domenica 18 dicembre 2022

Verba volant (823): rivalità...

Rivalità
, sost. f.

Bernard nasce a New York il 3 giugno 1925. I genitori, Emanuel ed Helen, sono ebrei ungheresi. Il padre fa il sarto e la famiglia, a cui presto si aggiungono altri due bambini, vive nel retro della sua piccola bottega del Bronx. In casa si parla solo in magiaro e fino a sei anni Bernard non conosce una parola di inglese. Sono poverissimi, per un periodo i genitori lasciano i figli in un orfanotrofio. A dieci anni Bernard, che ha smesso di andare a scuola, è un teppista che insieme alla sua banda commette furti nei negozi di quartiere. La madre e uno dei fratelli, Robert, soffrono di schizofrenia, l’altro fratello Julius muore investito da un camion, il destino di Bernard sembra segnato, ma un vicino di casa lo toglie dalla strada e lo manda negli scout. La disciplina imposta in quel campo raddrizza il ragazzo, che riesce a diplomarsi.

Roger nasce a Londra, nel quartiere popolare di Stockwell, il 14 ottobre 1927. Il padre George è un poliziotto e la madre Lilian una casalinga. Come altri ragazzi durante la guerra lascia Londra, frequenta le scuole prima a Devon e poi in Cornovaglia, dove si diploma.

Dopo Pearl Harbor, Bernard si arruola in marina. Viene imbarcato sul sottomarino USS Proteus e ci rimane fino alla fine della guerra con il grado di segnalatore di terza classe. Dal ponte della sua nave, ancorata nella baia di Tokyo, assiste il 2 settembre 1945 alla resa del Giappone. Congedato, grazie agli aiuti per i veterani, si iscrive al City College di New York e studia recitazione alla New School del Greenwich Village, diretta dal regista Erwin Piscator. Quell’anno insieme a lui ci sono Harry Belafonte, Walter Matthau, Rod Steiger e due ragazze che diventeranno regine di Broadway, Elaine Stritch e Beatrice Arthur. È qui che lo nota Joyce Selznick, il nipote di David e uno dei suoi principali talent scout: capisce che quel ragazzo può fare cinema.

Dopo il diploma, Roger viene assunto come apprendista in uno studio di animazione, è bravo a disegnare, ma non ha la pazienza di applicarsi a quel lavoro metodico. A causa dei troppi errori viene licenziato. Nel 1945 il padre George deve indagare su un furto a casa del regista Brian Desmond Hurst: coglie l’occasione per parlargli di suo figlio che sta cercando lavoro. Hurst, che sta collaborando alla produzione di Caesar and Cleopatra, il film di Gabriel Pascal con la grande Vivien Leigh e Claude Rains, lo assume come comparsa. Il regista nota che, durante le riprese, le donne che lavorano negli studi sembrano tutte innamorate di quel bel giovane prestante e così decide di pagargli le tasse per frequentare la Royal Academy of Dramatic Art. Nella sua classe ci sono Yootha Joyce, la Mildred di una fortunata serie della BBC della fine degli anni Settanta, e Lois Maxwell, la prima Miss Moneypenny e quella che interpreterà il personaggio in ben quattordici film della serie dedicata al personaggio di Ian Fleming. Roger si dimostra uno studente volonteroso: proprio alla Rada assume il suo caratteristico accento sofisticato. Alla fine della guerra anche Roger viene arruolato: si occupa di organizzare gli spettacoli per le truppe inglesi di stanza ad Amburgo nella Germania occupata.

Nel 1948 il ventitreenne Bernard è a Hollywood, con un contratto con la Universal Pictures, con il nome di Anthony Curtis. L’Universal lo manda a scuola di scherma e di equitazione, anche se quel bel giovane del Bronx sembra più interessato alle ragazze che ruotano attorno agli studios. Per qualche settimana esce con una giovanissima attrice che non sembra proprio riuscire a sfondare a Hollywood e che, come lui, ha avuto un’infanzia complicata, ma tra Bernard e Norma Jean non scocca la scintilla.
Il suo primo film, anche se non è accreditato, è Criss Cross del 1949: balla la rumba insieme a Yvonne de Carlo. In The Lady Gambles, sempre del 1949, recita quattro battute. Il giovane è bravo e l’Universal lo impiega in diversi film. Non si tratta di pellicole memorabili, ma Tony Curtis - come si fa chiamare dal western Kansas Raiders - diventa un volto popolare al cinema. All’Universal ricevono molte lettere di sue fan e così nel 1951 ottiene il primo ruolo da protagonista in The Prince Who Was a Thief, accanto alla splendida Piper Laurie, con cui reciterà anche in altre commedie del genere.
La carriera di Tony è ormai lanciata. Dal 1951 al ’60 interpreta ben ventinove film, quasi tre ogni anno. Nel 1953, sul set di Houdini recita per la prima volta con la moglie Janet Leigh, che ha sposato due anni prima, nonostante l’opposizione degli studios che lo vorrebbe celibe, con cui ha aperto una propria casa di produzione. Poi nel 1956 è il coprotagonista di Trapeze, con Burt Lancaster e Gina Lollobrigida. Con il drammatico The Defiant Ones del 1958, in cui recita accanto a Sidney Poitier, ottiene la sua unica nomination all’Oscar. Ma la commedia è il genere in cui Tony dà il meglio. Nel 1959 è il protagonista in due classici del genere: è la bellissima Josephine di Some Like It Hot, il capolavoro comico di Billy Wilder - dove ritrova “Sugar” Marilyn - e il tenente Holden in Operation Petticoat di Blake Edwards, in cui torna, anche se solo nella finzione, a imbarcarsi, sotto il comando di Cary Grant, in un sottomarino, il più celebre della storia del cinema. Ma l’anno successivo è Antonino in Spartacus di Stanley Kubrick. Tony è ormai una star di Hollywood, una sicurezza al botteghino. Peccato che non arrivi la consacrazione di un Oscar.
Negli anni Sessanta continua a lavorare senza posa, specialmente nelle commedie - ritrova l’amico Jack Lemmon in The Great Race - ma nessuno di quei titoli riesce a eguagliare il successo del decennio precedente. Per non rinchiudersi in questi ruoli brillanti e dimostrare di essere un attore completo, nel 1968 accetta una riduzione di centomila dollari al suo consueto cachet, pur di tornare a un ruolo drammatico, per The Boston Strangler. È un successo di critica, ma il pubblico lo vuole vedere nelle commedie e i produttori, attenti agli incassi, non vogliono deludere gli spettatori.

Congedato dal Combined Services Entertainment con il grado di capitano, Roger Moore torna a Londra. Interpreta piccoli ruoli in alcuni film, senza essere accreditato. In Trottie True lavora con un altro attore alle prime armi, uno un po’ più vecchio di lui che, dopo una bella carriera nell’esercito, ha deciso di recitare, Christopher Lee. Nel 1949 Roger debutta anche in televisione, ma in questi anni soprattutto fa il modello pubblicitario di prodotti di maglieria, tanto che ottiene il soprannome “The Big Knit”, e anche di un dentifricio. Agli inizi degli anni Cinquanta va a Hollywood e la Metro lo mette sotto contratto per sette anni. Il suo primo film negli Stati Uniti è del 1954, The Last Time I Saw Paris, in cui ha il piccolo ruolo di un giovane che corteggia Elizabeth Taylor. Sembra che la sua carriera possa finalmente iniziare, ma dopo il fallimento del film in costume Diane, in cui recita accanto a Lara Turner, la MGM rescinde il contratto dopo soli due anni.
Torna nel Regno Unito e qui ottiene finalmente il suo primo ruolo da protagonista, nelle serie televisiva Ivanhoe. Si tratta di una serie dedicata a un pubblico molto giovane, ma per Roger è il primo vero successo. Non si risparmia nelle tante scene di battaglia: si rompe alcune costole e grazie al suo vero elmo di ferro evita un colpo d’ascia alla testa. I trentanove episodi vanno in onda dal 1958 al ’59. Roger capisce che il suo mezzo è la televisione. Torna negli Stati Uniti e qui viene messo sotto contratto dalla Warner che lo vuole tra i protagonisti della serie western The Alaskans, altri trentasette episodi tra il 1959 e il ’60. La Warner sfrutta il successo e scrittura Roger per la quarta stagione di Maverick, quella in cui non c’è più James Garner nel ruolo del giocatore d’azzardo Bret Maverick. Roger è il cugino Beau, quello dall’accento inglese.
La carriera di Roger è finalmente decollata, ma grazie a The Saint diventa una star. Questa serie va in onda per sei stagioni, dal 1962 al ’69, per centodiciotto episodi. Moore è anche uno dei produttori e dirige nove episodi. Simon Templar, il ladro gentiluomo che, sfuggendo alla polizia, riesce a colpire i “cattivi” quando la giustizia non riesce a farlo, elegante e sofisticato, impenitente seduttore, diventa un personaggio molto popolare e Roger un divo acclamato in tutto il mondo.
Nel 1970 è il protagonista del thriller The Man Who Haunted Himself, una delle sue migliori interpretazioni, in cui finalmente dimostra di non essere solo capace di alzare il sopracciglio.

Dopo il successo di The Saint, i produttori Robert Baker e Lew Grade sono alla ricerca di un’idea per una nuova serie. In una puntata della sesta stagione, Simon Templar per risolvere uno dei suoi casi collabora con un ricco petroliere texano. Pensano che forse mettere insieme due personaggi, un inglese e un americano, entrambi molto ricchi, ma di estrazione completamente diversa, potrebbe funzionare. Poi basta aggiungere qualche ambientazione esclusiva, ad esempio la Costa Azzurra, molte belle ragazze in bikini e qualche auto sportiva e la serie si scrive da sola.
Per la parte dell’aristocratico inglese, educato a Oxford, impenitente playboy ed ex-pilota automobilistico, Roger Moore - di cui da qualche anno si parla come il nuovo Bond - è perfetto, un nome di sicuro richiamo per il pubblico. Baker e Grade non faticano a convincere l’attore, anche perché la telefonata di Broccoli non arriva e sembra probabile che Connery torni a vestire i passi dell’agente segreto con licenza di uccidere, dopo il disastroso esordio di George Lazenby.
È più difficile trovare un attore per il personaggio del petroliere, uno che è nato povero, in un quartiere popolare di New York e che è riuscito a sfondare negli affari, e adesso viaggia per il mondo, godendosi i soldi che ha guadagnato. Serve un attore americano, in modo che la serie abbia mercato anche negli Stati Uniti. Andrebbe bene Rock Hudson, uno dei belli del cinema degli anni Cinquanta e Sessanta, un attore capace a destreggiarsi tra vari generi, ma rifiuta. Glenn Ford potrebbe funzionare, anche se tra lui e Moore ci sono undici anni di differenza; comunque sarebbe un nome di sicuro richiamo, ma non vuole fare televisione. Tony Curtis sa di non essere la prima scelta, ma ha bisogno di lavorare, di qualcosa che lo faccia tornare nel favore del pubblico.
Nella primavera del 1970 cominciano le riprese di The Persuaders!, la serie che in Italia arriverà con il titolo Attenti a quei due. Curtis e Moore discutono a lungo con i produttori e con gli autori della serie: i loro due personaggi, Danny Wilde e Brett Sinclair, devono essere messi sullo stesso piano, a partire dalla sigla di testa. Il pubblico non deve mai avere l’impressione che uno prevalga sull’altro. E proprio quella sigla, grazie alla musica di John Barry, l’autore delle colonne sonore dei più famosi film su James Bond e già vincitore di tre Oscar - saranno in tutto cinque nel corso della carriera - eseguita da un qanun, uno strumento tradizionale arabo, diventa indimenticabile. Sullo schermo appaiono due cartellette, una rossa e una blu, intestate ai due protagonisti con alcune foto che raccontano la loro vita. La foto di Danny bambino è una foto del piccolo Bernard e anche quella del servizio in marina è originale. Il piccolo Brett è invece il figlio di Moore. E poi ritagli di giornali in cui si raccontano le “gesta” dei protagonisti e immagini delle loro auto fiammanti auto sportive e di belle ragazze.
La cornice è piuttosto semplice. All’inizio della serie i due protagonisti ricevono un misterioso invito in Costa Azzurra. Si incontrano e ovviamente non si piacciono, si sfidano in una corsa d’auto, vengono alle mani e quasi distruggono un ristorante. La mattina successiva scoprono che quell’invito è stato inviato dal Giudice Fulton che li mette davanti a una scelta: o collaborano con lui o passeranno novanta giorni in prigione. L’anziano uomo di legge che compare in alcuni altri episodi e diventa inaspettatamente amico dei due giramondo - oltre che il “motore” delle loro avventure - è interpretato da Laurence Naismith, un ottimo caratterista, specializzato nel ruolo del gentiluomo inglese, del medico, del comandante di una nave, ma anche Merlino in Camelot.
Le trame dei ventiquattro episodi della serie sono abbastanza prevedibili nel loro svolgimento, e siamo all’inizio degli anni Settanta, non c’è una particolare attenzione al politicamente corretto: i cattivi hanno la faccia da cattivi, meglio se italiani, latini o orientali, le donne devono essere attraenti e cadere ai piedi dei due protagonisti, le ambientazioni devono far sognare gli spettatori e le auto devono essere veloci. Brett guida una Aston Martin DBS a sei cilindri gialla, con guida a destra, mentre Danny una Ferrari Dino 246 GT, ovviamente rossa, e con guida a sinistra.
L’Italia non ci fa una gran figura: un paese arretrato in cui la mafia impera, con poliziotti corrotti e incompetenti. Siamo più o meno alla celebre copertina di Stern con gli spaghetti e la P38. E così la Rai non trasmette l’episodio con una bellissima Joan Collins, intitolato Five Miles to Midnight - che non viene neppure doppiato - e fa in modo, con un abile lavoro di doppiaggio e gli opportuni tagli in montaggio, che in un altro caso Danny e Brett arrivino in Spagna invece che nel nostro paese.
Ma al di là di tutto, la forza - e la fortuna, che dura tuttora - della serie è tutta nei due personaggi, nei loro continui contrasti, e nella bravura dei loro interpreti. Anche se nel doppiaggio perdiamo il mirabile gioco degli accenti tra l’americano Curtis e l’inglese Moore.
E ci sono molte storie sulle difficoltà sul set per tenere insieme quei due attori, che in qualche modo hanno finito per incarnare i loro personaggi. Il compassato – e molto british – Moore non riesce proprio a sopportare l’imprevedibile Curtis. Una cosa che Roger proprio non tollera è che Tony faccia uso di marijuana durante la lavorazione. Un giorno sulla Croisette Tony, particolarmente “alterato”, tratta malissimo tutti quelli che lavorano sul set e Roger non riesce a trattenersi. Afferra il collega per la giacca e sembra che lo stia per picchiare, poi sbotta: “E pensare che queste labbra una volta hanno baciato Piper Laurie…”. Tutti, compreso Curtis, scoppiano a ridere. E la crisi viene risolta. Molti anni dopo entrambi, ormai vecchi, negheranno i dissidi, ma immagino si tratti della saggezza della vecchiaia.
Le scene tra loro due vengono girate in genere due volte. Nella prima gli attori seguono il copione, mentre nella seconda gli autori lasciano che Roger e Tony improvvisino e in genere questa è sempre quella migliore, perché quei due scafati professionisti trovano in quegli scambi un’incredibile alchimia. Probabilmente si stanno davvero reciprocamente sulle scatole, ma lo fanno come solo loro sono capaci.

lunedì 12 dicembre 2022

Verba volant (822): filtro...

Fata
, sost. f.

È il 25 dicembre 1909. Siamo all’inizio di un nuovo secolo che sembra offrire incredibili possibilità: qualche settimana prima Guglielmo Marconi ha ricevuto il premio Nobel per l’invenzione della radio e il 31 marzo di quello stesso anno nei cantieri navali Harland and Wolff di Belfast sono iniziati i lavori per la costruzione del Titanic, la più grande nave mai realizzata. Quel giorno nei cinema degli Stati Uniti viene proiettato A Midsummer Night’s Dream, un cortometraggio prodotto dalla Vitagraph, la casa di produzione americana più importante dell’inizio del secolo.
Si tratta del primo adattamento cinematografico dell’omonima commedia di William Shakespeare. E in quel rullo di appena dodici minuti c’è tutta la storia. O almeno quasi tutta. C’è l’imminente matrimonio tra il Duca di Atene Teseo e Ippolita, ci sono le due coppie di giovani innamorati, i cui amori sono però contrastati e complicati dalle decisioni del vecchio Egeo, e c’è un gruppo di artigiani che vuole mettere in scena una commedia per festeggiare le auguste nozze. Ma è il solstizio d’estate, la magica notte in cui tutto può succedere, anche che gli esseri sovrannaturali entrino in contatto con i mortali. Qui c’è l’unica, grande, differenza con la commedia, perché nel film non c’è Oberon, non è per gelosia e dispetto che il Re delle Fate chiede a Puck di organizzare la sua vendetta contro Titania. Gli autori del film, probabilmente perché giudicano sconveniente introdurre una lite per il “possesso” di un bambino, inventano il personaggio di Penelope che, dopo aver litigato con la Regina delle Fate, dà al folletto l’erba magica che può far innamorare chiunque. E da qui la storia prosegue come la conosciamo: le coppie si “intrecciano” e Titania si innamora perdutamente dell’artigiano Bottom, anche se Puck ha trasformato la sua testa in quella di un asino. Alla fine di questa “notte degli imbrogli” Penelope si pente di quello che è successo e arriva l’atteso lieto fine, con i giovani che si sposano, ascoltando soltanto quello che dice loro il cuore.
Il cinema è ancora muto: non possono esserci gli splendidi dialoghi scritti dal Bardo e manca la divertente “commedia nella commedia” del quinto atto, con gli artigiani che mettono in scena la storia d’amore di Piramo e Tisbe, ma il film, nonostante le pose affettate dei suoi protagonisti, restituisce la magia della storia, grazie soprattutto alla tredicenne Gladys Hulette che è un Puck scanzonato e dispettoso: il vero motore della vicenda.
Gladys, per quanto giovanissima, calca le scene già da molti anni. A Broadway ha recitato insieme alla mitica Bertha Kalich, la “Jewish Berhardt”, come la chiamano i giornali. Dopo la sua interpretazione di Puck, la carriera di Gladys continua con altrettanta fortuna sia in teatro che al cinema: sul grande schermo è Alice, nel secondo film tratto dai romanzi di Carroll, mentre a Broadway interpreta Beth in una fortunata messa in scena di Little Women. Poi Gladys si dedica per lo più al cinema, perché è una delle prime a capire che quel nuovo mezzo è destinato a cambiare il mondo e che quelli che fanno i film non sono “bagnini di Coney Island”, come credono sprezzantemente i vecchi teatranti di Broadway. Ma il sonoro blocca la carriera di Gladys, che nel 1948, tornata a New York, lavora nella biglietteria del Radio City Music Hall. Chissà quante storie ha raccontato alle sue giovani colleghe.
La Vitagraph mette in campo i suoi nomi migliori per la realizzazione di quel film. La regia è firmata da James Stuart Blackton e Charles Kent.
Se guardate una vecchia foto di Blackton, con i suoi occhialetti tondi e l’incipiente calvizie, potreste pensare di avere di fronte un professore di Yale o un agente di Wall Street, invece questo inglese nato nel 1875 - emigrato negli Stati Uniti all’età di dieci anni - è uno degli uomini che ha “inventato” il cinema. Gli piace disegnare e con i suoi disegni vuole entrare nel mondo del vaudeville: prepara le diapositive per le “lanterne magiche”. Con lo spettacolo non guadagna abbastanza e il giovane James si adatta a lavori “normali”. Entra nella redazione del New York Evening World che lo manda a intervistare Thomas Edison che ha appena presentato una sua nuova invenzione, il Vitascopio, uno dei primi proiettori cinematografici. Al geniale inventore piace quel reporter che fa quei disegni buffi e gli regala uno di quei proiettori. James chiama i suoi vecchi compagni del vaudeville e fonda la propria compagnia, chiamandola Vitagraph. E fa tutto quello che serve: produce, dirige, scrive le sceneggiature, cura il montaggio, recita. Comincia con cortometraggi animati e poi passa ai veri e propri film. Insieme ai grandi classici della letteratura dell’Ottocento, Shakespeare ispira molte di queste sue prime opere: tra i titoli di questi anni ci sono Macbeth, Romeo and Juliet - che gira tutto in esterni, al Central Park - Richard III, Antony and Cleopatra, Julius Caesar, The Merchant of Venice, King Lear. E appunto A Midsummer Night’s Dream, alla cui regia collabora il suo connazionale Charles Kent, regista e attore, che nel film interpreta anche il ruolo di Teseo.
E nel film recitano i più importanti attori della Vitagraph, a partire da Maurice Costello, nel ruolo di Lisandro. Nato a Pittsburgh nel 1877 da una famiglia irlandese, Maurice, dopo una fortunata carriera nel vaudeville, arriva al cinema nel 1908 con Salome, uno dei successi della compagnia. L’attore diventa ben presto una star, una delle prime della settima arte, l’idolo del pubblico femminile, che segue la sua vita non solo sugli schermi, ma anche dalle cronache mondane dei giornali. E Maurice si sente davvero una star, tanto che sul set pretende di fare “solo” l’attore e non è disposto a fare altri lavori, come fanno tutti gli altri, che aiutano a costruire le scene o a cucire i costumi. William V. Ranous, il divertente Bottom del film, è uno di questi attori che “si sporca le mani”, anche perché, a differenza di Costello, lui di solito è il “cattivo”: Macbeth, Cassio, Riccardo III, Javert. E il pubblico preferisce gli eroi.
Ad accompagnare Titania ci sono due giovanissime fate, Dolores e Helene Costello, di sei e tre anni, figlie di Maurice e dell’attrice Mae Altschuk - ma anche lei usa il cognome “d’arte” Costello - al loro debutto sul grande schermo. Dolores e Helene diventano in pochissimo tempo due famosissime attrici bambine sia al cinema che a Broadway. Dolores fa una grande carriera, è soprannominata “The Goddess of the Silent Screen”. Sul set di The Sea Beast conosce John Barrymore e i due si sposano, anche se i ventitré anni di differenza tra i due sono motivo di scandalo. E così Dolores entra nella “Royal Family” del teatro americano. Per la “dea del cinema muto” il passaggio al sonoro è un dramma, anche se recita in alcuni film importanti e nel 1942 Orson Welles la vuole nel ruolo della decana Isabel in The Magnificent Ambersons. La carriera di Helene non è altrettanto ricca di quella della sorella maggiore: dopo i successi come attrice bambina e qualche ruolo importante - è tra i protagonisti di Lights of New York - il mondo del cinema si dimentica di lei, che cade in una triste spirale di dipendenza e scandali.
Nei ruoli di Hermia e Helena recitano Rose Tapley e Julia Swayne Gordon. Rose negli anni successivi viene chiamata “Mother of Movies”, per celebrare una lunga carriera: all’inizio del secolo è apparsa in un film di Edison e poi in The Money Kings, il primo a due rulli, nell’anno di A Midsummer Night’s Dream firma un contratto con la Vitagraph e per questo è considerata la prima attrice del cinema americano.
Naturalmente non può mancare “The Vitagraph Girl”, la bellissima Florence Turner, che interpreta Titania. Anche Florence ha cominciato a teatro come attrice bambina. Poi nel 1907, a ventidue anni, scopre il cinema. Blackton la mette sotto contratto e in pochi anni Florence diventa il volto della casa di produzione: il pubblico va al cinema per vedere la “ragazza della Vitagraph”. Anche se non conosce il suo nome, non dimentica i suoi grandi occhi scuri. La sua paga arriva alla cifra di ventidue dollari a settimana - che è più bassa di quella di Costello - ma la più alta per un’attrice. Florence Lawrence, che invece è “The Biograph Girl”, ne prende venti. Comunque il suo contratto prevede che Florence lavori anche in sartoria.
Nel 1913 Turner si trasferisce a Londra e qui comincia a scrivere e dirigere i film di cui è protagonista. Fonda anche la sua casa di produzione, la Turner Films. Durante la prima guerra mondiale si esibisce per le truppe e dopo l’armistizio torna in America. Ma il cinema sta cambiando e la sua stella si sta affievolendo. Negli anni Trenta Louis B. Mayer la mette sotto contratto per la Metro, ma si tratta di una sorta di pensione: recita in alcuni film, come comparsa o in piccoli ruoli non accreditati. Quel contratto è però il riconoscimento per una delle artiste che hanno fatto nascere il cinema.

Il 30 ottobre 1935 Florence, ormai dimenticata, è tra il pubblico che assiste alla première di A Midsummer Night’s Dream, il nuovo film prodotto dalla Warner Brothers. Sono passati solo ventisei anni da quello della Vitagraph, anche se sembrano molti di più. Il cinema ha fatto incredibili progressi. Non è più il pioneristico esperimento di alcuni artisti visionari, adesso è un’industria, una delle più importanti del paese. E non si fa più a New York e nelle altre città della East Coast, ma a Hollywood. E anche il mondo è molto cambiato. È come se le speranze del secolo nascente fossero naufragate insieme al Titanic. C’è stata la prima guerra mondiale, in Europa sono finiti i grandi imperi e sotto la cenere di quelle macerie sta covando un nuovo incendio.
Le vicende personali del regista Max Reinhardt raccontano proprio questa storia. È nato nel 1873 a Baden, a pochi chilometri da Vienna, da una ricca famiglia di origine ebraica. Il giovane Max capisce molto presto che il lavoro in banca non fa per lui, perché la sua passione è il teatro. Ama recitare, poi comincia a scrivere, si trasferisce a Berlino e qui diventa regista. In pochi anni questo genio innovatore rifonda il teatro tedesco. Nel 1905 è il direttore del Deutsches Theater e, accanto ai classici tedeschi, alle tragedie greche e a Shakespeare - di cui è uno dei grandi interpreti del Novecento - mette in scena assolute novità, come Spettri di Ibsen, chiedendo a un giovane pittore, Edvard Munch, di disegnare le scene. Reinhardt è uno degli artisti della Repubblica di Weimar, uno degli uomini di cultura che fa della Berlino tra le due guerre una sorta di “nuova Atene”. Nel 1924 mette in scena la versione tedesca di Sei personaggi in cerca d’autore, perché sente che quel gentiluomo italiano sta, come lui, creando un teatro nuovo. Come fanno i suoi amici Brecht e Weill. Max in questi anni scopre anche il cinema e dirige alcuni film.
Ma quel mondo balla sull’orlo della catastrofe: Reinhardt è ebreo, ma soprattutto è un uomo di sinistra, è un rivoluzionario, e il nuovo potere che si sta affermando in Germania non tollera quelli come lui. Nel 1933 si trasferisce in Austria, dove ha fondato nel 1918 il Festival di Salisburgo, spera di poter continuare a fare teatro, ma anche il suo paese diventa ostile e fugge negli Stati Uniti. Qui i produttori della Warner gli propongono di girare un film e Max pensa immediatamente a una nuova versione di A Midsummer Night’s Dream. È un testo che ama moltissimo e che ha messo in scena diverse volte. Nel 1905 è stato il suo primo grande successo: proprio in quell’occasione per la prima volta in un teatro è stato usato un palco girevole. E poi quel testo gli permette di usare la musica e il balletto, come ha fatto il 31 maggio 1931 in una storica messa in scena al Giardino dei Boboli, con le musiche composte da Felix Mendelssohn Bartholdy, con Eva Maltagliati nel ruolo di Titania.
Reinhardt non parla inglese, ma per fortuna da alcuni anni vive a Hollywood un suo giovane amico, William Dieterle, che ha recitato per lui a Berlino e ha diretto alcuni film in Germania. Ma anche lui è dovuto fuggire e da un paio d’anni lavora per la Warner. I produttori danno a Reinhardt carta bianca e lui pensa di realizzare al cinema lo spettacolo che aveva messo in scena a Firenze. Il giovane compositore Erich Wolfgang Korngold, anche lui austriaco di origine ebraiche, viene chiamato per orchestrare le musiche di Mendelssohn Bartholdy, mentre Bronislava Nijinska, la grande ballerina che ha debuttato con i Ballets russes, viene ingaggiata come coreografa.
Questo è il primo e unico film americano di Reinhardt, che preferisce dedicarsi all’insegnamento: fonda un’accademia teatrale e cinematografica. Gli altri diventano invece nomi noti a Hollywood. Dieterle è uno dei grandi artigiani dell’industria del cinema, dirige film, tra cui - uno dei suoi migliori - The Hunchback of Notre Dame del 1939 con il grande Charles Laughton e la sensuale Maureen O’Hara. Nel 1950 dirige un’intensa Anna Magnani in Vulcano. Korngold alla fine degli anni Trenta vince due Oscar, per le colonne sonore di Anthony Adverse e The Adventures of Robin Hood. Anche Nijinska si dedica all’insegnamento: molte ballerine di Hollywood vengono dalla sua scuola, compresa Cyd Charisse.
Per quel cast la Warner vuole mettere in campo gli attori migliori che ha sotto contratto. A Dick Powell non entusiasma affatto la proposta di interpretare Lisandro, ma non può rifiutarsi. Vorrebbe uscire dall’immagine del bravo ragazzo, dell’eroe romantico che Hollywood ha costruito per lui, ma è bello, sa cantare: è il ragazzo che le mamme vorrebbero come fidanzato per le loro figlie. Solo a metà degli anni Quaranta arriverà la svolta per la sua carriera, con It Happened Tomorrow di René Clair e soprattutto Murder, My Sweet di Edward Dmytryk, in cui interpreta Philip Marlowe, il primo di una lunga serie di attori a dare il volto al detective creato da Chandler. E così il bravo ragazzo dell’Arkansas diventa un duro dei noir.
Invece sembra un azzardo la scelta di affidare a James Cagney il ruolo di Bottom. È uno degli attori più noti della Warner, un nome spendibile al botteghino, ma non per una commedia, per di più di Shakespeare: James ha la faccia da gangster, è Tom Powers di The Public Enemy, il duro che schiaccia un pompelmo in faccia alla sua ragazza. Ma James è un attore che ha sulle spalle, nonostante la giovane età, una lunga gavetta, è un ottimo ballerino di tip tap, ha recitato nel vaudeville, sa destreggiarsi tra i generi. A Midsummer Night’s Dream sarà l’unico titolo shakespeariano della sua lunga e fortunata carriera, ma certamente una sfida vinta.
Vanno ricordati anche i nomi degli altri attori che formano la compagnia degli artigiani: Frank McHugh, Dewey Robinson, Hugh Herbert, Otis Harlan e Joe E. Brown. Sono tutti eccellenti caratteristi, facce e voci note agli amanti del cinema - Otis è Gongolo nel classico Disney - almeno quanto sono sconosciuti i loro nomi. Un accenno in più lo merita Brown, che nel film interpreta Flute. E lui sapete davvero tutti che faccia ha, perché nel 1959 Billy Wilder - un altro degli uomini fuggiti dalla natia Europa che hanno creato il grande cinema americano - gli affida la parte di Osgood Fielding II e la più memorabile - e citata - battuta finale di un film.
Come detto, la Warner sceglie tutti gli attori tra quelli che ha sotto contratto, come la bionda e dolce Anita Louise per il ruolo di Titania, tranne una debuttante per il ruolo di Hermia. Una collaboratrice di Reinhardt ha notato questa ragazza interpretare il ruolo in una compagnia di Saratoga. Ha grandi occhi scuri. Prendono informazioni su di lei: è di origini inglesi, anche se è nata a Tokyo, ma vive da tempo in California, insieme alla madre e alla sorella, dopo che il padre, un avvocato specializzato in brevetti, ha abbandonato la famiglia. Lì in America ha cominciato a recitare. E dicono sia brava, anche se la ragazza vuole fare l’insegnante. Reinhardt e Dieterle pensano sia perfetta e così la Warner la mette sotto contratto per duecento dollari alla settimana. Quello di Olivia de Havilland è uno dei debutti più fragorosi di Hollywood.
Poi serve Puck. Nessuno degli attori bambini della Warner sembra soddisfare le esigenti richieste di Reinhardt. C’è questo ragazzino che viene da New York, ha debuttato a due anni nel vaudeville, esibendosi con il padre. Poi è arrivato a Hollywood e ha ottenuto la parte di Mickey McGuire - un personaggio dei fumetti ideato dal cartoonist Fontaine Fox - e l’ha interpretato in ben settantotto cortometraggi, dai sette ai tredici anni. Si è così identificato nel personaggio da scegliere come nome d’arte Mickey. Max Reinhardt capisce subito che quel Mickey Rooney è perfetto per interpretare Puck. Ma quando Mickey, andando in slittino, si rompe una gamba, i produttori non sanno cosa fare, metà film è già girato e non possono aspettare che il ragazzino guarisca. E così grazie a una controfigura e a parecchi trucchi, tra cui buchi ricavati nelle scene per nascondere la gamba ingessata e abbondanti dosi di foglie per celare quello che non deve essere visto, si riesce a terminate. Rooney dirà che Jack Warner era così furioso da minacciare di ucciderlo e poi di spezzargli l’altra gamba.
Il film si rivela un disastro al botteghino. Molti cinema decidono di non proiettarlo nemmeno. Non si capisce che roba sia. È una commedia? Ma il pubblico davvero può ridere con Shakespeare? È un film d’amore? Non si capisce. Meglio non rischiare. Anche i critici non sono particolarmente entusiasti. Ed effettivamente lo stile di Reinhardt è troppo moderno per i canoni dell’epoca.

Devono passare sessantaquattro anni prima che negli Stati Uniti venga prodotto un nuovo film tratto dalla commedia di Shakespeare. Nel frattempo ce ne sono stati uno cecoslovacco, un paio inglesi - entrambi con Helen Mirren, una volta Hermia e l’altra Titania - uno francese. Per tacere delle riduzioni, delle citazioni, delle parodie. Credo meriti ricordare che nel 1964 la BBC ha trasmesso uno speciale in cui quattro giovani e irriverenti musicisti hanno rappresentato la scena I dell’atto V della commedia: Paul come Piramo, John come Tisbe, George come il Chiaro di luna e Ringo come il Leone.
L’ultimo A Midsummer Night’s Dream esce il 14 maggio 1999, un secolo dopo quello della Vitagraph. Certo anche il modo di fare film è cambiato, le tecnologie sono sempre più presenti - a volte troppo - ma, a pensarci bene non come nei ventisei anni tra i primi due di cui ho parlato. Il mondo invece è cambiato. Molto. Nel frattempo c’è stata un’altra guerra mondiale, e poi la cosiddetta “guerra fredda” e infine il 1989. È sparita l’Unione Sovietica. E ormai Titanic è solo un film, anzi il film - insieme a Ben Hur - che ha vinto il maggior numero di Oscar: ben undici.
È Michael Hoffman il regista che, poco più che quarantenne, accetta la sfida di riportare sullo schermo la commedia di Shakespeare, ambientandola in una Toscana immaginaria - e molto british - di fine Ottocento, in cui alle note di Mendelssohn Bartholdy si mescolano quelle di Giuseppe Verdi. I suoi film precedenti sono andati bene, ma non sono certo incredibili successi: Promised Land, Some Girls, Soapdish - il mio preferito tra questi, il più originale - Restoration, One Fine Day. E credo che A Midsummer Night’s Dream sia il suo migliore, ma d’altra parte con uno sceneggiatore come William Shakespeare è difficile sbagliare.
E grande merito va agli interpreti. Il cast è certamente la cosa migliore di questo film. La scelta di far interpretare a Stanley Tucci il ruolo di Puck è certo la più geniale. Perché Stanley è bravissimo e soprattutto perché ha una quarantina d’anni, è più o meno coetaneo di Oberon e Titania e certamente più vecchio dei giovani innamorati che si perdono nel bosco. Di conseguenza il suo Puck non è solo dispettoso, è anche a suo modo saggio, è un folletto che ha una certa esperienza delle cose del mondo e ne ha già viste parecchie. Osserva le vittime dei suoi incantesimi, specialmente i ragazzi, con un’aria benevola, quasi paterna, e anche disincantata. Come se sapesse che quelle loro parole, quei vaneggiamenti amorosi, non sono davvero causati dalla sua magia, ma da loro stessi. Puck è un mago che non crede più alle sue magie, ma lascia che ci credano gli altri.
E certo non serve una magia perché Bottom si innamori di Titania. Chi non cadrebbe ai piedi di Isabeau D’Anjou, di Marie de Tourvel, di Susie Diamond, di Catwoman, diventate la splendente Regina delle fate? E forse neppure serve un incantesimo per ricambiare l’amore di Kevin Kline, che rimane affascinante, anche con le orecchie d’asino, perché sono i versi che ci fanno innamorare. E Otto West, che oltre a essere un truffatore, è uno dei migliori interpreti shakespeariani della sua generazione, lo sa bene.
Quello di Hoffman non è l’ultimo dei cinematografici sogni shakespeariani. C’è anche un cartone animato in cui i giovani innamorati sono Topolino, Paperino, Minnie e Paperina. E Pippo è Bottom. Poi c’è un film del 2017 ambientato a Los Angeles. con la cantante Mia Doi Todd nel ruolo di Titania.
Arriverà al cinema un nuovo A Midsummer Night’s Dream? Certo, perché Shakespeare è immortale e perché tonerà sempre il solstizio d’estate, la magica notte in cui tutto può succedere.

sabato 3 dicembre 2022

Verba volant (821): dinastia...

Dinastia
, sost. f.

Anche se suo padre vuole farne un avvocato, per Oscar Hammerstein II il teatro è una carriera inevitabile, un destino che si porta nel nome, che è lo stesso di suo nonno, l’uomo che ha creato Broadway. E nel caso del vecchio Hammerstein non si tratta di un’iperbole retorica.

Ma facciamo un passo indietro. Questa storia comincia a metà dell’Ottocento, in Pomerania, nel Regno di Prussia, al tempo di Federico Guglielmo IV. A Stettino per la precisione, dove Oscar - il primo Oscar di questa nostra storia - nasce l’8 maggio 1846. Il giovane ha la passione per la musica, suona il flauto e il violino, ma suo padre Abraham ne vuole fare un mercante e un uomo d’affari. A diciotto anni i dissidi in famiglia diventano insostenibili e quando Abraham frusta il figlio perché un pomeriggio è andato a pattinare, contravvenendo a un suo divieto, la misura è colma. Oscar vende il violino e fugge da Stettino. Arriva a Liverpool e da qui, salito su un piroscafo, parte per l’America.
Oscar nel 1864 è a New York, senza un soldo. Trova lavoro in una fabbrica di sigari in Pearl Street, nel Lower Manhattan. Adesso questa strada è nel cuore finanziario di Wall Street, ma allora era uno dei quartieri industriali della città. Il ragazzo fa carriera, in pochi anni diventa direttore e poi crea una sua fabbrica. Registra numerosi brevetti che rendono più efficiente la produzione dei sigari e dopo vent’anni è uno dei maggiori produttori degli Stati Uniti. Abraham non lo saprà mai, ma suo figlio è diventato quello che lui aveva sperato: un ricco e rispettato uomo d’affari.
Oscar però non ha mai dimenticato la sua passione per la musica. E così nel 1889 decide di investire i guadagni della sua fabbrica di sigari per costruire un teatro, l’Harlem Opera House, sulla 125esima Strada, e un paio d’anni dopo, su quella stessa via, il Colombus Theatre. Harlem in quegli anni non è ancora il quartiere dei neri, ma è abitato dalla ricca borghesia bianca che non vuole più stare nel centro della città, che sta diventando troppo caotico. I due teatri vanno abbastanza bene, ma Oscar sogna di diventare un grande impresario, vuole portare l’opera a New York. Nel 1893 costruisce il Manhattan Opera House, vuole farne un importante teatro lirico, ma per gestirlo deve associarsi con gli impresari John Koster e Albert Bial, che ne fanno una sala per il vaudeville. Oscar non si arrende e nel 1895 costruisce il suo quarto teatro, l’Olympia: si tratta di un vasto edificio in stile rinascimentale che ospita un teatro, un music hall, una sala da concerti e un giardino pensile per gli spettacoli all’aperto. Per l’Olympia Oscar scrive un’operetta, intitolata Santa Maria, che, anche se incontra il favore del pubblico, è per Hammerstein un disastro finanziario. Non bada a spese: ingaggia una stella come Camille D’Arville - la grande cantante di origini olandesi che ha lavorato a lungo a Londra - impiega un’orchestra di più di cinquanta elementi - mentre di solito ce ne sono la metà - e per il terzo atto fa costruire un “palazzo di ghiaccio” in alluminio, una cosa mai vista fino a quel momento in un teatro.
La grande facciata dell’Olympia Theatre occupa una buona parte di un’ampia piazza triangolare all’incrocio tra la Settima Avenue e Broadway; allora quella piazza si chiama ancora Longacre Square, ma che nel 1904 verrà ribattezzata Times Square. E poco lontano da quella piazza Hammerstein costruisce negli anni successivi altri tre teatri, il Victoria, di cui mantiene la gestione, per gli spettacoli di vaudeville, il Theatre Republic, che invece viene ceduto a David Belasco, il prete diventato drammaturgo, regista, attore, scopritore di talenti - e che è l’autore dei drammi che diventeranno, grazie al genio di Puccini, Madama Butterfly e La fanciulla del West - e infine il Lew Fields Theatre, ceduto appunto al celebre attore e produttore che vuole dare il proprio nome a un teatro. In breve altri impresari decidono di aprire le loro sale in quella zona di Midtown Manhattan, che si riempie, oltre che di teatri, di locali notturni, ristoranti, night club, facendo di Times Square il cuore della Great White Way, perché l’illuminazione pubblica, i cartelloni pubblicitari e le insegne dei teatri – grazie a quella diavoleria moderna dell’elettricità – illuminano a giorno quel breve tratto di strada. E così in pochi anni, grazie all’intuizione del primo Oscar, nasce quella che noi chiamiamo Broadway, una delle metonimie più famose del Novecento.
Il rispettato produttore di sigari, che intanto ha fondato anche un quotidiano, l’United States Tobacco Journal, continua a covare l’idea di costruire un grande teatro dell’opera che possa stare alla pari del Metropolitan, anzi che lo possa superare. Oscar considera il Met troppo elitario, vuole che tutti i cittadini di New York possano andare all’opera, come vanno agli spettacoli di vaudeville. Costruisce così il suo ottavo teatro, al 311 West della 34esima Strada, il secondo Manhattan Opera House. Il debutto avviene il 6 dicembre 1906 con una storica edizione de I puritani di Vincenzo Bellini, con la direzione del parmigiano Cleofonte Campanini - che nel 1903 è il successore di Toscanini alla direzione della Scala - e un cast di grande rilievo, in cui spiccano il tenore Alessandro Bonci e il baritono Mario Ancona. In pochi anni il Manhattan Opera House si afferma come un importante teatro d’opera: ospita le prime americane di Pelleas et Melisande, Elektra, Salome. E il debutto dell’operetta Naughty Marietta di Victor Herbert. Hammerstein vuole i migliori cantanti, ingaggia Mary Garden e Luisa Tetrazzini e “strappa” al Metropolitan Nellie Melba, il celebre soprano australiano, a cui Escoffier ha dedicato uno dei suoi dolci più famosi. Queste ricche e dispendiose produzioni - a cui corrispondono prezzi dei biglietti decisamente popolari - rischiano di far fallire il teatro, ma anche il Met soffre, perché, per sostenere la concorrenza di Hammerstein, è costretto ad aumentare i costi dei propri spettacoli. Nel 1910 Arthur, il figlio a cui il vecchio Oscar ha affidato la gestione di quel teatro - così come ha fatto con William per il Victoria - riesce a salvare il Manhattan Opera House trovando un accordo proprio con il Met. Il Metropolitan versa agli Hammerstein 1,2 milioni di dollari in cambio dell’impegno a non produrre opere liriche per dieci anni.
Ma Oscar vuole continuare a costruire teatri. Nonostante l’insuccesso finanziario del Philadelphia Opera House, che apre nel 1908 e vende due anni dopo, grazie ai soldi del Metropolitan va a Londra e nella capitale inglese costruisce il suo decimo teatro, il London Opera House. E anche qui vuole far concorrenza con uno storico teatro, addirittura il Royal Opera House di Covent Garden. Ma dopo due anni Oscar chiude anche questa impresa, torna a New York e apre il suo undicesimo - e ultimo - teatro, il Lexington Opera House. Ma i soldi per produrre le opere sono finiti e così questa sala diventa subito un cinema. Oscar muore nel 1919. Sta aspettando che finisca il “contratto” con il Met: nel 1920 potrà finalmente produrre una grande opera lirica a Broadway.

William nasce a New York il 26 settembre 1875, è il quartogenito di Oscar e Rosa Blau. Anche il padre di Rosa è tedesco ed è un produttore di sigari. Il giovane Hammerstein, come il padre, ama il teatro e l’opera, ma non condivide l’ostinazione paterna a voler rendere accessibile al maggior numero di persone questo tipo di spettacolo. William conosce meglio di Oscar i gusti del pubblico e decide di assecondarli. Il suo teatro non vuole parlare alla testa e al cuore del pubblico, ma, nel migliore dei casi, alla pancia. E con questo è convinto di poter salvare le spericolate “avventure” teatrali del padre.
Prima, insieme a suo fratello Arthur, lavora come addetto stampa nei teatri del padre e poi costruisce una sua piccola sala, il Little Coney Island, in cui organizza spettacoli di burlesque. Poi ritorna a lavorare con Oscar quando questi apre l’Olympia: gestisce le attività del locale che si trova nel giardino pensile. Sembra che l’attività sia destinata a fallire e allora William decide che bisogna cambiare strada: “Finora ho provato il meglio ed è andata così, vorrà dire che proverò il peggio”. E ingaggia le Cherry Sisters.
Sono tre sorelle, non particolarmente attraenti, dell’Iowa che portano in giro nei locali di vaudeville del Midwest uno spettacolo scritto da loro intitolato Something Good, Something Sad: è un’accozzaglia di canzoni religiose, patriottiche, sentimentali, composte dalle tre sorelle, che viene accolto in genere piuttosto rumorosamente dal pubblico. E anche i giornali scrivono critiche molto pesanti contro di loro, tanto che le sorelle Cherry decidono di denunciare per diffamazione l’editore del Des Moines Leader. Il caso arriva fino alla Corte Suprema dell’Iowa che stabilisce che un giornale “ha il diritto, e il dovere, di pubblicare commenti equi e ragionevoli” su chiunque. La “Cherry vs. Des Moines Leader” è una sentenza che farà storia nella giurisprudenza americana a favore della libertà di stampa, facendo guadagnare, in maniera assolutamente inaspettata, alle tre sorelle un posto nella storia dello spettacolo americano.
William le conosce bene e proprio per questo ingaggia il trio, assicurandosi di installare una rete di protezione tra loro e il pubblico, che fermi gli ortaggi e gli oggetti che gli spettatori più facinorosi gettano contro le sorelle. William ha ragione: quello spettacolo registra ogni sera il tutto esaurito, salvando, almeno per qualche anno, l’Olympia.
E così nel 1904 Oscar affida a suo figlio la gestione del Victoria Theatre, l’unico teatro della zona di Times Square a presentare spettacoli di vaudeville. In pochissimo tempo, grazie anche ai prezzi molto bassi dei biglietti, il Victoria diventa uno dei teatri più frequentati della nascente Broadway e una sicura fonte di reddito per la famiglia Hammerstein, provvidenziale, visti i dispendiosi tentativi di Oscar di diventare il più importante impresario di opere liriche della città.
I conti vanno bene anche perché William produce spettacoli dove accanto a poche celebrità, c’è un gran numero di giovani sconosciuti. La forza degli spettacoli di William è che ogni giorno e ogni sera il pubblico può trovare un po’ di tutto: le gag di un giovanissimo Buster Keaton e la bellezza conturbante di Mae West, le acrobazie con il lazo di Will Rogers e le canzoni di Irving Berlin. E Don il cane parlante, un incrocio tra un setter e un pointer, che può vocalizzare otto parole in tedesco, oltre a dire ja, nein e il proprio nome. Poi ci sono ballerine, molte ballerine, vestite il meno possibile, acrobati, comici, animali ammaestrati, suonatori di ragtime, fenomeni da baraccone: nelle “extravaganze” del Victoria potete trovare davvero ogni genere di curiosità. E il pubblico vuole credere che quella ragazza dalla bellezza esotica sia proprio Shekla, la maga di corte dello Scià di Persia, o quella giovane poco vestita sia Mademoiselle Fatima, una danzatrice scappata da un harem, o qualsiasi altra bugia Hammerstein sia in grado di inventare. Poi William capisce che il pubblico vuole andare a teatro anche per vedere i protagonisti delle più sordide storie di cronaca nera e così ingaggia la bellissima Evelyn Nesbit, “The Girl in the Red Velvet Swing”, la musa ispiratrice del pittore Charles Dana Gibson, il sogno proibito dell’America di inizio Novecento e soprattutto la protagonista, seppur involontaria, di un efferato omicidio: accecato dalla gelosia, il marito, il milionario Harry Kendall White, ha ucciso un antico amante della donna, Stanford White, il grande architetto che ha progettato tanti edifici a New York, l’esponente di punta del cosiddetto Rinascimento americano. Il pubblico per pochi dollari può sentirsi parte di questo mondo dorato.
Qualche anno dopo credo che Irving Berlin si sia ricordato di questi spettacoli del Victoria per scrivere il testo di una delle sue canzoni più famose There’s No Business Like Show Business:
The butcher, the baker, the grocer, the clerk
Are secretly unhappy men because
The butcher, the baker, the grocer, the clerk
Get paid for what they do but no applause.
They’d gladly bid their dreary jobs goodbye
for anything theatrical and why?
Non abbiamo fotografie di William, che non ama la ribalta né la vita mondana. Finito lo spettacolo, torna alla sua bella casa al 315 di Central Park West. Non vuole nemmeno che nelle locandine compaia il suo nome. Non riesce proprio a condividere la smania di protagonismo del suo collega Ziegfeld, che invece vuole che tutti gli spettacoli che produce portino il proprio nome. E soprattutto William non vuole che i suoi figli si dedichino al teatro.

E così Oscar Hammerstein II, nato a New York il 12 luglio 1895, nonostante la sua passione per il teatro, obbedisce al padre e si iscrive alla facoltà di giurisprudenza della Columbia University. Ha ottimi voti e quel ragazzone così alto si distingue anche come prima base della squadra di baseball dell’ateneo. Vorrebbe partecipare al Varsity Show, lo spettacolo che ogni anno è allestito dagli studenti della Columbia, ma non vuole disobbedire al padre. William purtroppo soffre di una grave malattia ai reni e nel 1914, a soli trentotto anni, muore. E allora Oscar si unisce alla Columbia University Players. L’anno successivo è uno degli interpreti di On the Way, ma capisce presto che è molto più bravo a scrivere canzoni che a interpretarle. E così per lo spettacolo del 1916, intitolato The Peace Pirates, comincia a scrivere i testi. Nel 1917 lascia la Columbia. Lo zio Arthur lo presenta a Otto Harbach, uno dei più celebri autori di operette, che diventa il mentore del ragazzo, che finalmente, nel 1920, un anno dopo la morte del nonno, debutta a Broadway. Per Always You scrive il libretto e i testi delle canzoni, mentre Herbert Stothart è l’autore delle musiche. Stothart è un prolifico compositore, attivo sia a Broadway che a Hollywood: è l’autore della colonna sonora di The Wizard of Oz, per cui ottiene un meritato Oscar.
Il giovane autore ha l’ambizione di creare qualcosa di nuovo. Come suo nonno, ama l’opera. E come suo padre, conosce bene i gusti degli americani. Il pubblico ama le canzoni che passano alla radio e che vengono presentate negli spettacoli di Broadway - le canzoni che anche lui ha cominciato a scrivere - e Oscar immagina come sarebbe usare quelle canzoni per raccontare una storia.
E così il 27 dicembre 1927 debutta al Ziegfeld Theatre Show Boat. Oscar ha scritto il libretto, la storia di un gruppo di artisti che lavorano sulla Cottom Blossom, una delle più celebri “show boats” - le caratteristiche imbarcazioni con le grandi ruote - che percorrono il Mississipi, fermandosi di città in città per i loro spettacoli: c’è una travagliata e tragica storia d’amore, sullo sfondo delle tensioni razziali degli Stati del Sud. E ha scritto anche i testi delle canzoni, perché in questo nuovo spettacolo canzoni e dialoghi sono tutt’uno, proprio come succede nell’opera tanto amata dal nonno. L’amico Jerome Kern scrive le musiche ed ecco che è nata una cosa assolutamente nuova, che non è né un’operetta né uno spettacolo di vaudeville, in cui i pezzi musicali sono staccati l’uno dall’altro. È nato il musical. E curiosamente i soldi li mette proprio Ziegfeld, il re delle Follies, del vecchio modo di fare teatro, l’unico che abbia i mezzi per farlo e soprattutto l’unico che capisce che quel giovane alto e massiccio sta per fare una rivoluzione. Infatti dopo Show Boat il teatro musicale cambia. Per sempre.
Show Boat è un successo, Oscar continua a lavorare con Kern e con altri musicisti, poi nel 1943 ritrova un compositore un po’ più giovane di lui, che aveva conosciuto ai tempi della Columbia, Richard Rodgers, che fino a quel momento aveva lavorato con Lorenz Hart - anche lui, da studente, impegnato nei Varsity - e nasce la “ditta” Rodgers e Hammerstein: Oklahoma!, Carousel, Allegro, South Pacific, The King and I, Me and Juliet, Pipe Dream, Cinderella, Flower Drum Song, The Sound of Music. Questi musical, i film tratti da questi spettacoli e i loro due autori collezionano ben trentaquattro Tony, quindici Oscar, un Pulitzer e due Grammy. Rodgers e Hammerstein sono tra gli autori più importanti del teatro musicale americano. E le loro canzoni, parte fondamentale del Great American Songbook, continuano a essere cantate, in ogni parte del mondo: sono classici intramontabili.
Ma l’opera continua a essere un’ossessione per l’ultimo degli Hammerstein. Oklahoma!, il primo grande successo firmato Rodgers e Hammerstein, debutta il 31 marzo 1943, al St. James Theatre. Ma il 2 dicembre di quello stesso anno debutta al Broadway Theatre un altro musical con il libretto e i testi di Hammerstein II. E questa volta è una cosa che a Broadway non si è mai vista. E che non si vedrà mai più. Perché Oscar prende un’opera, la Carmen di Georges Bizet, tiene la musica del grande compositore francese - nato all’epoca della Monarchia di Luglio, qualche anno prima di suo nonno - e riscrive completamente il libretto e i testi delle arie. Chissà cosa ne avrebbe pensato il vecchio Hammerstein?
Oscar convince Billy Rose a produrre Carmen Jones, dopo che tutti gli altri produttori di Broadway gli hanno sbattuto la porta in faccia. Billy - che ha imparato da William che il pubblico non va educato, ma sedotto - produce riviste, vaudeville, vorrebbe essere il nuovo Ziegfeld, anche se ormai quegli spettacoli non vanno più di moda, però capisce che quello è un musical che entrerà nella storia del teatro. Perché Oscar non si è limitato a riscrivere il libretto, attualizzando la tragica storia della sigaraia - anche questo un destino della famiglia Hammerstein - ma vuole che il cast sia composto solo da attori afroamericani. Per gli anni Quaranta negli Stati Uniti si tratta di una scelta che crea inevitabilmente delle polemiche, ma che è una precisa presa di posizione da parte dell’autore.
Nella rilettura di Hammerstein Carmen e le sue compagne lavorano in una fabbrica di paracaduti nella Carolina all’inizio della seconda guerra mondiale. Carmen è bellissima - e libera - e fa innamorare Joe, un giovane aviatore, che perde la testa per lei, tanto da disertare e abbandonare la sua fidanzata Cindy Lou. Ma la relazione tra Carmen e Joe diventa sempre più difficile, perché della donna si innamora anche Husky, un pugile dalla brillante carriera che la vuole sposare e portare a Chicago. La fine è nota: Joe uccide Carmen, perché non sopporta che sia di un altro.
Carmen Jones è un successo: chiude il 10 febbraio 1945 dopo cinquecentotre repliche. Perché quella storia è eterna e la musica di Bizet riesce a raccontare l’amore e la passione in maniera perfetta. In qualsiasi tempo.
Come canta Carmen sulla musica dell’Habanera.
Love’s a baby that grows up wild
And he don’t do what you want him to
Il giovane Oscar dimostra che aveva ragione il vecchio Hammerstein: l’opera vince sempre.

sabato 26 novembre 2022

"A favore delle omissioni" di Han Magnus Enzenberger


Classici non letti, invenzioni
che ha risparmiato a sé e ad altri,
scommesse perdute,
pistole con la sicura,
titoli, posti, onorificenze
che si è lasciato scappare,
aerei persi all’ultimo momento,
indimenticabili cilecche, misere vittorie
che per un pelo ha scansato, e donne
con cui mai andò a letto:

nella tua sedia a rotelle ripensa,
tenero e riconoscente,
a quanto ha evitato,
risparmiando il mondo.

martedì 15 novembre 2022

Verba volant (820): orgoglio...

Orgoglio
, sost. m.

Confesso di aver seguito molto distrattamente l’assegnazione dei ministeri e di conseguenza mi sono completamente disinteressato della spartizione dei posti di sottogoverno. Poi da alcuni giorni vedo sulla bacheca di Facebook, condivisa polemicamente da diversi amici sdegnati, la foto di un ragazzotto vestito da nazista. E così ho saputo che Galeazzo Bignami è diventato viceministro. Conosco quella foto da parecchio tempo, perché da ancora più tempo conosco Galeazzo. Siamo più o meno coetanei - anche se lui è un po’ più giovane di me - siamo entrambi di Bologna e alla fine del Novecento facevamo lo stesso lavoro. Non eravamo né amici né conoscenti: se a quel tempo ci incrociavamo sotto i portici della nostra città non ci salutavamo, ma io sapevo chi era lui, come lui sapeva chi ero io. Proprio per questo posso dire che quel posto, nonostante quella stupida mascherata, se l’è guadagnato sul campo: è una persona che ha una lunga esperienza politica e potrebbe perfino capirci qualcosa di quello di cui si dovrà occupare.
Poi Galeazzo è un fascista che viene da una famiglia di fascisti - lo si capisce fin dal nome: sua sorella si chiama Maria Runa - e non si vergogna di esserlo. Come io sono un comunista che viene da una famiglia di comunisti. Neppure io mi vergogno di esserlo. Anche se forse non è sempre stato così: ecco credo che il punto fondamentale sia questo.
Facciamo un passo indietro: il 21 ottobre 1998 Massimo D’Alema diventa Presidente del Consiglio. È il primo - e l’unico - che viene dal Pci ad avere svolto quell’incarico. E, vista l’aria che tira, immagino che sarà anche l’ultimo. Ci sono voluti ventiquattro anni perché una persona che aveva militato nel Msi raggiungesse un tale obiettivo. Giorgia Meloni è arrivata a Palazzo Chigi perché ha vinto nettamente le elezioni. Anche il partito di D’Alema - quello che allora era anche il mio partito - aveva ottenuto un buon risultato alle elezioni del 1996, ma quel governo è nato a seguito di una crisi politica. Una parte di Rifondazione Comunista aveva tolto la fiducia al governo Prodi e un gruppo di parlamentari di centrodestra, ispirati da Francesco Cossiga, si erano dichiarati disponibili a sostenere un nuovo governo di centrosinistra a patto che non fosse guidato dal rancoroso professore bolognese. Al di là delle ricostruzioni fantasiose che allora hanno occupato i giornali e i talk-show, non si è trattato di un “golpe”. L’Italia era - ed è ancora - una repubblica parlamentare e quel governo era assolutamente legittimo. Eppure alcuni - e io ero tra questi - pensavano che sarebbe stato meglio andare alle elezioni, anche se quasi sicuramente avremmo perso. I due governi D’Alema, che io pure ho sempre sostenuto - anche perché qualche mese dopo sarei diventato funzionario di quel partito - hanno rappresentato un momento simbolico della nostra morte politica. Ma non è di questo che voglio parlare: ormai non serve più recriminare. Mi interessa invece la differenza antropologica tra noi e loro. Anche perché, forse più della politica, questa differenza spiega perché noi siamo morti, mentre loro sono vivi e vegeti.
Allora non abbiamo festeggiato il fatto che uno di noi era finalmente arrivato a Palazzo Chigi, anzi un po’ ci siamo vergognati e comunque sottolineavamo di continuo che eravamo cambiati, che non eravamo più quelli di prima, che eravamo come i socialisti europei o addirittura come i democratici americani, insomma che eravamo qualcosa d’altro - ricordate i dibattiti sulla “terza via” e la foto di Firenze, con D’Alema, Clinton, Blair, Jospin, Schroeder e Cardoso? Insomma non sapevamo cosa eravamo - e su questo avevamo idee diverse - l’unica cosa su cui eravamo d’accordo è che non dovevamo più chiamarci comunisti. E vivevamo il nostro passato, anche quello più glorioso, con un qualche imbarazzo.
Per loro non è affatto così. Al di là delle più o meno credibili prese di distanza, i fascisti arrivati al governo sono orgogliosi di rivendicare la loro storia, di mostrare i simboli del proprio passato, anche quelli decisamente più kitsch. Anche quelli più imbarazzanti. Immagino che oggi Bignami un po’ si penta di aver scelto quel costume per un addio al celibato, ma certamente quella serata lui e i suoi amici si sono divertiti parecchio, perché quello è un loro simbolo, con cui è possibile perfino giocare. E forse non si pente così tanto, perché anche quella mascherata adesso che è arrivato al governo è un simbolo della loro rivalsa. Ci stanno sbattendo in faccia che adesso sono decisamente “usciti dalle fogne”, ma che si ricordano bene la puzza.

lunedì 17 ottobre 2022

Verba volant (819): matrimonio...

Matrimonio
, sost. m.

Brian sale veloce le scale della clinica, tenendo in mano il piccolo mazzo di gerbere rosa che ha acquistato pochi minuti prima dalla fioraia all’angolo di Cavendish Square. A Yootha le gerbere sono sempre piaciute. È contento: fino a quella domenica mattina non le hai mai trovate.
L’uomo incrocia lo sguardo dell’infermiera che sta per finire il suo turno. Come al solito, lei gli sorride, ma c’è un velo di tristezza nei suoi occhi. Brian capisce che deve essere stata una notte difficile. Deve esserci stata un’altra crisi. Entra in camera di Yootha: lei dorme ancora, immagina per effetto dei farmaci. Brian scosta le tende, vuole far entrare il sole di quella mattina di fine agosto. Con gesti lenti toglie dal vaso il mazzo di margherite che ha portato il giorno prima, poi cambia l’acqua e sistema con cura le gerbere. Così quando si sveglierà le vedrà subito. Si siede e le accarezza piano la fronte. Ormai è quasi una settimana che passa così le sue giornate, aspettando, insieme a lei.
Ieri pomeriggio sembrava stare un po’ meglio. E hanno ricordato, ancora una volta, di quando si sono conosciuti, quasi vent’anni fa.

Lei era arrivata prima di lui al Theatre Workshop. Era nel cast di Fings Ain’t Wot They Used T’be, sia quando la commedia di Lionel Bart è stata messa in scena al teatro della compagnia, lo Stratford East, a Newham, sia quando è stata portata al West End, al Garrick. Brian aveva visto quello spettacolo proprio nel teatro di Charing Cross. C’era andato con Richard: tutti e due, dopo aver servito a Northwood, sognavano di recitare. Brian aveva notato subito quella giovane attrice, così elegante e con quei lineamenti così particolari. I suoi occhi erano unici. Sono ancora unici. Poi c’era tornato, anche perché la prima volta, lui che era nato e cresciuto nell’isola di Wight, non aveva capito tutte le battute in cockney. E poi voleva rivederla.
Quello spettacolo, diretto da Joan Littlewood, era stato proprio un successo. Debuttare al Garrick: Yootha si era presa una bella rivincita su quelli che dicevano che non ce l’avrebbe mai fatta. A partire dai suoi genitori. Suo padre cantava - e quello strano nome, che lei da ragazzina detestava, era quello di una ballerina della Nuova Zelanda che era stata in tournée con lui - mentre sua madre suonava il piano. Yootha non sapeva fare né una cosa né l’altra e quindi i suoi pensavano che non sarebbe mai potuta entrare nel mondo dello spettacolo. Ma lei è sempre stata ostinata. Brian aveva ascoltato quella storia mille volte: di quando era entrata alla Rada nel ’44, in classe con Roger Moore, e di quando il regista di Pride and Prejudice le aveva detto che “non aveva nulla da offrire a quella professione”. Ma Joan aveva capito che quella ragazza aveva talento e, cresciuta a Wandsworth, non aveva certo problemi a parlare in cockney.
Poi anche Brian era riuscito a entrare al Theatre Workshop. Avevano recitato insieme per la prima volta in Sparrows Can’t Sing, sia a teatro che nel film, sempre diretti da Joan. Erano diventati subito amici. A Yootha piaceva Brian, la faceva ridere durante le prove. E a Brian piaceva stare con lei, anche se un po’ lo intimoriva. Allora era ancora sposata con Glynn. Ma Brian non avrebbe avuto comunque il coraggio di chiederle di uscire.
Che anni quelli del Workshop. Joan era un vulcano di idee. E pensare che all’inizio lei non voleva proprio fare Oh, What a Lovely War! Detestava la guerra e le uniformi. Ma poi aveva capito che quello era il modo giusto per condannare l’ipocrisia delle classi dirigenti che mandano al macello i popoli solo per salvaguardare i propri interessi. Un musical contro la guerra: uno spettacolo che sarebbe piaciuto a Brecht. Joan aveva accettato, ma non aveva voluto uniformi in scena. Gli attori dovevano indossare vestiti e maschere da Pierrot. Brian interpretava tre ruoli, tutti loro interpretavano molti ruoli, e Joan aveva chiesto a tutti di improvvisare, ciascuno di loro creava i propri personaggi. Allo Stratford East era stato un successo, ma il Lord Ciambellano non voleva dare il benestare per portare lo spettacolo al West End. Se non fosse intervenuta la principessa Margaret, non sarebbero mai arrivati al Wyndham e poi a Broadway: centoventicinque repliche al Broadhurst.
Mentre guarda Yootha che dorme ancora, Brian ricorda bene l’emozione di quando era arrivato a New York. Peccato non aver condiviso quella gioia con lei. Yootha aveva lasciato la compagnia da qualche mese. Lavorava molto in televisione, e un po’ anche al cinema. Nel ’62 aveva debuttato in Brothers in Law, la serie che aveva segnato il successo di Richard Briers, il vecchio amico di Brian, fin dai tempi di Northwood. Yootha poteva fare di tutto: a volte era la “cattiva”, come nelle sue apparizioni in The Saint e The Avengers o nel film della Hammer Fanatic. Eccelleva nelle parti drammatiche - il suo ruolo in The Pumpkin Easter era piccolo, ma memorabile - ma era la commedia il genere in cui dava il meglio: i suoi tratti così definiti erano diventati familiari per il pubblico della BBC. Con Brian non si erano mai persi di vista. Anche lui negli anni Sessanta aveva fatto tanta televisione: in quelle serie erano tanti quelli che venivano dal Theater Workshop. Anche il suo viso stava diventando popolare.
Poi è arrivato Man About the House. Brian Cook e Johnnie Mortimer avevano pensato fin dall’inizio a Brian e Yootha per interpretare i padroni di casa di Chrissy, Jo e Robin. E loro si erano rivelati subito perfetti. E da grandi professionisti, abituati a creare i loro personaggi in scena, avevano contribuito in maniera determinate al successo della sitcom.
Un successo inaspettato: sei serie, dall’agosto del 1973 all’aprile del ’76 e un film. E poi lo spin-off dedicato proprio ai loro due personaggi: cinque serie, dal settembre 1976 al dicembre ’79. Negli Stati Uniti l’ABC aveva prodotto un remake di Man About the House, intitolato Three’s Company. Brian ha visto qualche puntata: pensa che non sia divertente come il loro. E quell’americana non è certo come Yootha. E grazie a quei due personaggi sono anche tornati a recitare insieme a teatro, hanno portato in tournée uno spettacolo basato sulla serie televisiva. Sono diventati una coppia, almeno per il grande pubblico: è ormai impossibile pensare all’uno senza l’altra. Brian da un lato è spaventato, sa che per un attore è un rischio rimanere così intrappolato in un personaggio, ma è anche felice, perché possono continuare a lavorare insieme. Gli sceneggiatori stanno già preparando la sesta serie e nelle prossime feste natalizie uscirà anche il loro film.
Se solo Yootha non stesse così male. Brian è il solo a sapere che da dieci anni è alcolizzata: quasi mezza bottiglia al giorno di brandy. Prima il divorzio, poi alcune relazioni fallite, la paura di rimanere da sola. E poi quell’incredibile successo. All’inizio della carriera e poi per tutti gli anni Sessanta Yootha pensava che ogni scrittura fosse l’ultima, che ogni ciak fosse l’ultimo. Poi era diventata Mildred e tutti sembravano essersi dimenticati che lei era Yootha. Era contenta di essere andata poche settimane prima ospite del programma televisivo di Max Bygraves. Certo aveva scambiato alcune battute con lui come fosse Mildred, perché era questo che il pubblico voleva, ma aveva anche cantato una vecchia canzone degli anni Trenta, For All We Know We May Never Meet Again.

Brian nota che la fronte si sta imperlando di sudore. La tocca: è gelata. Yootha sembra svegliarsi: guarda le gerbere. Richiude gli occhi e stringe la mano di Brian, sussurrando: "Thanks, George".

mercoledì 12 ottobre 2022

Verba volant (818): anomalia...

Anomalia
, sost. f.

Per noi reduci del Novecento, il giorno, ormai imminente, in cui si insidierà il governo guidato da Giorgia Meloni avrà un indubbio significato simbolico: potremo ricordare quella data come la fine della “prima Repubblica”. Ovviamente, come sempre avviene in questi casi, si tratta di una scelta arbitraria. Allo stesso modo l’Impero romano d’occidente è finito ben prima del 4 settembre 476, il giorno della morte del povero Romolo Augustolo. La “prima Repubblica” è cominciata a morire all’inizio degli anni Novanta, più o meno trent’anni fa: indubbiamente è stata una lunga e dolorosa agonia.
Meloni è giovane, molto giovane. Ma non abbastanza: ha fatto in tempo a militare nel Msi, seppur nella sua fase terminale, ossia in un partito che affonda le proprie radici nella storia della nostra Repubblica. Ma il Movimento Sociale non è mai stato un partito come gli altri, perché era la formazione politica di quelli che avevano perso la Guerra di Liberazione, era il partito fascista in un paese costituzionalmente antifascista. Naturalmente il Movimento Sociale aveva un proprio ruolo ben definito nella vita parlamentare e politica del paese, era un interlocutore istituzionale, anche se per lo più si preferiva tacere questi contatti, ma non poteva entrare al governo, proprio perché rappresentava un’anomalia: i missini erano fuori dal cosiddetto “arco costituzionale”, come si definivano i partiti, tutti gli altri partiti, protagonisti di quella stagione politica.
Nell’agonia della “prima Repubblica”, persone che hanno militato nel Msi sono già entrate nel governo, ma indubbiamente il fatto che il - o meglio la - Presidente del Consiglio sia una di loro indica che quel tempo è ormai concluso. Per sempre. Ed è a suo modo ironico che a dover dare l’incarico a una ragazza che ha cominciato a fare politica contro la riforma Jervolino e nel “fortino” di Colle Oppio, sia un vecchio notabile democristiano, quel galantuomo di Mattarella, che rappresenta, anche antropologicamente, quel mondo ormai perduto.
Al di là di questo dato, che per noi che c’eravamo ha un’indubbia rilevanza politica - e, a suo modo, sentimentale - non voglio dare a questo fatto altri significati. Ed evitiamo spericolati paragoni con quello che è avvenuto in questo Paese nell’ottobre di cent’anni fa. Il fascismo è stato una tragedia mondiale, con precise ragioni storiche e uno sviluppo complesso. Il fascismo è in buona sostanza una cosa seria, su cui dovremo continuare a studiare. Tra qualche anno il nome di Giorgia Meloni sarà dimenticato, come quelli dei tanti presunti leader che si sono succeduti in questi anni e che sembravano destinati a un luminoso avvenire. Questa stagione politica, in cui abbiamo deciso di fare a meno dei partiti, macina minuscoli leader a una velocità sempre maggiore e li distrugge con sempre più crudele voracità. Tra cinque anni - se non prima - il vento cambierà ancora e toccherà a un altro sedere a Palazzo Chigi.
Francamente in questa tornata elettorale il dato per me più preoccupante non è stato il risultato di Fratelli d’Italia, che ha almeno ancora la parvenza di un partito, ma il successo in Sicilia di un personaggio come Cateno De Luca, che ha ottenuto un quarto dei voti validi alle regionali e ha eletto alle politiche un deputato e un senatore. De Luca, soprannominato “Scateno”, è un personaggio fuori dalle righe e senza freni, l’uomo “del popolo”, che alimenta i peggiori istinti della “ggente”. E dopo l’inverno di “lacrime e sangue”, che ormai ci attende, con le fonti di energia razionate, con la crescita della disoccupazione e della povertà, personaggi come De Luca - e se possibile peggiori di lui - avranno sempre maggior fortuna. E forse arriveremo a un punto che dovremo perfino rimpiangere il “moderatismo” di Meloni e Salvini. O pensare a Berlusconi come a un garante delle istituzioni.
State sereni: il fascismo non tornerà. Perché il fascismo non serve. Cent’anni fa c’è stata la Marcia su Roma, perché c’erano stati nelle industrie scioperi durissimi, perché i contadini chiedevano la terra, perché stava crescendo una forte coscienza di classe, perché una rivoluzione era possibile, perché si poteva ancora sperare di “fare come in Russia”. Adesso che la sinistra sostiene che il capitalismo selvaggio sia la forma naturale dell’economia e che uomini come Draghi siano i salvatori della patria, adesso che l’opposizione sociale è morta, perché i padroni dovrebbero armare i fascisti? Il lavoro sporco lo abbiamo già fatto noi negli anni Novanta. Il governo Meloni sarà l’ennesimo governo piegato ai dettami delle istituzioni monetarie internazionali e degli interessi del capitalismo. Solo un po’ più volgare. Gli italiani vogliono che a Palazzo Chigi ci sia qualcuno che assomigli un po’ di più a loro, sono stanchi di vedere uno come Draghi che non rutta a tavola, non tocca il sedere alle segretarie, non si intasca qualche mazzetta, non sbaglia un congiuntivo. Sperano che Giorgia sia più maleducata degli ultimi premier che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Se si impegna, credo possa farcela.

venerdì 23 settembre 2022

Verba volant (817): naso...

Naso
, sost. m.

Come era davvero Cleopatra? Secondo Cassio Dione di una bellezza senza pari, mentre Plutarco dice che non era più bella di altre donne, ma che aveva un incredibile fascino. Nessuno di loro l'ha conosciuta. E poi sono storici. Non c'è da fidarsi: mentono per professione. Dai pochissimi ritratti a lei attribuiti non sembra proprio bellissima (almeno secondo i nostri canoni): il naso è leggermente aquilino e il mento sporgente. Forse per questo Pascal dice che "se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata". Ci torneremo su questo naso, ma anche del lavoro degli scultori non possiamo proprio essere sicuri. E poi pare fosse piccolina. Certo l'altezza media a quel tempo era molto diversa da quella di oggi. 
Insomma non sappiamo com'era l'ultima delle regine d'Egitto. Per fortuna c'è il cinematografo. E così siamo sicuri che Cleopatra è bellissima. Come nessun'altra.

Purtroppo non ci è rimasta alcuna immagine della prima Cleopatra della storia del cinema, perché Cléopâtre, il cortometraggio che Geoges Méliès nel 1899 ha dedicato alla regina d'Egitto è andato perduto. Nel 2005 si è gridato al miracolo: in una vecchia cassa sembrava ce ne fosse una copia, ma si trattava di un altro cortometraggio dell'artista francese, L'Oracle de Delphes, di qualche anno successivo. Da quello che sappiamo, nei due minuti del film si raccontava la storia di due esploratori - uno interpretato dallo stesso Méliès - che profanano la tomba dell'antica sovrana, la cui mummia, furente, si risveglia dalla morte, terrorizzando gli incauti e sacrileghi archeologi. 
Cléopâtre, oltre a essere il primo film con protagonista l'ultima discendente della dinastia tolemaica, è anche il primo film su una mummia, un genere che godrà di una particolare fortuna. E anche il film di Méliès appassiona il pubblico, anzi è uno di quelli che crea la sua fama, perché il produttore Charles Urban porta il film in America, proiettandolo con il titolo Robbing Cleopatra's Tomb: è l'inizio del successo di Méliès nel paese che farà diventare il cinema l'arte del XX secolo. 
Méliès è un artista geniale, ma un pessimo uomo d'affari: vende le copie dei suoi film una ad una, senza ottenere alcun diritto per le successive riproduzioni e così la sua casa di produzione nel 1913 è costretta a chiudere. Poi ormai i gusti stanno cambiando e i piccoli film di Méliès, con i suoi ingenui trucchi, sono venuti a noia. Ridotto in miseria, Georges ritrova a Parigi una delle sue primi attrici, Jeanne d'Alcy, che gestisce un chiosco dove vende dolci e giocattoli alla stazione di Montparnasse. I due si sposano e così Georges può continuare a fare piccoli trucchi di magia e inventare storie fantastiche per i bambini del quartiere.
Ed è proprio Jean d'Alcy, con i suoi grandi occhi scuri, a interpretare Cleopatra in quel perduto cortometraggio. Questa bella ragazza francese - nata nel 1865 a Vaujours, poco lontano da Saint-Denis - è una presenza costante in tutti i primi film di Méliés, tanto da essere considerata la prima attrice della storia del cinema. Nel celeberrimo Le Voyage dans la lune del 1902 è lei a "interpretare" la cometa: la più splendente delle stelle del cielo non può che avere i lineamenti di Cleopatra.

Il 3 novembre 1908 esce nei cinema americani Antony and Cleopatra, il primo film in cui si racconta, seppure in una versione molto ridotta - visto che dura solo una decina di minuti - la tragica storia narrata da Shakespeare nell'omonimo dramma. E Cleopatra è la splendida Florence Lawrence.
Il nome di questa attrice - nata nel 1890 a Hamilton, in Canada, nella regione dei Grandi Laghi - è ormai dimenticato, ma all'inizio del Novecento, quando nasce il cinema, lei è la prima vera star. In pochi anni gira quasi trecento cortometraggi. In quei primi anni il suo nome è poco conosciuto, perché all'inizio della carriera viene chiamata semplicemente "The Biograph Girl", ossia la ragazza della Biograph, la casa di produzione per cui lavora, diretta per lo più dal grande David Wark Griffith. I produttori in quegli anni preferiscono non citare nei titoli di testa i nomi degli attori e delle attrici: temono che diventino troppo famosi e che quindi chiedano paghe più alte, ma la fama di Florence, "The Girl of a Thousand Faces" come viene anche chiamata, continua a crescere. E i produttori capiscono che lo star system, anche se è costoso, rende al botteghino. 
Florence è non solo la prima star, è anche la prima a subirne le conseguenze: la sua fama è tanto folgorante, quanto effimera. A causa di un incidente non può lavorare per diversi mesi e ben presto il pubblico si dimentica di lei, e i produttori smettono di farla lavorare. Il crollo di Wall Street cancella i suoi cospicui risparmi e Florence, ormai stanca di fare provini per minuscole parti in una Hollywood in cui nessuno la riconosce più, si suicida. Come Cleopatra, ma, a differenza di lei, bevendo dell'insetticida economico.

L'interesse per la regina d'Egitto continua. Visto il successo del cortometraggio del 1910 interpretato dalla grande attrice francese Madeleine Roch, membro della Comédie-Française, una delle migliori interpreti dei drammi di Victor Hugo, un produttore americano decide che è il momento di girare su Cleopatra un lungometraggio. Anzi si tratta di una produttrice. 
Helen Gardner - nata nel 1884 nella Stato di New York - è una figura singolare del cinema americano dell'età del muto, perché è il primo interprete che, grazie al suo successo, riesce a fondare una propria casa di produzione, The Helen Gardner Picture Players. E Cleopatra, Queen of Egypt, tratto questa volta non da Shakespeare, ma dall'omonimo dramma di Victorien Sardou, è il primo film che Helen produce da sola. E ovviamente ne interpreta il ruolo principale. Oltre a partecipare alla stesura della sceneggiatura, a disegnare i costumi e a collaborare con il montaggio. Helen Gardner vuole che Cleopatra, Queen of Egypt sia il suo film, vuole essere la regina del cinema. Helen è una donna davvero affascinante, che nella sua carriera interpreta anche una versione femminile del classico tratto dal romanzo di Stevenson, banco di prova per tanti suoi famosi colleghi di sesso maschile: nel 1915 è la protagonista, in entrambi i ruoli, di Miss Jekyll and Madame Hyde. 
Helen Gardner è una splendida Cleopatra e il film è un successo. Nonostante gli attacchi della censura che lo colpisce in molte città. Pochi spettatori in America possono leggere questa "scandalosa" didascalia: "Se ti lascio vivere e mi amerai dieci giorni, ti distruggerai?".

Nel 1917 Cleopatra ha gli occhi spiritati e cerchiati di nero della sensuale Theda Bara, la prima vamp del cinema americano. Il termine viene coniato proprio per lei - nata nel 1885 a Cincinnati - dopo che il produttore William Fox la vuole come protagonista del film The Vampire. E le trova questo nome d'arte che è l'anagramma di Arab Death. Theda Bara è la prima femme fatale del cinema, la tentatrice, la donna che porta gli uomini alla perdizione, è Salomè, Carmen, Esmeralda, la vampira che uccide le sue prede. E non può che interpretare anche Cleopatra. 
Il successo di Theda dura pochi anni, negli anni Venti, nell'età del jazz, si impone un altro modello femminile, la flapper, la donna emancipata, che frequenta gli speakeasies e indossa pantaloni e giacche da uomo, e lei si ritira, prigioniera del personaggio che le hanno cucito addosso. Chi è il vero vampiro di questa storia?
Cleopatra costa oltre mezzo milione di dollari, le scene e i costumi sono sfarzosi, vengono impiegate fino a duemila comparse, nella scena del banchetto ci sono leoni e tigri. Il film ottiene un incredibile successo e Theda Bara diventa la Cleopatra più famosa del cinema muto. Nonostante questo grande successo, Cleopatra è uno dei tanti film perduti di quell'età pioneristica. Con l'avvento del sonoro, i film muti non hanno più mercato e il Codice Hays, con i suoi rigidi vincoli moralistici, non favorisce la conservazione di quelle scene "peccaminose", in cui si vedono addirittura le spalle e le cosce nude della regina d'Egitto. Ci rimangono solo pochi fotogrammi con Theda Bara che ci osserva, forse più disperata che sensuale.    

Ethel Teare è l'ultima Cleopatra del cinema muto, nel cortometraggio Antony and Cleopatra del 1924. Ethel è meno sensuale di Theda Bara e il soggetto più aderente al dramma del Bardo di Stratford. 
Dieci anni dopo finalmente "Cleopatra talks". La Paramount vuole fare un colossal di questo nuovo Cleopatra. E ingaggia uno specialista come Cecil B. DeMille, il più grande regista di film storici. E il vecchio Cecil ci mette tutto il suo mestiere. La trama è un adattamento pastiche e melodrammatico delle vicende di Cleopatra e dei suoi rapporti con Cesare e Antonio, un polpettone storico in cui DeMille usa le sue capacità per offrire al pubblico un'intrigante - e un po' torbida - storia d'amore, senza violare, almeno formalmente, le rigide norme del Codice Hays: la schiava egizia che, all'inizio del film, appare durante i titoli di testa, reggendo in mano due recipienti in cui brucia l'incenso, sembra nuda, ma in realtà è la capacità del regista di usare la luce a farla sembrare così. Le scene e i costumi, realizzati rispettivamente da Hans Dreier e Travis Banton, senza risparmiare sui costi di produzione, sono un misto tra il gusto egizio e l'art déco. 
E poi c'è Claudette Colbert - nata nella regione della Marna nel 1903, ma ormai naturalizzata statunitense - bellissima, una delle dive indiscusse degli anni Trenta. È seducente quando appare dopo che il tappeto viene srotolato alla presenza di Cesare, appassionata nella sua storia d'amore con Antonio, tenace quanto si confronta con Ottaviano, ma Claudette non ha il viso e la regalità di Cleopatra. In quell'anno escono ben quattro film di cui l'attrice è protagonista, tra cui It Happened One Night - Accadde una notte in Italia - in cui interpreta la viziata ereditiera Ellie Andrews. È un film che le viene imposto dagli studios, che non vorrebbe fare, anche perché lei e Clark Gable si stanno reciprocamente antipatici. Eppure in questa commedia sofisticata Claudette dà il meglio di sé, è irresistibile nella celebre scena dell'autostop, quando mostra civettuola la gamba, o quando alza le "mura di Gerico", ossia le coperte che la devono "separare" da Gable quando sono costretti a condividere un letto matrimoniale in un piccolo motel di provincia. E grazie a questa commedia ottiene un meritato Oscar ed entra nell'immaginario del pubblico. Con buona pace della sua regina d'Egitto.

A questo punto il nostro viaggio tra gli occhi di Cleopatra ci riporta nel paese delle piramidi, perché nel 1943 c'è la prima Cleopatra egiziana. Grazie agli intensi rapporti politici e commerciali con la Francia, il cinema è arrivato in Egitto già dal tempo dei Lumière. Negli anni Venti nasce l'industria cinematografica del paese e nel 1927 esce il primo film prodotto, diretto e interpretato da artisti egiziani. A Giza vengono costruiti gli studi della Misr, che non sfigurano con quelli della nascente Hollywood. I film egiziani si diffondono in tutto il mondo arabo e l'industria del cinema diventa la seconda del paese, dopo quella tessile. 
E naturalmente non può mancare un film dedicato a Cleopatra e Amina Rizk - nata a Tanta nel 1910 - ottiene la parte. Questo nome può non dirvi nulla, ma Amina è davvero una star. In una lunga carriera durata settant'anni, ha interpretato duecento spettacoli teatrali e quasi ottanta film per il cinema e la televisione. Amina è l'indiscussa regina del cinema egiziano.        

So che ormai tutti, quando viene nominata Cleopatra, pensiamo agli occhi viola di Elizabeth Taylor, ma per me nessuna come Vivien Leigh è riuscita a incarnare la regalità dell'ultima discendente di Tolomeo. Con il suo sguardo magnetico Liz ti seduce, ma se Vivien ti guarda, le devi obbedire. Come dice Plutarco "all’attrattiva della persona e della parola si aggiungeva una forza di carattere che ne pervadeva il discorso e il gesto": credo che solo Vivien Leigh sia riuscita a interpretare in questo modo quel complesso personaggio.
Al di là di questa mia personale predilezione, Caesar and Cleopatra non è il clamoroso successo atteso dai suoi produttori. Gli incassi sono ottimi, anche perché il pubblico, finita la guerra - il film esce nel Regno Unito l'11 dicembre 1945 - ha voglia di tornare al cinema e per di più a vedere una star come Vivien Leigh - nata nel 1913 a Darjeeling, nel Bengala - la memorabile Miss Rossella di Gone with the Wind. Ottimi, ma non sufficienti a coprire le spese, che sono state troppo alte, per colpa della guerra, che ha rallentato di mesi il lavoro, e soprattutto del desiderio del regista Gabriel Pascal di realizzare il proprio capolavoro: ha fatto arrivare negli studi di Denham nel Buckinghamshire della vera sabbia egiziana, in modo di assicurare un "colore" reale alla storia. Anche perché Vivien Leigh è la prima Cleopatra in Technicolor. 
La sceneggiatura è basata sull'opera teatrale di George Bernard Shaw che, nonostante le riserve per come le sue opere vengono adattate per il cinema - è ancora arrabbiato perché Pascal ha cambiato il finale di Pygmalion - ottiene il permesso di leggere la stesura: sarà l'ultima volta, visto che morirà cinque anni dopo. Claude Rains, il capitano Renault di Casablanca e uno dei migliori attori inglesi della sua generazione, è un ottimo Giulio Cesare. Nonostante tutto questo, il film non funziona, anche perché è complicato tradurre per il grande schermo un'opera teatrale complessa come quella di Shaw, in cui c'è poca azione, ma, attraverso lunghi dialoghi, viene esplorato il complicato rapporto tra il vecchio condottiero vincitore e la giovane regina sconfitta.
Il personaggio di Cleopatra segna negativamente la vita di Vivien Leigh. Durante le riprese del film, rese difficili dai bombardamenti dell'aviazione tedesca, l'attrice cade e perde il bambino che sta aspettando. Le riprese vengono sospese per oltre un mese, Vivien soffre di una forte depressione, che scatena il suo disturbo bipolare. Il fatto che il film non ottenga buone critiche e il successo sperato, peggiora le sue condizioni di salute già labili. Ma Vivien è un'attrice sensibile e intelligente e ottiene ancora un grande successo, sia a teatro che al cinema, interpretando il personaggio di Blanche in A Streetcar Named Desire - ruolo per cui ottiene il suo secondo Oscar nel 1951. In quello stesso anno torna a teatro con suo marito Lawrence Olivier e la loro compagnia mette in scena nella stessa stagione, prima al West End e l'anno successivo a Broadway, Antony and Cleopatra di Shakespeare e Caesar and Cleopatra di Shaw, alternando i due titoli una sera dopo l'altra. Le critiche sono in genere positive, tranne quella del giovane "arrabbiato" Kenneth Tynan, che scrive che Vivien è mediocre e costringe Olivier a peggiorare la sua interpretazione per non farla sfigurare. Si tratta di un giudizio ingeneroso, ma a cui Vivien, provata dalla malattia, dà troppo peso, acuendo la sua depressione, una malattia che l'accompagnerà fino alla morte nel 1967, a soli cinquantatré anni. Il cinema e il teatro perdono una splendida regina.

Non sono sempre memorabili i film degli anni successivi in cui compare l'affascinante regina dell'Egitto. Nel 1953 esce Serpent of the Nile con Rhonda Fleming nel ruolo della protagonista, anche se i cinefili ricordano il film soprattutto per il balletto di una giovane Julie Newmar, "vestita" soltanto di una vernice dorata che le copre tutto il corpo. La pin up dai capelli rossi è certo una bellezza esuberante, ma non può competere con quella di Sofia Scicolone - nata a Roma nel 1934 - che nel 1954 è la protagonista di Due notti con Cleopatra, in cui interpreta, usando il suo nuovo nome d'arte Sophia Loren, sia la regina che la sua sosia, la schiava Nisca. 
Si tratta ovviamente di un film commerciale, costruito intorno alla generosa bellezza di Sophia e alla verve comica di Alberto Sordi, ma è realizzato da validi professionisti, che hanno fatto grande il cinema italiano. Il regista è Mario Mattoli, la sceneggiatura è firmata da Ruggero Maccari ed Ettore Scola, mentre le musiche sono di Armando Trovajoli. E accanto ai due protagonisti ci sono alcuni ottimi caratteristi: Ugo D'Alessio, Enzo Garinei, Giacomo Furia, Riccardo Garrone, solo per citarne alcuni.
Qualche anno dopo arriveranno per Sophia Loren i film che la faranno diventare una star internazionale e l'indiscussa regina del cinema italiano. Non può che essere lei la "nostra" Cleopatra.   

Nel 1957 Virginia Mayo, un'attrice impegnata per lo più nel genere western, è Cleopatra in The Story of Mankind - in Italia L'inferno ci accusa - un film che, nonostante il cast di vecchie glorie di Hollywood, si è ritagliato un posto tra i peggiori della storia del cinema. 
Cinque anni dopo è Pascale Petit a interpretare Cleopatra in Una regina per Cesare, una coproduzione italo-francese in cui viene raccontata, a differenza di quello che avviene negli altri film, soltanto la lotta dinastica in Egitto precedente all'arrivo dei Romani: Pascale è una Cleopatra senza Antonio. L'attrice francese è una sensuale regina d'Egitto, ma il film è mediocre, e purtroppo la carriera di Pascale non riuscirà a decollare, rimanendo schiacciata in pellicole come I dolci vizi... della casta Susanna. Nonostante tutto, per i produttori si tratta di un insperato successo economico: infatti la 20th Century Fox acquista i diritti del film. Solo per toglierlo dalla sale. Sta per uscire Cleopatra diretto da Mankiewicz e la Fox vuole che il pubblico non abbia un'altra Cleopatra oltre Liz.  

Eppure quella Cleopatra poteva essere Joan Collins - che ha fatto un lungo provino per la parte e nel 1955, diretta da Howard Hawks, è stata la principessa Nellifer in Land of the Pharaohs - o Joanne Woodward - un Oscar nel 1958 per The Three Faces of Eve - o la bellissima modella, quasi esordiente al cinema, Suzy Parker. E poi c'erano Audrey Hepburn e Sophia Loren, al tempo sotto contratto con la Fox. Rouben Mamoulian, che in un primo momento deve essere il regista del film, vorrebbe Dorothy Dandridge, la protagonista di Carmen Jones, ma Hollywood non è ancora pronta per una Cleopatra nera. 
Chissà che film sarebbe stato senza Liz? Comunque il produttore Walter Wanger sogna di realizzare quel film da più di dieci anni e dopo averla vista nel classico noir A Place in the Sun - Un posto al sole nelle sale italiane - ha deciso che solo Elizabeth Taylor - nata nel 1932 a Londra, ma ormai americana - potrà essere "la quintessenza della femminilità e della forza".
Immagino che prima o poi qualcuno farà una serie televisiva sulla realizzazione di questo lunghissimo film - dura più di quattro ore - costato più di trenta milioni di dollari, che rischiava di far fallire quella storica casa di produzione: un enorme set costruito ai Pinewood Studios di Londra e poi ricostruito, ancora più in grande, a Cinecittà, la battaglia di Azio girata nelle acque davanti a Ischia e quella di Farsalo ad Almeria in Spagna, con il film già in fase di montaggio. E un'incredibile serie di problemi, dallo sciopero dei parrucchieri alla malattia della protagonista. 
Un film iniziato da un regista e finito da un altro e con molti sceneggiatori. Nonostante questa squadra di autori, il 22 gennaio 1962, quando viene girata la prima scena in cui sono insieme Elizabeth Taylor e Richard Burton, sono scritte solo centotrentadue pagine di sceneggiatura e ne mancano quasi duecento. Di giorno si gira e di notte si scrive. Ma quel lunedì segna anche la fortuna del film. A proposito di quella scena Wanger scriverà: "potevi quasi sentire l'elettricità tra Liz e Burton". Forse i ricordi di Walter sono influenzati da quello che è successo dopo: l'ardente e tormentata storia d'amore tra Cleopatra e Antonio è diventata la storia, altrettanto ardente e tormentata, di Elizabeth e Richard. E anche grazie a questa travolgente, e scandalosa, love story, che in breve domina i giornali e i rotocalchi di tutto il mondo, quel film incassa quasi sessanta milioni di dollari, salvando la Fox. E soprattutto creando il mito di Liz. 
I critici non sono benevoli con l'attrice, qualcuno la giudica troppo in carne, altri dicono che la sua voce è troppo sottile, e che il confronto con i suoi coprotagonisti, Burton e Rex Harrison come Cesare, attori teatrali di grande talento, la danneggia. Ma tutto questo non conta: per tutti noi Cleopatra avrà sempre i penetranti occhi viola di Liz.

La premiere del colossal si tiene a New York il 12 giugno 1963. Il pubblico italiano dovrà aspettare il 30 gennaio dell'anno successivo, ma intanto si è divertito con Totò e Cleopatra. Il grande attore napoletano interpreta Marco Antonio e un suo fratello, praticamente gemello, il commerciante di schiavi Totonno. I continui scambi tra questi due personaggi e la bravura di Totò - affiancato da capacissimi caratteristi, da Gianni Agus a Toni Ucci, da Lia Zoppelli a Carlo Delle Piane - fanno di questo film, evidentemente girato per sfruttare l'effetto del film americano, un gioiello del cinema comico italiano di quegli anni. La brava attrice francese Magali Noël è una splendida e prosperosa Cleopatra. Una bella carriera di attrice e cantante quella di Magali, tra la Francia e l'Italia, tra il cinema e il cabaret: ma per noi sarà sempre Gradisca.  
Non è un film su Cleopatra, ma alla fine del 1963 esce la commedia Take Her, She's Mine - che in Italia sarà Prendila, è mia. James Stewart è un padre che prima permette alla figlia Mollie, intrepretata dalla giovanissima Sandra Dee, di andare a studiare a Parigi e poi, pentito, decide di seguirla per controllarla. In una festa su una chiatta lungo la Senna tutte le ragazze sono vestite da Cleopatra e la biondissima Sandra sfoggia una parrucca uguale a quella di Liz.
È ormai una Cleopatra-mania. Nel 1964 esce la commedia inglese Carry on Cleo. Il film non sfrutta solo la popolarità del film della Fox, ma anche le scene e i costumi che sono rimasti a Londra, dopo che il set è stato spostato a Cinecittà. È una sorta di parodia, in cui alla fine Cleo e Tony rimangono in Egitto per passare insieme "un lungo sabato sera". Amanda Barrie con i suoi occhi sgranati, il caschetto nero e quei completini succinti è la perfetta Cleopatra della Swinging London.

È complicato essere Cleopatra dopo Liz Taylor, ma anche gli anni Settanta sentono il fascino di questo personaggio. Proprio nel 1970 esce Cleopatra, un film indipendente girato dal fotografo Michael Auder, fortemente influenzato dalle opere di Andy Warhol. Non c'è una sceneggiatura, si improvvisa davanti alla macchina da presa. Gli interpreti arrivano praticamente tutti dalla Factory. Ci sono Gerard Malanga, Nico, Taylor Mead, Ultra Violet. E Viva - come ha ribattezzato lo stesso Warhol questa ragazza nata a Syracuse nel 1938 - che ha girato lo scandaloso Blue Movie con la regia del creatore della pop art e Lions Love di Agnès Varda, è la perfetta Cleopatra di questo decennio.
Nel 1972 Charlton Heston vuole dirigere e interpretare una nuova versione cinematografica di Antony and Cleopatra - in Italia sarà distribuito con il titolo All'ombra delle piramidi. Il film non è un successo, ma l'attrice inglese Hildegard Neil, attiva per lo più nel West End e con la Royal Shakespeare Company, è una splendida Cleopatra, forse più guerriera che sensuale: quando indossa l'elmo è ancora più bella.

Per finire questa mia "description de l'Égypte" e raccontarvi di un'altra Cleopatra, devo fare un passo indietro. Nel 1965 viene pubblicato Astérix et Cléopâtre, il sesto albo della serie dedicata al villaggio di Galli che resiste alla conquista delle truppe di Cesare. Albert Uderzo disegna una vezzosa Cleopatra - con il naso all'insù - avendo ben in mente il film di Mankiewicz, spesso citato nelle vignette, e René Goscinny scrive una delle sue storie più divertenti: gli scontri "coniugali" tra Cleopatra e Cesare sono deliziosi. Dopo tre anni viene realizzato un film a cartoni animati e per dare la voce alla protagonista viene chiamata la bravissima Micheline Dax, una veterana del cabaret e del teatro, diventata una regina del doppiaggio di animazione (è sua anche la voce francese di Miss Piggy). 
Nel 2002 viene presentato al pubblico il secondo live action dedicato agli eroi di Goscinny e Uderzo, basato sulla storia raccontata nell'albo del 1965, Astérix & Obélix: Mission Cléopâtre. I produttori del film con Christian Clavier e Gérard Depardieu nei panni di Asterix e Obelix vogliono che Cleopatra sia un'attrice altrettanto famosa, anzi vogliono che siano una regina. E la regina più bella del cinema francese è Monica Bellucci - nata in Umbria nel 1964, ma ormai diventata loro apanage: non ce la restituiranno, come hanno fatto con la Monna Lisa. E Monica è davvero splendente. Puoi anche essere Cesare: è impossibile resisterle.   

Vivien e Monica, Liz e Sophia, e tutte le altre: la storia di Cleopatra non finirà con loro. Sappiamo che Laeta Kalogridis e Patty Jenkins - due donne finalmente, perché abbiamo bisogno che il mondo lo raccontino le donne - stanno scrivendo la sceneggiatura di un nuovo film dedicato alla regina d'Egitto. Pare ci sia qualche difficoltà a trovare chi deve metterci i soldi: un problema del cinema fin dai tempi di Méliès. Ma sono certo che prima o poi ci riusciranno, perché ci sarà sempre un nuovo film su questo personaggio. E chi poteva essere la prossima Cleopatra se non Wonder Woman? Gal Gadot - nata nel 1985 a pochi chilometri da Tel Aviv - mi sembra decisamente perfetta. I tempi cambiano e cambia anche l'idea che abbiamo di Cleopatra. 
Di che colore era la pelle di Cleopatra? Il tema, ai tempi del politically correct, è diventato rilevante, visto che alcuni sostengono che Gal non sarebbe adatta a interpretare questo ruolo proprio perché, essendo di una famiglia di origini aschenazite, è decisamente bianca. A quello che sappiamo Cleopatra era di origine greco-macedone da parte di padre ed egiziana da parte di madre, in un tempo in cui non c'era la nostra morbosa - e inconfessabilmente razzista - attenzione per il colore della pelle. Uno degli aspetti del fascino di Cleopatra era il fatto di essere poliglotta, a suo modo cittadina del mondo, una donna che sapeva unire oriente e occidente. Mi auguro che il nuovo film racconti finalmente anche questo. 
E il naso? Cosa c'entra il naso di Cleopatra? La vera domanda che il filosofo francese credo voglia porci è piuttosto un'altra. Cosa sarebbe successo se ad Azio avesse vinto Cleopatra? Se la capitale del mondo fosse diventata la cosmopolita Alessandria, la città della Biblioteca, a metà tra oriente e occidente? Ma Cleopatra ha perso e la storia l'ha fatta Ottaviano. Purtroppo.
A noi rimangono solo gli occhi di Cleopatra. Da Jean a Gal.