lunedì 30 marzo 2015

da "Che significa oggi fare politica" di Pietro Ingrao

da Rinascita, 14 novembre 1975

Ma c'è un altro aspetto che forse non è ancora sufficientemente chiaro: e riguarda la ne­cessità che - per uscire dalla crisi eco­nomica - si vada a nuove combinazioni (le chiamerei così) di momenti produtti­vi, a un intreccio originale di diverse competenze settoriali, e - in rapporto a ciò - ad una vera e propria invenzione di nuovi, ruoli sociali e di nuove forme di vita e direzione politica. Non basta insomma un coordinamento dell'esistente. C'è bisogno di una creatività sociale e politica. Quando parliamo di maggiore connessione fra scienza e produzione, dob­biamo pensare ad una maggiore incorpo­razione nella vita produttiva non solo di nuove tecnologie, ma - vorrei dire - an­che di scienza politica, di nuova cono­scenza della società e dello Stato.
Gli esempi emergono dai fatti e dalle lotte di ogni giorno. Si parla oggi di una programmazione articolata, decentrata a livello del potere locale, per individuare e realizzare, a livello ravvicinato, un col­legamento fra riforma nelle campagne e riconversione industriale, e giungere ad una organizzazione di consumi collettivi che dia un punto di riferimento alla pro­duzione. Questa sembra la strada attra­verso cui gli organi di potere locali pos­sono trovare il loro volto moderno e ri­spondere alla domanda impetuosa che og­gi li incalza e a volte li travolge. Ma ciò richiede una creazione diffusa di compe­tenze combinate, che va contro un'orga­nizzazione della direzione politica, concentrata in una somma di carrozzoni ministeriali, i quali agiscono dall'alto e se­parati.
Ancora. E' possibile che il campo ri­bollente della scuola possa durare nelle condizioni di caos, di crisi di identità e quindi di spreco che oggi lo travaglia? Sembra logico che si vada ad una ridefinizione del suo ruolo nella società e quindi del suo rapporto col lavoro produttivo. E' cosa urgente. Un tale cambiamento di contenuti, di ruolo, di collocazione nella società, appare possibile solo con una irruzione ancora più forte della società dentro la scuola (famiglie, organismi so­ciali, forze culturali) che si colleghi però con una proposta generale, con una idea dello Stato, con una sua riqualificazione.
E così, sembra arduo misurarsi con i problemi della salute, come si presenta­no ormai al nostro tempo e alla nostra coscienza, senza che si producano livelli diversi e più diffusi e più coordinati di sapere e di pratica medica, i quali colmino l'attuale distanza tra il grande "luminare" e il malato, evitino l'astrazione della ma­lattia e della sua cura dall'ambiente di vita, ci portino fuori dall'ingolfamento che sta riducendo la rete degli ospedali a stra­ripanti "ammucchiate". Ecco allora che la ricerca e la sperimentazione di me­todi e ruoli nuovi, che ancora ieri sem­brava esercizio utopistico, comincia ad ap­parire necessità razionale, bisogno di eco­nomicità, per evitare assurde dispersioni di ricchezza, materiale ed intellettuale, guasti nelle terapie, crisi delle profes­sioni.
Ecco, insomma, tutta una serie di cam­pi in cui bisogni elementari domandano ormai un altro modo di essere dello Stato che poggi su nuovi modelli di organizza­zione sociale. Il privatismo non regge più. Anzi tanti momenti privati della nostra vita rimandano sempre più al modo con cui è organizzato lo Stato: rimandano al­la politica nel suo significato più generale, nel senso che, per affrontare e risolvere certi problemi, diviene indispensabile non fermarsi a visioni settoriali, ma risalire alle connessioni fra l'uno e l'altro aspetto dello Stato, alle forme politiche e giuridiche più complesse in cui si realizza oggi il rapporto Stato-società e Stato-econo­mia. Parlavo del voto del 15 giugno. Credo che ciascuno di noi potrebbe por­tare esempi di gente che ha votato per noi, a sinistra, perché nella sua vita pri­vata, e ancora più nella sua "professio­ne", si è scontrata più di ieri con una disfunzione dello Stato, che non gli appa­re più settoriale, particolare, ma che co­mincia ad apparirgli generale, per così dire organica. Questa è la conferma di come la politica, nel suo senso più consapevole e più profondo, c'entri sempre di più nelle cose. Ma proprio perché tanti mo­menti della nostra vita sembrano intri­dersi sempre più direttamente di politica, essa non può restarsene confinata in al­to, né ridursi a una delega a gruppi illu­minati di vertice. Quella incorporazione di scienza politica, di direzione program­mata nell'attività produttiva e sociale, che è la grande spinta che scaturisce dai pro­blemi, se vuole essere effettiva, deve di­ventare diffusa e penetrante, deve diven­tare processo di massa che coinvolga e trasformi milioni di uomini e di donne e si realizzi in una molteplicità di livelli e di sedi. Il bisogno di "socializzazione della politica" si presenta sempre meno come sogno generoso, come astratta domanda di democrazia, e sempre più come necessità pratica, "economica". E d'al­tra non è proprio questo processo diffuso di "socializzazione della politica" la via vera non solo per dare concretezza alla democrazia, ma anche per giungere dalla confusione attuale a quello che noi chiamiamo un ordine nuovo e cioè per far camminare una disciplina reale, che sappia fare fronte ai rischi enormi di di­sgregazione, di frantumazione corporativa, che è poi spazio aperto all'autoritari­smo?

mercoledì 25 marzo 2015

Verba volant (172): cittadinanza...

Cittadinanza, sost. f.

Da vecchio internazionalista non ho mai dato un grande valore alla cittadinanza, né alla mia - anche perché non mi sento particolarmente orgoglioso di essere italiano - né a quella degli altri: un uomo - e una donna - valgono per quello che sono, per quello che pensano, per quello che fanno, per quello per cui lottano. E tutti gli uomini sono uguali, indipendentemente da dove sono nati. Però, da ufficiale d'anagrafe, so quanto sia importante la cittadinanza, per i diritti e i doveri che comporta; vedo la soddisfazione degli stranieri quando cambiano finalmente la carta d'identità perché sono diventati, dopo molti anni in cui vivono qui e dopo un iter complicato e costoso, cittadini italiani.
Premetto anche che io sono uno di quelli che vorrebbero che in Italia fosse applicato lo ius soli, ossia credo che possa diventare cittadino italiano chiunque nasca su suolo italiano: mi sembra un criterio oggettivo che prescinde dalla cittadinanza dei genitori - non sempre facile da definire - e da altre valutazioni di natura politica e burocratica. Sinceramente trovo ingiusto che adesso possano votare persone che non hanno mai messo piede in Italia, che sono nate e sempre vissute all'estero, solo perché un loro bisnonno era italiano, e che non lo possano fare persone che vivono in Italia, che lavorano in Italia, che pagano le tasse in Italia, ma i cui genitori sono senegalesi o filippini o ucraini.
Scrivo questa definizione perché, grazie al calcio - l'unico vero argomento di cui pare importare qualcosa alla maggioranza di chi vive in questo paese - si torna a parlare del tema. E ci si divide sull'opportunità o meno di convocare gli oriundi; dal momento che siamo tutti decubertiani, gli oriundi vanno bene quando vinciamo e vanno male quando perdiamo.
Non è questo però quello di cui voglio parlare. Legata a questa vicenda, leggo che il governo appoggia in maniera autorevole la proposta di legge di istituire la cosiddetta cittadinanza sportiva, che garantirebbe di diventare italiani ai minori stranieri tesserati nel nostro paese entro i dieci anni. Viste le premesse non sono tendenzialmente contrario a questa proposta, che comunque allarga la possibilità degli stranieri più giovani di diventare cittadini italiani, ma francamente ne temo le conseguenze. L'opportunità di essere tesserati verrà venduta da società sportive senza scrupoli a famiglie che fanno già fatica a sbarcare il lunario e che dovranno fare questo ulteriore sacrificio per garantire questo beneficio ai loro figli. Succederà - con meno rischi e molte meno possibilità di essere scoperti - quello che succede già con il mercato dei matrimoni: il racket della prostituzione usa le nozze con vecchi italiani, che vengono comprati con pochi soldi - visto il gramo livello delle pensioni dell'Inps - per "regolarizzare" ragazze che arrivano in Italia da ogni paese del mondo. Al di là del giro di soldi "sporchi" e del malaffare che si muoverà intorno a questa proposta - che servirà naturalmente ad arricchire la criminalità organizzata, che si conferma main sponsor di questo governo - è curioso che lo sport sia l'unico motivo che spinge la nostra malmessa classe politica e la cosiddetta società civile che la vota e la sostiene - ossia ne è complice - ad affrontare finalmente un tema così importante.
Mi rendo conto che entro i dieci anni è difficile valutare altre doti di un bambino e di una bambina, ma perché non istituire anche la cittadinanza scientifica? Se accettiamo l'idea che il nostro paese ha così bisogno di calciatori, da modificare una legge che molti considerano scolpita nella pietra, pur di ingrossare i vivai delle nostre società sportive, non siamo disposti a cambiare la legge per avere più ingegneri, più scienziati, magari più filosofi e perfino più poeti?
Chi conosce i bambini sa bene che non si controllano la cittadinanza a vicenda per diventare amici e per giocare insieme. Non è importante sapere che cittadinanza abbia un bambino o una bambina; la cosa importante è che venga educato per diventare un calciatore o uno scienziato o qualsiasi altra cosa, è importante che diventi una persona che sappia fare il proprio lavoro con coscienza e serietà.
Partiamo dalla scuola e proviamo a immaginare che il criterio per l’attribuzione della cittadinanza sia quello culturale: è cittadino chiunque, nato in Italia, risulti legato ai valori essenziali della nostra comunità, definiti dalla Costituzione. Fatto salvo il principio, dovremmo - senza isterismi e senza ipocrisie - provare a fissare dei parametri per compiere tale valutazione. Personalmente credo che un periodo di alcuni anni - meno di dieci, però - di residenza, lo svolgimento di un ciclo scolastico o universitario, l'inserimento nel mondo del lavoro, la regolarità contributiva, possano essere elementi utili. Non mi sembra irragionevole prevedere anche un percorso per gradi.
In questo modo potremmo costruire una comunità politica che sia prima di tutto culturale, e non più etnica. Perché l'Italia ha bisogno, prima di tutto, di cittadini.

lunedì 23 marzo 2015

Verba volant (171): pollo...

Pollo, sost. m.

Il termine latino pullus deriva dal greco polos e indica in maniera generica ogni animale ancora giovane, un puledro, un pulcino, e, usato come un vezzeggiativo, anche il cucciolo di uomo; la radice pu- è molto antica e rimanda, già nel sanscrito, all'atto di procreare, di generare. La parola italiana è il nome generico con cui chiamiamo i gallinacei domestici, soprattutto per indicare le specie che si allevano per la carne e si considerano sotto un aspetto culinario. Pellegrino Artusi illustra ben diciotto ricette con il pollo, da quello semplicemente lesso al ben più sostanzioso alla cacciatora. In questa definizione voglio parlare proprio dei polli che mangiamo (anche se non darò nessuna ricetta).
L'università dell'Ohio ha studiato i polli e ha scoperto un dato interessante. Nel 1957 un pulcino appena nato pesava circa 34 grammi, mentre nel 2005 44 grammi; sempre nel '57, quello stesso animale, dopo 56 giorni dalla nascita, pesava circa 905 grammi (un aumento di circa 15 grammi al giorno), mentre nel 2005 il suo peso arrivava ben a 4,202 chilogrammi (l'aumento è di 74 grammi al giorno). Per fare una sintesi, in cinquant'anni il peso del pollo è più che quadruplicato e soprattutto siamo riusciti a incidere sulla sua velocità di crescita. Il maggior peso è stato concentrato per lo più nel petto. Probabilmente questi dati sono già cambiati, dal momento che, nonostante la crescita di questi decenni, i polli non hanno ancora raggiunto il peso massimo consentito dalla loro struttura corporea: e naturalmente c'è chi studia per raggiungere il prima possibile questo limite. E, se possibile, per superarlo.
Mentre nei giorni scorsi leggevo questa notizia e prendevo qualche appunto per la definizione che adesso avete la pazienza di leggere, è scoppiata la polemica tra Domenico Dolce ed Elton John sui "figli sintetici". Vista la notorietà pop di questi due personaggi sul tema si è scatenata una vivace discussione, in cui molti ribadivano la necessità di non forzare la natura e quindi di lasciare che i cuccioli di uomo nascano attraverso il sistema tradizionalmente conosciuto. Va bene, credo anch'io che la natura sia importante e vada rispettata, ma come mai la natura non interessa più a nessuno quando parliamo dei polli?
Io non sono un animalista, sono un carnivoro che mangia, tra gli altri animali, anche i polli, però credo che dovremmo interrogarci anche su questa crescita, che ci può apparire naturale, ma è assolutamente artificiale, dettata unicamente dalle regole del mercato.
Sempre l'università dell'Ohio ha rilevato quanto sia aumentato il consumo di pollo negli Stati Uniti. Negli ultimi trent'anni c'è stata una vera e propria ossessione a sostituire la carne rossa con la carne bianca. Un americano mangia in media 35 chili di pollo all'anno; che poi una parte consistente di questo pollo venga consumato dopo essere stato pesantemente fritto è un'altra storia, che spiega come mai i bambini americani siano così obesi. Anche perché le patatine fritte non sono verdura.
I polli "naturali", quelli che nascevano di 34 grammi, non sarebbero mai bastati per soddisfare il bisogno dei venditori di pollo di far mangiare questa pietanza agli americani e dal momento che non volevano neppure allevare più polli, cosa che avrebbe aumentato i costi - e quindi diminuito i loro guadagni - hanno cominciato a studiare come far crescere ogni singolo pollo, come aumentare la carne in ciascun petto. E siccome hanno insegnato agli americani a mangiare la carne bianca dei petti, hanno anche cosce, ovviamente più grosse, che vendono ai paesi più poveri, che devono accontentarsi di quello che "non piace" negli Stati Uniti.
Per parafrasare lo stilista milanese questi non sono "polli sintetici"? Lo sono, ma dal momento che l'unico obiettivo è quello di spendere poco e di incassare molto, ossia di guadagnare sempre di più, in nome del sacro dio dollaro, siamo disposti a sorvolare su tutto il resto, senza farci troppe domande. Vale per i polli, ma vale per tutto il nostro rapporto con la natura: noi vogliamo costantemente forzarne i limiti. Gli scienziati che hanno creato - come novelli Frankenstein - questi super-polli, hanno applicato, tra le altre cose, le leggi darwinanie della selezione naturale, ma qui non c'è nulla di naturale: ai polli non serve avere un petto grande, anzi probabilmente li fa vivere peggio, ma a noi non interessa. A noi interessa che il pollo costi poco e che continui a essere un cibo popolare: è facile convincere le persone a mangiarne sempre di più, guadagnando sempre di più. Bisogna solo continuare ad aumentare il peso dei polli. Ma anche questo è semplice, solo che non è lecito: è immorale, perché forza i limiti che la natura ha posto e che noi uomini dobbiamo saper riconoscere e accettare.
Dante Alighieri mette nel terzo girone del settimo cerchio dell'Inferno coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, come spiega un anonimo commentatore del XIV secolo. Il poeta, senza mai citarla, si riferisce in particolare alla sodomia, ma quanti uomini nei nostri tempi peccano facendo violenza alla natura? Naturalmente non mi riferisco a Dolce e Gabbana, che ovviamente sono liberi di fare quello che vogliono. Chi fa crescere un pollo quattro volte più del normale, solo per arricchirsi, meriterebbe di camminare in eterno sul sabbione, colpito da una pioggia di fuoco.
Mi rendo conto che in una società in cui si applica costantemente e sistematicamente lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, probabilmente interessa poco lo sfruttamento dell'uomo sul pollo, eppure se ci pensate è qualcosa che nasce nello stesso modo, seguendo una stessa logica perversa, quella secondo cui tutto è lecito, in nome del guadagno individuale. Invece non è così. Prima lo impareremo, meglio sarà. Per gli uomini, e per i polli.

giovedì 19 marzo 2015

Considerazioni libere (398): a proposito della ricostruizione della sinistra...

So che dell'argomento ho appena scritto, ma francamente mi sembra la novità più rilevante da molto tempo nel campo travagliato della sinistra italiana. Io sostengo la proposta di Maurizio Landini e della Fiom di costituire quella che ormai abbiamo cominciato a chiamare coalizione sociale, parteciperò alla manifestazione di sabato 28 marzo a Roma e farò, nel mio piccolissimo, quello che posso per sostenere questa proposta politica, cercando di valorizzarne il carattere di originalità, sperando che non diventi l'ennesimo esperimento concluso male, l'ennesima occasione di rimpianti e recriminazioni.
Come ho scritto, credo che ci troviamo di fronte ad un'emergenza democratica e sociale: la risposta deve essere di conseguenza. I lavoratori sono sotto attacco, in un modo e con una violenza a cui non eravamo abituati; a questa situazione dobbiamo reagire, con la politica, in forme inedite, perché l'attacco è inedito, e radicali e rivoluzionarie - non spaventatevi di questa parola - perché l'attacco che stiamo subendo è di carattere eversivo.
Come sapete, sono politicamente un residuato del secolo scorso e di fronte a una proposta nata in questa modo, con queste caratteristiche, mi rimangono parecchi dubbi sul metodo. C'è in particolare questa accentuazione sul nome di Maurizio Landini che fatico ad accettare, perché per me un progetto politico deve partire dalle idee e dai valori, da un gruppo dirigente diffuso, da un radicamento ampio sul territorio, prima che da un leader, per quanto capace e carismatico, come si sta dimostrando in questa fase il segretario della Fiom. Che ci piaccia o no - a me non piace ovviamente - la nostra società è dominata dai media e quindi, nonostante tutti i nostri dubbi, tutti i nostri distinguo intellettualoidi, in Italia abbiamo bisogno di una persona come Alexis Tsipras, come Pablo Iglesias, abbiamo bisogno di un leader nuovo, che abbia un'impronta popolare e che sia capace di stare in televisione in maniera efficace. Landini ha queste caratteristiche e in più rispetto a quei due leader ha un legame forte - più forte del loro - con il mondo del lavoro salariato, con la fabbrica. Come ho scritto più volte, uno dei risultati più evidenti di questi decenni di incontrastato dominio dell'ideologia ultraliberista è stato la distruzione dei corpi intermedi, trasformando la politica in un rapporto diretto tra leader e popolo. Non abbiamo tempo di costruire adesso dei nuovi corpi intermedi; è una cosa che dovremmo fare - assolutamente - ma adesso siamo in guerra e dobbiamo combattere, con le armi che ci hanno messo a disposizione, anche se non siamo stati abituati ad usarle.
Certo nessuno può mettere in dubbio che Landini sia di sinistra e che la coalizione sociale nasca robustamente a sinistra - altrimenti molti di noi non sarebbero qui - eppure deve essere capace di parlare anche ad un mondo in cui questa identificazione identitaria non ha alcun senso. Anche questo può non piacerci - a me non piace - ma c'è una generazione a cui non importa nulla di sapere se sei di destra o di sinistra, anche perché nella sua vita non ha mai potuto apprezzare - nei comportamenti e nell'azione politica - una distinzione reale tra queste due categorie. Se vogliamo recuperare una parte del voto che in questi anni ha trovato casa nel Movimento Cinque stelle e soprattutto parlare a una parte significativa di chi si è naturalmente astenuto, non serve sventolare un drappo rosso - che scalda i nostri cuori, ma non i loro - ma bisogna saper usare un linguaggio diverso, in cui deve trovare spazio anche una qualche forma di populismo. Molti di noi non ne sono capaci - non ci hanno insegnato così - ma Landini mi pare lo sia. E quindi va bene così.
Un'altra cosa su cui non dovremmo perdere tempo - mentre vedo che ne perdiamo parecchio nei nostri dibattiti, spesso futili, per quanto interessanti - è la distinzione e la contrapposizione tra coalizione sociale e soggetto politico. La cosa importante adesso è aggregare le persone che lavorano nella società su alcuni temi, come ha ricordato in questi giorni Stefano Rodotà:
tutela dei diritti sociali, partecipazione, riconoscimento dei nuovi diritti civili, considerazione dei beni in relazione alla loro essenzialità per la soddisfazione di bisogni sociali e culturali, rafforzamento dei legami sociali attraverso la pratica della solidarietà, necessità di agire nella dimensione sovranazionale e internazionale in maniera coerente con queste indicazioni.
E naturalmente il grande tema del lavoro - e dei lavori - su cui il sindacato sta già svolgendo un'azione importante. Ed è abbastanza naturale che la nostra azione sia partita da lì, anche perché è proprio contro il lavoro - privato e pubblico - che l'azione del governo è più violenta ed eversiva, in particolare nel rapporto tra democrazia e lavoro, come è stato sancito in maniera altissima dall'art. 1 della Costituzione.
Torno sul punto che ritengo fondamentale, anche perché vorrei rispondere alle compagne e ai compagni che hanno ancora dubbi, che non vogliono fare un ulteriore passo verso la coalizione sociale, che trovano più motivi per ritrarsi e dissentire che per unirsi alla lotta. Ci sono parole - sinistra, socialismo, comunismo - che non parlano più alle persone, che non dicono nulla, che lasciano - quando va bene - indifferenti, ci sono strumenti, come i partiti e i sindacati, su cui non c'è più alcuna fiducia e che anzi vengono genericamente indicati, senza alcuna distinzione, tra i responsabili della crisi. Per molti di noi queste parole hanno un significato, questi strumenti devono continuare ad esistere, però dobbiamo accettare che per tanti non è così. Quindi smettiamo di parlare di sinistra, della sinistra che c'era, di quella che dovrebbe esserci, di quella che ciascuno di noi legittimamente vorrebbe e sogna, e partiamo dalla concretezza dei temi, dalle cose da fare e dalle persone, in carne ed ossa, che le fanno. Troveremo molte persone che nel nostro paese, nelle zone più difficili, nelle periferie - come le chiama il papa - reali e metaforiche, fanno delle cose. Per gli altri. Non sappiamo questi se votano e come votano. E' qualcosa di cui dovremo occuparci dopo, senza farci prendere dalla fretta, senza voler per forza cercare di essere pronti per questa o quella prova elettorale. Adesso non è la cosa più importante.
Adesso la cosa importante è ricostruire l'alfabeto primario della sinistra, proprio a partire dalle cose, riconoscere che aiutare una persona, in qualsiasi modo lo si faccia, è un gesto di sinistra; che lottare per affermare un diritto, negato o non riconosciuto, è un gesto di sinistra; che difendere un bene comune, che qualcuno vuole sottrarre alla collettività, è un gesto di sinistra; che fare una battaglia contro la mercificazione del lavoro, per ridare dignità al lavoro, è un gesto di sinistra. Bisogna ricostruire questo lessico, a partire dai concetti di solidarietà, di giustizia, di etica del lavoro, di legalità, di responsabilità civica. E dobbiamo ricordarci che questi trent'anni hanno pesato in maniera drammatica non tanto sulla politica quanto su questa dimensione che vorrei dire pre-politica, che è stata come annientata, in nomi di valori del tutto opposti.
Spero che la Cgil, la maggioranza della Cgil, che i rappresentanti di quei partiti che in qualche modo presidiano quest'area, se ne rendano conto, partecipando a questo lavoro di base, di educazione ai valori; altrimenti saremo travolti. Tutti. Dovremo farlo, senza fretta, ma con determinazione, partendo dalle energie che ci sono: questo per me è il senso autentico della coalizione sociale. Per questo il progetto non è in conflitto con il sindacato, ma anzi lo aiuta e ne rafforza l'azione; ad esempio allo stato attuale, con questo livello di consapevolezza politica e sociale, il referendum per abrogare il jobs act sarebbe destinato alla sconfitta. Per questo il progetto non è in conflitto con la politica, ma ne costituisce un elemento vivificante.
Prima di tutto ridiamo dignità ai nostri valori, ridiamo senso alle parole. Anche guardandoci negli occhi, in piazza e nei luoghi di lavoro, e imparando a riconoscerci.

giovedì 12 marzo 2015

Considerazioni libere (397): a proposito di coalizione sociale...

Quello che sta succedendo in questi giorni nel nostro paese rende sempre più necessaria e urgente la creazione, tra noi di sinistra, di una coalizione sociale, ampia e resistente. Uso questo aggettivo non a caso, perché credo occorra trovare tra di noi uno spirito di collaborazione tra diversi, che fino ad ora è evidentemente mancato e ci ha resi deboli, in balia di una forza che, diventata egemone culturalmente prima che politicamente, ci sta lentamente fagocitando.
Il partito di governo è sempre più forte e sempre più arrogante. In questo momento non esiste alcuna alternativa politica possibile al blocco di potere che si è aggregato intorno al pd renziano. I piccoli partiti della sinistra radicale, oltre a essere divisi da suggestioni ideologiche a questo punto incomprensibili - che spesso nascondono antipatie personali e rancori, ancora più incomprensibili - sono in alcuni casi tentati dal rapporto con il monolite renziano, nell'illusione, per loro mortale, di riuscire a spostarne il baricentro politico, che rimane invece ormai saldamente ancorato a destra. Mi dispiace doverlo dire ancora una volta, ma la parabola di Vendola è ormai finita, visto anche che è al termine la sua esperienza amministrativa, che ha avuto qualche luce, ma troppe ombre.
A destra l'unica prospettiva possibile - e l'unica che viene mantenuta in vita dal sistema dei media, finanziati da quegli stessi poteri che finanziano il pd - è quella della Lega, a cui presto o tardi si unirà anche quel che rimane del populismo berlusconiano. Renzi ha interesse ad avere come unico interlocutore ed avversario una destra impresentabile e credo lo vedremo presto alle elezioni regionali in Veneto: la radicalizzazione lepenista della Lega, il suo abbraccio con i cascami del fascismo italiano, l'uscita di amministratori moderati di centrodestra come Tosi, favoriscono il pd anche in quella regione finora ostile, perfino con una candidata impresentabile come Alessandra Moretti.
Poi c'è Grillo, la cui forza politica, per quanto non irrilevante, rimane ai margini, finendo comunque per costituire un puntello per l'egemonia renziana. Se le alternative sono Salvini o Grillo, Renzi diviene un candidato accettabile perfino per un pezzo - grande, troppo grande - della sinistra. In questo è evidente la forza del pd di Renzi, non tanto nella capacità di attrarre una parte di ceto politico - Migliore e la Giannini sono le maschere farsesche di quel trasformismo che è così tipico nel nostro paese.
Non illudiamoci poi che nasca una qualche resistenza dentro al pd: al di là di qualche dichiarazione, forse di qualche uscita che avverrà nei prossimi mesi, non è da lì che rinascerà un barlume di sinistra in Italia. Anche perché il pd è figlio - per quanto degenere e degenerato - dei Ds, è figlio nostro, della nostra incapacità di elaborare una risposta politica di sinistra all'affermazione sfrontata e violenta dell'ideologia ultraliberista. Noi, con le nostre "terze vie", con i nostri ragionamenti capziosi sul riformismo, con la nostra incessante ricerca del centro, e soprattutto con una pratica di governo, nazionale e locale, che non ha dato un segno forte, ma ha semplicemente scimmiottato le politiche di destra, siamo i responsabili della nascita di Renzi. E quindi suonano un po' patetiche - al di là della simpatia personale che io continuo ad avere per l'uomo - certe riflessioni di Bersani. Noi - e non Renzi - siamo quelli che abbiamo finanziato le scuole paritarie, che abbiamo introdotto una miriade di contratti atipici, che abbiamo privatizzato tanti beni pubblici e la lista potrebbe continuare; mi fermo per carità di patria. Scusate, ci siamo sbagliati. Adesso proviamo a ripartire, anche forti di quegli errori.
Il segno della forza di questo disegno egemonico - di cui Renzi è soltanto la punta dell'iceberg, la faccia presentabile e manovrabile, da spendere in campagna elettorale - è in due provvedimenti con cui il governo in questi giorni - e significativamente uno dopo l'altro, uno insieme all'altro - ha voluto rendere evidente il proprio disegno "riformatore", come lo chiamano loro: la pesante modifica dello Statuto dei lavoratori, con la cancellazione dell'art. 18 e l'introduzione del demansionamento, e la riforma costituzionale - peraltro votata dalla sola maggioranza - con l'abolizione del senato, lo spostamento del potere sull'esecutivo e la riscrittura di quasi tutta la seconda parte della Costituzione. Questi due provvedimenti, anche nel loro carattere simbolico, svelano il carattere autoritario e di destra di questa maggioranza, a cui si accompagna una retorica genericamente rivolta alla coesione sociale, tesa a impedire il conflitto, a presentare la lotta sociale come un male in sé.
E non a caso adesso il nuovo bersaglio di questa forza egemonica, dopo aver annientato il maggior partito del centrosinistra, è la Cgil, ossia l'ultimo corpo sociale intermedio rimasto nel paese. Per un potere autoritario e populista i corpi intermedi sono un intralcio, perché ha bisogno di entrare in una relazione emozionale con il popolo, senza passaggi intermedi. E quando non funziona l'incantesimo ci si può sempre rivolgere ai cacicchi di turno, ai vari De Luca sparsi per la provincia italiana, ai sempiterni gestori di clientele. Lo so che la Cgil ha delle responsabilità per quello che è successo, sono parte delle responsabilità di cui parlavo prima, quelle che abbiamo anche noi, però non possiamo fare l'errore di accodarci a quelli che sputano su questo sindacato - sugli altri due sputiamo pure, non meritano di più - ne abbiamo bisogno adesso e ne avremo bisogno dopo. Senza la Cgil, pur con tutti i suoi limiti - e magari un po' meglio di quella con cui ci confrontiamo adesso, un po' più consapevole del suo ruolo politico e sociale in questa fase di emergenza, un po' meno attenta a certi equilibri politici e più attenta ai bisogni degli ultimi della società, un po' più di lotta e un po' meno di governo, come si diceva con un antico slogan - non nascerà la coalizione sociale.
Questo governo ha chiaramente scelto da che parte stare, senza infingimenti: dalla parte di Confindustria, dei padroni, delle rendite, di cui ha sposato il programma, in parte andando perfino oltre i loro desiderata - un po' come successe negli anni Venti con  il fascismo - e garantendo a queste forze tutti i vantaggi legati alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni. Perché purtroppo il capitalismo italiano non è solo feroce ed avido, come quello degli altri paesi, è anche disonesto, arruffone, sempre pronto a legarsi alla criminalità. E adesso è vincente, e senza freni.
Spero di aver chiarito che si tratta di una situazione di emergenza, un'emergenza a un tempo democratica e sociale, a cui dobbiamo rispondere in maniera decisa, con risposte di emergenza. Prima di tutto rinunciando alle primogeniture, agli esami dei quarti di nobiltà di sinistra dei nostri interlocutori. Se hai fame, prima di chiederti di partecipare alla coalizione sociale, dovrei provare a offrirti un pasto, se sei malato, prima di chiederti di votare per la sinistra, dovrei provare a curarti. Noi non abbiamo ancora le pezze al culo come la Grecia - anche perché nelle regioni più povere del Mezzogiorno la criminalità organizzata sostituisce lo stato nella gestione del welfare - ma ci arriveremo e, se ci arriveremo avendo già l'idea di costruire una rete solidale di mense, di ambulatori, di servizi di aiuto per i bambini, per gli anziani soli, per i più deboli, la rinascita di una sinistra sociale sarà un po' meno difficile. E partirà da lì o non ripartirà.
Visto che loro ci attaccano sui fondamentali, ossia su democrazia e lavoro, noi dobbiamo resistere su questi stessi fondamentali, riscoprendo i valori fondanti di una sinistra che deve essere critica in maniera spietata degli attuali rapporti sociali e deve avere l'ambizione rivoluzionaria di trasformarli. In maniera radicale e non violenta.
Un compagno ha richiamato giustamente un pensiero di Antonio Gramsci che faccio mio:
Mi sono convinto che anche quando tutto è perduto, bisogna mettersi tranquillamente all'opera ricominciando dall'inizio.
Adesso tutto è perduto e noi non siamo tranquilli, siamo esasperati, siamo arrabbiati - e dobbiamo continuare ad esserlo - e per questo dobbiamo ricominciare dall'inizio, da una coalizione sociale che affondi nel territorio, avendo come valori la Costituzione, il lavoro, l'uguaglianza, la solidarietà.

mercoledì 11 marzo 2015

Verba volant (170): semplificare...

Semplificare, v. tr.

In Italia pagare le tasse è difficile e infatti molti, per evitare l'incomodo e per non sbagliare, preferiscono non pagarle. Naturalmente ci sono degli ostinati, per lo più lavoratori dipendenti e pensionati, che, nonostante la complessità della materia e il bizantinismo del fisco italiano, si ostinano ogni anno a pagarle, addirittura denunciandosi, ogni primavera, alle autorità costituite.
Nella sua magnanimità il governo italiano ha pensato a loro, anche se queste categorie non gli sono particolarmente simpatiche, visto che questi continuano a lamentarsi: che le pensioni sono basse, che i salari diminuiscono, che ci sono sempre meno diritti. Addirittura vanno in piazza contro il governo, che li tratta così bene. Renzi li considera - giustamente - degli ingrati e per questo preferisce di gran lunga la compagnia di quei valorosi italiani che hanno portato i loro soldi nei paradisi fiscali e hanno quindi parecchio tempo libero, visto che non devono pagare le tasse; nonostante ciò, ha deciso di aiutare anche i testardi che vogliono comunque pagarle, mandando loro a casa il 730 precompilato.
A dire il vero se siete lavoratori dipendenti o pensionati non aspettatevi di ricevere a casa una busta dal governo: la carta costa e poi è così poco moderna. Vi dovrete prima accreditare sul sito internet dell'Agenzia delle Entrate, poi riceverete il vostro pin e così finalmente potrete accedere al vostro "cassetto fiscale", dove potete scaricare il 730 precompilato. Come vedete la cosa è piuttosto semplice, anche se in Italia siamo in fondo alle classifiche europee per quel che riguarda l'uso della rete - un terzo degli italiani non ha mai navigato - la diffusione della banda larga e la velocità di banda.
Facciamo finta che siate riusciti a scaricare il vostro 730 precompilato. Fate attenzione perché alcune cose ci sono e altre non ci sono. Ci saranno i redditi comunica­ti dal vostro datore di lavoro o dall'Inps, gli interessi passivi sui mutui, i premi pagati per le assicurazioni sulla vita, le polizze infortuni e i contributi previdenziali. Anche ammettendo che tutti questi dati siano esatti - comunque fossi in voi un controllo lo farei, visto il livello della burocrazia italiana - mancano le spese mediche, le tasse scolastiche e universitarie, le spese di ristrutturazione e altre cose che, da contribuente, hai interesse a dichiarare, per pagare un po' meno tasse; perché, per quanto tu sia testardo e ti ostini a voler pagare le tasse, non ne vuoi pagare più del dovuto.
Non credere comunque che per il solo fatto che il governo ti ha messo a disposizione il 730 precompilato tu sia a posto con il fisco. Se non accedi al "cassetto" e devi pagare, sarai multato, mentre se tu fossi a credito, non sarai rimborsato. Devi confermare o modificare la tua dichiarazione. Se la modifichi, sta' attento, perché a quel punto sarai responsabile di tutto, compresi i dati inseriti dall'Agenzia delle Entrate, anche se lo sbaglio lo hanno fatto loro.
E' più semplice questo sistema? Io qualche dubbio ce l'ho. Questa tanto strombazzata riforma del fisco non affronta il cuore del problema, ossia non serve a semplificare il sistema fiscale, anzi in qualche modo lo complica, perché con pochissimo tempo per informare le persone, ha scaricato i problemi sui cittadini e anche su quelle strutture che li aiutano ad affrontare ogni anno la dichiarazione dei redditi.
Perché bisogna dire che questa riforma è stata fatta anche - e forse soprattutto - per colpire i caf e quindi i sindacati, uno dei bersagli preferiti di questo governo, che odia i corpi intermedi e fa di tutto per distruggerli. Così ad esempio, per risolvere i problemi di contenzioso, il governo ha deciso di scaricare sul sistema dei caf le responsabilità di ogni cosa, compresa l'assunzione dei rischi economici dell'infedeltà delle dichiarazioni. Quindi il caf deve risarcire il fisco per qualsiasi infedeltà della dichiarazione, compreso l'errore di digitazione. Per concludere, da un lato si danno maggiori responsabilità ai caf e dall'altro si tolgono risorse, così i caf piccoli saranno costretti a chiudere e quelli più grandi, ad esempio quello della Cgil, faranno fatica ad andare avanti, per la gioia di questo governo di destra.
In sostanza il governo dice al cittadino contribuente: questo è il tuo 730 precompilato, se lo accetti così com'è io non ti controllo, ma se tu lo vuoi modificare - magari andando da quei menagrami della Cgil - io comincio a farti dei controlli e ve la faccio pagare, a te e a loro. Questo non è un patto fiscale degno di un paese civile, ma un'idea partorita dallo sceriffo di Nottingham.
La cosiddetta semplificazione voluta da questo governo non ha modificato di una virgola un sistema fiscale complesso, che unisce un alto tasso di corruzione e un livello di evasione ormai insostenibile. Questa riforma non rende più giusto il fisco, ossia l'unica cosa di cui avremmo davvero bisogno.
Una vera riforma del fisco deve partire dalla modifica di tutte quelle norme che offrono agli evasori alibi e scorciatoie. Ci sarebbero alcune cose da fare subito: ripristinare il reato di falso in bilancio; impedire la costituzione dei fondi che alimentano la corruzione; unificare e far comunicare le banche dati; portare la soglia di tracciabilità del contante a 300 euro; impedire e perseguire l'autoriciclaggio. E, per quel che riguarda il 730, bisogna rendere più chiaro il sistema delle detrazioni, renderle più comprensibili e più facili da calcolare. L'attuale sistema fiscale, con le sue complessità, con le sue inutili complicazioni, con un linguaggio ottusamente burocratico, è stato creato scientemente per favorire l'evasione fiscale e per penalizzare quelli che le tasse le pagano fino all'ultimo centesimo. E visto che questo governo difende gli interessi degli evasori, delle rendite, di chi le tasse non le paga o ne paga troppo poche, non ci sarà nessuna semplificazione.
Quindi mettetevi il cuore in pace, voi dovete solo pagare. Semplicemente.

domenica 8 marzo 2015

"Blu scendente" di Hans Magnus Enzenberger

Dietro il muro nebbioso nel cervello
esistono ancora altre aree,
che sono più blu, di quanto pensi.

Come sembrerebbe piccola la storia,
vista dall’alto. Fresca e chiara,
senza peso andrebbe il tuo respiro lì,

dove il tuo Io non pesa.

domenica 1 marzo 2015

Verba volant (169): acqua...

Acqua, sost. f.

Come sapete, da qualche anno vivo in una piccola città - che amo - in cui l'acqua è molto importante, anzi è il bene primario, la fonte - non solo metaforica - della ricchezza di questa comunità. Pensandoci è curioso che io, che vengo dal paese del latte, sia arrivato proprio qui. Comunque sia, l'acqua è solo una delle due risorse di Salsomaggiore e di Tabiano, perché l'altra è il lavoro degli uomini - e delle donne - che quell'acqua l'hanno saputa - e la sanno - usare. E anche qui potremmo fare una qualche analogia con il latte, che non viene soltanto dalle mucche - come forse qualcuno di voi crede - ma anche dal lavoro delle donne e degli uomini. Per tornare al tema di questa definizione, senza il lavoro la nostra acqua sarebbe soltanto un liquido, formato dalla combinazione dell'idrogeno con l'ossigeno, arricchita con tutti i minerali che la natura le ha regalato; è il lavoro che la fa diventare quell'acqua per cui Salsomaggiore e Tabiano sono conosciute in Italia e in Europa da più di un secolo.
L'azienda, pubblica, che gestisce le terme di Salsomaggiore e di Tabiano sta per fallire. Le ragioni di questa lunga crisi sono molte e non è questa la sede per affrontarle in maniera dettagliata. C'è prima di tutto la crisi del termalismo in Italia, che ha coinvolto praticamente tutte le realtà come la nostra; poi a quella crisi qualcuno ha saputo reagire meglio e qualcuno, come Salsomaggiore, decisamente peggio. C'è stata l'incapacità e l'invadenza della politica e c'è stata una responsabilità dei lavoratori, che hanno troppe volte approfittato di una situazione privilegiata, senza mettersi mai in discussione. Terme di Salsomaggiore e Tabiano è un'azienda pubblica e quindi condivide i vizi di questo tipo di attività che, almeno in Italia, sono tutte destinate al fallimento.
Soprattutto in gran parte della nostra comunità c'è stata una notevole mancanza di lungimiranza, di saper vedere oltre alla contingenza del momento, e quindi quando le cose hanno cominciato ad andare male - dal momento che c'erano, nonostante tutto, ancora risorse e mezzi - molti hanno fatto le cicale, pensando che i tempi belli sarebbero tornati. I tempi belli non sono tornati e adesso siamo al punto in cui siamo. Non mi interessa però affrontare la storia del perché le terme siano sostanzialmente fallite - vivo qui da poco e quindi rischio di sbagliarmi o di dire cose banali - anche perché questo immagino interessi poco a chi ha la pazienza di leggermi e non è di Salsomaggiore. E non ho nemmeno la presunzione di avere la soluzione per risolvere il problema: mi pare siano già troppi quelli che sanno esattamente cosa fare, soprattutto quelli che a posteriori avrebbero saputo cosa fare. Almeno mi pare che, a questo punto, tutti - o quasi - si siano resi conto che stavolta è davvero finita: e un po' di realismo non credo faccia male.
Mi interessa invece fare una riflessione che credo riguardi tutto il nostro paese, proprio partendo da quello che succede qui, nella mia città.
Capisco che valga il detto a mali estremi, estremi rimedi e che quindi una soluzione possibile sia quella di trarre un beneficio dalla risorsa che c'è, ossia l'acqua. E' vero: l'acqua è una risorsa tangibile, è una cosa che può essere immediatamente venduta; e immagino ci siano già le persone interessate a comprare questo nostro bene, per poi rivendercelo. Ma siamo davvero disposti a "salvarci", vendendo - o svendendo - l'acqua?  E poi, chi può vendere l'acqua, visto che l'acqua è di tutti?
Guardando quello che succede in Italia, evidentemente non sono bastati 26 milioni di "sì" per trasformare il sistema di gestione del servizio idrico italiano. Quel referendum è stata un'occasione persa, anche perché, nonostante il 54% degli elettori abbia detto di essere contrario a qualunque forma di privatizzazione, non è stata fatta una norma a livello nazionale che regoli la materia. E quindi ogni territorio si muove come gli sembra più conveniente: ci sono regioni, come l'Emilia-Romagna e la Toscana, in cui il referendum è stato del tutto ignorato e, in alcuni casi, si è addirittura ridotta la partecipazione pubblica nelle multiutility. In questo paese, nonostante le energie che si sono messe in moto a partire proprio da quel referendum, non c'è una cultura dei beni comuni, mentre esiste - anzi è addirittura dominante e pervasiva - un'idea mercantile, per cui tutto può essere comprato e venduto, tutto ha un prezzo. Dobbiamo imparare che non è così, che ci sono cose che non hanno prezzo, semplicemente perché non possono essere vendute. In Grecia, quando c'era l'altro governo, i tecnici del Fondo monetario internazionale hanno inventariato e messo un valore, seppur simbolico, agli scavi archeologici, alle foreste e a tutti gli altri beni naturali. Poi si sono affrettati a spiegare che questo non significava che quei beni sarebbero stati venduti; ma se non li vuoi vendere o pensi che non possano essere venduti, perché determini un prezzo? E' la logica ad essere radicalmente sbagliata.
L'altra questione, per cui mi pare che Salsomaggiore racconti - in piccolo - quello che succede in Italia, è che si considera il lavoro solo come un costo e mai come una risorsa. Eppure - come ho detto all'inizio di questa definizione - l'acqua senza il lavoro non esiste. Al di là di quello che avviene qui, a me la cosa che preoccupa di più è che non si parta mai dal lavoro. Oggi il governo di questo paese "festeggia" il +0,1% di crescita, analisti e commentatori aspettano come oracoli gli indici delle borse, pare che lo spread determini la vita o la morte di un governo, ma nessuno di questi numeri misura il lavoro e infatti può succedere che a un aumento della crescita non corrisponda ad esempio un aumento del numero di occupati o un aumento dei salari. Anzi la diminuzione dei salari, insieme alla erosione dei diritti, è vista come un elemento di crescita. E quindi per tornare alla vicenda della mia città faccio davvero fatica a considerare una buona opportunità per Salsomaggiore, per la sua comunità, una soluzione che preveda decine di licenziamenti, condizioni di lavoro e salario peggiori per quelli che rimangono, oltre a una drastica eliminazione di diritti.
Ovviamente capisco che a questo punto i sacrifici siano indispensabili, lo capiscono quasi tutti. Per altro in questi anni alcuni i sacrifici li hanno già fatti, ad esempio i cassintegrati a zero ore; e spiace dover ricordare che se alcuni - i soliti - hanno fatto sacrifici, altri ne hanno fatti molti meno, ad esempio i manager che hanno portato l'azienda al punto in cui siamo ora. E quindi sarebbe ora che i sacrifici fossero "spalmati" con un po' più di equità.
In questi giorni le soluzioni vengono prospettate come ineluttabili, le uniche soluzioni "tecniche" possibili. Magari il messaggio è condito da qualche paternalistica pacca sulla spalla, ma il senso è chiaro: o mangi questa minestra, o salti... Come sapete, io non credo che esista una soluzione unica, altrimenti non si capirebbe a cosa serve la politica, credo che possano esserci percorsi diversi, che forse ci porteranno - purtroppo - a un esito, socialmente duro, simile a quello prospettato dai "tecnici", perché i danni a cui rimediare sono davvero tanti. E anche in questo Salsomaggiore sembra un po' l'Italia. E se provassimo a ragionare, usando categorie diverse? Proviamo a partire dalla tutela e dalla valorizzazione dei beni comuni e dalla difesa dei diritti del lavoro, sicuro ed equamente retribuito. Magari salta fuori qualcos'altro: a Salsomaggiore e in Italia.