mercoledì 31 ottobre 2012

Considerazioni libere (316): a proposito dell'astensione...

C'è un'opinione corrente, ormai piuttosto radicata e pigramente accettata dai commentatori, secondo la quale la Sicilia sarebbe una sorta di "laboratorio politico" e quindi che l'esito delle elezioni in quell'isola prefigurerebbe e anticiperebbe l'esito delle elezioni nazionali. Non lo so. Io ho una certa idiosincrasia per i "laboratori", mi pare un espediente per giustificare teorie già formate e compiute, di cui si cerca semplicemente una conferma; da emiliano, non ho mai creduto neppure al "modello emiliano", di cui pure ci sono stati fior fiore di teorici, in genere non emiliani. Allo stesso modo mi pare che la tesi del "laboratorio siciliano" sia sostenuta in particolare da coloro che siciliani non sono e soprattutto da quelli che, avendo vinto le elezioni in quella regione, sperano legittimamente di ripetere lo stesso risultato nel resto dell'Italia. In questi giorni ad esempio sostengono con vigore questa tesi gli amici del Pd che da più tempo perseguono l'obiettivo di un rapporto organico con l'Udc. Siccome sono convinti dell'esito finale, qualsiasi cosa succeda la considerano un sostegno della propria tesi: non esattamente un metodo scientifico. Al netto di questa lettura un po' semplicistica, il voto di domenica scorsa ci lascia alcune questioni aperte. A me ne interessano essenzialmente due: l'altissima astensione e l'incapacità della sinistra di raccogliere la voglia di cambiamento, che è intercettata quasi esclusivamente dal Movimento 5 stelle. In questa "considerazione" provo ad affrontare la prima questione. Ci sarà tempo per affrontare l'altra.
Nell'euforia della vittoria e nel tentativo di minimizzare la sconfitta, nessun politico - e neppure i commentatori più attenti e meno "organici" ai partiti - mi pare abbiano approfondito una questione per me essenziale. Per chi ha votato la mafia? Posta così la domanda è eccessivamente brutale e probabilmente anche sbagliata, ma non credo sia ozioso chiedersi che ruolo abbia avuto in queste elezioni un'organizzazione così potente e che ha in quella terra una presenza così forte e pervasiva. Non mi sembra realistico pensare che un'organizzazione che ha avuto all'inizio degli anni novanta - quando si profilava all'orizzonte la fine del sistema politico basato sul ruolo centrale della Democrazia cristiana - l'ambizione e la forza di avviare una trattativa con una parte delle istituzioni - trattativa che non sappiamo se e come si è conclusa - abbia rinunciato adesso, in un altro momento di passaggio, a far sentire tutto il peso della propria influenza. A me sembrerebbe piuttosto strano, tanto più che le vicende di questi mesi dimostrano che le organizzazioni criminali mafiose stanno svolgendo un ruolo attivo anche al di fuori delle regioni in cui tradizionalmente hanno un più forte radicamento. Se le cosche controllano pacchetti di voti in Lombardia e in Piemonte e decidono di utilizzarli per eleggere dei loro rappresentanti in quei consigli, mi pare difficile pensare che abbiano rinunciato a fare politica in Sicilia, in Calabria, in Campania.
In queste ore mi sono dato due spiegazioni che provo a sottoporvi; queste spiegazioni non sono per forza di cose antitetiche, potrebbero essere valide entrambe e potrebbero anche coesistere con altre ragioni che magari emergeranno tra qualche tempo; in fondo la mafia è un fenomeno complesso, che difficilmente si riduce a un'unica interpretazione. La prima ipotesi è che la mafia si considera così forte da non considerare troppo rilevante chi governerà nei prossimi anni la Regione, da potersene in qualche modo disinteressare. Chi conosce bene quell'organizzazione ci spiega che ormai la mafia sta abbandonando gli aspetti più tradizionali della propria attività per diventare una sorta di enorme finanziaria, un'entità capace di raccogliere e quindi di muovere ingenti quantità di denaro, di condizionare lo sviluppo economico di molti settori produttivi. La mafia in questi anni si è fatta impresa e probabilmente per un'organizzazione di questo tipo è molto più importante condizionare il voto nel nord del nostro paese, perché è qui - molto più che in Sicilia - che può svolgere un ruolo attivo, che può diventare protagonista della vita economica dell'intero paese. La mafia dei colletti bianchi, dei grandi capitali, sente la necessità di dialogare con le industrie, con le banche e le istituzioni finanziarie, con chi ha bisogno dei suoi capitali e dei suoi servizi e questi stanno in Lombardia o ancora più a nord, in Germania. La crisi ha contribuito moltissimo a spostare la "linea della palma", come la chiamava Leonardo Sciascia. Tra gli imprenditori in difficoltà, tra coloro che non hanno accesso al credito, è facile per i mafiosi farsi strada, perché loro hanno molti contanti, li possono prestare, anche senza pretendere di assumere un ruolo nelle aziende a cui prestano denaro; gli è sufficiente essere soci di minoranza, ma naturalmente - come insegnava il siciliano Cuccia - quando si è soci di minoranza di tante imprese il proprio potere cresce enormemente. Per inciso gli imprenditori del nord non sono solo vittime di questo sistema, spesso ne sono anche complici, perché trovano conveniente servirsi di aziende mafiose che garantiscono servizi a prezzi più bassi e preferiscono non chiedersi come sono possibili tali risparmi. A questa "nuova" mafia forse la Sicilia interessa sempre meno, perché il loro orizzonte è ormai l'Italia.
C'è un'altra possibilità per spiegare questa possibile "indifferenza" della mafia per l'esito delle elezioni. Io, come ho scritto in qualche breve commento su Twitter, non avrei votato per Rosario Crocetta, ma certamente non gli si può non riconoscere un impegno concreto e onesto contro la mafia; la decisione di nominare come nuovo assessore alla sanità la figlia di Paolo Borsellino, da anni impegnata su questi temi, è un segnale molto significativo. Io mi auguro di cuore che l'azione di Crocetta sia così intensa come le sue parole lasciano supporre, ma temo purtroppo che a livello amministrativo ci siano ormai tali e tante incrostazioni da rischiare di rendere vano un serio impegno riformatore. La burocrazia, la cattiva burocrazia, è uno dei mali più gravi dell'Italia e delle regioni del sud in particolare; e contro questo male non basta l'azione di un'amministrazione locale, per quanto bene intenzionata. I mafiosi lo sanno bene e sanno che possono contare su questa inefficienza, che troppe volte diventa connivente.
L'altra ipotesi - anch'essa preoccupante - di questa ondata di astensioni è che la mafia abbia deciso di mandare un "avvertimento" alle forze politiche con cui in questi anni ha avuto rapporti più intensi, a cui ha garantito un sostegno politico determinante. Nel '92 quando Andreotti non seppe o non volle più garantire un certo tipo di equilibrio, la mafia decise di uccidere Salvo Lima e quell'omicidio - come ho raccontato in un'altra "considerazione" - ha in qualche modo dato il via a quel terremoto politico che, intrecciatosi con quello che succedeva in quelle stesse settimane a Milano, ha determinato la fine della cosiddetta "prima repubblica". Forse adesso, in maniera molto meno cruenta - più "raffinata" - ma altrettanto netta, la mafia ha deciso di astenersi, penalizzando il centrodestra e in particolare il segretario - siciliano - del Pdl. In qualche modo la criminalità organizzata avrebbe preso posizione nel dibattito interno al centrodestra tra la linea "montiana" ed europea sostenuta da Alfano e la linea eversiva, populista e demagogica, di cui continua a essere il massimo portavoce Silvio Berlusconi. Questa mafia preferisce un'Italia fuori dall'Europa, un'Italia "greca", dove poter fare indisturbata i propri lucrosi affari, dove si continua a evadere, dove la corruzione diventa istituzionalizzata e naturalmente B. garantisce, meglio di ogni altro politico italiano, alla mafia di portare il nostro allo stato della Grecia.
Vedremo cosa succederà, credo sia importante però non fare finta che non sia successo nulla. Io capisco l'entusiasmo di Bersani che vede nel risultato siciliano un ottimo viatico per le primarie e per le "secondarie", ma penso che certi toni andrebbero un po' smorzati e soprattutto che andrebbe analizzato il fatto che neppure un elettore su due è andato a votare. Sia che si pensi - come faccio io - che questa astensione sia il frutto di un qualche calcolo della mafia, sia che si pensi che si tratti semplicemente di protesta e di disaffezione al voto, il segnale è più che allarmante, al di là del limite di guardia.

domenica 28 ottobre 2012

"Ncopp' sta terra" di Eduardo De Filippo


Te pare luongo n'anno
e passa ambressa;
quann'è passato se ne va luntano;
ne passa n'ato
e quanno se n'è gghiuto
corre pur'isso nziem' a chillo 'e primma,
e nzieme a n'ati cinche
vinte
trenta
se ne vanno pè ll'aria
ncopp' 'e nnuvole.
E 'a llà tu siente comm' a nu frastuono
ch'è sempe 'o stesso
'a quanno 'o munno è munno
ncopp' a sta terra:
comme si fosse 'a banda d' 'o paese
ca scassèa mmiez' 'o vico
e s'alluntana.
Trase int' 'e rrecchie quanno sta passanno
e nun 'a siente cchiú quann'è passata.
Ma na cosa te resta:
sa che te rummane?
Te rummane 'o ricordo 'e nu mutivo
comme fosse na musica sperduta
'e nu suonno scurdato,
ca t'è paruto vivo
chiaro cchiù d' 'o ccristallo
dint' 'o suonno
e nun 'o può cuntà quanno te scite
manc'a te stesso,
tanto è fatto 'e niente.

sabato 27 ottobre 2012

Considerazioni libere (315): a proposito di una sentenza e delle sue motivazioni...

Come hanno fatto tutti quelli che in questi giorni hanno commentato la sentenza del tribunale dell'Aquila, anch'io devo esordire con "aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza". Non so in quanti effettivamente leggeranno quelle motivazioni, immagino molti meno di quelli che negli ultimi giorni hanno espresso questo proposito. Per inciso, in casi rilevanti come questo, forse sarebbe più opportuno far conoscere contemporaneamente la sentenza e le motivazioni; francamente, visti i tempi della giustizia italiana, non credo che il problema della lunghezza dei processi sarebbe troppo aggravato dal prevedere fin da subito che la sentenza sia accompagnata dalla stesura delle motivazioni, che esige comprensibilmente alcuni giorni; far uscire tutto insieme non dovrebbe essere così complicato, anche perché quando la corte decide una sentenza deve aver ben chiare le motivazioni giuridiche che la giustificano. Penso che il nostro sistema giudiziario ne acquisterebbe in autorevolezza e che soprattutto eviterebbe molte discussioni fuorvianti. Naturalmente per chi ha un'opinione già definita, per chi ha già un'idea a prescindere, le motivazioni sono assolutamente ininfluenti, in qualunque momento vengano rese pubbliche. Sulla sentenza dell'Aquila, a di là della foglia di fico dell'attesa delle motivazioni utilizzata da tutti i commentatori, molti di questi avevano già definito le loro opinioni prima che la corte si pronunciasse.
Quindi, pur aspettando le motivazioni, mi permetto di esprimere qualche dubbio, a cui spero di trovare risposta nei prossimi giorni. Il processo che si è celebrato in questi mesi non ha riguardato tutte le vittime di quel terremoto, ma solamente trentadue casi, messi insieme sulla base di singole denunce. Nel processo si è discusso di questi singoli e la pubblica accusa - sulla scorta delle testimonianze dei familiari e degli amici di quelle trentadue persone - ha cercato di dimostrare che le dichiarazioni dei componenti della Commissione grandi rischi, con i loro toni eccessivamente tranquillizzanti, li avrebbero spinti a rimanere nelle loro abitazioni, che crollarono a causa del terremoto del 6 aprile. Come sappiamo, altre persone, non tranquillizzate da quei messaggi o trovandoli contradditorii, decisero di trascorrere quelle notti in auto, fuori dalle loro case, o di trasferirsi sulla costa e in questo modo si salvarono. Pur con il rispetto che è dovuto a persone che hanno perso in maniera così tragica i loro familiari e credendo nella loro assoluta buona fede e nella verità delle loro testimonianze, non credo sia facile ricordare gli stati d'animo, le incertezze, i dubbi di quelle settimane di tre anni fa; temo che i ricordi finiscano per essere distorti da quello che è successo, dal dramma che tttu loro hanno vissuto. Sono situazioni molto difficili, in cui temo non sia facile rimanere lucidi; succede qualcosa del genere alle persone malate e ai loro familiari. Proviamo a calarci noi in quella situazione. Credo sia difficile decidere di lasciare la propria casa, anche se siamo impauriti da continue scosse di assestamento; per me almeno sarebbe difficile prendere questa decisione e non so quanto mi influenzerebbero, in un senso o nell'altro, le dichiarazioni degli esperti. A quante altre cose si penserebbe in momenti come quelli? Che peso avrebbe la preoccupazione per mia moglie? Non lo so, spero non mi succeda, naturalmente, ma non so cosa farei. Anche nel recente terremoto che ha colpito l'Emilia, abbiamo saputo di persone, spesso anziane, che non avrebbero voluto lasciare le proprie case e magari sono state costrette a farlo, con la forza, per l'imminenza del pericolo. E casi analoghi li abbiamo visti in tutte le tragedie naturali - troppe - che hanno investito il nostro paese. Probabilmente c'è stata sottovalutazione da parte dei tecnici della Commissione - e su questo dirò dopo - ma forse qualcuno di quelli che ha deciso di rimanere in casa ha sentito quello che voleva sentire. Francamente mi sembra molto complicato, dal punto di vista strettamente giuridico, trovare un rapporto diretto di causa ed effetto tra le dichiarazioni di De Bernardinis e degli altri tecnici e la morte di quelle trentadue persone. La scossa distruttrice è arrivata sfortunatamente pochi giorni dopo quella riunione, ma non sappiamo cosa sarebbe successo se la scossa fosse arrivata - come poteva succedere, essendo quel fenomeno imprevedibile - un mese dopo: quanto avrebbero resistito a dormire in auto quei cittadini dell'Aquila? Per quanto tempo sarebbero rimasti fuori dalle loro case? E se la scossa fosse arrivata di giorno, magari quando anche i più prudenti sarebbero dovuti rientrare, magari per prendere qualche vestito? Non so se le motivazioni della sentenza dell'Aquila potranno spiegare più nel dettaglio questo rapporto di causa-effetto. Leggeremo e proveremo a valutarlo, nella maniera più serena possibile. Credo che lo dobbiamo all'esercizio della verità e anche a quelli che sono morti a L'Aquila.
Intanto, nell'attesa delle motivazioni, sono scoppiate le polemiche. Abbastanza prevedibili erano le critiche dei giornali "lepenisti": questi non potevano perdere un'occasione ghiotta come questa per attaccare la magistratura, che da sempre è nel mirino del loro proprietario. Altrettanto prevedibile era la critica del ministro Clini, che ha un conto aperto con i magistrati di Taranto, colpevoli di "lesa maestà" verso il ministero e l'Ilva, da lui parimenti rappresentati; magari era meno prevedibile la sciocchezza del paragone fatto da Clini tra il processo dell'Aquila e quello a Galileo. Era ancora meno prevedibile che si saldasse contro la sentenza dell'Aquila una strana alleanza tra costoro e Piergiorgio Odifreddi, di professione anticlericale più che matematico, che ha definito "demenziale" la sentenza, considerandola, al pari di altri belli spiriti suoi pari, come un attacco alla scienza, naturalmente con la "S" maiuscola.
Al di là di queste piccinerie, le persone condannate dal tribunale dell'Aquila hanno delle precise responsabilità e credo sia giusto che queste emergano. Immagino abbia pesato sulla decisione del magistrato ascoltare le parole di Bertolaso, nella telefonata in cui spiega all'assessore alla protezione civile della Regione che l'incontro dei "luminari del terremoto" servirà per "zittire subito qualsiasi imbecille" e per "tranquillizzare la gente", con la tesi che "cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male". Come succede troppe volte in Italia, c'è stata una miscela pericolosa di incompetenza, pigrizia, arroganza, accondiscendenza al potente di turno. Questa sentenza ha dimostrato una volta di più che in questo paese i cittadini non possono fidarsi delle istituzioni, non possono credere a uno stato che, per dolo e per negligenza - ma più spesso per dolo - li ha sistematicamente ingannati, ha negato la verità. Questo stato di cose non lo potrà risolvere una sentenza, per quanto coraggiosa - anche se temo sbagliata - di un giudice di provincia.
In Italia ogni terremoto rischia di trasformarsi in una catastrofe perché non c'è la cultura per affrontare questi eventi naturali, che sono sì imprevedibili - e chi dice il contrario è ignorante - ma sono allo stesso tempo affrontabili. Per non parlare di quegli eventi che, pur essendo prevedibilissimi - come le piogge - rischiano di trasformarsi anche loro in catastrofi. Manca nel nostro paese, che pure è altamente sismico, qualsiasi forma di educazione dei cittadini, anche perché troppo spesso le autorità - scienziati compresi - hanno sempre adottato lo stile di comunicazione messo in pratica in Abruzzo, teso a nascondere la verità e a rassicurare comunque i cittadini, che evidentemente non sono ritenuti abbastanza intelligenti da conoscere quello che succede. Per queste ragioni, secondo me, ci sarebbero stati tutti i motivi per condannare quei sette tecnici - e non solo loro - ma forse quella sentenza di omicidio colposo non è il modo migliore per rispettare lo stato di diritto. Ho l'impressione che si sia arrivati a una sentenza giusta attraverso una strada sbagliata, ma in un processo la strada non è una variabile indipendente.

giovedì 25 ottobre 2012

"Testamento" di Kriton Athanasulis


Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me.
Le stelle brilleranno uguali ed uguali ti indurranno
le notti a dolce sonno.
Il mare t'empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S'è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco
tu guadagnando l'amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l'arma con la canna arroventata.
Non l'appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del tempo.
E ricorda. Quest'ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione mi ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento e piogge e grandine
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d'una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate,
ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austere forme d'uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e Auschwitz.
Fa presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d'un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici; già. I nemici dell'odio.
Ti lascio l'indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l'epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d'una città con tanti prigionieri,
dicono sempre si, ma dentro loro mugghia
l'imprigionato no dell'uomo libero.
Anch'io sono di quelli che dicono di fuori
Il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l'occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro,
il pane è fatto di pietra, l'acqua di fango,
la verità un uccello che non canta.
E’ questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d'essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. E’ questo che ti lascio.

mercoledì 24 ottobre 2012

Considerazioni libere (314): a proposito di un prestito molto interessato...

Voglio attirare l'attenzione dei miei lettori su una notizia che è passata - come molte altre, specialmente quelle di politica estera - inosservata; eppure questa notizia riguarda un paese non molto lontano dall'Italia, le cui difficoltà possono ricadere sul nostro paese e sull'intera Europa, visto che le persone che, a causa dell'aggravarsi della crisi, decidono di lasciare il Marocco finiscono per arrivare nei paesi della costa settentrionale del Mediterraneo. Come spero riuscirò a spiegarvi, la vicenda del Marocco è interessante anche per un altro motivo: mette in evidenza come si muovono le autorità finanziarie internazionali e quindi cosa sta succedendo in Grecia, in Spagna e presto succederà in Italia. Lo scorso 3 agosto il Fondo monetario internazionale ha deciso di concedere al governo di Rabat un finanziamento di 6,2 miliardi di dollari, una cifra molto importante, che rappresenta più della metà del debito estero contratto dal paese magrebino negli ultimi decenni. La presidente del Fmi Christine Lagarde ha detto che si tratta di "una polizza assicurativa contro gli eventuali rischi che incombono sull'economia marocchina". Al di là di queste parole, apparentemente rispettose dell'autonomia delle autorità politiche marocchine, il Fmi si prepara a influenzare in maniera diretta la politica di quel paese. Come è avvenuto già troppe volte, in America latina come nell'Africa australe, e come sta avvenendo in questi mesi nell'Europa meridionale, questi soldi che dovrebbero aiutare il Marocco a liberarsi da una situazione di dipendenza, non faranno altro che mantenere il paese nella spirale dell'indebitamento, da cui sarà sempre più difficile uscire.
Naturalmente un prestito di tale entità prevede delle contropartite. Di fronte alle polemiche il governo marocchino ha detto che probabilmente i fondi del Fmi non saranno neppure utilizzati. Si tratta ovviamente di una sciocchezza: se il Marocco non aveva bisogno del prestito, avrebbe semplicemente potuto fare a meno di chiederlo. Dal momento che il prestito - che venga utilizzato o meno - una volta erogato matura interessi, è ovvio che il governo marocchino utilizzerà i soldi ricevuti. Il Fmi chiede garanzie, perché - come ogni banca - vuole che il denaro che ha prestato venga restituito. Con gli interessi. Il governo di Rabat ha già inviato una lettera al Fmi in cui si impegna ad accogliere i "suggerimenti" dei funzionari del Fondo. Possiamo immaginare su che temi si eserciterà l'influenza del Fmi: tagli sostanziali alle spese pubbliche, riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale, riduzione delle imposte dirette e aumento di quelle indirette. Vi ricorda qualcosa? sì, è proprio la famosa "agenda Monti", quella applicata dall'attuale governo e a cui si dovrà attenere anche il prossimo, indipendentemente da chi vincerà le elezioni.
Una delle prime "vittime" del Fmi sarà la Caisse de compensation, ossia il sistema che da anni in Marocco garantisce le sovvenzioni per i prodotti di base - farina, riso, zucchero, ma anche benzina e gas - pare che nella prossima finanziaria sia già prevista una drastica riduzione, se non la soppressione, di questo strumento. Certamente la Caisse de compensation è stato il mezzo attraverso cui il re e il governo del Marocco sono riusciti nel 2011 a impedire che la cosiddetta "primavera araba" si espandesse anche in quel paese; proprio nel 2011 questo sistema di sovvenzioni ha raggiunto l'8% del bilancio statale, rendendo meno dura la condizione di vita delle famiglie più povere, specialmente dei giovani, che sono stati i protagonisti di quelle rivolte. Certo la Caisse de compensation così come è dovrebbe essere radicalmente riformata, perché finisce per essere un sistema non equo, dal momento che non fa alcuna differenza tra colui che compra il prodotto sovvenzionato avendone un reale bisogno e colui che non ne ha necessità: poveri e ricchi godono delle stesse sovvenzioni. Il Fmi ha già chiesto che questo sistema venga profondamente riformato, perché non favorisce la concorrenza in una logica di libero mercato e perché ormai è economicamente insostenibile. Come spesso avviene si getta il bambino con l'acqua sporca. La riforma, che sarebbe comunque necessaria - proprio per le disparità che sopra ho descritto e perché la Caisse è diventata uno strumento di politica clientelare - si tradurrà semplicemente in una serie indiscriminata di tagli, con l'unica conseguenza di un aumento del costo della vita, tanto più difficile da sopportare perché i salari vengono congelati. Il conto di queste scelte sarà pagato dagli strati più indigenti della popolazione, mentre non si farà nulla per introdurre nuove regole contro la corruzione e contro quei gruppi che hanno contribuito a mettere in ginocchio l'economia del paese.
La reticenza con cui le autorità marocchine e gli stessi funzionari del Fondo parlano del prestito a quel governo non è legato a un sussulto di dignità, ma è determinata da quello che è successo negli anni passati. Nel 1978, su richiesta del Fmi, il governo attuò un programma di riforme economiche basato sulla riduzione degli investimenti statali, l'aumento delle tasse e il blocco dei salari. La popolazione scese in piazza e quei provvedimenti furono ritirati. Nonostante questo nel 1980 il Fondo impose l'adozione del Piano di aggiustamento strutturale (Pas) che prevedeva, tra le altre misure, la riduzione delle sovvenzioni sui prodotti alimentari. In pochi giorni i prezzi di questi prodotti salirono alle stelle - ad esempio quello della farina crebbe del 50% - e si rinnovarono i tumulti. Questa rivolta fu particolarmente grave a Casablanca, dove ci furono centinaia di morti. Da allora Pas è diventato sinonimo di sacrifici e repressione e quindi è comprensibile che il governo e il Fondo questa volta cerchino di attenuare la portata dell'intervento, che però ha caratteristiche molto simili.
Lo scorso 9 ottobre il Fmi ha presentato uno studio secondo cui il tasso di crescita del Marocco si attesterebbe al 5%; si tratta di una previsione ottimistica e poco realistica, dal momento che l'attuale tasso di crescita è stabile al 2%; contemporaneamente l'agenzia di rating Standard and Poor's ha definito "negativa" la capacità del Marocco di rimborsare i propri debiti, aggiungendo che "se la disoccupazione rimarrà ostinatamente elevata, il costo della vita aumenterà e se le riforme politiche si riveleranno deludenti per la popolazione, si correrà il rischio di disordini sociali su vasta scala". Apparentemente sembrano due giudizi discordanti, ma l'impressione è che Fmi e Standard and Poor's giochino al poliziotto buono e poliziotto cattivo. Uno spiega che la situazione è critica e l'altro che se ne può uscire, mentre il governo marocchino è invitato a insaponare la corda a cui sarà impiccato.
Nel bilancio del 2012 le entrate derivanti dalle imposte coprono soltanto il 60% delle spese; occorre quindi trovare nuove risorse e visto che le scorte di idrocarburi sono sostanzialmente esaurite, l'unica via di uscita è l'indebitamento. Secondo diversi analisti, questa situazione non è il frutto della crisi della zona euro - come spiegano i governanti di Rabat - ma il risultato di scelte disastrose in campo fiscale, nella gestione delle riserve di cambio, nella programmazione degli investimenti. Negli ultimi venti anni si è ridotto il gettito fiscale, dal momento che il governo ha abbassato le imposte dirette sulle fasce di reddito superiori e ha ridotto la tassazione sulle aziende; queste misure hanno favorito chi era già molto ricco, senza avere alcun beneficio sull'economia reale del paese. I ministri del re avevano promesso che tasse più basse per i ricchi avrebbero favorito gli investimenti e il passaggio alla "legalità" di tante attività che vivono in maniera informale. Non si è verificata né l'una né l'altra cosa: l'evasione fiscale raggiunge livelli altissimi e la fuga di capitali all'estero è stimata a oltre 2 miliardi di dollari all'anno, un terzo del prestito del Fmi.
Ci sono altri fattori che pesano sull'economia del Marocco. Nonostante le dichiarazioni, la qualità del pubblico impiego continua a essere scarsa, dal momento che le assunzioni continuano a essere o una valvola per allentare le pressioni sociali o - come è avvenuto in Grecia e in Italia - un'opportunità per favorire reti di clientele. Il Marocco degli ultimi dieci anni ha conosciuto una grande mole di investimenti, su settori che non hanno inciso sull'economia del paese: né la rete di autostrade né la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità - la prima dell'Africa - ha rappresentato un vero passo in avanti per il paese. Anche su questo le assonanze con le nostre vicende domestiche sono piuttosto inquietanti.
L'agricoltura è il settore dove è più evidente la miopia dei governi che si sono succeduti in questi anni in Marocco. Si è puntato sui prodotti da esportazione (pomodori, fragole, banane) - secondo le indicazioni dei tecnici del Fmi e delle altre agenzie internazionali - senza valutare che questo settore coinvolge solo il 2% delle aziende agricole e non si è investito sui prodotti di prima necessità, di cui le aziende agricole marocchine riescono a coprire meno della metà del fabbisogno interno. Adesso una parte dei pomodori prodotti rimangono venduti, mentre il grano viene importato a prezzi sempre più elevati. In questa situazione difficile, naturalmente la crisi della zona euro ha dato il colpo di grazia: i paesi europei - che erano i primi importatori dei prodotti marocchini - hanno ridotto il volume di queste importazioni; i turisti europei hanno ridotto i loro budget e un paese come il Marocco, dove il turismo dalla Spagna era particolarmente significativo, ne ha risentito; infine la crisi in Europa ha reso meno fiorenti e più precarie le rimesse dei marocchini residenti all'estero.
Questa è la situazione del Marocco: è una situazione oggettivamente difficile, ma il prestito del Fmi non riuscirà a risolvere nessuno dei problemi che trascinano nella miseria quel paese e i suoi abitanti, anzi contribuirà ad affondarlo. Questa è una storia che presto dovremo tenere a mente, temo.

sabato 20 ottobre 2012

Considerazioni libere (313): a proposito di stampare denaro...

Lo scorso 13 settembre nell'edizione on line de Il Sole-24 ore potevate leggere questo titolo: "Dalla Fed nuova ondata di liquidità: 40 miliardi al mese". Sui mezzi di informazione italiani questa notizia non è stata particolarmente approfondita: in sostanza è stata vista da alcuni come un elemento di ottimismo, come uno dei segnali premonitori della fantomatica luce in fondo al tunnel, sempre evocata dal professor Monti, e da altri come un tentativo del presidente della Federal reserve Bernanke, pur nominato dal repubblicano Bush (il secondo), di favorire la rielezione del democratico Obama. Dal momento che entrambe queste spiegazioni mi sono sembrate un po' riduttive, ho provato a capirci qualcosa di più, spulciando tra i commenti e le analisi disponibili in rete. Tecnicamente questa operazione si chiama quantitative easing - alleggerimento quantitativo in italiano - ed è la terza volta dall'inizio della crisi che la Federal reserve adotta questo provvedimento - la sigla è appunto QE3 - in pratica la banca centrale degli Stati Uniti decide che è venuto il momento di creare nuovo denaro; naturalmente, nella nostra era digitale, non si dà l'ordine alla zecca di stampare nuove banconote, basta fare clic su un computer.
Il primo alleggerimento quantitativo, il QE1, è stato fatto alla fine del 2008; l'obbiettivo di Bernanke era quello di debellare la crisi finanziaria, i cui primi segnali erano stati avvertiti già nel 2007 e che aveva raggiunto il culmine nell'autunno del 2008, con il fallimento della Lehman Brothers. In un primo momento è stato il governo federale a intervenire direttamente, investendo 1.200 miliardi di dollari nell'acquisto di titoli delle banche in crisi, ma la situazione, nonostante l'immissione di tutta questa liquidità, ha continuato ad aggravarsi. A questo punto, visto che sul bilancio statale non si poteva più intervenire, la Federal reserve ha cominciato ad acquistare, con i soldi "nuovi", dalle banche in difficoltà titoli garantiti da mutui, incluse le obbligazioni di due imprese sostenute dallo stato, Fannie Mae e Freddie Mac, i cui nomi sono entrati più volte nelle cronache finanziarie. Quindi le banche in questi ultimi anni hanno utilizzato il denaro "creato" dalla Federal reserve per compensare strumenti finanziari insicuri; nella primavera del 2010 sembrava che la situazione fosse sotto controllo e quindi è stato deciso di sospendere il programma QE1, dopo che erano stati investiti 1.700 miliardi di dollari. Gli effetti positivi sono durati molto poco, tanto che la Federal reserve ha deciso di dare il via, nell'autunno 2011, a un nuovo alleggerimento, il programma QE2: sono stati acquistati, sempre con soldi "nuovi", 600 miliardi di titoli del Tesoro a lungo termine. I risultati evidentemente non sono stati molto positivi, se dopo meno di un anno è stato necessario iniziare il nuovo programma QE3. Francamente quello che è successo in questi mesi, a partire dal 2008, fa prevedere che anche i risultati di questo nuovo programma non saranno positivi. Il QE3 prevede che sia possibile immettere nel sistema fino a 40 miliardi di dollari al mese, attraverso l'acquisto di titoli garantiti da mutui; non è stata definita una scadenza per questo programma.
Credo sia utile a questo punto fare un minimo di storia. Fino all'inizio degli anni Settanta negli Stati Uniti, come in tutti gli altri paesi del mondo, vigeva la cosiddetta gold standard, o sistema aureo, che prevedeva che l'ammontare della moneta circolante in un paese fosse limitato dalla somma delle quantità di riserve auree detenute dalle banche di quello stesso paese; questo sistema - che quindi non prevedeva la possibilità di stampare moneta oltre un certo limite - fu deciso nel luglio del 1944, mentre si stava ancora combattendo la seconda guerra mondiale, nella Conferenza di Bretton Woods. Fu il presidente Nixon a decretare la fine di questo sistema, nel 1971, abolendo la convertibilità del dollaro in oro. Fu quindi possibile creare moneta in maniera libera, senza vincoli, e perciò da quel momento la massa di dollari in circolazione è enormemente cresciuta.
Per tornare a quello che sta succedendo oggi, naturalmente se la Federal reserve batte "nuova" moneta, le altre banche centrali non stanno ferme. Qualche giorno prima che Bernanke annunciasse l'inizio del QE3, la Bce ha deciso l'acquisto di titoli di debito dei paesi della zona-euro, in grandi proporzioni e soprattutto "unlimited", come ha detto Draghi, facendo tirare un sospiro di sollievo all'amico Monti: di fatto è cominciato così l'alleggerimento quantitativo dell'Europa, anche se teoricamente la Bce non avrebbe il potere di battere moneta. E anche le banche centrali britannica e giapponese hanno cominciato a comprare titoli, immettendo denaro fresco nelle economie di quei paesi. Cresce quindi - unlimited - la massa di moneta in giro per il pianeta. E questo non è un segno di salute, ma la causa di nuove malattie, di un nuovo contagio.
A questo punto, ci sono due questioni su cui credo sia utile concentrarsi: bisogna capire chi decide queste operazioni e soprattutto sapere dove arrivano tutti questi "nuovi" soldi. Queste operazioni non le decidono i governi, ma le banche: e questo mi pare già un problema, perché nessuno ha eletto Bernanke o Draghi. Come ho detto più volte, si apre un'enorme questione democratica, che coinvolge prima di tutto l'Europa, dal momento che sulla Bce e su Draghi si concentra anche il potere di controllo, attraverso la troika, delle politiche economiche dei paesi "salvati" dalla crisi. Il potere dei banchieri centrali è incredibilmente cresciuto negli ultimi anni e la cosa è appunto tanto più drammatica in Europa, dal momento che non c'è un presidente - come negli Stati Uniti - che possa interloquire con chi decide quando stampare nuova moneta e soprattutto dove indirizzarla. E qui veniamo al secondo punto. La Federal reserve non distribuisce il "nuovo" denaro per creare nuove imprese o per favorire la crescita di nuovi posti di lavoro, nonostante sia questa la giustificazione dell'alleggerimento quantitativo. Questo denaro finisce direttamente alle banche che cedono alla Federal reserve titoli più o meno tossici, ricevendone in cambio soldi "puliti"; questi soldi poi vengono reinvestiti nel mercato azionario, che garantisce alle banche e ai loro azionisti il massimo dei profitti, e quindi non incidono in alcun modo sulla cosiddetta economia reale. Di fatto tutti questi soldi, negli Stati Uniti come in Europa, sono un modo per distribuire fondi pubblici per premiare i più ricchi, specialmente quelli che hanno operato nel mercato finanziario, ossia quelli che, con la loro irresponsabilità e la loro avidità, hanno provocato la crisi. E' la redistribuzione delle ricchezze, solo che passano dai poveri ai ricchi. E questa redistribuzione sta continuando.
Immettere denaro in maniera incontrollata non serve a incrementare il prodotto interno lordo di un paese, anzi diminuisce il valore della moneta - è piuttosto intuitivo, visto che aumenta il denaro in circolazione - e di conseguenza incrementa il costo delle merci; l'aumento del prezzo delle merci mette in difficoltà le imprese, fa aumentare la disoccupazione e ricade sui consumatori, perché si riduce il loro potere di acquisto. Se l'economia è carica di denaro in maniera così eccessiva, gli interventi dello stato non riescono né a stimolare la produzione né a migliorare la qualità della vita dei cittadini. Diversi analisti spiegano che si sta creando una nuova forma di capitalismo, che non è quello classico - quello che ha portato alla crisi del '29 - né quello cosiddetto "di stato", che si è imposto dopo la seconda guerra mondiale. Il nuovo capitalismo, ormai slegato e indipendente dalla politica, crea e distribuisce moneta a sua esclusiva discrezione e naturalmente sappiamo a favore di chi. E tutto questo sforzo non si tradurrà in maggiori posti di lavoro. In un momento di sincerità, Bernanke ha detto: "Voglio essere chiaro. Mentre ritengo che possiamo dare un significativo contributo all'attenuazione del problema, non possiamo risolverlo. Non possediamo strumenti abbastanza potenti da risolvere il problema della disoccupazione"; se lo dice lui. E senza lavoro non si risolleva l'economia, almeno la nostra economia.

venerdì 19 ottobre 2012

"La mia opposizione al fascismo" di Aldo Capitini

Non è facile elevarsi su quel patriottismo scolastico che ci coglie proprio nel momento, dai dieci ai quindici anni, in cui cerchiamo un impiego esaltante delle nostre energie, una tensione attiva e appoggiata a miti ed eroi.
Quaranta anni successivi di esperienza in mezzo ad una storia movimentatissima ci hanno ben insegnato due cose: che la devozione alla patria deve essere messa in rapporto e mediata con ideali più alti e universali; che la nazione è una vera società solo in quanto risolve i problemi delle moltitudini lavoratrici nei diritti e nei doveri, nel potere, nella cultura, in tutte le libertà concretamente e responsabilmente utilizzabili.
Quella "patria" che la scuola ci insegnò, che era del Foscolo e del Carducci, e diventava del D'Annunzio e del Marinetti, non poteva essere il centro di tutti gli interessi; e perciò potei essere nazionalista tra i dieci e i quindici anni, ma non poi restarlo quando vidi la guerra in rapporto, meno con la nazione, e più con l'umanità sofferente e divisa; quando dalla letteratura vociana e di avanguardia salii (da autodidatta e più tardi che i coetanei) alla più strenua, vigorosa, e anche filologica classicità, vista nei testi latini, greci e biblici, come valori originali; quando portai la riflessione politica, precoce ma intorbidata dall'attivismo nazionalistico, ad apprezzare i diritti della libertà e l'apertura al socialismo come cose fondamentali, insopprimibili per qualsiasi motivo.
Umanitario e moralista, tutto preso dalla ricostruzione della mia cultura (eseguita tardi ma con consapevolezza) e anche dal dolore fisico, il dopoguerra 1918-22 mi trovò del tutto estraneo al fascismo, anche se avevo coetanei che vi erano attivissimi: non sentii affatto l'impulso ad accompagnarmi con loro. Anzi, mi permettevo nella mia indipendenza, di leggere la Rivoluzione liberale, di offrire lieto il mio letto ad un assessore socialista cercato dagli squadristi, e la mattina della marcia su Roma sentii bene che non dovevo andarci, perché era contro la libertà.
Certo, per chi è stato, purtroppo (e purtroppo dura ancora), educato a quel tal patriottismo scolastico, per chi non ha potuto nell'adolescenza non assorbire del dannunzianesimo e del marinettismo, qualche volta il fascismo poteva sembrare un qualche cosa di energico, di impegnato a far qualche cosa; e comprendo perciò le esitazioni e le cadute di tanti miei coetanei, che hanno come me press'a poco gli anni del secolo.
Se io fui preservato e salvato per opera di quell'evangelismo umanitario-moralistico e indipendente, per cui non ero diventato né cattolico (pur essendo teista) né fascista, e preferii rinunciare alla politica attiva, a cui pur da ragazzo tendevo, scegliendo un lavoro di studio, di poesia, di filosofia, di ricerca religiosa; tanti altri, anche per il fatto di essere stati in guerra (io ero stato escluso perché riformato), lungo il binario del patriottismo, del combattentismo, dello squadrismo, videro nel fascismo la realizzazione di tutto.
Queste mie parole sono perciò un invito a diffidare del patriottismo scolastico, che può portare a tanto e a giustificare tanti delitti, e un proposito di lavorare per un'educazione ben diversa. Questa è dunque la prima esperienza che ho vissuto in pieno: ho potuto contrastare al fascismo fin dal principio perché mi ero venuto liberando (se non perfettamente) dal patriottismo scolastico; esso fu uno degli elementi principalmente responsabili dell'adesione di tanti al fascismo.
Ed ora vengo alla seconda esperienza fondamentale. Si capisce che mentre il fascismo si svolgeva, quasi insensibile com'ero alla soddisfazione "patriottica", mi trovavo contrario alla politica estera ed interna. Per l'estero io ero press'a poco un federalista, e mi pareva che un'unione dell'Italia, Francia, Germania (circa centocinquanta milioni di persone) avrebbe costituito una forza viva e civile, anche se l'Inghilterra fosse voluta rimanere per suo conto; ma ci voleva uno spirito comune, che, invece, il nazionalismo fece rovinare. Ebbi sempre un certo rispetto per la Società delle Nazioni; e mi pareva che l'Italia avesse avuto molto col Trattato di Versailles, malgrado le strida dei nazionalisti. Approvavo il lavoro di Amendola e degli altri per un patto con gli Jugoslavi, che ci avrebbe risparmiato tante tragedie e tante vergogne.
Per la politica interna la Milizia in mano a Mussolini, il delitto Matteotti, la dittatura e il fastidio, a me lettore e raccoglitore di vari giornali, che dava la lettura di giornali eguali, l'avversione che sentivo per il saccheggio e la distruzione e l'abolizione di tutto ciò che era stata la vita politica di una volta, le Camere del lavoro, le varie sedi dei partiti, le logge massoniche; mi tenevano staccato dal fascismo.
Sapevo degli arresti, delle persecuzioni. Dov'era più quel bel fermento di idee, quella vivacità di spirito di riforme che avevo vissuto dal '18 al '24? Quanti libri liberi, riviste (Conscientia per es. che conservavo come preziosa), erano finiti!. L'Italia che avrebbe dovuto riformarsi in tutto, era ora affidata ad un governo reazionario e militarista! E io ricordavo il mio entusiasmo per le amministrazioni socialiste: come seguivo quella di Milano, quella di Perugia, mia città!
Non ero iscritto a nessun partito, non partecipavo nemmeno, preso da altro, alla dialettica politica, ma le amministrazioni socialiste mi parevano una cosa preziosa, con quegli uomini presi da un ideale, umili di condizione, e "diversi", lì impegnati ad amministrare per tutti.
Sicché ero contrario al regime, e la seconda esperienza fondamentale lo confermò: fu la Conciliazione del febbraio del '29.
Non ero più cattolico dall'età di tredici anni, ma ero tornato ad un sentimento religioso sul finire della guerra, e lo studio successivo, anche filosofico e storico sulle origini del cristianesimo, di là dalle leggende e dai dogmi mi aveva concretato un teismo di tipo morale.
Guardando il fascismo, vedevo che lo avevano sostenuto in modo decisivo due forze: la monarchia che aveva portato con sé (più o meno) l'esercito e la burocrazia; l'alta cultura (quella parte vittima del patriottismo scolastico) che aveva portato con sé molto della scuola. C'era una terza forza: la Chiesa di Roma. Se essa avesse voluto, avrebbe fatto cadere, dispiegando una ferma non collaborazione, il fascismo in una settimana. Invece aveva dato aiuti continui. Si venne alla Conciliazione tra il governo fascista e il Vaticano.
La religione tradizionale istituzionale cattolica, che aveva educato gl'italiani per secoli, non li aveva affatto preparati a capire, dal '19 al'24, quanto male fosse nel fascismo; ed ora si alleava in un modo profondo, visibile, perfino con frasi grottesche, con prestazione di favori disgustose, con reciproci omaggi di potenti, che deridevano alla "scuola liberale" e ai "conati socialisti", come cose oramai vinte! Se c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista, è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall'istituzione romana.
Perché noi abbiamo avuto da fanciulli un certo imbevimento di idee e di riti cattolici, che sono rimasti lì, nel fondo nostro; ed anche se si è studiato, e si sanno bene le ragioni storiche, filosofiche, sociali, anche religiose, per cui non si può essere cattolici, tuttavia ascoltando suonare le campane, vedendo l'edificio chiesa, incontrando il sacerdote, uno potrebbe sempre sentire un certo fascino.
Ebbene, se si pensa che quelle campane, quell'edificio, quell'uomo possono significare una cerimonia, un'espressione di adesione al fascismo, basta questo per insegnare che bisogna controllare le proprie emozioni, non farsi prendere da quei fatti che sono " esteriori " rispetto alla doverosità e purezza della coscienza.
La Chiesa romana credette di ottenere cose positive nel sostenere il fascismo, realmente le ottenne. Ma per me quello fu un insegnamento intimo che vale più di ogni altra cosa. Non aver visto il male che c'era nel fascismo, non aver capito a quale tragedia conduceva l'Italia e l'Europa, aver ottenuto da un potere brigantesco sorto uccidendo la libertà, la giustizia, il controllo civico, la correttezza internazionale; non sono errori che ad individui si possono perdonare, come si deve perdonare tutto, ma sono segni precisi di inadeguatezza di un'istituzione, ancora una volta alleata di tiranni.
Fu lì, su questa esperienza che l'opposizione al fascismo si fece più profonda, e divenne in me religiosa; sia nel senso che cercai più radicale forza per l'opposizione negli spiriti religiosi-puri, in Cristo, Buddha, S. Francesco, Gandhi, di là dall'istituzionalismo tradizionale che tradiva quell'autenticità; sia nel senso che mi apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo stesse in una riforma religiosa, riprendendo e portando al culmine i tentativi che erano stati spenti dall'autoritarismo ecclesiastico congiunto con l'indifferenza generale italiana per tali cose.
Vidi chiaro che tutto era collegato nel negativo, e tutto poteva essere collegato nel positivo. Mi approfondii nella nonviolenza. Imparai il valore della non collaborazione (anzi lo acquistai pagandolo, perché rifiutai l'iscrizione al partito, e persi il posto che avevo); feci il sogno che gl'italiani si liberassero dal fascismo non collaborando, senza odio e strage dei fascisti, secondo il metodo di Gandhi, rivoluzione di sacrificio che li avrebbe purificati di tante scorie, e li avrebbe rinnovati, resi degni d'essere, così sì, tra i primi popoli nel nuovo orizzonte del secolo ventesimo.
Divenni vegetariano, perché vedevo che Mussolini portava gl'italiani alla guerra, e pensai che se si imparava a non uccidere nemmeno gli animali, si sarebbe sentita maggiore avversione nell'uccidere gli uomini.
Nel lavoro di suscitamento e collegamento antifascista, svolto da me dal 1932 al 1942, sta la terza esperienza fondamentale: il ritrovamento del popolo e la saldatura con lui per la lotta contro il fascismo. Figlio di persone del popolo, vissuto in povertà e in disagi, con parenti tutti operai o contadini, i miei studi (vincendo un posto gratuito universitario nella Scuola normale superiore di Pisa) ed anche i primi amici non mi avevano veramente messo a contatto con la classe lavoratrice nella sua qualità sociale e politica.
Anche se da ragazzo ascoltavo con commozione le musiche di campagnna che il primo maggio sonavano di lontano l'Inno dei lavoratori, di là dal velo della pioggia primaverile, non conoscevo bene il socialismo. Avevo visto dal mio libraio le edizione delle opere di Marx e di Engels annerite dagl'incendi devastatori dei fascisti milanesi alla redazione dell'Avanti!, ma, preso da altro lavoro, non le avevo studiate.
Accertai veramente la profondità e l'ampiezza del mondo socialista nel periodo fascista, quando le possibilità di trovare documentazioni e libri (lo sappiano i giovani di ora, che se vogliono possono andare da un libraio e acquistare ciò che cercano) erano di tanto diminuite, ma c'era, insieme, il modo di ritrovare i vecchi socialisti e comunisti, che erano rimasti saldi nella loro fede, veramente "fede" "sostanza di cose sperate ed argomento delle non parventi", malgrado le botte, gli sfregi, la povertà, le prigioni, le derisioni degl'ideali e dei loro rappresentanti uccisi ("con Matteotti faremo i salsicciotti") e sebbene vedessero che le persone "dotte" erano per Mussolini e il regime.
Ritrovare queste persone, unirsi con loro di là dalle differenze su un punto o l'altro dell'ideologia, festeggiare insieme il primo maggio magari in una soffitta o in un magazzino di legname, andare insieme in campagna una domenica (che per il popolo è sempre qualche cosa di bello), e talvolta anche in prigione: nella lotta contro il fascismo si formò questa unione, che non fu soltanto di persone e di aiuto reciproco, ma fu studio, approfondimento, constatazione degl'interessi comuni dei lavoratori e degl'intellettuali contro i padroni del denaro e del potere: si apriva cosi l'orizzonte del mondo, l'incontro di Occidente e Oriente in nome di una civiltà nuova, non più individualistica né totalitaria.
Questo io debbo al fascismo, ma in quanto ebbi, direi la Grazia, o interni scrupoli o ideali che mi portarono all'opposizione. Opponendomi al fascismo, non per cose di superficie o di persone o di barzellette, ma pensando seriamente nelle sue ragioni, nella sua sostanza, nel suo esperimento e impegno, non solo me ne purificavo completamente per ciò che potesse essercene in me, ma accertavo le direzioni di un lavoro positivo e di una persuasione interiore che dovevo continuare a svolgere anche dopo.
Il fascismo aveva unito in un insieme tutto ciò contro cui dovevo lottare per profonda convinzione, e non per caso, per un un male che mi avesse fatto, per un'avversione o invidia verso persone, o perché avessi trovato in casa o presso maestri autorevoli un impulso antifascista. Nulla di questo ebbi, ed anche perciò ad un'attiva opposizione con propaganda non passai che lentamente e dopo circa un decennio.
Posso assicurare i giovani di oggi che il mio rifiuto fu dopo aver sentito le premesse del fascismo proprio nell'animo adolescente, e dopo averle consumate; sicché i fascisti mi apparvero dei ritardatari. Ero arrivato al punto in cui non potevo accettare:
1, il nazionalismo che esasperava un riferimento nazionale e guerriero a tutti i valori, proprio quando ero convinto che la guerra avrebbe indebolito l'Europa, e che la nazione dovesse trovare precisi nessi con le altre;
2, l'imperialismo colonialistico, che, oltre a portare l'Italia fuori dalla sua influenza in Europa, nei Balcani e a freno della Germania, era un metodo arretrato, per la fine del colonialismo nel mondo;
3, il centralismo assolutistico e burocratico con quel far discendere tutto dall'alto (per giunta corrotto), mentre io ero decentralista, regionalista, per l'educazione democratica di tutti all'amministrazione e al controllo;
4, il totalitarismo, con la soppressione di ogni apporto di idee e di correnti diverse, si che quando parlavo ai giovanissimi della vecchia possibilità di scegliersi a vent'anni un partito, che aveva sue sedi e sua stampa, sembrava che parlassi di un sogno, di un regno felice sconosciuto;
5, il prepotere poliziesco, per cui uno doveva sempre temere parlando ad alta voce, conversando con ignoti, scrivendo una lettera, facendo un telefonata;
6, quel gusto dannunziano e quell'esaltazione della violenza, del manganello come argomento, dello spaccare le teste, del pugnale, delle bombe a mano, e, infine, l'orribile persecuzione contro gli ebrei;
7, quel finto rivoluzionarismo attivista e irrazionale sopra un sostanziale conservatorismo, difesa dei proprietari, di ciò che era vecchio e perfino anteriore alla rivoluzione francese;
8, quell'alleanza con il conservatorismo della chiesa, della parrocchia, delle gerarchie ecclesiastiche, prendendo della religione i riti e il lato reazionario, affratellandosi con i gesuiti, perseguitando gli ex-sacerdoti;
9, quel corporativismo con una insostenibile parità tra capitale e lavoro che si risolveva in una prigione per moltitudini lavoratrici alla mercé dei padroni in gambali ed orbace;
10, quel rilievo forzato e malsano di un solo tipo di cultura e di educazione, quella fascista, e il traviamento degli adolescenti, mentre ero convinto che della libera produzione e circolazione delle varie forme di cultura una società nazionale ha bisogno come del pane;
11, quell'ostentazione di Littoria e altre poche cose fatte, dilapilando immensi capitali, invece di affrontare il rinnovamento del Mezzogiorno e delle Isole;
12, l'onnipotenza di un uomo, di cui era facile vedere quotidianameute la grossolanità, la mutevolezza, l'egotismo, l'iniziativa brigantesca, la leggerezza nell'affrontare cose serie, gli errori e la irragionevolezza impersuadibile, mentre ero convinto che il governo di un paese deve il più possibile lasciare operare le altre forze e trarne consigli e collaborazione, ed essere anonimo, grigio anche, perché lo splendore stia nei valori puri della libertà, della giustizia, dell'onestà, della produzione culturale e religiosa, non nelle persone, che in uniforme o no, nel governo o a capo dello Stato, sono semplicemente al servizio di quei valori.
Perciò il fascismo, nel problema dell'Italia di educarsi a popolo onesto, libero, competente, corretto, collaborante, mi parve un potenziamento del peggio e del fondo della nostra storia infelice, una malattia latente nell'organismo e venuta fuori, l'ostacolo che doveva, per il bene comune, essere rimosso, non in un modo semplicemente materiale, ma prendendo precisa e attiva coscienza delle ragioni per cui era sbagliato, e trasformando in questo lavoro sé e persuadendo gli altri italiani.

mercoledì 17 ottobre 2012

"Quando parlano" di Titos Patrikios


Quando parlano nei bar
di amore, libertà e simili,
come dir loro dell'amore in rovina
che resiste anche all'isolamento,
della giustizia che si crea nel caos
di mille offese e violazioni,
come dir loro della libertà che si conquista solo
dal fondo di prigioni soffocanti
che ingabbiano ogni ora della nostra vita…

lunedì 15 ottobre 2012

"Alternativa episodica del poeta" di Grace Paley


Stavo per scrivere una poesia
invece ho fatto una torta ci è voluto
più o meno lo stesso tempo
chiaro la torta era una stesura
definitiva una poesia avrebbe avuto
un po' di strada da fare giorni e settimane e
parecchi fogli stropicciati

la torta aveva già una sua piccola
platea ciarlante che ruzzolava tra
camioncini e un'autopompa sul
pavimento della cucina

questa torta piacerà a tutti
avrà dentro mele e mirtilli rossi
albicocche secche tanti amici
diranno ma perché diavolo
ne hai fatta una sola

questo non succede con le poesie

a causa di una inesprimibile
tristezza ho deciso di
dedicare la mattinata a un pubblico
ricettivo non voglio
aspettare una settimana un anno una
generazione che si presenti il
consumatore giusto

domenica 14 ottobre 2012

Considerazioni libere (312): a proposito di una storia complicata...

Chi legge con una qualche regolarità questo blog sa che spesso provo a capire quello che succede ai nostri giorni  attraverso quello che è successo negli anni passati e chi mi segue su Twitter e su Facebook sa anche che ho una discreta attenzione, a volte un po' maniacale, per gli anniversari, specialmente quelli che altrimenti sfuggirebbero alle celebrazioni correnti. E comunque sulla scelta degli anniversari da ricordare rivendico la mia faziosità politica e le mie passioni letterarie e artistiche. Questa settimana ho volutamente evitato di menzionare un anniversario di cui si è molto parlato, spesso in maniera piuttosto banale a dire la verità: l'11 ottobre 1962 - cinquant'anni fa - si apriva il Concilio Vaticano II. Giornali e televisioni si sono ampiamente diffusi a parlare del celeberrimo "discorso alla luna" di Giovanni XXIII, trascurando il ben più significativo discorso di apertura del concilio in cui il papa tracciava il senso di quell'appuntamento destinato a cambiare la chiesa: naturalmente per i pigri giornalisti italiani era molto più semplice ripetere le frasi fatte attorno alla "carezza del papa". Comunque di questo non voglio occuparmi - meglio dovrei dire non posso - perché da persona che guarda dal di fuori, partendo da una posizione di radicale agnosticismo, mi è impossibile prendere posizioni su temi che non conosco, come ad esempio quanto ancora ci sia da sviluppare di quello che è stato scritto nei documenti conciliari: lascio ad altri il tema, ansioso di capire meglio.
Mi interessa invece un altro aspetto. Tra le altre cose dette in questi giorni, si è ripetuto spesso che si apriva allora un periodo di speranza di pace, di cui erano protagonisti, insieme al papa della Pacem in terris, il presidente degli Stati Uniti Kennedy e il segretario del Pcus Krusciov. Effettivamente questa tesi non è solo frutto della pigrizia dei giornalisti, ma è un tema ricorrente nelle storiografia e condiviso nella memoria storica diffusa: però è anche un mito che ci siamo costruiti in questi cinquant'anni. Certo Kennedy e Krusciov ebbero la capacità e la forza di fermare la guerra che stava per scoppiare a causa della crisi dei missili di Cuba - a proposito proprio il 14 ottobre 1962 un U2 statunitense riuscì ad avere la prova fotografica della costruzione di una postazione per gli SS-4 sovietici nell'isola caraibica - ma, per onestà di resoconto, bisogna dire che furono proprio quei due leader a spingere i loro paesi a un passo dalla guerra nucleare. Perché la storia è sempre molto più complessa di come siamo tentati a volte di semplificarla. Il merito storico di Krusciov di aver condotto l'Unione Sovietica fuori dagli anni della dittatura di Stalin non può cancellare il fatto che fu lo stesso Krusciov a volere la costruzione del Muro di Berlino e che, appunto, portò il suo paese e il mondo a un passo dalla guerra, a causa della decisione di installare batterie di missili a Cuba. Allo stesso modo, il mito di Kennedy e la tragedia della sua morte non possono farci dimenticare la sua durezza in questa vicenda e il fatto che fu quell'amato presidente a far cominciare la guerra in Vietnam. Sarebbe stato necessario "Tricky Dick" Nixon a chiudere quel conflitto. Forse ci sarebbe piaciuto di più che Nixon l'avesse cominciata e Kennedy finita, ma non è così.
Faccio questa "considerazione" perché troppo spesso siamo abituati a dare giudizi netti - io lo faccio spesso anche qui - e facciamo fatica a inquadrare le vicende in un quadro più complesso. A sentire le voci che arrivano da L'Avana e da Miami - e comunque tenendo conto delle leggi di natura - tra non molto tempo ci divideremo sul giudizio da dare al defunto Fidel Castro. Per alcuni sarà soltanto il dittatore che ha costretto Cuba a un duro regime comunista, per altri il campione della lotta contro le dittature fasciste dell'America latina. Mentre è stato l'uno e l'altro. Qualcosa di simile sta avvenendo sul giudizio in merito alla decisione di assegnare il Nobel per la pace all'Unione europea. Io da subito mi sono iscritto tra coloro che ha guardato con scetticismo a questa decisione, che francamente mi è parsa poco opportuna proprio quando abbiamo ricordato - in pochi purtroppo - che vent'anni fa è cominciato nel cuore dell'Europa, e anche per responsabilità dirette e indirette della Comunità europea, il più lungo assedio nella storia bellica moderna, quello di Sarajevo, che sarebbe finito quasi quattro anni dopo. Certo gli anniversari possono essere tirati dalla parte che si vuole, perché c'è quasi sempre un anniversario adatto e quest'anno è il cinquantesimo anniversario del discorso che De Gaulle rivolse in tedesco ai giovani tedeschi a Ludwigsburg. Il conflitto tra Francia e Germania è stato il motivo dominante della storia europea dalla metà dell'Ottocento fino al 1945 e certamente il fatto che da allora questi due paesi non si combattano più e anzi abbiano instaurato un sistema di cooperazione istituzionale è un segnale importante, tale da meritare il Nobel. Naturalmente sarebbe anche necessario dire che il conflitto tra quei due paesi è cessato, perché dopo il 1945 il mondo è radicalmente cambiato e l'Europa è diventata impotente di fronte al crescere delle due nuove superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. In fondo sono stati questi due paesi a garantire i sessant'anni di pace che celebra oggi il Nobel. E forse ci sarebbero anche altre ragioni per giustificare questo premio: la fine del lungo conflitto tra cattolici e protestanti nell'Irlanda del nord e la fine del terrorismo separatista in Spagna. E anche la capacità con cui la cosiddetta Europa occidentale, spinta soprattutto dalla Germania che aveva un interesse diretto, ha saputo rispondere alla fine dei regimi comunisti nella cosiddetta Europa orientale; anche se l'allora Comunità Europea non ha svolto nessun ruolo positivo nel contribuire alla caduta di quei regimi, ha semplicemente reagito, e anche con qualche ritardo, a fenomeni storici che avvenivano oltrecortina.
C'è spesso un disegno politico, più o meno esplicito, che sta dietro le assegnazioni dei Nobel per la pace, a volte tali disegni si possono condividere, altri no. Io ho condiviso - e molto - le scelte degli ultimi due anni: Liu Xiaobo nel 2010, Ellen Johnson Sirleaf, Tawakkul Karman e Leymah Gbowee nel 2011. Mi pare che l'idea che sta dietro la decisione di quest'anno sia quella di "giustificare" il ruolo che l'Europa sta giocando nella sovranità di alcuni paesi, la Grecia soprattutto, e poi gli altri dell'area mediterranea, tra cui naturalmente l'Italia. Temo però ci sia una confusione: il commissariamento diretto della Grecia e indiretto dell'Italia non ha come protagonista l'Unione Europea, ma la Bce e, se mi permettete, c'è una bella differenza. Per questo, per quel poco che vale la mia opinione, io non sono soddisfatto di questo premio, perché serve a mascherare, con una retorica dai toni suadenti e per molti aspetti condivisibili, una storia che porterà alla fine del sogno europeista che è stato alla base della nascita delle istituzioni europee che sono diventate sempre più in questi ultimi anni gusci vuoti. Può sembrare un paradosso, ma proprio chi crede nell'Europa oggi temo senta sempre più come propria avversaria questa Europa, che altro non è che il mascheramento di una tecnocrazia  con un preciso disegno antidemocratico e iperliberista, ma di questo ho già parlato.
Ultima notazione: suona stridente - almeno per me lo è - che questa celebrazione dell'Europa avvenga proprio nel momento in cui in Grecia, un paese che per molte ragioni è lo specchio della storia migliore e peggiore di questo continente, rinasca e si stia facendo sempre più forte, più baldanzoso, più sfrontato, un movimento di tipo fascista, un fenomeno assolutamente di origine e di cultura europea, per stroncare il quale alcuni europei lungimiranti avevano immaginato sessant'anni fa gli Stati Uniti d'Europa.

mercoledì 10 ottobre 2012

"Alfabeto apocalittico" di Edoardo Sanguineti


anime amiche all'aspro astro afroditico,
abnepoti dell'albero adamitico,
audite le mie antifone acide & ascetiche,
anche di angui & di anguille arcialfabetiche:
apro abissi di aleppi apocalittiche,
ansimo ansie di angosce & di asme asfittiche:
adattatemi auricole atte & attente,
annunzio un acre, acerrimo accidente:

balza bolsa la bestia babilonica,
brutto bruco di bubbola bubbonica:
blocca le bocche alle bambe bambine,
bruca le brume & brivida le brine:
butta alla bionda più brutta la bava,
borra di burro alla bruna più brava:
belva balzana non beve alla briglia,
bocca baciata non buca bottiglia:

cascato è il cavo cielo & la cometa
cresta è di cotte croste & cruda creta:
celibe è il cosmo, in chiara crisi cronica:
crocida il corvo, cuculia il cuculo,
chiucchiurla il chiurlo & crepita col culo:
cecato mi è il colòn, cacato ho il cazzo,
chiudi 'sta cantilena, can cagnazzo:

destri dragoni & dubbie dragamine,
dinosaure dentute & discoline,
dromedari disfatti & dirigibili,
deltaplani detersi & detersibili,
dracule & dipse domestiche & drastiche,
diabolikke dementi & dee dinastiche,
date in dono, al dolente che declama,
dotti detti a dirotto, & alla sua dama:

ecco, tra edera edace & tra erba eterna,
epitaffio epocale in erma esterna,
epigramma epitomico epiterrenico,
epilogo essenziale epifonemico:
ecco, in endice, effabile empiria,
& l'empio empireo in enciclopedia:
ecco epitòsi, in estasi emotiva,
ecco ecatombe effimera & eccessiva:

frutto freudiano freme fra le fronde,
frigido fuoco flotta dalle fionde:
flebile fata flabella il fanale,
fluvido footing fa il fiato finale:
fallico folle fallisce le fiche,
formichiere non forma le formiche:
fato fasullo fischietta in falsetto,
fragile firma ferma 'sto foglietto:

giocate al giuoco mio, grassi giganti,
giratemi il mio gozzo, con i guanti:
gigantesse, godete al mio godere,
grosso è il gallo se gramo il giocoliere:
grande ghianda mi è il glande con la gomma,
gratto le grotte, gratterò la gromma:
generali & gendarmi, gente giusta,
giunto è già il giorno, & chi lo gusta, gusta:

humano è all'homo habere & non haberi,
hoc est humano, est hodie & erat heri:
homo est humo, che humano è humilmente,
hapax est homo, humano humamente:
habito di humo, ci è l'homo habillé,
humo è hotel di homo, di hoc home habitué:
habe humo l'home, in humo handiccapato,
habitat gli è humo, & da humo è habitato:

informi & inferme in imo inferno ingabbiansi,
isole ispide & isteriche, & insabbiansi:
istrici irte & ispirate a me impromettono
ipodermiche ipnosi, & in me le immettono:
invecchio, inverecondo indemoniente
indemoniato, invasato invadente:
intimo & insinuo le ire, io, l'idrostiatico
idrovoro ieratico & ipostatico:

lemme lemme, la luna lenta lenta
lecca me, lappa te, la lutulenta:
le lonze, le leone, le lupesse
limano lingue di licantropesse:
lancia la lancia, lussuria loschissima,
lenza di lombi, lama labilissima:
libera nos, lucina limacciosa,
lasciva mia lucerna licenziosa:

mira le mura che murò, mafiosa,
Manto, tra mota & motriglia melmosa:
molti mattoni & malta molta mosse,
mutando sé in mastice & sé in molosse:
mostri, a me in mostra, mutoli, mostrate
mille, & poi mille no, medievalate:
mia morte morta, magra monacella,
me mola & mordi, & maciulla, & macella:

nato mi è un nuovo naso tra le natiche,
nodo di nude nottole neomatiche:
nidi di nervi & natte naturali
negano nevi a notti di natali:
naviga, nostra nave, in nostalgia,
necrosi è nebbia, & nafta è nevralgia:
nuota il nonsenso tra il nonsì & il nonsò,
nero su nero, & niente, & nulla, & no:

ottimo è l'orco, ma l'orbo è ottimissimo
orario di oratorio è organicissimo:
omeri occhiuti, occhi orecchiuti, ossami,
ospedaliche ortiche, optate ortami:
ohimè l'ostrica, omega ottagonale,
ohimè l'oppio, che è orrore originale,
ohimè l'odore ottuso dell'orina,
ohimè l'obesa ombrella, ombra di ombrina:

pisciano a pioggia piovre & pipistrelli,
pace promulgo a paggi & a pazzarelli:
pace proclamo, perché porto pena,
porto palpebre & pinne di polena:
poppano i porci pozzi & pescicani,
piegano i ponti porri & pellicani:
poesia prosaica, pratica permessa,
penna mi sei, sei piuma, & pia promessa:

quando qualunque quiete è quattiduana,
quadro quadrato è di quinta di quintana:
qualche quartetto, qua, di quadragesima,
quadruplica in quadrivo la quaresima:
quiproquo quadrisillabo è quinario,
quarta è la quercia in questo quaternario:
qualfica quartana i questurini,
quietista va in quiescienza con quattrini:

rugge rachitico il rospo ruspante,
rovescia il rodomonte rampicante:
ruscella raffi a raffiche il rétro,
ruderi di rubini rococò:
rinasceranno, rinculando, i re,
rispolverando, rigidi, il rapé:
ruvida roccia di ricci rossicci
rompe rogne di ragni in raccapricci:

satana, scamiciato scacciasanti,
setticemizza i sessi serpeggianti:
seduce il selenita sifilitico,
sitofobo sgorbioso & superstitico:
smembra lo smemorato in subappalto,
subcosciente in simbiosi & in sozzo salto:
scampana gli strabismi sputacchieri,
scalmana sismi & spade di sparvieri:

tutto il tartareo trono è tuoni & trombe,
toccheggiano & tocsinano le tombe:
tintinnano, tra i tonfi, le teorie,
tremano le tremende tricromie:
tiroidite ti tiene con trombosi,
tricosi & tifo con tubercolosi:
ti trottano le tenie, & i tic, & i trac,
traumi & tumori, è il tempo del tuo tac:

udite l'urlo di ùpupe ululanti,
udite le umide ugole uggiolanti:
ussari, ussiti, uscocchi, unni & ulani
usano l'urbe, & urbanano gli umani:
usatto di urticante urta ulceroso,
usbergo di uniforme urge uteroso:
uragana l'urango universale,
uncina l'unigenito ufficiale:

voi che vegliate al vento dei miei versi,
vulvacce vispe, vergini a vedersi,
vulgivaghe, vassalle, vampiresse,
viri vani, veroniche, vanesse,
vite di vespa, vegliarde vistose,
vati vibranti, vedove vogliose,
vip voronovizzati in veli & in voti,
venite ai vermi dei vulcani vuoti:

zinne & zanne di zanni in zanzariera,
zingare con zigani in zuccheriera,
zecche di zecca e zane di zerbini,
zanfate di zolfare in zatterini,
zebre alla zuava, a zimarre a zucchetti,
zighe zaghe di zuffi con zibetti:
zuppo di zeta è il zozzo zibaldone,
zampilla zuppa di zuzzurellone:

martedì 9 ottobre 2012

"L'intuizione dell'austerità" di Alexander Langer

Capita, di questi tempi, di sentir citare il richiamo berlingueriano del 1977 all'austerità… con un sospiro nostalgico. Dove si mescola la nostalgia verso Enrico Berlinguer a quella per il messaggio in favore di uno stile di vita più modesto, meno spendaccione, e di una vita più ardua, fatta anche di sacrificio, di rinuncia, persino di fatica e di noia (Berlinguer lo diceva a proposito dello studio).L'"intuizione dell'austerià", come viene qualche volta chiamata, la si evoca con sottolineature morali, ma anche come riferimento ad un diverso tenore di vita, ricco di implicazioni economiche e persino ecologiche.
Se Berlinguer, a suo tempo, non è riuscito a sfondare con il suo discorso sull'austerità, ciò è dovuto - a mio parere - ad una fondamentale ambiguità: era (e resta) difficile capire se l'allora segretario del Pci, pur così ricco di connotazioni etiche, intendesse sostanzialmente la stessa cosa che a quei tempi una larga parte del movimento sindacale (con Lama in testa) proclamava, o se si riferisse ad una diversa accezione di austerità. Nel primo caso era un "tirare la cinghia oggi per rilanciare la crescita domani", una politica dei due tempi che non metteva veramente in discussione l'obiettivo del "rilancio dell'economia", e che quindi esigeva uno sforzo di accumulazione per ripartire da una base più solida: meno consumi e più investimenti, meno soddisfazioni immediate e più risparmi, meno cicale e più formiche. Difficile entusiasmarsene, allora come oggi.
Una diversa e più profonda accezione di "austerità", che probabilmente era presente in Berlinguer, ma non realmente esplicitata a quel tempo, avrebbe significato qualcosa di non così facilmente riducibile alle esigenze politico-economiche dominanti di allora e di oggi. Vediamo dunque se il termine "austerità" può caratterizzare oggi uno stile di vita ed un'opzione sociale accettabile e persino desiderabile, o se invece si tratti sempre e di nuovo di un involucro mistificante per arrivare poi al solito dunque, quello di ricapitalizzare e di dare impulsi a quella che chiamano ripresa economica.
Ci sono alcune verità assai semplici da considerare: nel mondo industrializzato si produce troppo, si consuma troppo, si inquina troppo, si spreca troppa energia non rinnovabile, si lasciano troppi rifiuti non riassorbili senza ferite dalla natura, ci si sposta troppo, si costruisce troppo, si distrugge troppo. Naturalmente sappiamo bene che la distribuzione sociale di quei danni è inversamente proporzionale alla ricchezza: i ceti opulenti e benestanti esagerano più dei poveri, i quali hanno poco da sprecare perché mancano dei necessari presupposti economici. Ma essi non sono meno influenzati dalla cultura dominante, per cui aspirano - assai sovente - a diventare al più presto esattamente come i più ricchi, e trovano spesso insopportabile l'idea che la felicità non esiga l'automobile, il video-recorder e le vacanze a Madagascar.
Accettare oggi la positiva necessità di una contrazione di quel "troppo" e di una ragionevole e graduale decrescita, e rilanciare, di fronte alla gravissima crisi, un'idea positiva di austerità come stile di vita più compatibile con un benessere durevole e sostenibile, sarà possibile solo a patto che essa venga vissuta non come diminuzione, bensì come arricchimento di vitalità e di autodeterminazione. E ciò dipende, ovviamente, da tutto un intreccio di scelte personali e collettive, di condizioni culturali e sociali, di sinergie ed intese. Ma qualcuno dovrà pur cominciare, e indicare e vivere un privilegio diverso da quello della ricchezza e dei consumi: il privilegio di non dipendere troppo dalla dotazione materiale e finanziaria, il privilegio di preferire nella vita tutte le cose che non si possono comperare o vendere, il privilegio di usare con saggezza e parsimoniosità l'eredità comune a tutti, senza recinti e privatizzazioni indebite. L'austerità di una vita più frugale, meno riempita da merci-usa-e-getta, più ricca di doni, di servizi mutui e reciproci, di condivisioni e co-usi a titolo gratuito, di ricuperi e riciclaggi, di soddisfazioni senza prezzo.
Riabilitare e rendere desiderabile questo genere di austerità come possibile stile di vita, liberamente scelto e coltivato come ricchezza, comporterà una notevole rivoluzione culturale ed una cospicua riscoperta della dimensione comunitaria. Perché‚ con meno beni e meno denaro si può vivere bene solo se si può tornare a contare sull'aiuto gratuito degli altri, sull'uso in comune di tante opportunità, sulla fruizione della natura come bene comune, non riducibile a merce.
Tutto ciò non potrà essere proposto se lo si intendesse e lo si organizzasse come strada verso il rilancio del meccanismo perverso di accumulazione e crescita economica che ha generato l'inflazione selvaggia di natura, di piaceri e di valori che stiamo sperimentando: una "svalutazione" ben più grave di quella della lira (così come assai più grave appare il buco d'ozono rispetto al buco nelle finanze dello Stato) alla quale non si deve rispondere volendo "tornare nello Sme", cioè‚ riprendere al più presto possibile l'economia degli sprechi, del degrado, dello svuotamento dei valori.
L'austerità potrà invece essere vissuta con piacere e come miglioramento della qualità della vita, se ci farà dipendere meno dai soldi, da apparati, da beni e servizi acquistabili sul mercato, ed esigerà (anzi: permetterà) che ognuno ridiventi più interdipendente: sostenuto dagli altri, dalla qualità delle relazioni sociali ed interpersonali, dalle conoscenze ed abilità, dall'arte di adattarsi ed arrangiarsi, dalla capacita di ricercare e vivere soddisfazioni (individuali e collettive) non ottenibili con alcuna carta di credito, chiavi in mano, pronte ad essere passivamente consumate.
Può essere una grande occasione.

domenica 7 ottobre 2012

Considerazioni libere (311): a proposito di 20mila nostri concittadini...

Io non ho nessuna simpatia per Franco Fiorito, come non ho nessuna simpatia per quelli come lui, che vengono dal Movimento sociale, da Fini all'ultimo fascistello di provincia: che sia andato in carcere mi fa anche piacere. Detto questo, Fiorito non è un elemento di folclore, non è una Minetti o un Calearo o qualche altra delle invenzioni di una politica ormai sbandata. Fiorito è stato sindaco di Anagni, consigliere provinciale e per due volte è stato eletto in consiglio regionale, la seconda volta con quasi 27mila preferenze. Il problema non è Fiorito, ma le 27mila persone che, entrate nella cabina elettorale, hanno scritto sulla loro scheda il nome Fiorito; su questo credo bisognerebbe cominciare a riflettere. Mettiamoci pure una fetta di fascisti irriducibili, gente della sua risma, visto che Fiorito ha chiuso la sua esperienza come sindaco, facendo affiggere nel palazzo comunale due targhe: una per ricordare la marcia su Roma e una per celebrare la cittadinanza onoraria al duce. Questi però non arrivano a 27mila, con questi non si arriva in consiglio regionale. Diciamo che sono 7mila, teniamoci larghi: gli altri 20mila voti da dove arrivano? Provo a immaginare. Ci saranno certamente i suoi fornitori di generi alimentari: un cliente del genere, con un tale appetito, è meglio tenerselo caro e sperare che possa continuare ad avere uno stipendio adeguato alla sua atavica fame. Poi ci sono quelli che grazie a lui sono stati assunti in qualche azienda pubblica e quelli che da lui sono stati raccomandati per qualche prebenda; tra i 20mila immagino ci siano anche quelli che lui ha aiutato a trovare un posto all'ospedale o a cui ha reso meno lunga l'attesa per una tac. E poi ci sono quelli a cui ha permesso di costruire, saltando complicate pastoie burocratiche, dei condomini ad Anagni e anche quelli che in quelle case sono andati ad abitare. E non dimentichiamo quegli imprenditori che hanno potuto costruire i loro nuovi capannoni in aree vincolate, senza sottostare ai pareri delle varie autorità di controllo, e gli operai che hanno lavorato - e lavorano - in quelle fabbriche. Naturalmente devono essere aggiunti tutti i loro familiari, anch'essi in qualche modo beneficiati da Fiorito, e quelli che, votandolo, hanno sperato in un futuro beneficio. Penso che in questo modo ci avviciniamo ai 20mila "complici" di Fiorito. Chi ha lo ha votato sapeva benissimo per chi votava, e naturalmente quegli stessi elettori, vedendo un servizio sugli sprechi della "casta" in televisione, erano i primi a protestare, a lamentarsi, a dire che questo andazzo doveva cambiare. Lo stesso Fiorito - lo ha detto lui - era uno di quelli che vent'anni fa - era il 30 aprile del '93 - lanciava monetine contro Craxi davanti al Raphaël.
Fiorito per quei 20mila non era il pingue politico intrallazzatore e naif che ci presentano adesso i mezzi di informazione, ma un elemento fondamentale del welfare della provincia di Frosinone. E, per inciso, forse sarebbe utile rileggere anche qualche articolo o qualche intervista compiacente che quegli stessi organi di informazione adesso indignati fecero un tempo allo stesso Fiorito, quando era il potente e munifico capogruppo del Pdl alla regione Lazio. Naturalmente di Fiorito in Italia ce ne sono molti, moltissimi si trovano nel sud - ma non mancano anche nel nord, non pensiamo di esserne immuni - moltissimi sono nel centrodestra, ma purtroppo non mancano neppure nel centrosinistra. Anzi nel centrosinistra riescono anche a emergere di più, visto che il sistema delle primarie, in determinate circostanze, favorisce chi ha maggiori e più estese clientele; nel centrodestra, dove le primarie non ci sono, le bande nuove devono farsi spazio spodestando quelle vecchie e infatti il cosiddetto "caso Fiorito" è nato proprio così, per le lotte senza quartiere interne al Pdl; se avessero trovato un accordo, come era avvenuto negli anni passati, Renata Polverini sarebbe ancora la "podestà" del Lazio. Naturalmente nelle regioni in cui il controllo del territorio è in mano alle organizzazioni criminali, il condizionamento su chi deve o chi non deve essere votato è legato a queste particolari vicende, con tutto quello che questo significa.
Vedo che il "caso Fiorito" ha fatto nascere tutta una serie di proposte per limitare il finanziamento dei gruppi consiliari delle regioni, per ridurre gli stipendi e i relativi vitalizi ai consiglieri regionali, per diminuire il numero dei consiglieri. Tutte proposte sensate che arrivano in ritardo e che rimarranno lettera morta, come è avvenuto tutte le altre volte, quando si è annunciato che sarebbero stati tagliati i cosiddetti costi della politica, per placare una plebe che sembrava diventata insofferente. La questione però, come ho cercato di dire prima, non è limitata a Fiorito e a quelli come lui che scorrazzano nella nostra penisola, ma coinvolge le migliaia di persone - imprenditori, costruttori, faccendieri - che ci guadagnano molto con questi sistemi e i milioni di persone - temo che il numero sia molto alto - a cui questo sistema permette di campare, più o meno dignitosamente. Se per molti poter accedere alle strutture sanitarie pubbliche è una specie di lotteria è naturale rivolgersi a chi può risolvere, in qualche modo, questa situazione, se votare una persona piuttosto che un'altra significa avere una casa o un posto di lavoro è naturale che si voti uno, indipendentemente dalle proprie convinzioni. Si facciano pure le norme per limitare i costi della politica, ma fino a quando sarà questo lo stato di cose nel nostro paese si cercherà un modo, qualsiasi modo, per risolverlo, e quando lo si cerca alla fine lo si trova.

venerdì 5 ottobre 2012

Considerazioni libere (310): a proposito di storia delle primarie...

Credo di poter parlare di primarie con qualche cognizione di causa, diciamo come una "persona informata dei fatti", perché nel 2005 io c'ero. Quell'anno - era il 16 ottobre, per la precisione - il centrosinistra, che allora si chiamava Unione - e il nome suonò paradossale già poco tempo dopo - fece le prime, e finora uniche, elezioni primarie per scegliere il proprio candidato alle elezioni politiche che si sarebbero tenute la primavera successiva. Parteciparono Prodi, Bertinotti, Di Pietro, Mastella, Pecoraro Scanio, Scalfarotto - che è poi diventato Scalfarotto, facendo una resistibile carriera tra le seconde file del Pd - e Simona Panzini, una candidata no global, che per parecchio tempo non fece neppure vedere il proprio volto, per significare che chiunque del movimento poteva essere al suo posto. E comunque - a onor del vero - Panzini non era neppure la candidata più strana di quelle primarie. Al di là del folklore di molti dei candidati, quelle primarie furono un successo politico, parteciparono oltre 4 milioni di elettori, al di là delle previsioni che erano state fatte nelle segreterie dei partiti. Al di là dell'ironia, quelle primarie furono una manifestazione politica importante, riuscirono a mobilitare moltissime persone, furono un elemento decisivo per portare alla vittoria, seppur di misura, il centrosinistra alle politiche del 2006. Qualche regola c'era già allora, i seggi furono organizzati con un certo metodo e chi si presentava a votare doveva dichiarare la propria adesione al centrosinistra; purtroppo, visto che i partiti non si fidavano gli uni degli altri, quell'albo di elettori rimase sempre segreto, perché i Ds e la Margherita non volevano mettere a disposizione dei partiti più piccoli quel patrimonio di nomi e di indirizzi, che così nessuno utilizzò e quei nomi andarono purtroppo "persi"; così eravamo in quel tempo e naturalmente poco dopo la coalizione finì.
Comunque, per tornare alle primarie, la storia, come noto, non si fa con i se, ma probabilmente senza le primarie non saremmo riusciti a vincere. Quell'appuntamento servì al popolo del centrosinistra per sentirsi di nuovo unito, dopo la rottura dell'alleanza tra l'Ulivo e Rifondazione che portò alla caduta del primo governo Prodi nell'ottobre del '98 e diede speranza a tanti elettori che non ne potevano già più di B. e del sua accolita e speravano che ce ne saremmo liberati; mentre sarebbero tornati e forse torneranno, ma questa è un'altra storia. Le primarie quindi furono molte cose, ma certamente non furono il modo con cui il centrosinistra scelse il proprio candidato. Il candidato era già stato scelto, era Prodi, ne erano consapevoli e lo avevano scelto sia i partiti maggiori della coalizione sia i partiti minori che presentarono i loro candidati di bandiera. Purtroppo, ben presto, soprattutto per responsabilità dei prodiani - una setta iniziatica di devoti al loro capo e da lui beneficiati con prestigiosi incarichi di governo - si cominciò a costruire il mito delle primarie. I prodiani, con la perseveranza dei testimoni di Geova, hanno spiegato in ogni occasione che le primarie erano state un grande momento di democrazia partecipativa, in cui i cittadini avevano scelto il loro candidato. Come noto, le bugie, a forza di essere ripetute, diventano verità. E così è nato il mito delle primarie, che ha avviluppato e strozzato il dibattito politico all'interno del centrosinistra, ne ha condizionato le scelte, ha portato alla nascita stessa del Pd.
Come noto le primarie sono state poi variamente utilizzate. Per due volte sono state usate per eleggere il segretario del partito, e io facevo già un altro mestiere. A me questa è sempre parsa una bizzaria: in qualsiasi associazione sono i membri di quell'associazione a scegliere chi li deve rappresentare e non delegano questa funzione ad altri; il Pd invece fa così. Poi le primarie sono state usate per scegliere i candidati in alcune elezioni locali: in qualche caso chi ha vinto le primarie è stato il candidato giusto - il Pd milanese, sbagliando, non avrebbe mai candidato Pisapia (fece perfino la genialata di candidare Ferrante, pensate voi) - in altri casi chi ha vinto le primarie è stato un candidato inadatto, come Del Bono a Bologna - uno della setta prodiana, per inciso - in altri casi le primarie sono state un disastro, come a Palermo e a Napoli, in quest'ultima città il risultato è stato perfino "congelato", per carità di patria. E questo tra l'altro mette in luce cosa è diventata la politica in tanta parte d'Italia, anche nel campo del centrosinistra: un insieme di bande, di potentati, di clan, ma su questo tornerò nella prossima "considerazione", in cui voglio provare a ragionare un po' sul caso Fiorito.
Ho già detto che non parteciperò alle primarie e le ragioni sono tutte legate alla politica. Ma, visto che ormai le primarie sono inevitabili, perché sono nel mito fondante del Pd, capisco il timore di Bersani. Io sinceramente non lo auguro a quel partito, ma a questo punto i rischi sono molti di più dei vantaggi; alcune regole sono necessarie - lo dovrebbero capire anche i pasdaran di Renzi, se solo conoscessero un po' meglio il partito in cui sono - se vogliono evitare che la vicenda Napoli diventi un caso nazionale. Lo immaginate un partito dilaniato da ricorsi, da denunce di brogli, da risultati "ballerini"? Come potrebbe presentarsi alle elezioni, tanto più in un clima "antipolitico", come quello che c'è adesso, destinato a crescere in vista delle elezioni, perché i tecnici "vinceranno" tanto più facilmente quanto più saranno sconfitti i "politici". Comunque, buone primarie.

mercoledì 3 ottobre 2012

"Non vorrei crepare" di Boris Vian


Non vorrei crepare
prima di aver visto
i cani neri del Messico
che dormono senza sognare
le scimmie dal culo nudo
che divorano pistilli
i ragni d’argento
nei nidi pieni di bolle
non vorrei crepare
senza sapere se la luna
sotto la sua falsa faccia della medaglia
ha una parte a punta
se il sole è freddo
se le quattro stagioni
davvero sono solo quattro
senza aver provato
a portare una gonna
sui grandi boulevard
senza aver guardato
in un tombino della fogna
senza aver messo il pisello
in qualche angoletto bizzarro
non vorrei finire
senza conoscere la lebbra
o le sette malattie
che si beccano là sotto
il bene e il male
non mi darebbero pena
se se se sapessi
di avere la precedenza
e c’è anche
tutto quel che so
tutto quel che apprezzo
che so che mi piace
il fondo verde del mare
dove girano di valzer i fili delle alghe
sulla sabbia ondulata
la paglia in fumo di giugno
la terra che si screpola
l’odore delle conifere
e i baci di quella là
quella che qui che là
la bella che voilà
il mio Orsacchiotto, l’Ursulà
non vorrei crepare
prima di aver consumato
la sua bocca con la mia bocca
il suo corpo con le mie mani
il resto con i miei occhi
non dico altro si deve
avere un po’ di rispetto
non vorrei morire
senza che nessuno abbia inventato
le rose eterne
la giornata di due ore
il mare in montagna
la montagna al mare
la fine del dolore
i giornali a colori
tutti i bambini contenti
e ancora tanti trucchi
che dormono dentro i crani
dei geniali ingegneri
dei giardinieri gioviali
dei soci socialisti
degli urbani urbanisti
e dei pensierosi pensatori
tante cose da vedere
da vedere e da intendere
tanto tempo da attendere
a cercare dentro il nero

e io io vedo la fine
che si spiccia e arriva
con la sua gola mocciosa
e che mi apre le braccia
di rana sciancata

Non vorrei crepare
nossignore nossignora
prima d’aver assaggiato
il gusto che mi tormenta
il gusto che è il più forte

non vorrei crepare
prima d’aver gustato
il sapore della morte.