martedì 10 ottobre 2023

Verba volant (847): ruga...

Ruga
, sost. f.

Joseph Sweeney muore a New York il 25 novembre 1963. Ha già settantanove anni, ma continua a lavorare fino alla fine: proprio quell’anno recita in tre episodi della serie televisiva Car 54, Where Are You?, interpretando ogni volta un personaggio diverso, e in un episodio di Dr. Kildare. D’altra parte quando i registi hanno bisogno di un vecchio dall’aria sveglia pensano immediatamente a lui. Il suo volto solcato dalle rughe con i radi capelli bianchi è ormai diventato familiare per il pubblico televisivo. La fortuna di Joseph è stata la televisione, ma come tutti quelli della sua generazione - è nato a Philadelphia il 26 luglio 1884 - comincia la sua carriera a teatro.
Da ragazzo condivide il sogno di recitare con un suo amico, William, che ha solo quattro anni più di lui e vive al piano di sotto. Anche se i genitori di Joseph si lamentano di quel vicino perché si esercita di continuo a fare il giocoliere: non reggono più il rumore delle palline che cadono a terra, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Quel ragazzo nel 1894 lascia Philadelphia, lavora per un breve periodo in un teatro all’aperto a Plymouth Park e finalmente quattro anni dopo debutta nei locali di New York, dove si esibisce come giocoliere e comico con il nome di W.C. Fields. È una delle star delle Ziegfeld Follies e in pochi anni il suo naso rosso e le sue irriverenti battute diventeranno famose in tutta l’America. Nel 1935 ottiene la parte di Wilkins Micawber in una fortunata edizione cinematografica di David Copperfiled. Quel ragazzo che voleva diventare un giocoliere ce l’ha fatta, ma nel 1946 muore per una grave emorragia gastrica. E per ironia della sorte proprio il giorno di Natale, una festa spesso oggetto delle sue scandalose battute.
Joseph lascia Philly nel 1910 e arriva a New York. Dopo molte audizioni e qualche piccola parte negli spettacoli di vaudeville, finalmente debutta a Broadway e riesce a fare una bella carriera. Non è mai il protagonista, ma dal 1919 al 1939 recita in ben diciannove produzioni. Per lo più è il “cattivo”, un ruolo che, dopo qualche dubbio iniziale, comincia davvero a piacergli: “Mi sono accorto - dice in un’intervista del 1928 - che quando faccio il cattivo il pubblico mi ascolta quando parlo”.
Alla fine degli anni Trenta, quando le possibilità per lui a teatro cominciano a diminuire, tenta, come tanti suoi colleghi, la strada di Hollywood. È un maggiordomo in Scandalo a Philadelphia, il grande successo del 1940 con Katharine Hepburn, Cary Grant e James Stewart, anche se non è accreditato nei titoli. Sono anni difficili, non ci sono parti per lui, sembra che il sogno di Joseph sia destinato a frantumarsi, ma per fortuna alla fine degli Quaranta arriva la televisione. Joseph ha già sessantacinque anni e i capelli bianchi: comincia a interpretare la parte del nonno, del vecchio testimone, dell’anziano droghiere e così via. Ha salvato la pensione, non sarà costretto a tornare con la coda tra le gambe a Philadelphia, anche se la sua carriera sembra ormai arrivata al capolinea, destinata a spegnersi lentamente, tra una puntata e l’altra di qualche telefilm.
Poi arrivano gli anni Cinquanta e in maniera assolutamente imprevedibile Joseph si trova a recitare in due lavori che segnano una delle migliori stagioni dello spettacolo degli Stati Uniti, in un momento in cui Broadway e Hollywood cercano di resistere agli attacchi della “caccia alle streghe”.

Il 22 gennaio 1953 debutta al Martin Beck Theatre il nuovo dramma scritto da Arthur Miller. C’è una grande attesa tra il pubblico e gli addetti ai lavori, visto il successo di Erano tutti miei figli del 1957 e soprattutto di Morte di un commesso viaggiatore del 1949. Sono gli anni più duri del maccartismo e nell’aprile del 1952 Miller si trasferisce alcune settimane a Salem, nel Massachussetts, per studiare i documenti conservati nell’archivio della città relativi ai processi svolti tra il 1692 e il 1693 che avevano portato all’impiccagione di diciannove persone accusate di stregoneria e all’uccisione per schiacciamento di un ventesimo imputato che si era rifiutato di testimoniare.
Agli spettatori del Martin Beck Theatre è ben chiaro che Miller quando descrive il fanatismo che porta i “bravi” cittadini di Salem a uccidere tante persone con false accuse di stregoneria racconta l’America dei suoi tempi, in cui alcuni, per aumentare il proprio potere, sfruttando una furia irrazionale contro il pericolo comunista, alimentano paura e fanatismo. Si cercano dei colpevoli e, quando non si trovano, si inventano, piegando i meccanismi della giustizia ai propri interessi. Sottoposti a tortura, praticamente tutti gli imputati dei processi di Salem confessano di praticare la stregoneria, pur di fermare quei terribili supplizi. Come le persone condotte davanti alla Commissione per le attività antiamericane finiscono per confessare e denunciare altre persone sotto la pressione di minacce e durissimi condizionamenti psicologici.
Durante i processi di Salem il contadino Giles Corey è l’unico che si rifiuta di testimoniare al processo. Per tre giorni viene tenuto nudo in una fossa, sopra di lui vengono sistemati un’asse di legno e, uno dopo l’altro, massi sempre più pesanti, sperando che ceda e confessi. Ma Giles resiste, quando il giudice gli chiede se vuole confessare, lui si limita a sibilare: “Peso”. Finché quei sassi non gli provocano lo scoppio del torace.
I critici dei quotidiani più importanti di New York e molti degli spettatori non apprezzano quella decisa presa di posizione politica di Miller, che mette l’America sul banco degli imputati. Ma The Crucible - in italiano Il crogiolo, Luchino Visconti lo traduce e lo mette in scena in Italia appena due anni dopo - pur rimanendo in cartellone solo per centonovantasette repliche, diventa una bandiera per l’America che resiste. L’anno successivo ottiene il Tony come miglior opera in prosa.
A interpretare il vecchio Giles Corey viene richiamato proprio Joseph Sweeney. Si tratta di una piccola parte, ma è quella che consacra la sua carriera a Broadway.

Nel 1954 per la settima stagione della fortunata serie antologica Westinghouse Studio One della CBS lo sceneggiatore Reginald Rose decide di scrivere un dramma ambientato nella stanza di un tribunale di New York, la seduta in cui dodici giurati vengono chiamati a decidere il verdetto in un caso di omicidio. Sembra un caso facile: le prove e le testimonianze oculari sono tutte lì a confermare che quel ragazzo abbia ucciso suo padre. Probabilmente basteranno solo pochi minuti alla giuria per deliberare. Si fa un primo giro di votazioni: undici giurati votano per la colpevolezza, solo il giurato n. 8 è contrario e chiede di esaminare ancora le prove. Comincia una discussione estenuante, durante la quale emergono le differenze tra quei dodici giurati, apparentemente un blocco monolitico di maschi bianchi. E vengono fuori anche pregiudizi e drammi: alla fine quelle prove che sembravano così solide si rivelano inconsistenti. Incriminare il figlio è stata la soluzione più semplice, legata a idee preconcette da parte degli inquirenti. Nell’ultima votazione il verdetto è finalmente unanime: dodici “non colpevole”.
Anche Twelve Angry Men - come The Crucible - è un testo che prende posizione, che invita gli spettatori a riflettere sui pericoli che corre la società quando la paura e il pregiudizio hanno la meglio sul buon senso. E sui pericoli di un sistema giudiziario apparentemente equo, in cui se sei povero, immigrato e fai parte di una minoranza rischi la vita, perché non ti giudicherà una giuria di tuoi “pari”.
Lo spettacolo va in scena negli studi della CBS di New York il 20 settembre 1954 e trasmesso in diretta sulla costa orientale, mentre viene registrato in cinescopio per essere ritrasmesso sulla costa occidentale. La regia è affidata a Franklin J. Schaffner, che nel 1971 vincerà l’Oscar per Patton e avrà un grande successo con Papillon e I ragazzi venuti dal Brasile. Nel cast il nome più noto è quello di Robert Cummings nel ruolo del giurato n. 8; Cummings è inizialmente noto per i suoi ruoli nelle commedie brillanti, anche se Alfred Hitchcock lo fa diventare un attore drammatico.
La trasmissione è un successo: vincono l’Emmy Rose, Schaffner e Cummings.
Il giurato n. 9 è il più vecchio tra i componenti della giuria, giudicato con sufficienza dai più giovani giurati. Ma è lui che, inaspettatamente vota “non colpevole” durante la seconda votazione, permettendo di rimettere tutto in discussione. Serve un attore di esperienza e Joseph Sweeney ha la faccia giusta per il ruolo.
Tre anni dopo Henry Fonda decide di portare quel testo sul grande schermo. Non è solo uno degli attori più popolari di Hollywood, è anche un convinto sostenitore dei diritti civili e quel testo gli sembra perfetto. Coinvolge da subito Reginald Rose e i due decidono di produrre il film. Chiamano a dirigere il film l’esordiente Sidney Lumet, un giovane regista che fino a quel momento ha lavorato solo in televisione, tra l’altro in alcuni drammi della serie Studio One.
Fonda riesce a convincere altri grandi nomi a partecipare a quell’impresa. Il giurato n. 3 è Lee J. Cobb, che è stato il protagonista a teatro di Morte di un commesso viaggiatore. Cobb ha conosciuto bene la “caccia alle streghe”: accusato di essere un membro del Partito comunista, resiste due anni senza fare nomi davanti alla Commissione, poi, come altri, non riuscendo più a lavorare, cede e viene costretto a denunciare altri suoi compagni. E.G. Marshall è il giurato n. 4, nel 1953 è il protagonista del dramma di Miller, nel ruolo del reverendo Hale. E poi ci sono Jack Warden, Martin Balsam, Ed Begley.
Del cast della produzione televisiva vengono chiamati George Voskovec, il giurato n. 11, il cortese orologiaio che viene dall’Europa e che mostra una forse eccessiva ammirazione per il sistema giudiziario americano, e naturalmente Joseph. E la sua interpretazione non sfigura tra quei giganti del cinema. Joseph è semplicemente perfetto e quel ruolo è destinato a consegnarlo nella storia del cinema. Meritatamente.

lunedì 25 settembre 2023

Verba volant (846): nano...

Nano
, sost. m.

Forse qualcuno, prima o poi, farà un film sulla vita del giovane Joseph Henry Rosenberg. Nasce in un villaggio dell’Ungheria nel 1881 da una famiglia di origini ebraiche. Quando ha sei anni i suoi genitori emigrano negli Stati Uniti e si stabiliscono a Cleveland. Joseph è uno studente brillante e nel 1903 si laurea in ingegneria a Yale. Il giovane ingegnere si trasferisce in Messico dove lavora per un’azienda che sta costruendo una ferrovia. Quando questa fallisce Joseph si trasferisce in Arizona e lavora nel settore del legname. Sente che in Nevada stanno cercando degli ingegneri per le miniere d’oro. Prende un cavallo e viaggia da solo attraverso il West, per due settimane, fino a Goldfield in Nevada: una tribù indiana gli fa guadare in maniera piuttosto avventurosa il fiume Colorado. Ma non è destino che faccia l’ingegnere. Nel 1910 viene assunto dalla Arizona Central Bank: serve un tecnico per capire se la banca può permettersi di prestare soldi a quegli avventurieri. Sedici anni dopo si trasferisce a Los Angeles per lavorare nel settore prestiti della Los Angeles Merchants Bank e quando questa viene assorbita dalla Bank of America, Joseph ne diventa vicepresidente.
Negli anni Trenta le banche pensano sia un rischio troppo alto fare prestiti a quei matti che fanno il cinematografo. Rosenberg non è d’accordo e convince gli azionisti a investire in questo nuovo settore e così questo ingegnere nato nella vecchia Europa, al tempo di Francesco Giuseppe, diventa uno degli uomini più potenti di Hollywood: tocca a lui, e solo a lui, approvare i prestiti necessari ai produttori per realizzare un film.
Nel 1936 Walt Disney ha già speso 1,25 milioni di dollari per realizzare Biancaneve e i sette nani. A Hollywood tutti pensano che fallirà, chiamano quel progetto “Disney’s Folly”. Suo fratello Roy è preoccupato: il sogno di Walt di realizzare il primo film a cartoni animati della storia rischia di far fallire il loro studio. E anche sua moglie Lillian non sa cosa pensare quando Walt le chiede di mettere un’ipoteca sulla loro casa per ottenere ancora un po’ di soldi. Hanno bisogno di 250mila dollari per finire il lavoro e solo Rosenberg glieli può dare. Viene organizzata una proiezione con quello che è pronto. L’austero banchiere ebreo, che non è sposato e non ha figli, che sembra vivere solo per gli affari, rimane impassibile per tutto il film. Disney è tesissimo. Alla fine Rosenberg si alza e, senza un sorriso, dice: “Walt, questa cosa farà un sacco di soldi”. Il prestito è approvato: è così che Joseph Rosenberge ha salvato Biancaneve.

All’inizio degli anni Trenta Walt Disney - nato a Chicago nel 1901 - è già famoso: ha creato Mickey Mouse e i suoi cartoni, intitolati Silly Symphony, sono distribuiti nei cinema di tutto il mondo. Ma Walt ha l’ambizione di fare qualcosa di più, dei veri e propri lungometraggi a cartoni animati, con trame complesse e personaggi sviluppati. Nel 1933 Mary Pickford gli propone il progetto di adattare per lo schermo Alice’s Adventures in Wonderland. Walt ha cominciato a Kansas City proprio con Alice, con dei brevi cartoni animati in cui una bambina in carne e ossa che interpreta il personaggio creato da Lewis Carroll interagisce con personaggi animati. La quarantenne attrice canadese, con i suoi riccioli biondi, sogna di essere Alice: potrebbe essere un progetto vantaggioso per entrambi. Ma proprio quell’anno la Paramount esce nelle sale con Alice in Wonderland, in cui sono impegnati tutti i suoi migliori attori, tra cui i giovani Cary Grant e Gary Cooper.
Walt pensa a una versione a cartoni animati di Rip van Winkle, il classico di Washington Irving: potrebbe essere un live action con il popolarissimo Will Rogers nel ruolo del protagonista. Ma anche in questo caso la Paramount ha già acquisito i diritti. Walt pensa che potrebbe funzionare una versione a cartoni animati dell’operetta di Victor Herber Babes in Toyland, ma arriva prima Hal Roach che nel 1934 realizza un film con Stan Laurel e Oliver Hardy, e la giovane Charlotte Henry, che l’anno prima è stata Alice nel film della Paramount.
A questo punto Walt decide che il suo primo film a cartoni animati, tutto a cartoni animati, sarà dedicato a Biancaneve. Aveva quindici anni e vendeva i giornali per strada quando è uscito il film con Marguerite Clark, lo ha visto in un cinema di Kansas City. Nel giugno del 1934 annuncia in un’intervista al New York Times che, vent’anni dopo quel mitico film, farà il suo Biancaneve, un film destinato a entrare nella storia.
Nell’agosto del 1934 Walt affida allo sceneggiatore Richard Creedon - nato anche lui a Chicago, ma cinque anni prima di Disney - l’incarico di preparare una prima bozza di soggetto su cui lavorare, suggerendogli di valorizzare, molto di più che nella fiaba dei Grimm e nella sceneggiatura di Winthrop Ames, i personaggi dei sette nani, che dovranno avere ognuno una propria individualità. Ed anche dei nomi. Su quel soggetto di ventun pagine, intitolato semplicemente Snowwhite Suggestions, Disney convoca in ottobre tre riunioni a cui partecipano, oltre a lui, Creedon, il paroliere Larry Morey - nato a Los Angeles nel 1905 - il disegnatore Albert Hurter - nato in Svizzera nel 1883 è il più vecchio del gruppo - l’animatore Ted Sears - nato nel 1900 nel Massachusetts - lo sceneggiatore e attore Pinto Colvig - nato in Oregon nel 1892.
Per quel film Larry scriverà i testi di One Song, With a Smile and a Song, Whistle While Your Work, Heigh-Ho, Someday My Prince Will Come, canzoni destinate a entrare nella storia. E il film otterrà una sola nomination all’Oscar proprio grazie alla colonna sonora (per la cronaca ha vinto in questa categoria Cento uomini e una ragazza, un film dimenticato). Albert dovrà dare il proprio benestare a ogni creazione dei disegnatori. Ted coordinerà il lavoro degli animatori. Pinto, oltre a inventare molte gag, sarà la voce di Brontolo e Pisolo.
Nel corso dei mesi successivi Disney mette a lavorare al film tutti i suoi migliori collaboratori. Sono sette i registi accreditati, coordinati da David Hand - nato in Oregon nel 1900 - otto nella squadra di sceneggiatori e oltre quaranta tra disegnatori e animatori. Ma l’ultima parola su ogni decisione spetta a Walt, che può, a buon diritto, essere considerato l’autore del film.

Finalmente il 21 dicembre 1937 viene organizzata una grande anteprima al Carthay Circle Theatre di Los Angeles. In platea ci sono quelli che hanno sghignazzato alle spalle del folle sogno di Walt e un gran numero di celebrità. Ci sono Shirley Temple e Judy Garland, Ginger Rogers e Charlie Chaplin, Mary Pickford e Marlene Dietrich, John Barrymore e Carole Lombard, Clark Gable e Douglas Fairbanks Jr., e molti altri. Al termine del film si alzano tutti in piedi tributando un lunghissimo applauso. Il 27 dicembre sulla copertina di Time c’è Walt Disney che, alla scrivania, gioca con i suoi sette piccoli protagonisti.
Dopo altre due anteprime, una al Radio City Music Hall di New York e l’altra a Miami, il film viene distribuito nelle sale il 4 febbraio dell’anno successivo. È un successo incredibile: il film incassa 4,2 milioni solo negli Stati Uniti e in Canada durante la prima uscita, più del doppio di quello che è costato. Joseph Rosenberg ha avuto ragione.
Ed è immediatamente un successo anche in Europa. Esce il 12 marzo di quell’anno nel Regno Unito e il 4 maggio in Francia. Il 2 giugno esce in Cina. L’8 dicembre 1938 è anche nei cinema italiani, dopo l’anteprima il 24 agosto alla 6ª Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove vince il Grande trofeo d’arte della Biennale. Tra i paesi europei, manca solo la Germania nazista; solo nel 1950 il film sarà distribuito nella Germania Ovest. Mentre per la distribuzione in Unione Sovietica bisognerà aspettare il 1955, quando comincia, per volere di Khrushchev, la destalinizzazione.

I primi abbozzi del personaggio non soddisfano Walt: quei disegni ricordano troppo i personaggi dei fumetti. In una delle proposte Biancaneve somiglia addirittura a Betty Boop. E questo al conservatore Disney non va assolutamente bene: la licenziosa Betty non è certo un modello per le famiglie americane.
Walt affida la supervisione di Biancaneve a Hamilton Luske - nato a Chicago nel 1903 - con la precisa indicazione di creare un personaggio dai tratti umani, più realistico di qualsiasi altro mai uscito dalle penne dello studio. Hamilton e al suo collaboratore Les Clark hanno lavorato nel 1934 al cartone The Goddess of Spring, una sorta di versione a cartoni animati del mito di Persefone. Loro due hanno creato proprio questo personaggio che è in qualche modo il modello della Biancaneve che vuole Disney. Persefone però è ancora un personaggio animato e quindi Hamilton gira le scene in cui è impegnata Biancaneve con una giovane modella, Marge Belcher, e quei filmati vengono copiati dagli animatori. In questo modo i movimenti del personaggio diventano assolutamente naturali, perché Biancaneve si muove proprio come Marge.
Marge nasce a Los Angeles nel 1919. Il padre, Ernest, è un coreografo che lavora per gli studi, ma soprattutto è uno di quelli che insegna a ballare alle star. Shirley Temple, Joan Crawford, Fay Wray, Betty Grable e Cyd Charisse sono alcune tra le allieve della sua lunga carriera. E naturalmente insegna anche alle sue due figlie. Marge è quella più portata. Si esibisce, ma soprattutto anche lei comincia a insegnare nella scuola del padre. Quando alla Disney serve una giovane ballerina che possa essere la modella per Biancaneve, quella sedicenne che ha già una grande esperienza è la scelta naturale. Per Disney sarà anche la modella della Fata Turchina e della vezzosa “ippopotama”, che è la protagonista della Danza delle ore in Fantasia. Di questa celeberrima scena Marge cura anche la coreografia. Alla Disney Marge conosce anche il suo primo marito, l’animatore Art Babbit, che è nella squadra che lavora sulla Regina cattiva.
Il matrimonio dura tre anni e Marge sposa il ballerino Gower Champion. E da quel momento diventa Marge Champion. I due sono sotto contratto per la MGM che cerca di farne i nuovi Ginger e Fred. Ovviamente è impossibile ripetere l’incredibile successo di quella straordinaria coppia di ballerini, ma Marge e Gower riescono a ritagliarsi un loro spazio nei musical degli anni Cinquanta. Marge, oltre a recitare, non smette di insegnare a ballare e di preparare coreografie sia per il cinema che per la televisione. Fa anche qualche apparizione a Broadway, ma anche a teatro il suo impegno è per lo più dietro le quinte: nel 1964 è la consulente per i numeri di danza di Hello Dolly!
Rimane una leggenda dello spettacolo americano. Nel 1984 fa la sua ultima apparizione in televisione: in una puntata di Saranno famosi è l’insegnante di danza classica della scuola che non fa ballare un’allieva solo perché, essendo nera, non la ritiene adatta alla danza classica, scatenando le proteste degli studenti e della professoressa Grant. Nel 2001, a ottant’anni, torna a Broadway: è Emily Whitman in un fortunato revival di Folies di Stephen Sondheim. La sua parte è quella di una ex ballerina delle Weismann Follies, sposata con Theodore e co-proprietaria con il marito di una scuola di danza. Quando canta Rain on the Roof ha ancora lo smagliante sorriso di Biancaneve.
Perché Hamilton Luske disegna Biancaneve anche un po’ con i tratti di quella giovane ballerina. E disegnare il viso di questo personaggio non è affatto facile, perché Biancaneve non deve solo essere bella, deve essere la più bella del reame. E Hollywood è un regno dove ci sono moltissime splendide regine. Biancaneve è un po’ Mary Pickford, la fidanzata d’America, che ormai ha abbandonato le scene e si avvia a un lungo e inesorabile declino. È un po’ Constance Bennett, una delle pochissime dive del muto che è riuscita a passare al sonoro. È un po’ Janet Gaynor, la prima attrice a vincere l’Oscar nel 1929 e nel 1937 protagonista di È nata una stella. Certo Biancaneve somiglia in qualcosa a tutte queste grandi regine del cinema, ma quello che ha reso immortale questo personaggio è che Biancaneve è solo Biancaneve. Ed è viva. Non credo sia un caso che proprio lei sia stata il primo personaggio a cartoni animati a ricevere una stella sulla Hollywood Walk of Fame, perché Biancaneve non è affatto un personaggio di fantasia.
Naturalmente Biancaneve deve avere anche una bella voce e saper cantare come un usignolo e questo si rivela una ricerca più ardua del previsto. Vengono fatti più di centocinquanta provini, ma nessuna riesce a convincere quelli della Disney e soprattutto Walt. Un giorno un assistente dello studio chiama al telefono un suo vecchio amico, il professore di canto Guido Caselotti. Guido è originario di Udine, ma si è trasferito da ragazzo negli Stati Uniti. È conosciuto non solo come organista e maestro di musica, ma anche perché è il marito di Maria Giuseppina Orefice, che in Italia è nota come soprano. L’assistente di Disney chiede a Guido se conosce qualche ragazza che abbia una bella voce e sappia cantare. La figlia più piccola di Guido, la diciannove Adriana, ascolta la telefonata da un altro apparecchio e comincia a cantare. Il padre si arrabbia, ma l’uomo di Disney dice che va bene, viene organizzato un provino con Walt e Adriana diventa la voce di Biancaneve.
È nata a Bridgeport nel Connecticut, ma dai sette ai dieci anni vive in Italia, perché la madre lavora per il Teatro Reale dell’Opera di Roma. Anche sua sorella maggiore Louise è una cantante e un’insegnante: una decina d’anni dopo il film insegnerà a una giovane cantante d’opera greca, tal Maria Callas.
Adriana riceve 970 dollari per doppiare Biancaneve. Il suo nome non compare nei titoli e Walt le impedisce di partecipare a programmi radiofonici, perché solo Biancaneve deve avere quella voce. E quello è stato il ruolo della vita: Adriana ha continuato a cantare le canzoni del film in spot promozionali del film, in speciali televisivi - il giorno del Ringraziamento del 1972 ha cantato con Julie Andrews - per le mostre su Biancaneve realizzate nei parchi creati dalla Disney. Adriana Caselotti si è ampiamente meritata il suo posto nelle Disney Legends.

Immagino che potrei stare qui a raccontarvi storie su Biancaneve ancora per parecchio tempo. Potrei raccontarvi di JoAnn Dean Killingsworth, la giovane ballerina e pattinatrice che il 17 luglio 1955 è stata Biancaneve in occasione dell’inaugurazione di Disneyland. È la prima volta che una persona in carne e ossa indossa il vestito di Biancaneve e per JoAnn sarà anche l’ultima: quello è un lavoro che è durato un solo giorno, eppure è stato il più importante della sua carriera.
Oppure potrei raccontarvi delle voci italiane di Biancaneve, perché nella prima edizione quando parla la voce è quella di Rosetta Calavetta, mentre quando canta è quella di Lina Pagliughi.
Rosetta è una regina del doppiaggio italiano. La sua voce, oltre alla mora Biancaneve, è quella di alcune bellissime bionde del cinema: Lana Turner, Marilyn Monroe, Doris Day, Veronica Lake, Kim Novak, Janet Leigh. Ma anche quella della terribile Crudelia De Mon.
Curiosamente Lina è un’italoamericana - nasce a New York, ma sua madre è di Albareto - che fa fortuna in Italia. Arriva a Milano per perfezionare gli studi di canto lirico e non tornerà più n America. Nel 1927 debutta ventenne come Gilda al Teatro Nazionale di Milano. Si rifiuta di prendere l’aereo e quindi per le tournée all’estero deve usare la nave. Per questo si esibisce prevalentemente in Italia, prima nei teatri e poi attraverso l’Eiar. È Mimi, Violetta, Rosina e diventa anche Biancaneve.

Ho confessato nella prima puntata di questa serie su Biancaneve che io - come Alvin Singer - preferisco la Regina cattiva. E per questo voglio finire con una storia su di lei. Perché Biancaneve non esisterebbe senza la sua crudele matrigna.
Nei primi appunti di Creedon la regina viene definita “grassa e matta”, insomma una sorta di Maga Magò. Ma a Walt questa idea non piace molto, vuole che sia una specie di Lady Macbeth, tanto bella quanto crudele. Probabilmente è stato lo svizzero Albert Hurter a pensare alla statua di Uta von Ballenstedt che si trova nella cattedrale di Naumburg. Uta, moglie del margravio di Meissen, scagionata da un’accusa di stregoneria, la donna più bella del Medioevo, gli è sembrata la perfetta Regina cattiva. E poi con gli occhi di Joan Crawford Grimilde non può che diventare la più letale dark lady della storia del cinema. Non rifiuteremo mai la tua mela. 

p.s. per le altre puntate della storia di Biancaneve, potete andare qui e qui.

martedì 19 settembre 2023

Verba volant (845): sexy...

Sexy
, agg. m. e f.

Non conosciamo il nome della prima Biancaneve in carne e ossa del 1902, ma conosciamo bene quello del primo personaggio animato che deve vedersela con una Regina cattiva che, invidiosa della bellezza di quella sua giovane figliastra, cerca di ucciderla.
Il 31 marzo 1933 esce nei cinema, prodotto da Max Fleischer e distribuito dalla Paramount, un cartone animato intitolato Snow-White con protagonista nientepopodimeno che Betty Boop.
In quei mesi Betty è all’apice del successo. Ha esordito al cinema solo tre anni prima in un cartone animato intitolato Dizzy Dishes: è ancora una barboncina antropomorfa con grandi occhi scuri che indossa un vestito succinto che non riesce a coprirle né le spalle né le lunghissime gambe, tanto che si vede una sensuale giarrettiera. Il successo è immediato e travolgente. In quel cartone Betty fa solo una breve apparizione, non è lei la protagonista, ma la sua prorompente sensualità ruba la scena e in breve diventa una star dell’età del jazz.
Betty, con i suoi capelli corti e l’aria sbarazzina, provocante e innocente allo stesso tempo, è la perfetta incarnazione della flapper, della donna del secolo nuovo, indipendente ed emancipata, che mostra con orgoglio la propria bellezza. Nel 1932 perde le ultime caratteristiche animali e diventa a tutti gli effetti una donna, anzi un vero e proprio sex symbol. Non resisterà molto: già nel 1934, con la rigorosa applicazione del Codice Hays e a seguito delle proteste sempre più insistenti dei gruppi conservatori e di quelli religiosi, Betty viene “normalizzata”: diventa una casalinga, con un vestito decisamente più casto che le copre spalle e gambe. E nel 1939 il suo personaggio sarà definitivamente cancellato: Betty Boop o dà scandalo o non è.
Ma torniamo a Snow-White. La regina interroga il suo specchio magico per sapere chi sia la più bella del regno e quello, che ha l’inconfondibile voce di Cab Calloway, le risponde che è Betty Boop. Per altro il grande Cab è un “amico” di Betty già dai tempi del cartone Minnie The Moocher, un altro dei grandi successi dei Fleischer Studios.
La regina ordina alle sue guardie di decapitare Betty. Ma quelle guardie sono Bimbo e Koko, i due fedeli compagni di avventure della ragazza. In lacrime portano Betty in una foresta, ma proprio quando stanno per sferrare il colpo mortale, distruggono le loro armi. Purtroppo sprofondano nel terreno prima di poterla liberare. Betty riesce comunque a scappare, ma cade in un fiume ghiacciato e rimane rinchiusa in una sorta di teca di ghiaccio. Per fortuna quel blocco arriva fino alla casetta dei sette nani, che lo portano in una grotta incantata, dove trovano Koko e Bimbo. E spariscono. La regina, trasformata in una strega, arriva anche lei nella caverna, trasforma Koko in un fantasma che canta St. James Infirmary Blues, in una delle sequenze più famose del cartone animato.
La strega riesce a congelare Betty, Koko e Bimbo, ma quando chiede di nuovo allo specchio chi sia la più bella, questi manda un fumo magico che libera gli amici e trasforma la regina in un drago. Il mostro insegue Betty e i suoi compagni, ma Bimbo gli afferra la lingua e lo mette in fuga. Il cartone finisce con Betty, Koko e Bimbo che ballano in cerchio. E vissero felici e contenti, almeno fino alla prossima avventura.
I sette minuti di Show-White sono un capolavoro del cinema di animazione della Golden Age.
Anche se è Dave Fleischer a firmarne la regia, l’autore è Roland Crandall, storico animatore dello studio. Ci mette circa sei mesi a realizzare da solo l’intero film. Oltre che aver lavorato alla serie dedicata a Betty, Roland nel 1933 crea, insieme a Seymour Kneitel, Popeye, l’altro grande successo targato Fleischer.
La voce di Betty è quella di Mae Questel. Mae è nata a New York nel 1908. La sua famiglia di ebrei ortodossi non approva il desiderio della ragazzina di dedicarsi allo spettacolo, ma Mae è bravissima a fare le imitazioni, a diciassette anni vince un concorso per giovani talenti che le permette di lavorare in tanti locali della città. Una delle sue imitazioni più riuscite è quella della cantante Helen Kane e quando Fleischer, che ha creato Betty Boop basandosi proprio su Helen, ascolta Mae, la ingaggia per doppiarla.
Per Betty Mae non si limita a imitare la voce infantile e un po’ chioccia di Helen, ma aggiunge una sensualità che richiama il fascino di Clara Bow, un’altra delle icone dell’età del jazz.
Quella voce così caratteristica, dal 1931, contribuisce a creare il successo di Betty Boop. E quando nel 1988 Betty farà un’apparizione in Chi ha incastrato Roger Rabbit sarà ancora Mae, ottantenne, a dare la voce al “suo” personaggio.
Per Fleischer Mae è anche la voce di Olivia. Almeno fino a quando gli studi sono al 1600 di Broadway. Quando nel 1938 Fleischer decide di spostarsi a Miami, questa figlia di New York non vuole trasferirsi e il lavoro passa a Marge Hines, che ha doppiato Betty Boop in Dizzy Dishes e nei primi cartoni della serie.
Un altro che fatica a staccarsi da New York è Woody Allen che vuole sia Mae a cantare Chameleon Days in Zelig e a interpretare sua madre nell’episodio Edipo relitto in New York Stories.

Dieci anni dopo - e soprattutto sei anni dopo quella, castigatissima, di Disney - arriva nei cinema una Biancaneve ancora più sexy di Betty Boop. Ed è nera.
Negli anni Quaranta Robert Clampett, nato a San Diego nel 1913, è uno degli animatori e registi che realizzano per la Warner i cartoni animati delle due fortunate serie Looney Tunes e Merrie Melodies. Robert ama il jazz e una sera del 1941, dopo aver visto una replica della rivista di Duke Ellington Jump for Joy, si ferma a parlare con il Duca e gli altri interpreti dello spettacolo. Tutti gli chiedono di realizzare un cartone animato con neri come protagonisti. Al cinema sono già usciti film con soli interpreti di colore, come Cabin in the Sky e Stormy Weather, perché non può esserci anche un cartone animato “nero”?
Quella sera nasce l’idea di una parodia del più celebre cartone animato della storia del cinema, l’incredibile successo di Walt Disney del 1937, premiato dall’Academy con un Oscar speciale in cui la statuetta è attorniata da sette piccoli “oscar”.
Robert e tutti i suoi collaboratori passano diverse sere al Club Alabam, il locale sulla Central Avenue, che è il cuore della musica nera a Los Angeles.
Il 16 gennaio 1943 esce nei cinema Coal Black and de Sebben Dwarfs.
C’è questa regina, una grossa matrona nera che vive in un castello. È molto ricca, la sua stanza è piena di ogni ben di dio: oro, ma soprattutto pneumatici, zucchero, caffè, gin. Siamo durante la seconda guerra mondiale e quindi è facile capire che la regina è diventata ricca con la borsa nera. La regina ha tutto, ma vuole un principe. Così lo chiede al suo specchio magico. E in un baleno, a bordo di una macchina di lusso, arriva il principe Chawmin’, che sfodera un sorriso dove brilla una splendente dentatura d’oro, ne mancano solo due, ma sono sostituiti da dadi. L’attenzione del principe però si concentra sulla giovane cameriera, che si chiama So White, e subito perde la testa. Effettivamente So White è splendida, ha due grandi occhi neri, le curve nei punti giusti e due lunghissime gambe. Indossa una paio di hot pants e una camiciola che non lasciano molto spazio alla fantasia.
Il principe e So White cominciano a ballare, scatenando l’odio della regina, che chiama al telefono la Murder Incorporated, con l’ordine di eliminare la ragazza. I killer arrivano a bordo del loro furgone, su cui è impresso il loro tariffario: ” chiunque per un dollaro, e la tariffa si dimezza per un nano. Ma sono patriottici - in fondo c’è la guerra - e quindi l’elenco si conclude con. “Japs: free”.
I killer rapiscono So White, ma la liberano al limite di un bosco. Quando la ragazza esce dal furgone i sicari appaiono molto soddisfatti: le impronte di rossetto sulle loro faccia fanno capire come So White li abbia convinti a liberarla. Nel bosco la ragazza incontra i sette nani, sette piccoli e maldestri soldati che “arruolano” immediatamente So White come vivandiera del loro piccolo reggimento.
La regina medita vendetta. Indossato un grande naso che la fa assomigliare a Jimmy Durante, si traveste da venditrice ambulante e raggiunge l’accampamento dei sette nani. So White mangia la mela e cade a terra. I nani si accorgono di quello che è successo, si vendicano della regina, ma non riescono a svegliare la loro amica. Pensano che l’unica soluzione sia chiamare il principe Chawmin’, che bacia So White, ma non succede nulla, la ribacia, e ancora e ancora, fino a perdere il fiato e a invecchiare prematuramente. A questo punto Dopey, il più giovane dei nani – l’equivalente di Cucciolo – stampa un bacio in bocca a So White e la ragazza si sveglia. Il principe gli chiede come abbia fatto. “Segreto militare”, risponde il nano soddisfatto.
Per realizzare il progetto, oltre alla sua squadra di animatori, Clampett coinvolge alcuni artisti neri. La voce di So White è quella di Vivian Dandridge, la sorella maggiore di Dorothy. Mentre Ruby Dandridge, loro madre e un’attrice già nota a Hollywood, è la regina. Ma per le voci di tutti i sette nani si affida al grande Mel Blanc, la voce di Bugs Bunny, Duffy Duck, Porky Pig, Silvestro e Titti, Beep Beep e Wile E. Coyote, e praticamente di tutti gli altri personaggi dei cartoni animati della Warner.
Il cartone animato riscuote immediatamente un grande successo, incontrando sia il favore del pubblico che quello della critica. Ma già qualche mese dopo la National Association for the Advancement of Colored People chiede alla Warner di ritirare il cartone animato.
Presto la casa di produzione accetta di ritirare dai cinema il cartone animato, come altri dieci che hanno caratteristiche simili. Sono i cosiddetti Censored Eleven, undici cartoni animati della stagione d’oro della Warner, che non verranno più trasmessi neppure in televisione, se non in programmi che ne stigmatizzano il razzismo.
Ed effettivamente Coal Black and de Sebben Dwarfs è un campionario di tutti gli stereotipi con cui la cultura di massa americana ha presentato i neri per decenni. Sorridiamo di fronte a quelle gag, ma ci arrabbiamo perché la nostra sensibilità ormai non è più disposta a tollerare una comicità del genere. Certo Robert Camplett non è razzista, ma proprio questo ci rende ancora più arrabbiati, se un artista come lui ha potuto scrivere uno spettacolo del genere. E ci fa pensare che questo modo di raccontare i neri è stato interiorizzato anche dagli stessi americani di colore, che pure hanno partecipato alla realizzazione del cartone animato. E probabilmente hanno riso di fronte a quelle battute così offensive.
Certo la società è molto cambiata da allora, ma le polemiche che sono seguite alla scelta di affidare a Rachel Zegler la parte di Biancaneve ci dice che il cammino è ancora in salita (continua, la prima parte della serie su Biancaneve è qui)

martedì 12 settembre 2023

Verba volant (844): fiaba...

Fiaba, sost. f.

Rachel Zegler è la Biancaneve degli anni Venti del XXI secolo. Una Biancaneve scandalosa per alcuni, visto che la pelle di questa splendida ragazza nata nel 2001 nel New Jersey, di origini colombiane e polacche - anche se le prime sono decisamente prevalenti - non è proprio candida come la neve. Tanto che Steven Spielberg l’ha voluta come Maria nella sua versione di West Side Story. Ma la storia di questa ragazza è un classico - un archetipo, direbbe Bettelheim - e quindi sappiamo che Rachel non sarà l’ultima: ogni epoca avrà la sua Biancaneve. E sappiamo anche che questa nuova Biancaneve non avrà bisogno di un principe per salvarsi.

Purtroppo non conosciamo il nome della prima Biancaneve del cinema. Di quel Snow White del 1902 non sappiamo nulla, se non il titolo registrato dalla Lubin Manufacturing Company. Questa casa di produzione è stata fondata a Philadelphia proprio quell’anno da Siegmund Lubin, nato a Breslavia nel 1851 ed emigrato nel 1876 negli Stati Uniti. È un optometrista che, affascinato dal lavoro di Edison, diventa uno dei pionieri del cinema. Sono più di mille i film realizzati nello studio chiamato Lubinville, ma sono andati quasi tutti perduti. Nel giugno 1914 un incendio ha distrutto studio e negativi e tre anni dopo la casa di produzione è fallita, costringendo Siegmund a tornare al lavoro di optometrista.

E così la prima Biancaneve di questa nostra storia è Marguerite Clark. Ormai il suo nome è dimenticato, ma nell’epoca del muto è famosa quanto Mary Pickford. Entrambe sono sotto contratto della Famous Players-Lasky e la loro rivalità domina le cronache pettegole della nascente Hollywood. A dire la verità, Mary e Marguerite non fanno nulla per alimentare questo scontro, ci pensano rispettivamente la madre e la sorella maggiore e soprattutto i produttori che hanno capito molto presto che il cinema vive anche grazie alle sue stelle e alle storie su di loro. Nel 1918 il Motion Picture Magazine conduce un sondaggio tra gli appassionati di cinema per decidere chi sia la migliore: vince Pickford, ma con uno scarto di neppure ventimila voti. Mary però è molto più abile di Marguerite, diventa in pochi anni, grazie alla creazione dell’United Artists, una delle donne più potenti del cinema americano. Marguerite si ritira, all’apice della carriera, nel 1921. A trentotto anni non ha più voglia di fare l’ingenua e ha guadagnato abbastanza per vivere come una signora in una grande villa della Louisiana.
Marguerite, nata nel 1883 ad Avondale, in Ohio, a sedici anni scopre il teatro. E in pochissimo tempo la sua carriera prende il largo. Nel 1900 debutta a Broadway e ottiene un successo dopo l’altro. Arriva al cinema tardi - gli attori teatrali all’inizio guardano con qualche sospetto alla nuova arte - ha già trentun’anni, anche se ne dimostra molti meno - anche questa è una caratteristica che ha in comune con Mary - e quell’aria da ragazzina e i suoi grandi occhi scuri entrano immediatamente nell’immaginario del pubblico.
Il 31 ottobre 1912 Marguerite debutta al Little Theatre come Biancaneve nella commedia scritta, diretta e prodotta da Winthrop Ames, che è anche il proprietario di quella storica sala sulla 44esima. È uno dei successi di quella stagione. Con lei ci sono le gemelle Madeline e Marion Fairbanks, Donald Gallaher e l’attrice inglese Elaine Inescort nella parte della Regina cattiva.
Inescort ha solo quattro anni più di Biancaneve. Anche lei bellissima, fa una lunga carriera: non si fermerà, come è successo a Mary Pickford, a causa dell’avvento del sonoro. E nel 1961, a ottantadue anni, è la contessa Lydia Ivanovna in una celebre edizione di Anna Karenina prodotta dalla BBC, con Claire Bloom e Sean Connery.
È anche grazie al successo di quella commedia che Marguerite viene chiamata a Hollywood e nel 1916 la Famous Players-Lasky produce un nuovo Snow White, un lungometraggio di sessantatré minuti. Ames scrive la sceneggiatura, basata sulla sua commedia, mentre la regia è affidata a James Searle Dawley, uno dei grandi registi di quell’età pionieristica: è lui a firmare, nel 1910, il primo Frankenstein. Creighton Hale è il principe, mentre l’attrice australiana Dorothy Cumming è la Regina cattiva. Dorothy è più giovane di Marguerite. Show White è il suo primo film a Hollywood, dopo gli esordi nel suo paese. Alla fine degli anni Venti raggiunge l’apice della fama con The King of Kings di Cecil B. DeMille, in cui interpreta Maria, e The Wind di Lilian Gish.
Quasi tutti i quaranta film interpretati da Marguerite Clark sono andati perduti. Fortunatamente una copia di Show White è stata ritrovata ad Amsterdam nel 1992, con le didascalie in olandese. E così Marguerite continua a guardarci con quei suoi grandi occhi neri e l’aria innocente, aspettando il suo principe.

E sarà l’unica Biancaneve per altri trentacinque anni: un record. Certo in mezzo c’è stata la Biancaneve più famosa di tutte - e di lei racconterò in un’altra delle mie storie - ma solo nel 1951 il personaggio dei Grimm torna al cinema. E in Italia. Il film è I sette nani alla riscossa, scritto, diretto e prodotto da Paolo William Tamburella. È nato a Cleveland nel 1910, il padre Silvestro è professore di letteratura italiana e direttore di un giornale per la comunità italoamericana della città. Il giovane decide di tornare nell’Italia appena uscita dalla guerra e di fare cinema. Nel 1946 è il produttore di Sciuscà diretto da Vittorio De Sica, per cui vince l’Oscar, il primo del cinema italiano. I sette nani alla riscossa è il suo terzo film da regista. Anche l’ultimo: muore a soli quarantuno anni, prima che il film venga distribuito nelle sale.
Tamburella decide di raccontare cosa è successo dopo il “e vissero felici e contenti”. Biancaneve e il principe Biondello vivono sì felici nel loro castello, ma il Principe Nero, invaghitosi della donna, decide di attaccare il loro regno. Biancaneve viene fatta prigioniera dagli sgherri del cattivo, ma i sette nani vengono in aiuto della loro amica. E stavolta sì tutti vivranno felici e contenti.
Biancaneve è la diciassettenne Rossana Podestà, all’inizio della carriera. Il regista francese Léonide Moguy l’ha scoperta l’anno prima a Tripoli, la città in cui è nata. Grandi occhi scuri e fisico da pin-up, Rossana diventa presto famosa non solo in Italia. Negli anni Cinquanta recita in tanti film storici e mitologici, diventando la “regina del peplum”: è Nausicaa in Ulisse di Maria Camerini, con Kirk Douglas e Silvana Mangano nel doppio ruolo di Penelope e Circe, e la protagonista di Elena di Troia di Robert Wise. E diventa una femme fatale negli anni Sessanta: è la bellissima Giorgia nei Sette uomini d’oro. Decisamente Rossana non è più l’ingenua Biancaneve.

Dopo quel film italiano il cinema e la televisione riscoprono la classica storia dei fratelli Grimm. In molte di queste versioni è però l’attrice che interpreta la Regina cattiva a essere la vera star del film. Vanessa Redgrave, Diana Rigg, Sigourney Weaver, Miranda Richardson, Monica Bellucci, Julia Roberts, Charlize Theron, Isabelle Huppert sono splendide Regine, molto più affascinanti delle rispettive Biancaneve.
Se fossimo stati lo specchio magico non avremmo avuto dubbi su chi scegliere come la più bella. Peraltro anche la Regina del film Disney - disegnata su Joan Crawford - è molto più bella di Biancaneve.
Come dice Alvin in Io e Annie.
Senti, anche da piccolo mi piacevano sempre le donne sbagliate. Forse è questo il mio problema. Quando la mia mamma mi portò a vedere Biancaneve, tutti si innamorarono di Biancaneve. Io no. Io immediatamente mi innamorai della Regina Cattiva.
Che appare nel film in veste di cartone animato, con la voce di Diane Keaton.

Gal Gadot sarà la Regina di Rachel Zegler e anche in questo caso è difficile scegliere chi sia la più bella del reame.

In una storia delle attrici che sono state Biancaneve bisogna ricordare anche Marie Liljedal, una bellissima attrice svedese, nata nel 1950, protagonista tra il 1968 e il 1971 di alcuni film erotici, tra cui il celebre Grimms Märchen von lüsternen Pärchen: non certo memorabile, ha però aperto la strada a una “lettura” erotica della fiaba che avrà una certa fortuna negli anni successivi. In Italia il film - diretto da Rolf Thiele, che pure negli anni Sessanta con Eva è stato in concorso a Cannes - è arrivato con il titolo Divagazioni erotiche.
Ovviamente anche la commedia sexy degli anni Settanta “scopre” Biancaneve. In La principessa sul pisello e Biancaneve & Co. il personaggio è interpretato da due attrici famose del genere, Christa Linder e Michela Miti. Tra i “nani” di questo film occorre ricordare alcuni grandi caratteristi del cinema italiano: Enzo Garinei, Aldo Ralli e Tiberio Murgia. Si tratta di classici film soft-porn. Decisamente più esplicito il film diretto nel 1995 da Franco Lo Cascio Biancaneve e i sette nani. Accanto a sette nani ungheresi, Ludmilla Antonova è decisamente disinibita, che ha aperto la strada a una serie di Biancaneve decisamente sexy che abbondano nei siti “specializzati”.

Voglio finire questa storia di Biancaneve con la splendida Macarena Garcia, giovane protagonista di Biancanieves, un film del 2012, scritto e diretto da Pablo Berger. Si tratta di un film muto girato in bianco e nero. La storia si svolge in Andalusia negli anni Venti. Carmen è la figlia di un torero paralitico e di una cantante, morta dandola alla luce. La seconda moglie del padre prima uccide l’uomo e poi incarica un sicario di eliminare anche Carmen. Una compagnia di nani girovaghi trova la ragazza lungo un fiume, dove è stata abbandonata, creduta morta. Carmen, con il nome di Biancanieves, diventa una famosa torera, a Siviglia, nell’arena dove il padre è rimasto paralizzato, ottiene una grande vittoria, ma la matrigna l’ha riconosciuta e la uccide con una mela avvelenata. I nani non possono far altro che vendicarsi della donna, scatenandole contro un toro.
Cent’anni dopo Snow White Biancaneve non può più salvarsi

mercoledì 6 settembre 2023

Verba volant (843): gamba...

Gamba
, sost. f.

Eva Le Gallienne è un nome oggi purtroppo dimenticato - se non da qualche collezionista di cimeli della vecchia Broadway - eppure questa attrice ha attraversato da assoluta protagonista la storia del teatro del Novecento, senza aver timore di dare scandalo, perché era una donna che amava le donne - una cosa mal tollerata nella società, allora come ora - e soprattutto perché era una donna che voleva dirigere e produrre i propri spettacoli - questa sì una cosa davvero intollerabile, allora come ora, per il mondo della cultura dominato dagli uomini.

Eva nasce l’11 gennaio 1899 a Londra. Il padre è Richard Le Gallienne, un poeta e traduttore inglese di origini francesi che per qualche anno è stato il segretario dell’attore e produttore teatrale Wilson Barrett, la madre è la giornalista danese Julie Nørregaard. I suoi genitori si separano quando lei ha solo quattro anni e così Eva cresce a Parigi, dove Julie si è trasferita, pur tornando spesso dal padre in Gran Bretagna. Nella capitale francese frequenta il Collège Sévigné con ottimi voti, anche perché parla correntemente, oltre al francese e all’inglese, il tedesco, il danese e il russo.
Si appassiona presto al teatro, a quattordici anni copia a mano le memorie di Sarah Bernhardt: un atto di devozione che impressiona la grande attrice, che vuole conoscere quella ragazza, rimanendo colpita dalla sua determinazione. A Londra studia recitazione, nell’Accademia di Sir Herbert Beerbohm Tree e debutta a quindici anni come ragazza cockney in The Laughter of Fool. Un anno dopo sua madre decide di trasferirsi negli Stati Uniti insieme alla figlia. Eva è una giovane molto avvenente e sa recitare, non fatica a trovare degli ingaggi che la portano in Arizona e in California, ma nessuna di quelle commedie ottiene particolare successo. Eva torna in Europa, continua a studiare, viaggia, assiste a molti spettacoli e alla fine degli anni Dieci è ancora una volta a New York.
Finalmente arriva il successo con Not So Long Ago di Arthur Richman e Liliom di Ferenc Molnár. Eva è ormai una stella di Broadway, ma non è soddisfatta di quello che viene programmato nei teatri della città: drammi popolari e spettacoli di rivista e burlesque. L’attrice sa bene che i produttori pensano solo agli incassi e non vogliono rischiare. Pensa che sia ora di cambiare le cose.
Le serve un teatro. Ce n’è uno disponibile al 107 West della Quattordicesima Strada. È stato aperto nel 1866 con il nome Theatre Francais e vi venivano rappresentate solo opere in francese, poi è diventato Lyceum e infine semplicemente Fourteenth Street Theatre. Quando Eva decide di rilevarne la gestione è solo un cinema, in una zona malfamata di Manhattan, a ben ventotto isolati da Times Square e dal quartiere dei teatri. La struttura è fatiscente, la facciata un intrico di scale antincendio, l’impianto di riscaldamento funziona male, però è grande - sono millecento posti a sedere - e lei capisce che in quell’enorme spazio può fare tutto quello che vuole. Le serve una compagnia. Una sera a Cincinnati, mentre è in tournée con il John Gabriel Borkman di Ibsen, ne parla con gli altri attori. Vuole mettere in piedi una compagnia di repertorio, ossia capace di mettere in scena, con gli stessi attori, diversi spettacoli nella stessa stagione. Tutti decidono di seguirla in quella nuova avventura e molti rimarranno con lei negli otto anni successivi. Così nell’autunno del 1926 nasce il Civic Repertory Theatre. Grazie all’iniziale sostegno finanziario di Otto Herman Kahn, Adolph Lewisohn, Ralph Pulitzer, John Davison Rockefeller Jr. e soprattutto della donna con cui in quegli anni ha una relazione, la miliardaria mecenate Alice De Lamar, Eva riesce ad aprire il suo teatro.
Il costruttore Solness, Tre sorelle, La locandiera, La dodicesima notte. Hedda Gabler, Il giardino dei ciliegi, Il gabbiano, Romeo e Giulietta sono tra i titoli che Eva dirige e interpreta con il Civic Repertory, insieme a testi di nuovi drammaturghi americani. Saranno in tutto trentaquattro produzioni. E, nonostante la posizione malfamata, il pubblico di New York fa la fila per assistere ogni sera agli spettacoli. Nel 1929 la First Lady Lou Henry Hoover, in visita a New York, chiede di assistere a uno spettacolo del Civic. Già nel primo anno le produzioni di Eva si sostengono da sole, grazie agli introiti del botteghino, nonostante la sua decisione di tenere il prezzo del biglietto a un dollaro e mezzo: il “suo” teatro deve essere davvero aperto a tutti.

LeG, come i giornali cominciano a chiamare Eva, ottiene un grande successo con Peter Pan nel 1928: bellissima, con quelle splendide e lunghe gambe, grazie a fili invisibili, vola sugli spettatori, rendendo memorabile la sua interpretazione del magico ragazzo inventato da James Matthew Barrie. Nel 1932 lei e l’attrice Florida Friebus scrivono una riduzione di Alice nel Paese delle Meraviglie: e anche questo è un successo del Civic Repertory. LeG e Florida sono rispettivamente la Regina Bianca e il Gatto del Cheshire, Josephine Hutchinson - con cui Eva ha una relazione in quegli anni - è Alice, Leona Roberts è la Regina Rossa, Burgess Meredith è il Ghiro, l’Anatra e Pancopinco, Howard Da Silva il Cuoco e il Cavaliere Bianco. Quell’edizione di Alice raccoglie tanti artisti che faranno grande il teatro degli Stati Uniti negli anni successivi.
Il Civic Repertory Theatre segna una svolta per Broadway. Certo rimangono i grandi teatri con una programmazione commerciale, ma accanto a essi nascono sale con una proposta diversa, in cui gli artisti possono sperimentare nuove forme di teatro. Qualche anno dopo, su questo esempio, Orson Welles e John Houseman creeranno il Mercury. È grazie all’attività di artisti come Eva Le Gallienne che nel secondo dopoguerra nasce quello che sarà chiamato off-Broadway.
Il 25 novembre 1929 Time consacra LeG con la sua copertina e un articolo in cui viene descritto il suo lavoro. Il cronista spiega che in quella settimana al Civic Repertory Theatre la compagnia di Eva rappresenta lunedì Il gabbiano, martedì Il borghese gentiluomo, mercoledì Mademoiselle Bourrat. La Fille Perdu di Claude Anett, giovedì The Cradle Song di Gregorio Martínez Sierral, venerdì Inheritors della drammaturga americana Susan Glaspell, e infine sabato due repliche di Peter Pan durante la giornata e ancora Il gabbiano alla sera: sono otto spettacoli a settimana.
Eva negli anni del Civic Repertory vive, insieme ai suoi quattro cani e a molti canarini, in un piccolo appartamento all’ultimo piano del teatro. Ogni mattina alle 9.30 si esercita nell’arte della scherma con un istruttore ungherese che cerca di convincerla, visto quanto è brava, a lasciare il palcoscenico per dedicarsi soltanto a quello sport. Alle 10.30 si occupa della corrispondenza. Dalle 11.30 alle 15.30 prova, insieme ai suoi attori, una nuova commedia. Non si ferma neppure per pranzo: durante le prove mangia uova crude e beve caffè. Dalle 15.30 alle 17.30 prova una delle commedie che sono già in repertorio. Poi dedica mezz’ora agli appuntamenti con gli amici. Dopo una cena frugale dorme mezz’ora prima di scendere nel suo camerino per l’apparizione serale. Perché LeG è in scena ogni sera. Questa rigorosa routine è interrotta solo il sabato, perché quel giorno Eva, per due volte, veste i panni di Peter Pan per volare sulle teste di un incantato pubblico di bambini.

Tre settimane prima di quella copertina, precisamente il 29 ottobre, crolla Wall Street e comincia la Grande Depressione: i teatri chiudono uno dopo l’altro e anche il Civic Repertory, con le sue proposte di qualità, non resiste. Alice nel Paese delle Meraviglie è l’ultima produzione prima della definitiva chiusura nel 1934.
L’anno successivo a Eva viene offerta la direzione del Federal Theatre Project, uno degli ambiti di intervento sostenuti dalla Works Progress Administration, voluta dal presidente Roosevelt. Lo scopo del progetto non è tanto quello di produrre cultura, ma di sostenere gli artisti che a causa della crisi hanno perso il lavoro. Per questo l’attrice rifiuta. Capisce che non potrebbe lavorare con la libertà creativa che ha avuto durante gli anni del Civic Repertory Theatre.
Eva, finita l’avventura del Civic, continua a recitare. Tra i tanti ruoli, nel 1935 è Marguerite Gautier in Camille di Alexandre Dumas, nel 1944 Ljubov’ Andreevna ne Il giardino ciliegi, nel 1946 Caterina d’Aragona nell’Enrico VIII di Shakespeare. Nel 1948 è Helene Alving negli Spettri e la protagonista di Hedda Gabler.
Alla fine degli anni Quaranta scrive un libro per bambini, Flossie and Bossie, una divertente storia le cui protagoniste sono due galline, una snob e sofisticata e l’altra schietta e semplice, in perenne contrasto, se non nella voglia di essere buone madri per i loro pulcini.
 Continua anche a dirigere, a tradurre, a progettare nuovi spettacoli. E tenta anche di tornare a produrli. Nel 1946, insieme alle regista teatrale Margaret Webster, con cui ha una relazione, e la produttrice Cheryl Crawford, fonda una nuova compagnia, l’American Repertory Theatre, ma dopo due anni l’impresa fallisce. L’America del secondo dopoguerra, che si prepara al confronto con l’Unione Sovietica, è molto diversa dal paese di vent’anni prima, ancora immerso nell’età del jazz: non c’è la stessa voglia di rischiare e di innovare.

Ed è un’America che fatica anche ad accettare l’omosessualità di Eva. L’attrice non ha mai nascosto le sue preferenze sessuali e nell’età del jazz questa cosa era tollerata o vista come una delle tante bizzarrie di quegli anni. Certo per Eva è più semplice: lei è famosa, a lei sono “perdonate” cose che le altre donne non possono permettersi, neppure in quegli anni sfrenati. Perfino l’autore dell’articolo di Time, pur non potendo parlare apertamente di quel tema, racconta che ogni sera agli spettacoli del Civic Repertory Theatre fanno la fila le ammiratrici di Eva, donne che, come lei, amano indossare abiti, cappelli e accessori maschili, tanto da girare con il bastone da passeggio.
Nel 1918 la giovane Eva conosce a Hollywood l’attrice di origini russe Alla Nazimova, che, a quarant’anni, è all’apice della fama. Alla produce i film che interpreta, è una donna che, grazie al suo successo, ha potere a Hollywood e lo usa per aiutare le sue colleghe che, a differenza di lei, vengono emarginate dalle case di produzione proprio a causa della loro omosessualità. Anche se è Alla a introdurre Eva in quello che la grande attrice chiama ironicamente il “circolo del cucito”, ossia il gruppo di donne, artiste e intellettuali, che ruotano attorno alla sua villa su Sunset Boulevard, è estremamente gelosa dell’attenzione che le sue amiche rivolgono alla nuova arrivata. Alla è troppo gelosa e possessiva per Eva e presto la loro storia finisce, anche se l’attrice non smetterà di aiutarla e sostenerla nelle sue scelte artistiche. Le attrici Tallulah Bankhead, Beatrice Lille e Laurette Taylor capitano spesso al Garden of Alla e Eva ha con loro brevi relazioni.
Anche la poetessa, scrittrice e drammaturga di New York Mercedes de Acosta è nel “circolo del cucito”. Dopo il matrimonio di comodo tra Mercedes e Abram Poole, anch’egli omosessuale, lei ed Eva vivono per cinque anni una turbolenta storia d’amore. Mercedes qualche anno dopo avrà una lunga relazione con Greta Garbo. Le sue memorie, scritte agli inizi degli anni Sessanta per sfuggire alla povertà, con le loro rivelazioni getteranno scandalo nel mondo dello spettacolo americano, accendendo una curiosità morbosa su quel gruppo di donne. Eva sarà una delle più furiose verso l’amante di quarant’anni prima.
La storia d’amore tra Eva e la sua collega Josephine Hutchinson segna profondamente la vita dell’attrice. Quando, nel 1927, comincia questa relazione, Josephine è sposata da poco e il marito nell’intentare la causa di divorzio cita proprio Eva come responsabile della fine del loro matrimonio. Come succede in quegli anni il processo attira l’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica. Eva sembra considerare anche l’idea di sposarsi con il suo amico Basil Rathbone, insieme hanno avuto successo con Il cigno di Molnar. Basil non è omosessuale, ma è un amico e disposto ad aiutare Eva, anche perché crede suo dovere combattere contro questi pregiudizi: è stato anche arrestato per aver messo in scena il dramma di Édouard Bourdet The Captive, che, affrontando il tema dell’omosessualità femminile, è finito nel mirino dei gruppi religiosi di New York. Eva però si rende conto che sarebbe sbagliato e resiste.
Finalmente LeG conosce, nella compagnia che mette in scena Camille allo Shubert Theatre, Marion Evensen: vivranno insieme, con i loro tanti cani, fino alla morte di Marion nel 1971. Eva non cerca più di nascondersi. Come dice all’amica scrittrice May Sarton, anche lei lesbica: “Le persone odiano ciò che non capiscono e cercano di distruggerlo. Cerca solo di mantenerti lucida e non permettere a quella forza distruttiva di rovinare qualcosa che per te è semplice, naturale e bello”.

LeG, pur apparendo meno sul palcoscenico, rimane un punto di riferimento per le nuove leve del teatro americano. Il grande pubblico nel 1955, grazie alla televisione, scopre la sua storica edizione di Alice nel Paese delle Meraviglie: Eva torna a vestire i panni della Regina Bianca, con Elsa Lanchester come Regina Rossa e un cast di grandi caratteristi. Memorabile è la sua Elisabetta nella Maria Stuarda di Schiller nel 1957 in una produzione del Phoenix Theatre. Questo teatro è stato aperto solo quattro anni prima: nell’idea dei produttori, questa sala, lontana da Times Square, deve ospitare una compagnia permanente e produrre quattro o cinque spettacoli a stagione, mantenendo i prezzi dei biglietti molto più bassi che a Broadway. Eva non può far mancare il suo sostegno a questo progetto off-Broadway. Nel 1964 è Irina Arkadina ne Il gabbiano, in un’edizione di cui cura sia la traduzione che la regia.
In quell’anno il mondo del teatro le rende omaggio assegnandole lo Special Tony Award per celebrare i suoi cinquant’anni di carriera e soprattutto il suo impegno per aver creato il teatro di repertorio negli Stati Uniti.
Nel 1968 va in scena Il giardino dei ciliegi, in un’edizione di cui LeG cura la traduzione e la regia, con un cast in cui ci sono Patricia Conolly, Richard Easton, Uta Hagen, Nancy Walker. Il 30 dicembre 1975 debutta una storica edizione di The Royal Family di George S. Kaufman e Edna Ferber: Eva è Fanny Cavendish, accanto alla giovane Rosemary Harris nel ruolo di Julie. L’anno dopo questo spettacolo viene ripreso dalla televisione nell’ambito della fortunata serie Great Performances trasmessa dalla PBS: Eva Le Gallienne ottiene l’Emmy per la sua interpretazione.
Nel 1980 arriva per Eva anche un ruolo al cinema: per la grande attrice, a ottant’anni si tratta praticamente di un debutto. In Resurrection ha il ruolo di Pearl, la nonna di Edna, interpretata da Ellen Burstyn. Entrambe le attrici ricevono una nomination all’Oscar.
Nel 1982 quando Sabra Jones decide di fondare la propria compagnia di repertorio, The Mirror Theatre Ltd, chiede aiuto a Ellis Rabb, il direttore artistico della Phoenix Repertory Company, a John Houseman, storico produttore del Mercury, e ad Eva Le Gallienne. Ed è proprio l’ottantenne Eva a rispondere in maniera entusiasta: accetta di aprire la stagione della nuova compagnia riproponendo il suo storico Alice nel Paese delle Meraviglie. E come cinquant’anni prima LeG cura la regia e interpreta, ancora una volta, la Regina Bianca. L’anno dopo anche questo spettacolo viene riproposto in televisione in Great Performances. Del cast dello spettacolo teatrale rimane solo la giovane Kate Burton nel ruolo di Alice. E, accanto a lei - per un’evidente ricerca di audience - suo padre Richard nel ruolo del Cavaliere Bianco. Eva non partecipa a questa edizione: è Maureen Stapleton a interpretare la Regina Bianca.
L’ultima apparizione di Eva è nel 1984 in un episodio della serie televisiva St. Elsewhere, - un classico del genere ospedaliero, in Italia conosciuta come A cuore aperto o S. Eligio giorno e notte: uno dei protagonisti è il suo amico Norman Lloyd, che ha cominciato a lavorare proprio al Civic Repertory. Eva è la più anziana delle tre pazienti che condividono la camera dell’ospedale, con lei ci sono Brenda Vaccaro e Blythe Danner.

Eva muore, all’età di novantadue anni, il 3 giugno 1991, nella sua fattoria di Weston nel Connecticut, che da molti anni è il luogo dove vive insieme ai suoi cani.
Per tutta la sua vita LeG non concepisce come sia possibile fermarsi, smettere di amare, lottare, recitare.
Che importanza ha il successo o il fallimento, se sei riuscita a fare quello che ti eri prefissata? Fare è tutto ciò che conta davvero.

giovedì 27 luglio 2023

Verba volant (842): gentilezza...

Gentilezza
, sost. f.

È il 5 novembre 1959. Il pubblico americano che quel giovedì decide di vedere uno dei film prodotti e distribuiti dalla Columbia - che sia la divertente commedia The Mouse That Roared con Peter Sellers o Battle of the Coral Sea su un eroico equipaggio di sommergibilisti durante la seconda guerra mondiale o ancora The Warrior and the Slave Girl, un peplum a basso costo girato in Italia - al prezzo del biglietto può assistere anche al primo episodio di una nuova serie di cartoni animati. Ancora per qualche anno nella sale i film saranno preceduti da un cortometraggio di animazione, anche se ormai i cartoni stanno diventando prodotti esclusivamente televisivi.
Quelli che sono soliti leggere i titoli di testa si sono accorti che quel cartone è realizzato da William Hanna e Joseph Barbera, gli autori della fortunata serie Tom and Jerry prodotta dalla Metro-Goldwyn-Mayer dal 1940 al 1958. William e Joseph non lavorano più per la MGM, perché quello studio li ha licenziati, dopo aver deciso di chiudere il reparto di animazione, proprio perché ormai i cartoni al cinema sono un prodotto superato. I due hanno aperto una loro, per ora piccola, casa di produzione. Alla fine degli anni Cinquanta realizzano alcune serie per la televisione, che ottengono un discreto successo - anche se non paragonabile a quello di Tom e Jerry - come quelle che hanno come protagonisti Yoghi, Braccobaldo, Ernesto Sparalesto. Sollecitati dai produttori della Columbia, decidono di tornare al cinema: sarà la prima e l’ultima serie che realizzeranno per il grande schermo. Anche perché stanno per lanciare in televisione una nuova serie dedicata a una famiglia che vive nell’età della pietra. E sarà un successo al di là di ogni aspettativa.

Ma torniamo al novembre del 1959. Il protagonista di quel cartone animato è un lupo antropomorfo, che si chiama Loopy De Loop - come vediamo sulla buchetta per la posta davanti a casa sua. Il nome richiama sia la parola latina per questo feroce animale sia il loop, il salto all’indietro dei voli acrobatici. Il nostro lupo indossa una cuffia e una sciarpa entrambe gialle ed evidentemente deve superare i postumi di un brutto incidente, visto che si è rotto - non sappiamo come - un braccio e una gamba. Parla con un curioso accento francese - come quelli del Québec quando si sforzano di usare l’inglese - ha un tono gentile, forse un po’ cerimonioso, ci mostra il libro che sta leggendo e ci annuncia che racconterà la vera storia di Cappuccetto Rosso. E siamo “trascinati” con lui, nel libro e nella storia.
La bambina, mentre attraversa il bosco per raggiungere la casa della nonna, viene avvicinata dai tre porcellini, una banda di teppistelli che le ruba il cestino delle provviste. Loopy, che assiste alla scena, si avvicina alla bambina in lacrime che però, resasi conto che si tratta di un lupo, lo afferra per la coda e lo sbatte diverse volte a terra, dimostrando un’incredibile forza. Loopy non reagisce - anzi sembra comprendere i timori della piccina - e incassa quelle botte. Ma, essendo gentile, non rinuncia alla missione di recuperare il cestino. Arrivato alla solida casa in mattoni della banda, i tre porcellini lo sfidano ad abbatterla con un soffio, ma Loopy escogita uno stratagemma che gli permette di recuperare comunque il “bottino”. Va quindi a casa della nonna e la dolce vecchina, accortasi che si tratta di un lupo, dimostra un’inattesa energia, lo afferra per la coda e, ancora una volta, Loopy le prende di santa ragione. Il lupo neppure in questo caso reagisce, ma si dimostra davvero charmant e i suoi complimenti - e quell’accento francese - affascinano la nonna, che si tranquillizza. Arriva però Cappuccetto Rosso che imbraccia un fucile. Loopy, a questo punto, non può che fuggire. Siamo di nuovo nel giardino della casetta di Loopy, che chiude il libro: la storia sembra finita. Ma la nonna ha altre idee e, travestita da Cappuccetto Rosso, lo insegue per riprendere il corteggiamento. La fuga del lupo continua.

Loopy De Loop ha un successo immediato e la Hanna-Barbera produce, dalla fine del 1959 al giugno del 1965, quarantotto episodi, di circa sette minuti l’uno, destinati ai cinema con protagonista questo lupo gentile e sfortunato, che si sforza di essere accettato dagli altri. Ken Muse che, dopo aver lavorato per Disney in Pinocchio e Fantasia, è stato uno dei “padri” alla MGM di Tom e Jerry, è l’animatore dei primi episodi. Dopo saranno altri grandi nomi dello studio, come Carlo Vinci, Dick Lundy e George Nichols a curare l’animazione. È Daws Butler a dare la voce a Loopy De Loop. Forse il suo nome non vi dice nulla, eppure è un grande dell’animazione americana, visto che è il doppiatore originale di Yoghi, Braccobaldo, Ernesto Sparalesto e Babalui, Svicolone, Wally Gator, Peter Potamos, Barney Rubbles, Napo Orso Capo e molti altri personaggi della Hanna-Barbera. La casa di produzione mette i suoi migliori “artigiani” al lavoro sulla serie dedicata a questo lupo sfortunato.
In diverse delle sue avventure gli sceneggiatori giocano con le fiabe più classiche, come avviene appunto nel primo episodio. Ad esempio Loopy incontra Hansel e Gretel, che però rifiutano l’aiuto del lupo che li vorrebbe far fuggire dalla casa di marzapane. Biancaneve invita il lupo a casa, ma i sette nani non sono d’’accordo. In un altro episodio Loopy tenta anche di convincere il Lupo cattivo di Cappuccetto a cambiare vita e a diventare vegetariano come lui, senza successo. Loopy è anche il fondatore della S.S.A., la Sheeps Stealers Anonymous, in cui organizza gli incontri con altri lupi che cercano di uscire dalla “dipendenza” verso le pecore: un’altra impresa destinata al fallimento.
In un giorno in cui Riccioli d’oro è fuori di casa, deve fare da baby-sitter al piccolo orso: un compito che si rivela troppo difficoltoso anche per un tipo gentile e paziente come lui. Mentre ha più fortuna quando riesce ad aiutare il Principe Azzurro a trovare Cenerentola, che però si spaventa quando si rende conto che è un lupo. Quando va bene le avventure di Loopy finiscono con una fuga precipitosa, ma più spesso viene picchiato. Adesso capiamo il motivo di quelle ingessature del primo episodio.
In genere Loopy si caccia nei guai proprio a causa della sua gentilezza: cerca di aiutare tutti, ma scopre, suo malgrado, che molti non vogliono essere aiutati. E specialmente da un lupo. Un altro dei motivi ricorrenti degli episodi è che tutto sembra andare bene, fino a quando Loopy non si presenta, perché lui è orgoglioso di essere un lupo “diverso”, “a good wolf”, come dice sempre. Ad esempio in Life with Loopy lo vediamo in terapia, mentre racconta di quando ha cercato di diventare un cane da pastore. Il suo padrone era così contento di lui e del suo lavoro, da spingere Loopy a dirgli che era un lupo. Ovviamente costringendolo a una rapida fuga. Ma a questo punto anche il terapista si rende conto che si tratta di un lupo e lo caccia fuori dal suo studio.

In Italia Loopy De Loop arriva già nel 1962. Viene ribattezzato Palmiro De Lupis ed è il protagonista di Le eroiche battaglie di Palmiro lupo crumiro, un film prodotto dalla Titania Film, che viene distribuito al cinema montando insieme dodici episodi. Quelli della Titania inseriscono questi episodi autoconclusivi e con nessun legame l’uno con l’altro in una sorta di “cornice”, ossia le pagine di un libro con il titolo dell’episodio, nella tradizione aperta dalla Disney nei suoi classici animati. E si inventano anche un finale: infatti nell’ultimo cartello si dice che Palmiro, stanco di prenderle sempre, ha deciso di cambiare vita e di diventare un lupo cattivo, adeguandosi a quello che gli altri pensano da sempre di lui.
La voce del lupo è quella, inconfondibile, di Paolo Panelli, uno dei grandi caratteristi del cinema e della televisione, mentre la voce della sua coscienza - che manca nell’originale americano - e di quasi tutti gli altri personaggi sono affidate ad Alighiero Noschese. Il celebre imitatore si può scatenare nell’episodio I balli mascherati e gli amici del giaguaro. Il lupo, in una delle sue continue fughe, capita davanti a una casa dove c’è una festa in maschera. Il padrone di casa crede che sia un suo amico travestito da lupo, lo invita dentro e gli chiede di esibirsi nelle sue imitazioni. Nell’originale Loopy imita Maurice Chevalier, Peter Lorre, Ed Sullivan e Jimmy Durante. Naturalmente quando si scopre che non è Charlie, ma un vero lupo, Loopy, fino a quel momento applaudito e l’anima della festa, viene cacciato. nella versione italiana Palmiro imita Totò ed Enza Sampò, cavalli di battaglia di Noschese. E in questo curioso film non mancano neppure citazioni di celebri canzoni, da Il blu dipinto di blu a Romantica.
Nel 1969 gli episodi vengono nuovamente doppiati e trasmessi, dal 30 settembre di quell’anno, sul Programma Nazionale. Questa volta la voce del protagonista, con un lieve accento inglese, è quella di Antonio Guidi, uno dei grandi del doppiaggio italiano e anche un volto familiare della televisione, visto che per alcuni anni ha condotto Il teatro di Arlecchino, un programma dedicato alle maschere e alla commedia dell’arte. Loopy diventa allora Lupo de’ Lupi. Solo qualche anno dopo, in un successivo doppiaggio - con la voce di Roberto Del Giudice - diventa Lupo de’ Lupis. Come noi lo conosciamo.

Ma torniamo nell’America di quel freddo giovedì di inizio novembre. In molte sale cinematografiche degli Stati del Sud bianchi e neri devono sedere in posti separati e ovviamente i primi hanno quelli migliori. Tutti ridono di fronte alle disavventure di quel personaggio, ma qualcuno comincia a pensare. Loopy viene giudicato non per quello che fa, ma per quello è: a nessuno importa che sia un lupo rispettoso delle regole, un altruista, perché quando lo guardano vedono solo un lupo. Ma quello che fa davvero infuriare quelli che hanno questi pregiudizi contro di lui è il fatto che Loopy non alza mai la voce, non protesta, lui continua imperterrito a fare le sue buone azioni. Alla violenza Loopy De Loop risponde con la gentilezza: non c’è nulla di più rivoluzionario. E anche altri lupi “buoni” faticano a capire questa ostinazione di Loopy, la giudicano una forma di arrendevolezza. Ma a lui sembra davvero non importare. Lui sa la verità e la dice: “I’m Loopy De Loop. I’m a good wolf”. E questo vi deve bastare.
I cinque anni in cui Loopy De Loop appare sugli schermi, l’America cambia in maniera profonda.
Il 6 maggio 1960 il presidente Eisenhower firma il Civil Rights Act, la legge federale che istituisce ispezioni e detta le sanzioni per chi impedisce ai neri di votare.
Dal 1 novembre 1961 sui mezzi di trasporto pubblico interstatale nessun posto può essere riservato in base al colore della pelle, al credo religioso o all’origine nazionale.
Il 28 agosto 1963 duecentocinquantamila persone arrivano a Washington per la Marcia per il lavoro e la libertà. La maggioranza della folla assiepata di fronte al Lincoln Memorial è composta da afroamericani, ma sono tanti i bianchi che hanno aderito. Quel giorno Martin Luther King pronuncia il celeberrimo discorso che comincia con le parole “I have a dream”.
Il 2 luglio 1964 il presidente Johnson, dopo un lungo e sofferto iter legislativo, promulga il Civil Rights Act: vengono dichiarate illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sui posti di lavoro e in tutte le strutture pubbliche
Loopy De Loop è consapevole che non basta una firma sotto una legge per cambiare le teste delle persone, sa che il futuro sarà difficile - come dirà nel 1967 Spencer Tracy nello splendido monologo che chiude Guess Who’s Coming to Dinner - ma è altrettanto sicuro che senza quella legge la sua battaglia sarebbe vana. È contento di aver fatto la sua parte, di aver dato il suo contributo alla lotta. Con gentilezza.

venerdì 21 luglio 2023

Verba volat (841): giudizio...

Giudizio
, sost. m.

Il 28 novembre 1989 - due mesi dopo l’uscita al cinema di Palombella rossa e solo qualche giorno dopo la “svolta” della Bolognina – la Epic Records pubblica Di terra e di vento, un 33 giri di inediti di Fiorella Mannoia. Confesso che in quei giorni di autunno non sono molto attento alle novità discografiche. Penso ad altro: sono le mie prime settimane all’università, ma soprattutto guardo con grande interesse a quello che succede a Berlino, a Mosca, in un’Europa in cui sembrano schiudersi grande speranze. E mi appassiono - molto - a quello che sta succedendo nel mio partito, che si chiama ancora PCI. Allora ci credevo ancora: ero davvero convinto di poter cambiare il mondo.
La seconda traccia di quello splendido disco è Oh che sarà. Ivano Fossati ha tradotto, abbastanza fedelmente, il testo scritto da Chico Buarque de Hollanda e la canta insieme a Fiorella. Per quel 33 giri l’autore genovese scrive per lei anche Baia senza vento e la bellissima Lunaspina.

ah, che sarà, che sarà
che vanno sospirando nelle alcove
che vanno sussurrando in versi e strofe
che vanno combinando in fondo al buio
che gira nelle teste, nelle parole


Bologna, 2002. È un caldissimo pomeriggio di fine agosto. La Festa provinciale dell’Unità è cominciata solo da qualche giorno e io convoco una riunione urgente delle compagne e dei compagni responsabili delle varie attività. So già che non sarà un’assemblea facile: devo chiedere di allungare la festa di due giorni. Forse a voi sembra poco, ma sono già venticinque - senza contare quelli necessari per il montaggio e lo smontaggio - e altri due oggettivamente pesano. Però secondo me ne vale la pena. Gli organizzatori del tour di Pino Daniele, Francesco De Gregori, Ron e Fiorella Mannoia ci hanno proposto di organizzare un concerto dei quattro artisti mercoledì 18 settembre, proprio nella grande arena del Parco Nord.
Quel tour è stato l’evento dell’estate: venticinque date, ma nessuna in Emilia-Romagna. E poi sarà l’occasione per registrare dal vivo il doppio cd e il dvd di quel concerto, sfruttando il grande palco e molte delle attrezzature già montate per le riprese dell’MTV Day del 14 settembre.
Com’è prevedibile c’è più di un malumore, anche perché immaginano già le reazioni di quelli a cui loro dovranno a loro volta riferire quella decisione. Sono compagni saggi, sanno che abbiamo già detto di sì e che quella è una comunicazione e non una decisione da prendere. Prevale comunque un giudizio favorevole: il “centralismo democratico” funziona, almeno nelle Feste dell’Unità.
Così il 30 agosto comincia la vendita dei biglietti nelle prevendite abituali, come si diceva una volta, prima di Vivaticket e delle altre piattaforme specializzate. I biglietti costano da 35 euro per i posti a sedere nel primo settore a 24 per stare in piedi o accomodarsi sul “bananone”, come chiamiamo l’anfiteatro di terra che delimita l’arena. Qualcuno - soprattutto qualche compagno intellettuale snob - fa polemica per il costo troppo alto dei biglietti, che peraltro loro possono acquistare senza problemi. I posti a sedere si venderanno comunque in pochi giorni: i bolognesi arrivano senza fretta, sanno che l’arena è enorme e i posti praticamente illimitati.

che accende candele nelle processioni
che va parlando forte nei portoni
e grida nei mercati che con certezza
sta nella natura, nella bellezza


Il 22 novembre 1976 esce nei cinema brasiliani Dona Flor e Seus Dois Maridos, un film diretto da Bruno Barreto, adattamento del romanzo scritto dieci anni prima da Jorge Amado. Realizzare quel film è possibile grazie al nuovo clima di aperture portato avanti dal presidente Ernesto Geisel, che attenua la repressione del suo predecessore Emílio Garrastazu Médici. Si tratta sempre di un regime sostenuto dai militari e finanziato dalla Cia, ma in quegli anni la censura comincia ad allargare le maglie. Geisel, nonostante il regime di Salazar sia sempre stato un alleato, dopo la rivoluzione dei garofani, riconosce il governo del socialista Mario Soares, dimostrando un notevole pragmatismo.
Il film è un grande successo in Brasile, anche grazie all’interpretazione di una splendida Sônia Braga, che nel suo paese diventerà famosa, oltre che per questo ruolo, per quello della protagonista di Gabriela, un film, diretto sempre da Barreto, in cui recita accanto a Marcello Mastroianni. Anche questo è un personaggio di Amado, del suo romanzo Gabriella, garofano e cannella. Poi negli anni Ottanta per la diva brasiliana arriverà anche la fama internazionale, grazie a Il bacio della donna ragno e Milagro. E anche grazie alla sua storia d’amore con Robert Redford.
Nel febbraio 1978 il film arriva nell’Italia della “solidarietà nazionale”, sconvolta dal terrorismo, alcuni mesi dopo l’uscita dell’edizione italiana del romanzo. Nel nostro paese il film va abbastanza bene, anche se il pubblico probabilmente si aspetta una commedia più scollacciata, vista la locandina. Certo in quell’anno escono sia Ecce Bombo che L’albero degli zoccoli, ma nei manifesti di tante sale campeggia la prorompente bellezza di Edvige Fenech, protagonista in quella stagione di ben tre film, diventati pietre miliari della commedia sexy degli anni Settanta: L’insegnante va in collegio, La soldatessa alle grandi manovre e L’insegnante viene a casa.

quel che non ha ragione né mai ce l’avrà
quel che non ha rimedio né mai ce l’avrà
quel che non ha misura


È una bella festa quella del 2002. È la quarta da quando Giorgio Guazzaloca è sindaco di Bologna, il primo di destra nella città “rossa” per eccellenza, la città della più grande Federazione comunista dell’Europa occidentale, come si diceva una volta. La Federazione è sempre grande, la più grande d’Italia, ma ovviamente non siamo più comunisti. Adesso ci chiamiamo Democratici di Sinistra e Fassino è il nostro segretario nazionale, dopo il combattuto congresso dell’anno precedente, in cui la sua mozione - che anch’io ho sostenuto in tante sezioni della provincia - ha prevalso su quella di Giovanni Berlinguer, appoggiata dalla Cgil di Sergio Cofferati. È anche la quarta da quando sono un funzionario di partito, proprio con l’incarico di organizzare le Feste dell’Unità. E noi continuano a fare una delle feste più grandi d’Italia. Me lo dirà anche l’ex presidente Scalfaro l’anno dopo, ammettendo che noi siamo sempre stati i più bravi a fare le feste.
A Palazzo Chigi c’è il Berlusconi II, che sarà il più longevo della storia della Repubblica.
Almeno l’Unità è tornata in edicola, diretta da Furio Colombo: a me è toccato fare nel 2000 la prima Festa nazionale dell’Unità senza l’Unità, una cosa che ha accesso la curiosità degli annoiati cronisti agostani. E mi ha fatto anche andare su Radio Uno.
Stiamo già morendo, ma molti di noi non se ne rendono conto. Io, per esempio, sono uno di quelli che ancora è convinto di poter cambiare il mondo, almeno un po’.

ah, che sarà, che sarà
che vive nell’idea di questi amanti
che cantano i poeti più deliranti
che giurano i profeti ubriacati
che sta sul cammino dei mutilati


Per la colonna sonora di Dona Flor e Seus Dois Maridos Chico Buarque compone O que serà. Nel film ci sono tre versioni, che punteggiano i tre momenti della storia: Apertura, A fior de piel, A fior de tierra.
Chico racconterà qualche anno dopo di essersi ispirato a una serie di fotografie scattate a Cuba, che descrivono la vita di quel paese, al di fuori della retorica castrista.
I funzionari della censura passano al setaccio i versi della canzone. Chico Buarque è un autore di sinistra. Durante gli anni di Médici è stato arrestato e poi ha lasciato il paese per venire in Italia, in una sorta di auto-esilio. Ora è tornato in patria, ma continua a essere una spina nel fianco del regime.
Gli uomini della censura vogliono evitare quello che è successo qualche hanno prima con la canzone Apesar de você, che in un primo momento hanno approvato e poi è diventata un inno del movimento democratico, costringendoli in tutta fretta a bandirla. Ogni parola viene soppesata, ma alla fine decidono che non si tratta di una canzone politica.
Forse è vero, forse è solo una bossa nova. C’è una malinconia profonda che avvolge quelle parole, che raccontano la sofferenza del mondo e insieme il bisogno di gridare che occorre fare qualcosa per combatterla. O que serà è la canzone di uno che il mondo lo vuole cambiare, che ci crede ancora, per quanto si renda conto che è sempre più difficile.

e nella fantasia degli infelici
che sta nel dai e dai delle meretrici
nel piano derelitto dei banditi


Ma torniamo al 2002. Lunedì 16 c’è il tradizionale spettacolo di fuochi d’artificio con cui chiudiamo sempre la festa, mentre viene posticipata al mercoledì l’estrazione dell’automobile alla pesca gigante. Il maestro di cerimonia di questo evento è, come sempre, Maurizio Cevenini, il cui suicidio, dieci anni dopo, segnerà per molti di noi un traumatico passaggio, personale e politico.
Martedì 17 è una giornata di attesa e di preparazione del concerto.
Arriva mercoledì 18: finalmente l’ultimo giorno di quella lunghissima festa. E noi stiamo già lavorando per programmare le attività di smontaggio, che dureranno per un’altra ventina di giorni.
Nel primissimo pomeriggio, nella distesa vuota del Parco Nord, cominciano a risuonare le note di Napule è. Pino Daniele è quello che prova in maniera più meticolosa i propri pezzi. Io ascolto così quel concerto, la sera ci sono troppe cose da fare e non riesco a fermarmi come vorrei. Ma quel pomeriggio mi siedo sulla sgangherata sedia del mio ufficio nella palazzina rossa e ascolto. Dopo alcune canzoni, parte la chitarra di Pino e Fiorella comincia a cantare Oh che sarà. E quei versi mi rimangono in testa. Per sempre.
Prima del concerto gli organizzatori mi accompagnano, insieme al segretario della Federazione, nel backstage. Quando mi presentano Fiorella Mannoia, farfuglio un saluto. È così bella che ammutolisco.

ah, che sarà, che sarà
quel che non ha decenza né mai ce l’avrà
quel che non ha censura né mai ce l’avrà
quel che non ha ragione


A interpretare il brano nel film è Simone Bittencourt de Oliveira - o meglio solo Simone, come è conosciuta - che nel 1973 ha lasciato la carriera sportiva - è nella nazionale femminile di pallacanestro del Brasile - per dedicarsi soltanto alla musica. O que serà è uno dei primi successi di questa artista, destinata a diventare una delle cantanti più popolari del suo paese.
Qualche mese dopo Chico Buarque la registra in un duetto con Milton Nascimento; e questa diventa la versione più popolare del brano. Milton ha una voce splendida, fa un grande uso del falsetto, e anche lui è uno di quelli che combatte il governo fascista dei militari. Coração de Estudante commemora il funerale dello studente Edson Luís, ucciso giovanissimo dalla polizia del regime il 28 marzo 1968.
Nel 1978 Gigliola Cinquetti incide la canzone nel suo album Pensieri di donna. Gigliola canta un po’ in portoghese e un po’ in italiano, in una versione, non molto fedele, scritta da Sergio Bardotti. Non è una “pasionaria”, ma anche Gigliola sta dalla parte giusta.

ah che sarà, che sarà
che tutti i loro avvisi non potranno evitare
che tutte le risate andranno a sfidare
che tutte le campane andranno a cantare
e tutti gli inni insieme a consacrare


A metà del concerto, non so come, arriva in palazzina la notizia che Nanni Moretti è tra il pubblico. Certo Moretti è il regista che ha raccontato con Palombella rossa e La cosa la fine del PCI, è il vincitore, con La stanza del figlio, della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2001, il secondo italiano dopo Ermanno Olmi con L’albero degli zoccoli, ma nel settembre 2002 è, almeno per noi, soprattutto un uomo politico, il leader “de facto” dei girotondi.
Immagino che molti di voi non se lo ricordino, ma per alcuni mesi in quell’Italia tenacemente berlusconiana nasce questo movimento fatto di professori, artisti, intellettuali, altrettanto tenacemente antiberlusconiani. La forza di Berlusconi, sia detto per inciso, è stata proprio questa capacità di animare entusiasmi, a favore o contro poco importa, riuscendo a stare lui comunque al centro della scena. Quelli dei girotondi non sono solo contro Berlusconi, sono anche contro di noi, perché, a loro dire, non siamo abbastanza antiberlusconiani. È stato proprio Nanni, il 2 febbraio di quell’anno a piazza Navona, a dare voce a questo malcontento contro i partiti dell’Ulivo: salito inaspettatamente sul palco, dove ci sono anche i leader del centrosinistra, li attacca e quell’attacco viene calorosamente applaudito.
Il 14 settembre, mentre noi alla Festa dell’Unità di Bologna ospitiamo l’MTV Day - nel cast di quell’edizione ci sono Afterhours, Articolo 31, Daniele Silvestri, Meganoidi, Negrita, Piero Pelù, Timoria e dall’Irlanda arrivano The Cranberries - i girotondi organizzano una grande manifestazione a Roma. Piazza del Popolo non basta e viene spostata a piazza San Giovanni. Quella scelta ha anche un valore simbolico, perché quella è la piazza delle storiche manifestazioni della sinistra italiana. Don Luigi Ciotti, Rita Borsellino, Gino Strada, Paolo Flores d’Arcais, Furio Colombo, Francesco Pardi, Daria Colombo, Vittorio Foa sono tra quelli che parlano dal palco. Ci sono anche molti artisti: De Gregori, Mannoia e Roberto Vecchioni. È proprio Nanni Moretti ad aprire quella grande manifestazione.
Quindi quel mercoledì sera c’è alla Festa, seppur non invitato, un importante ospite politico, per rango qualcosa di simile a un segretario di partito. Qualcosa bisogna pur fare. Il segretario della Federazione mi ordina di raggiungere Moretti e di invitarlo a cena dopo il concerto. Inaspettatamente Nanni accetta.
Adesso devo chiedere a Vanes e ai compagni di Pianoro - che gestiscono uno dei ventuno ristoranti della Festa - di tenere aperto il ristorante fino alla fine dello spettacolo, sicuramente parecchio dopo la mezzanotte. Stavolta si arrabbiano davvero, tanto più quando spiego che dobbiamo portare a cena Moretti, che quei compagni considerano un avversario, perché è uno che invece di unire, divide. Per fortuna c’è la moglie di Vanes che intercede e organizza un gruppo minimo di compagni per tenere in piedi il ristorante così tardi.

e tutti i figli insieme a purificare
e i nostri destini ad incontrare
perfino il padreterno da così lontano
guardando quell’inferno dovrà benedire


Durante la cena Nanni mangia e parla poco, c’è un palpabile imbarazzo. Per fortuna tra le compagne scelte per rimanere c’è la figlia di Gino Agostini, un passato da partigiano, fondatore del Cidif, il Consorzio italiano distributori indipendenti, uno dei pochissimi che ha creduto nel regista ai tempi di Io sono un autarchico. Il ricordo di Gino serve ad allentare la tensione. E non si parla di politica. La cena è comunque piuttosto veloce, per la soddisfazione dei compagni di Pianoro, che finalmente possono pulire e mettere via tegami e stoviglie, che dovranno essere pronti per una prossima Festa.
Per i giovani e per quelli che hanno perso memoria, occorre ricordare che il movimento dei girotondi è destinato a svanire, rapidamente come è nato. All’inizio dell’anno successivo sembra che Sergio Cofferati - che il 23 marzo 2002 ha portato al Circo Massimo tre milioni di persone con la Cgil - possa diventare il leader di questa eterogenea compagnia. Ma, come sappiamo, dopo essere tornato per qualche giorno a lavorare alla Pirelli, si candida a sindaco di Bologna e quel sogno movimentista sfuma. Nel 2003 sarà proprio Sergio la “star” della Festa al Parco Nord - ancora una volta nazionale, la mia seconda - e proprio da lì inizierà la lunga campagna elettorale della “reconquista”.
Io forse non sono il più adatto a parlarne, visto che ero dall’altra parte, facevo il funzionario di partito, ero considerato da quelli del movimento la quintessenza di quello che non volevano essere, di quello che era da buttare. Eppure senza i vituperati partiti, senza le compagne e i compagni delle Feste, non avrebbero potuto fare nulla. Ed effettivamente non hanno fatto nulla. Erano un movimento fatto di generali che pensavano inutile la fureria. E io ero un furiere, e lo facevo anche abbastanza bene. Sembrava non si rendessero conto che per fare politica servono anche risorse, il “vil denaro” (e le feste servivano anche a questo). Proprio non riuscivo a farmeli stare simpatici. E oggi, anche se sono convinto che noi allora abbiamo completamente sbagliato, lo sono altrettanto che non avevano ragione nemmeno loro. Se avessero vinto, saremmo morti comunque.
L’unica soluzione possibile sarebbe stata affidarsi alla saggezza e alla determinazione della moglie di Vanes, ma ovviamente non lo abbiamo fatto.

quel che non ha governo né mai ce l’avrà
quel che non ha vergogna né mai ce l’avrà
quel che non ha giudizio

Adesso che sono certo che io non cambierò il mondo e che sono abbastanza sicuro che non possa affatto cambiare, credo di aver capito che O que serà è, con il suo ritmo di bossa nova, una canzone d’amore. Dell’amore per i nostri ideali perduti.

quel che non ha governo né mai ce l’avrà
quel che non ha vergogna né mai ce l’avrà
quel che non ha giudizio