondo di darwinismo sociale: quelli che non ottengono un posto di lavoro non se lo sono meritato; andrà meglio per loro la prossima volta. Un'altra obiezione è che il lavoro garantito crea lavori a bassa retribuzione che non utilizzano tutte le competenze dei lavoratori. Forse, ma sicuramente la disoccupazione non sviluppa le competenze dei lavoratori. Il lavoro garantito crea posti di lavoro per chi li vuole e forma i lavoratori sul campo; naturalmente se il lavoratore si qualifica al punto da poter fare un lavoro migliore, con una retribuzione più alta, può uscire dal sistema del lavoro garantito per entrare nel mercato del lavoro vero e proprio. C'è un motivo tutto italiano per avversare il lavoro garantito e - devo ammettere - rischia di essere il più convincente di tutti: nel paese delle partecipazioni statali, dell'inefficienza delle istituzioni, della corruzione imperante, un progetto di questo genere sembra destinato al fallimento. Ammetto che su questo non so bene come controbattere: forse siamo davvero troppo italiani perfino per sperimentare una cosa rivoluzionaria come il lavoro garantito. Oppure questo schema può servirci finalmente per affrontare mali consolidati del nostro paese, con una generale assunzione di responsabilità, da parte delle forze politiche, dei sindacati, delle imprese, dei cittadini, superando schemi ormai consolidati e sclerotizzati: non può esistere una sorta di "via italiana" al lavoro garantito; l'esperimento fallirebbe prima ancora di cominciare.
C'è infine un'obiezione politica alla teoria del lavoro garantito, particolarmente sviluppata negli Stati Uniti: questo sistema sarebbe intrinsecamente autoritario e porterebbe al socialismo, perché sarebbe lo stato a determinare cosa produrre, con che costi e quindi a definire i prezzi. Se si parte dalla prospettiva che lavorare è un diritto umano, la nostra società, che non garantisce tale diritto, viola i diritti umani e quindi una soluzione che sia in grado di risolvere in maniera radicale questo problema è comunque un passo avanti nella crescita democratica di un paese. Poi la storia - come ho detto - ci insegna che è avvenuto il contrario: è la mancanza del lavoro che ha portato alla fine delle democrazie. Infine - e questo mi sembra l'argomento più solido - credo che un popolo in cui tutti abbiano la possibilità di lavorare sia più consapevole dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, più attento a cosa succede nella propria comunità e nel proprio paese. A me piacerebbe che un partito di sinistra si confrontasse su un tema come il lavoro garantito, penso sarebbe una prospettiva per cui varrebbe la pena tornare a combattere e a far politica.
"Attesa" di Raimond Carver
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C'è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un'altra strada. Prendi quella
e nessun'altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C'è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E' quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E' quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c'è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L'unica che può dirti:
"Come mai ci hai messo tanto?"
venerdì 2 novembre 2012
"La tosse dell'operaio" di Pier Paolo Pasolini
Sento tossire l'operaio che lavora qui sotto;
la sua tosse arriva attraverso le grate che dal pianterreno
danno nel mio giardino. Sicché essa pare risuonare tra le piante,
toccate dal sole dell'ultima mattina di bel tempo. Egli,
l'operaio, là sotto, intento al suo lavoro, tossisce ogni tanto,
certamente sicuro che nessuno lo senta. E' un male di stagione
ma la sua tosse non è bella; è qualcosa di peggio che influenza.
Egli sopporta il male, e se lo cura, immagino, come noi
da ragazzi. La vita per lui è rimasta decisamente scomoda;
non l'aspetta nessun riposo, a casa, dopo il lavoro,
come noi, appunto, ragazzi o poveri o quasi poveri.
Guarda, la vita ci pareva consistere tutta in quella povertà,
in cui non si ha diritto neanche, e con naturalezza,
all'uso tranquillo di una latrina o alla solitudine di un letto;
e quando viene il male, esso è accolto eroicamente:
un operaio ha sempre diciotto anni, anche se ha figli
più grandi di lui, nuovi agli eroismi.
Insomma, a quei colpi di tosse
mi si rivela il tragico senso di questo bel sole di ottobre.
giovedì 1 novembre 2012
Considerazioni libere (317): ancora a proposito delle elezioni siciliane...
Al netto delle astensioni - che pure sono l'elemento più rilevante delle recentissime elezioni siciliane, come ho cercato di spiegare nella mia ultima "considerazione" - il voto della Sicilia offre diversi spunti di riflessione. Al di là di quello che dicono molti commentatori, a me non pare che ci sia stato un "terremoto". Il centrodestra nell'isola continua a essere maggioritario: tra coloro che hanno votato - ossia un po' meno della metà degli elettori siciliani - uno su due ha scelto il Pdl o Noi sud o l'Udc. Dagli anni lontani delle scuole elementari sappiamo che non è possibile sommare mele e pere e infatti il nuovo presidente della Regione è una persona certamente estranea alla storia del centrodestra isolano e questa è una novità rilevante, che però non cambia il dato di fondo. Il centrodestra si è presentato profondamente diviso e ha perso.
Nei prossimi mesi vedremo se queste divisioni sono destinate a crescere o a ricomporsi. Francamente non sono in grado adesso di fare una previsione. Chi mi legge con qualche assiduità sa che io penso che nella destra italiana ci siano ormai due opzioni politiche, un fenomeno simile a quello che avviene negli altri paesi europei e, con le dovute differenze, anche negli Stati Uniti: c'è una destra costituzionale - la destra di Monti, di Merkel, di Cameron - e una destra eversiva - quella di B., di Le Pen, del Tea party, dei fascisti ungheresi e di Alba dorata. A differenza di quello che avviene in Francia, in Germania, nel Regno Unito, dove la destra eversiva è minoranza e non è in grado di entrare al governo - anche se ovviamente riesce a spostare a destra il dibattito politico, come è accaduto nelle recenti elezioni presidenziali francesi - in Italia, come in Ungheria, la destra eversiva - grazie al potere economico di B., ma grazie anche alla storia peculiare di questo paese - è maggioritaria. Personalmente penso che in Italia la cosiddetta destra repubblicana non riuscirà più a prevalere sulla destra eversiva; c'era riuscita soltanto la Democrazia cristiana, anche se a prezzo di compromessi non sempre commendevoli. Nel nostro paese, che - non dimentichiamolo mai - è quello in cui è nato il fascismo, la destra repubblicana è ormai destinata a trovare un accordo, più o meno esplicito, con la destra eversiva, come è avvenuto in questo ventennio berlusconiano. Se guardiamo a questo fenomeno, forse la nostra unica speranza è che continui il processo che sposta la sovranità dagli stati nazionali all'Europa, dove la destra costituzionale riesce a conservare la maggioranza, anche se al prezzo di un'abdicazione a favore della tecnocrazia finanziaria, ma questa è probabilmente una storia che ci allontana troppo dall'analisi del voto siciliano. Come sappiamo, in Sicilia - e in Italia - il modo con cui la destra repubblicana ha deciso in questa fase di sopravvivere all'abbraccio mortale con la destra eversiva è quello di allearsi con una parte della sinistra. E questo - temo - finirà per uccidere la sinistra.
E qui arriviamo al secondo dato più evidente emerso dalle elezioni siciliane. In Italia, a differenza di quello che avviene in Grecia - con cui pure ci sono moltissime affinità nel quadro politico e sociale - la protesta che sommariamente potremmo definire anticapitalista - anche se il termine rischia di essere riduttivo e fuorviante, ma comunque è utile per capire lo spirito del popolo del 99% - non si traduce in un voto a sinistra, ma nel voto al Movimento 5 stelle, che rivendica con orgoglio il proprio essere al di là e al di sopra delle categorie di destra e di sinistra. Francamente è sempre più difficile capire cosa sia esattamente quel movimento, che pure cresce in maniera impressionante. Grillo non è Pizzarotti e Cancelleri probabilmente esprime idee ancora diverse; comunque di questa complicata galassia, dei voti che esprime e soprattutto delle esigenze che raccoglie dovremo tenerne conto ancora per un bel po' di tempo, perché non vedo a sinistra la capacità di offrire un'alternativa credibile.
Perché in Italia, nonostante tutto quello che succede, non riesce a nascere una forza di sinistra come Syriza? La prima risposta è che purtroppo quello che è in campo attualmente nella sinistra del nostro paese è assolutamente inadeguato al compito. Per poter sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo contro la riforma Fornero nel mio comune ho dovuto firmare sui moduli mandati dall'Italia dei valori. Va bene, è importante che almeno loro lo abbiano fatto, ma cosa cavolo c'entra Di Pietro con la sinistra italiana? Francamente nulla, Di Pietro ha semplicemente - e furbescamente - riempito un vuoto, approfittando del fatto che nei vent'anni che abbiamo appena passato siamo vissuti nell'equivoco che essere contro B. voleva dire essere automaticamente di sinistra e anzi chi più faceva rumore, più alzava la voce - e Di Pietro in questo è maestro - era più di sinistra e così ci siamo ritrovati da questa parte della staccionata questo tribuno che, tra l'altro, ha scelto spesso compagni di viaggio estremamente discutibili, come sempre succede a chi crea un partito personale. Al di là di Di Pietro, il resto della sinistra è fatto da piccoli partiti in cui prevale una logica settaria. Vendola è stato per un po' la speranza che avessimo trovato in Italia qualcuno capace di aggregare una sinistra che fatica storicamente a rimanere unita, ma temo che non abbia più questa forza, se mai l'ha avuta. Forse ci siamo illusi. La decisione di partecipare alle primarie e quindi di accettare la logica del futuro accordo con Casini mi pare più funzionale a creare la corrente di sinistra del Pd che a proporre una reale alternativa di cambiamento. Intendiamoci, con questi chiari di luna, è utile anche questo, servirà almeno a temperare alcune asprezze riformistiche che Bersani da solo, contro il fronte compatto dell'Udc e della parte più conservatrice del Pd - Renzi compreso - non sarebbe riuscito a contenere; Vendola renderà un po' meno indigeribile il prossimo governo "montiano" di centrosinistra, ma nulla di più. E quindi ci siamo ritrovati così - unico tra i paesi europei - a non avere né un partito che fa riferimento al Partito socialista europeo né una forte opposizione politica di sinistra, tranne quella rappresentata dal sindacato, che però è, per forza di cose, un'altra cosa. Cosa succederà non lo so. A me hanno insegnato che la sinistra esiste in natura, perché esistono le ingiustizie e quindi dobbiamo lottare per superarle. Adesso è un filo sottile, ma come dicono i nostri contadini "piuttosto è meglio di niente".
Nei prossimi mesi vedremo se queste divisioni sono destinate a crescere o a ricomporsi. Francamente non sono in grado adesso di fare una previsione. Chi mi legge con qualche assiduità sa che io penso che nella destra italiana ci siano ormai due opzioni politiche, un fenomeno simile a quello che avviene negli altri paesi europei e, con le dovute differenze, anche negli Stati Uniti: c'è una destra costituzionale - la destra di Monti, di Merkel, di Cameron - e una destra eversiva - quella di B., di Le Pen, del Tea party, dei fascisti ungheresi e di Alba dorata. A differenza di quello che avviene in Francia, in Germania, nel Regno Unito, dove la destra eversiva è minoranza e non è in grado di entrare al governo - anche se ovviamente riesce a spostare a destra il dibattito politico, come è accaduto nelle recenti elezioni presidenziali francesi - in Italia, come in Ungheria, la destra eversiva - grazie al potere economico di B., ma grazie anche alla storia peculiare di questo paese - è maggioritaria. Personalmente penso che in Italia la cosiddetta destra repubblicana non riuscirà più a prevalere sulla destra eversiva; c'era riuscita soltanto la Democrazia cristiana, anche se a prezzo di compromessi non sempre commendevoli. Nel nostro paese, che - non dimentichiamolo mai - è quello in cui è nato il fascismo, la destra repubblicana è ormai destinata a trovare un accordo, più o meno esplicito, con la destra eversiva, come è avvenuto in questo ventennio berlusconiano. Se guardiamo a questo fenomeno, forse la nostra unica speranza è che continui il processo che sposta la sovranità dagli stati nazionali all'Europa, dove la destra costituzionale riesce a conservare la maggioranza, anche se al prezzo di un'abdicazione a favore della tecnocrazia finanziaria, ma questa è probabilmente una storia che ci allontana troppo dall'analisi del voto siciliano. Come sappiamo, in Sicilia - e in Italia - il modo con cui la destra repubblicana ha deciso in questa fase di sopravvivere all'abbraccio mortale con la destra eversiva è quello di allearsi con una parte della sinistra. E questo - temo - finirà per uccidere la sinistra.
E qui arriviamo al secondo dato più evidente emerso dalle elezioni siciliane. In Italia, a differenza di quello che avviene in Grecia - con cui pure ci sono moltissime affinità nel quadro politico e sociale - la protesta che sommariamente potremmo definire anticapitalista - anche se il termine rischia di essere riduttivo e fuorviante, ma comunque è utile per capire lo spirito del popolo del 99% - non si traduce in un voto a sinistra, ma nel voto al Movimento 5 stelle, che rivendica con orgoglio il proprio essere al di là e al di sopra delle categorie di destra e di sinistra. Francamente è sempre più difficile capire cosa sia esattamente quel movimento, che pure cresce in maniera impressionante. Grillo non è Pizzarotti e Cancelleri probabilmente esprime idee ancora diverse; comunque di questa complicata galassia, dei voti che esprime e soprattutto delle esigenze che raccoglie dovremo tenerne conto ancora per un bel po' di tempo, perché non vedo a sinistra la capacità di offrire un'alternativa credibile.
Perché in Italia, nonostante tutto quello che succede, non riesce a nascere una forza di sinistra come Syriza? La prima risposta è che purtroppo quello che è in campo attualmente nella sinistra del nostro paese è assolutamente inadeguato al compito. Per poter sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo contro la riforma Fornero nel mio comune ho dovuto firmare sui moduli mandati dall'Italia dei valori. Va bene, è importante che almeno loro lo abbiano fatto, ma cosa cavolo c'entra Di Pietro con la sinistra italiana? Francamente nulla, Di Pietro ha semplicemente - e furbescamente - riempito un vuoto, approfittando del fatto che nei vent'anni che abbiamo appena passato siamo vissuti nell'equivoco che essere contro B. voleva dire essere automaticamente di sinistra e anzi chi più faceva rumore, più alzava la voce - e Di Pietro in questo è maestro - era più di sinistra e così ci siamo ritrovati da questa parte della staccionata questo tribuno che, tra l'altro, ha scelto spesso compagni di viaggio estremamente discutibili, come sempre succede a chi crea un partito personale. Al di là di Di Pietro, il resto della sinistra è fatto da piccoli partiti in cui prevale una logica settaria. Vendola è stato per un po' la speranza che avessimo trovato in Italia qualcuno capace di aggregare una sinistra che fatica storicamente a rimanere unita, ma temo che non abbia più questa forza, se mai l'ha avuta. Forse ci siamo illusi. La decisione di partecipare alle primarie e quindi di accettare la logica del futuro accordo con Casini mi pare più funzionale a creare la corrente di sinistra del Pd che a proporre una reale alternativa di cambiamento. Intendiamoci, con questi chiari di luna, è utile anche questo, servirà almeno a temperare alcune asprezze riformistiche che Bersani da solo, contro il fronte compatto dell'Udc e della parte più conservatrice del Pd - Renzi compreso - non sarebbe riuscito a contenere; Vendola renderà un po' meno indigeribile il prossimo governo "montiano" di centrosinistra, ma nulla di più. E quindi ci siamo ritrovati così - unico tra i paesi europei - a non avere né un partito che fa riferimento al Partito socialista europeo né una forte opposizione politica di sinistra, tranne quella rappresentata dal sindacato, che però è, per forza di cose, un'altra cosa. Cosa succederà non lo so. A me hanno insegnato che la sinistra esiste in natura, perché esistono le ingiustizie e quindi dobbiamo lottare per superarle. Adesso è un filo sottile, ma come dicono i nostri contadini "piuttosto è meglio di niente".
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