lunedì 28 settembre 2015

Verba volant (214): eretico...

Eretico, agg.

Mai come in queste occasioni i giornali "borghesi" dimostrano tutta la loro pigrizia. Provate a sfogliare alcuni dei quotidiani dei padroni e vedrete che tutti definiscono Pietro Ingrao un "eretico", non riuscendo poi ad articolare in cosa e rispetto a chi lo sarebbe stato. Di fronte a personaggi così complessi non hanno il tempo e la voglia di provare a capire, di cercare di approfondire almeno un po'. Ovviamente non ci aspettiamo da questi servi che dicano che uomini come Ingrao avevano ragione, ma almeno un po' di rigore professionale non farebbe male. Devono fare un articolo su Ingrao, perché è stato presidente della Camera, perché è stato un politico importante, perché è vissuto così a lungo, ma non riescono a mettere in fila se non alcune parole di circostanza, più o meno ben scritte. Curiosamente tutti questi che definiscono Ingrao un "eretico" non fanno altro che citare il suo atto più rigorosamente ortodosso, il duro editoriale sull'Unità del 12 novembre 1956 in cui difese le ragioni del governo sovietico che invase l'Ungheria.
Io non posso certo definirmi un ingraiano, un po' per ragioni anagrafiche e soprattutto perché il mio impegno politico più significativo è cominciato proprio nei mesi in cui è nato il Pds, scelta a cui - come è noto - Ingrao si oppose con forza e con determinazione, anche nella consapevolezza che sarebbe stata una battaglia destinata alla sconfitta. In qualche modo io ho cominciato a fare politica contro Ingrao, - si parva licet - sconfiggendolo. Mi è già capitato di parlare di quegli anni, che ormai sembrano così lontani; personalmente credo che allora non sbagliammo a intraprendere quel cammino e soprattutto non credo che quella decisione sia stata la miccia che ha necessariamente condotto al disastro che oggi abbiamo davanti agli occhi. So che molti la pensano diversamente e ritengono che in quella decisione di allora ci fosse già in nuce il germe della malattia che ci ha portati alla morte, che quello sia stato il primo sintomo del tumore di cui renzi è solo l'ultima, inevitabile e letale escrescenza. Visto che siamo arrivati al pd evidentemente noi abbiamo commesso molti errori, ma non era inevitabile suicidarsi, è stato un complesso di scelte degli anni successivi che ci ha condotti alla rovina. E di cui, lo ripeto, noi siamo responsabili, anche per non aver ascoltato le parole profetiche di Ingrao.
Curiosamente io stavo per chiudere la mia carriera politica dovendo partecipare a un incontro pubblico proprio con Pietro Ingrao, per un'iniziativa sui sessant'anni delle Feste dell'Unità. Purtroppo quella manifestazione non si svolse - perché non stava bene e non se la sentì di venire fino a Bologna - e a me è rimasto il rammarico di non aver potuto incontrarlo. Scusate se ho raccontato queste cose che riguardano solo me e che a voi poco dovrebbero interessare, però mi sembra utile per far capire che, nonostante tutto, nonostante un confronto che fu aspro, anche dal punto di vista personale, molti di noi continuarono a considerare Ingrao - come tanti compagni che avevano fatto la sua stessa scelta - un interlocutore, un uomo che faceva parte della nostra storia. Io non mi sono mai sentito radicalmente diverso da Ingrao, come invece mi sento radicalmente diverso da renzi e dai suoi complici.
E proprio per questo non riesco a considerare Pietro Ingrao un eretico. Ingrao è stato un uomo rigoroso, un politico che ha avuto sempre chiara un'idea e ha saputo seguirla. Poi naturalmente in una vita, in una vita fortunatamente così lunga e così ricca ed essendo dotato della sua intelligenza, è naturale che abbia approfondito delle opinioni, riflettuto meglio su alcune sue decisioni, anche ammettendo di aver commesso degli sbagli - come ha fatto in riferimento alle vicende ungheresi - ma la grandezza dell'uomo credo stia proprio in questa coerenza, che non era testardaggine ottusa o mera adesione a chi di volta in volta comandava, ma rigorosa fedeltà ai propri principi.
Ingrao, proprio grazie a questa sua capacità di leggere la storia, di individuarne i conflitti e di sapere naturalmente da che parte stare, è stato davvero un eretico - ma non nel senso della comune vulgata - perché non si è piegato al pensiero unico, perché non ha rinunciato a essere comunista, perché non ha mai smesso di credere che il mondo potesse essere cambiato, con la politica - e, nel suo caso, perfino con la poesia. Ingrao non ha smesso di insegnarci l'utopia, come in tanti hanno ricordato in queste ore, ma un'utopia non sterile, non svagata, un'utopia concreta, fatta di azioni, di lotte, di scelte politiche. Naturalmente adesso sarebbe facile dire che allora aveva ragione lui e che noi avevamo torto, ma credo che questo a lui per primo non interessasse. Non gli importava sapere che aveva avuto ragione, ma gli interessava capire cosa fare per uscire da questa crisi, per ricostruire una prospettiva radicalmente alternativa e di sinistra anche in questo paese. Per onorare la memoria di Pietro Ingrao non è necessario diventare - o ridiventare - ingraiani, ma avere un'ideale e avere la forza e l'intelligenza di perseguirlo, a costo di ogni sacrificio.

"Ipotesi" di Pietro Ingrao


Non è la quiete
la fine dei disordini
la liquidazione dei confini,
delle vittorie inique
e vincitori superbi
e fallaci,

non l'indifferenza dei ranghi,
la dissoluzione delle lacrime
il trono ai deboli
ai candidi
oscurati dalla verginità dei desideri.
Solo un sospendere.
Neppure uno sdegno:
un'esitazione sul morire
per mano d'uomo,

quasi una finzione:

come
il braccio s'inceppasse a trafiggere,
dubbio sull'arte
dello sterminare i nati da donna
chiamati a noi prossimi:
                                 tali che a tratti,
a sorpresa,
li diciamo fratelli.

domenica 27 settembre 2015

"Eppure" di Pietro Ingrao


Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c'è segno, né nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si può dire la storia,
per i non nati mai
perché non furono riconosciuti,
per le parole perdute nell'ansia
per gli inni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d'ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:
fiume senza bandiere senza sponde
eppure eterno fiume dell'esistere.

mercoledì 23 settembre 2015

Verba volant (213): emissione...

Emissione, sost. f.

C'è una dilagante e nauseabonda ipocrisia nei commenti che leggiamo in questi giorni sulla vicenda Volkswagen, ben più tossica dei gas di scarico di quelle automobili. Ovviamente non ho alcuna simpatia per quell'azienda - sono padroni come gli altri, né migliori né peggiori - ma vorrei ricordare che l'editore di due tra i più importanti quotidiani italiani - il primo e il quarto per copie vendute - è anche il padrone di un'altra fabbrica di automobili, concorrente della casa tedesca. Difficile credere che i giudizi, così virilmente sdegnati, dei redattori a libro paga di Marchionne non risentano di questo conflitto di interessi, di cui per anni abbiamo fatto finta di non accorgerci.
Poi noi italiani non abbiamo alcuna simpatia per i tedeschi, non riusciamo a farceli piacere, li abbiamo mal tollerati anche quando siamo stati loro alleati "di ferro": e quindi gioiamo delle loro debolezze, delle loro pecche, delle loro cadute. E naturalmente agli organi di informazione, nazionali e nazionalisti, non pare vero di inzuppare in questo sentimento antigermanico. Anche il nostro governo sotto sotto gode di questo scandalo, non solo perché il premier riceve laute prebende dal padrone della fabbrica di auto che un tempo fu italiana, ma soprattutto perché può finalmente guardare con sufficienza la sua collega di Berlino, senza dover aspettare un'altra partita di calcio.
Ma al di là di queste piccole beghe, non capisco davvero dove stia lo scandalo. I padroni della Volkswagen hanno mentito per vendere più automobili e quindi per guadagnare di più: è l'essenza del capitalismo. E' naturale che i padroni mentano per vendere più automobili, più hamburgher, più cosmetici, più bevande gassate, più pneumatici, più spaghetti, più computer, più di ogni altra cosa. Più una cosa ci fa male, più loro inventano storie, più una cosa è inutile, più loro dicono bugie. Il capitalismo si regge su queste menzogne, anzi ne ha bisogno per vivere e per prosperare. Il capitalismo è menzogna, è frode, i padroni ogni giorno truffano i loro lavoratori, non pagandoli in maniera adeguata per quello che producono - a volte non pagandoli affatto - non riconoscendo il frutto del loro lavoro, della loro fatica, del loro genio. E naturalmente devono truffare i consumatori affinché acquistino, e acquistino, e acquistino; senza fermarsi. Viviamo in una società che non ci considera come persone o come cittadini, ma solo come consumatori, ciascuno di noi vale tanto quanto consuma, quanto spende, quanto getta via per poi ricomprare. In una società così non è importante che un'auto inquini poco, ma che venga comprata e, se viene comprata perché crediamo che inquini poco, ci diranno che inquina poco.
I padroni non riconoscono le regole, non possono riconoscere delle regole, perché il capitalismo è per sua natura sfrenato e bestiale. Anzi tutta la storia di questi ultimi trentacinque anni - o giù di lì - è dominata dalla reazione rabbiosa, animalesca, sfacciatamente violenta - e purtroppo vittoriosa - che il capitale ha scatenato contro le regole che gli sono state imposte, con fatica e a prezzo di lotte durissime, nei cosiddetti trenta gloriosi, nei tre decenni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale. In quegli anni la politica, grazie anche al protagonismo di una classe di lavoratori consapevole della propria forza e dei propri diritti, aveva in qualche modo preso il controllo di quella bestia immonda, ma poi le catene si sono spezzate e adesso è ancora più pericolosa, perché la cattività l'ha resa, se possibile, ancora più feroce. I padroni sono disposti a uccidere interi popoli pur di salvaguardare i propri interessi, pur di aumentare i loro guadagni, cosa volete che freghi a loro di quanta Co2 butta fuori un'automobile.

lunedì 21 settembre 2015

Verba volant (212): assemblea...

Assemblea, sost. f.

Credo sia utile fare qualche riflessione su quello che è successo in questo paese lo scorso 18 settembre, qualcosa di grave in sé, ma soprattutto l'annuncio di qualcosa ancor più grave che potrebbe accadere, se non facciamo attenzione, se non abbiamo la capacità di reagire.
Quel giorno i lavoratori di alcuni musei e siti archeologici si sono riuniti in assemblea, richiesta nei tempi e nelle forme di legge, per discutere del fatto che da ottobre 2014 sono bloccati i pagamenti di una parte dei loro stipendi: incentivi, straordinari, aperture festive e notturne e così via. In sostanza è da un anno che quei lavoratori non ricevono una parte della loro retribuzione: credo sia stato legittimo programmare almeno un momento di incontro tra quei lavoratori per capire cosa fare. Sarebbe stato altrettanto legittimo, a mio avviso, fare di più e di peggio, ma evidentemente ha prevalso tra quei lavoratori - e tra chi li rappresenta - un senso di responsabilità che, alla luce della rabbiosa reazione del loro "datore di lavoro", è stato certamente mal riposto. Peraltro è curioso che nel pomeriggio di quello stesso giorno, dopo che si era creato un cortocircuito mediatico che prescindeva del tutto dal merito della vicenda, i fondi siano stati improvvisamente e miracolosamente sbloccati dal ministero. Speriamo adesso arrivino davvero. Ma ormai non è più questo il tema.
Infatti intorno a mezzogiorno su tutti gli organi di informazione è rimbalzata la notizia che il Colosseo era rimasto chiuso. Scandalo Colosseo è stato il titolo del giornale radio della Rai, titoli dai toni sostanzialmente analoghi si leggevano sui siti dei principali quotidiani - la notizia era messa in primo piano come per lo scoppio di una guerra o per il divorzio della Bellucci - tutte le televisioni hanno mandato i loro inviati per intervistare i "poveri" turisti, vittime di questa "lesione" alla loro libertà di visita. In un attimo la notizia è diventata questa: i sindacati hanno "chiuso" il Colosseo, hanno sbattuto le porte in faccia ai turisti, hanno creato un danno all'Italia. Naturalmente nessuno ha citato i motivi per cui l'assemblea era stata indetta né che era stata richiesta secondo le norme e che quindi al ministero sapevano da giorni che ci sarebbe stata. Tanto è vero che hanno perfino sbagliato a scrivere i cartelli per informare i turisti, visto che al ministero nessuno sembra sapere la differenza tra 11am e 11pm. Invece tutti, sdegnati, hanno chiesto misure urgenti, urgentissime, perché uno scempio del genere non deve riproporsi, perché l'Italia non può subire un altro, simile, oltraggio e così via. Naturalmente è subito intervenuto con un tweet il capo del governo che, con gagliarda baldanza, ha detto che sarebbero stati presi provvedimenti, seguito a ruota dall'insulso e solitamente taciturno ministro della cultura e perfino dal sindaco subacqueo, quello che non ha speso una parola per i funerali della famiglia Casamonica. E altrettanto naturalmente è arrivato puntuale nel pomeriggio il decreto che ha equiparato musei e siti archeologici a servizi essenziali, riducendo quindi la possibilità di scioperare di quei lavoratori, con le lodi di Confindustria e gli applausi del popolo addomesticato dall'informazione di regime.
Nel merito della vicenda anch'io credo che la cultura sia un servizio "essenziale" e che, proprio in quanto tale andrebbe considerata e tutelata. E proprio perché chi fa quel lavoro è "essenziale" al paese dovrebbe essere pagato, come merita e ogni mese. E credo anch'io che andrebbe esteso l'orario di apertura di musei e siti archeologici e che quindi andrebbero assunte altre persone, magari giovani, proprio per garantire queste auspicabili aperture, tutti i giorni dell'anno, ventiquattro ore al giorno, come per i supermercati. Ma naturalmente a chi governa questo paese non interessa nulla delle aperture al pubblico dei musei e dei siti artistici, tanto è vero che un sindaco di Firenze, nel 2013, chiuse ai turisti "normali" il Ponte Vecchio per sei ore, per permettere che in quel luogo, pubblico, potessero andarci soltanto gli ospiti vip di una grande industria italiana.
Evidentemente qui non stiamo parlando di cultura, a loro interessava altro. E' curioso come in questa Italia così sfacciatamente inefficiente, così boriosamente pigra, abbia funzionato con tale puntualità e con tale zelo questo nuovo Minculpop. In pochi minuti tutti gli organi di informazione hanno avuto l'ordine di raccontare in questo modo quello che era successo a Roma e tutti l'hanno fatto, con le stesse parole, con le stesse immagini, con lo stesso vivo sdegno, individuando gli stessi "nemici" dell'Italia e chiedendo per loro le stesse punizioni esemplari. Erano articoli fotocopia, potevi leggere un giornale come un altro, ascoltare un telegiornale come un altro, e tutti raccontavano la stessa "verità": i turisti che trasecolavano davanti ai cancelli chiusi, che si chiedevano come mai potesse succedere una tale vergogna, e i lavoratori in panciolle in una qualche stanza a leggere i giornali sportivi e giocare a carte, con i sindacalisti impegnati a pensare come poter continuare a estorcere gli stipendi senza farli lavorare. Ma per fortuna è arrivato super-renzi e vedrete che tutto si risolverà. Un regime comincia così, con questa uniformità di pensiero, con questa deformazione della realtà, con questo uso sistematico della menzogna, con  questa propaganda volgare e ossessiva.
Naturalmente la regia di questa roba qui non è a Palazzo Chigi, richiede un'intelligenza che certamente lì non ha sede, ma evidentemente da qualche altra parte c'è qualcuno che pensa, che muove le sue pedine e che fa fare ai suoi figuranti quello che devono fare. In questo caso c'era da dare un'ulteriore stretta al diritto di sciopero ed è stato fatto, per decreto, perché ormai siamo una repubblica dove si governa attraverso i decreti, in barba alla Costituzione. E soprattutto c'era da mandare un segnale di tipo mafioso ai sindacati.
Ogni regime, da che mondo è mondo, ha sempre bisogno di trovarsi un nemico. E visto che adesso è praticamente impossibile trovare un nemico all'esterno, perché siamo tutti amici, tutti servi del capitale, da Mosca a Parigi, si ricorre al nemico interno, alla quinta colonna. E chi meglio dei sindacati?
Allora vorrei rivolgermi al mio sindacato, alla Cgil; come sapete gli altri due non li considero neppure, solo in Italia quelle due inutili organizzazioni possono definirsi sindacati. E' stato certamente importante fare la conferenza di organizzazione, ma credo sarebbe anche utile ragionare sul fatto che siamo a un punto tale che un governo in affanno aumenta la propria popolarità se attacca il sindacato. Perché siamo arrivati qui? Perché, nonostante un lavoro prezioso e insostituibile che la Cgil fa nei posti di lavoro e nei territori, attaccare la Cgil fa audience? Certo ci sono tante ragioni che riguardano la crisi dei corpi intermedi, la fine di una certa idea di rappresentanza e tante altre questioni di carattere generale, ma deve esserci anche un qualche limite della Cgil, altrimenti sarebbe difficile da spiegare. Perfino tanti che non amano questo governo, di fronte alla notizia di quello che è accaduto al Colosseo hanno detto - o pensato - che è sbagliato ridurre il diritto di sciopero, ma quei lavoratori.... Ecco su quel "ma" dovremmo interrogarci, perché quello che conta è quello che sta dopo quel "ma".
E allora, sempre rivolgendomi ai miei compagni della Cgil, forse è anche ora di scuotersi. Loro ci danno un cazzotto dietro l'altro, con sempre maggiore violenza, e noi stiamo fermi, magari protestiamo, a volte perfino proviamo a schivare qualche colpo che pensiamo ci faccia particolarmente male, ma in sostanza stiamo lì a prenderle. Pensiamo che alla fine si stancheranno? Speriamo abbiamo male alla mano a forza di picchiarci? Tutto è possibile, ma non ci crederei troppo. Io sono di quelli che pensa che la Cgil dovrebbe diventare opposizione in questo paese, opposizione a questo governo, opposizione a questo regime, opposizione a questo sistema capitalista. Mi pare che la maggioranza dell'organizzazione non sia dello stesso parere, perché il sindacato non deve fare politica, perché qualcuno magari spera che alla fine vinceranno i "minoranti" della sinistra pd, perché evidentemente a qualcuno va bene così, perché cambiare troppo è sempre pericoloso per chi nella Cgil si è costruito delle piccole rendite di posizione, dei piccoli privilegi, per chi immagina di fare delle piccole carriere, all'ombra del partito di regime. Ovviamente tutti questi saranno spazzati via anche loro, quando qualcuno deciderà che le assemblee non le potremo più fare né nei luoghi di lavoro né fuori, perché tanto hanno già deciso "loro" per noi, hanno deciso "loro" per il nostro bene.
In Europa un po' di compagni si sono stancati di star fermi, si sono stancati di continuare a prendere le botte, per esempio in Gran Bretagna il sindacato ha deciso che è ora di dire basta e ha contribuito ad eleggere Jeremy Corbyn alla guida del Labour; evidentemente non è una legge scolpita nella pietra quella che il sindacato non possa fare politica. Ho l'impressione che anche un po' di persone, perfino qui in Italia si siano stancate, forse un po' di più di quelle che ci immaginiamo. Sarebbe bello se allora trovassero la Cgil, altrimenti qualcosa di nuovo dovremo farlo.

sabato 19 settembre 2015

"Perché scrivo" di Italo Calvino


Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una frase famosa, l'idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.
Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall'esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione.
Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un'alternativa. In questo senso non c'è stata una "prima volta" in cui mi sono messo a scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere.
Scrivo perché leggendo X (un X antico o contemporaneo) mi viene da pensare: "Ah, come mi piacerebbe scrivere come X! Peccato che ciò sia completamente al di là delle mie possibilità!". Allora cerco di immaginarmi questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai, ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente… Da quel momento in poi non sto più pensando a X, né ad alcun altro modello possibile. È a quel libro che penso, a quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro! Provo a scriverlo…
Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all'arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano "esperienza della vita". Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell'esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso.

venerdì 18 settembre 2015

da "Marat/Sade" di Peter Weiss


La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell'ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade

Marat
O questo prurito…
Questo prurito… questo prurito…
Questo prurito mi farà impazzire
Simonne!
Simonne, bagna il panno nell'acqua e aceto, rinfrescami la fronte Simonne.
La febbre, la febbre…
Tutto sotto la mia pelle brucia, Simonne…

Sade
So bene che adesso saresti pronto a cedere tutta la tua fama e il favore del popolo per un paio di giorni di salute.

Marat
E tu marchese? A che cosa rinunceresti pur di credere in qualcosa?

Sade
Dovremmo saper distinguere il vero dal falso per poter credere.
Dovremmo conoscere noi stessi. Io non mi conosco.
Quando credo di aver scoperto qualcosa, la metto in dubbio… e la nego un istante dopo.
Qualunque cosa facciamo è solo una larva di quello che vorremmo fare e mai si scoprono verità diverse dalle verità mutevoli delle proprie esperienze.
Io non so se sono il boia o la vittima.
Invento le torture più mostruose e nel descriverle le patisco nella mia carne.
Sono capace di tutto e tutto mi riempie di spavento e così vedo anche come altri, all'improvviso, si trasformino in belve e si lascino trascinare ad atti imprevedibili.
Belve folli, Marat.
Siamo belve folli….

Entrano in scena un uomo e una donna, avanzano carponi. Improvvisano una lotta feroce, una danza, un amplesso.

Sade (fuori campo)
Una belva folle, una belva folle è l'uomo.
Nella mia vita di millenni ho partecipato a milioni di delitti.
Grassa, grassa è dovunque la terra, della poltiglia degli umani visceri.
Noi pochi viventi, noi pochi viventi camminiamo su un pantano che trabocca di cadaveri.
Dovunque sotto i nostri piedi, ad ogni passo, sotto di noi ossa putride, ceneri, matasse di capelli, denti spaccati, crani spaccati.
Una belva folle son io.
Non c'è gabbia che chiuda, non c'è fine che tenga.
Io mi apro un passaggio sotto qualunque muro, tra lo sterco e l'ossame.
Vedrete, vedrete.
Non è ancora finita
Ho i miei piani segreti.

I due figuranti, prima immobili, fuggono ed escono dalla scena.

Sade
Tu giaci immerso dentro la tua vasca come nell'acqua rosea dell'utero, Marat.
E nuoti solo con la tua immagine del mondo che non corrisponde più agli avvenimenti.
Volevi immischiarti nella realtà e lei ti ha messo con le spalle al muro.
Io ho rinunciato ad occuparmene, la mia vita è l'immaginazione.
La rivoluzione non mi interessa più.

Marat
Falso, Sade, falso.
Con l'immaginazione non si abbattono muri.
Gli ordinamenti non si sovvertono con la penna.
Per quanto ci si affanni, il nuovo nasce soltanto tra goffi e ripetuti tentativi.
Siamo così infetti dai modi di pensare tramandati da generazione in generazione che anche i migliori di noi ancora non sanno come cavarsela.
Abbiamo inventato la rivoluzione, ma non sappiamo ancora come governarla.
Alla Convenzione siedono uomini attaccati ai brandelli del passato, uomini che vogliono sommare ai diritti dell'uomo il sacro diritto all'arricchimento in un felice, vicendevole latrocinio.
La rivoluzione è già vinta, dicono.
E invece siamo più che mai lontani dal nostro scopo.

lunedì 14 settembre 2015

Verba volant (211): vincere...

Vincere, v. tr.

Lo premetto, a scanso di equivoci: a me in politica piace vincere. Una sconfitta onorevole è una sconfitta e mi sono sempre stati sui cosiddetti quelli che partecipano perché comunque è importante partecipare. Forse vale alle olimpiadi - ma sinceramente de Coubertin per me è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo e tutti quelli che adesso lo citano sono di sicuro ipocriti - ma certamente non in politica.
Da ieri ci spiegano, con un'aria un po' rassegnata - come quella di certi professori verso quegli studenti che proprio non la vogliono capire - che Jeremy Corbyn non potrà mai vincere le prossime elezioni in Gran Bretagna, che uno così radicale, così socialista, non avrà mai la maggioranza dei consensi in quel paese. Forse tutti questi esperti riuscirebbero a convincermi, se non fossero gli stessi che le elezioni le hanno perse, e perse male. Giova ricordare a questi sedicenti strateghi elettorali che ci sono state le primarie del Labour perché alle ultime elezioni quel partito è stato sconfitto, in maniera nettissima. Il Labour in Scozia praticamente non esiste più, dal momento che tutti i suoi rappresentanti sono stati sconfitti da quelli del Partito nazionale scozzese, che si è presentato con un programma basato non solo sull'identità nazionale e sull'autonomia, ma anche sulla critica al modello sociale ultraliberista portato avanti da Cameron e sostanzialmente accettato dai laburisti.
In Europa quella sinistra lì - io non vorrei nemmeno chiamarla sinistra, ma visto che loro si chiamano così, accetto la convenzione - la sinistra che guarda al centro, la sinistra che ha assunto i valori del liberismo, la sinistra che privatizza, la sinistra che difende i "diritti" dei padroni, insomma la sinistra che ha smesso di fare la sinistra, perde sostanzialmente in tutti i paesi. Oppure vince, come quelli del pd qui in Italia. Qualche mio ex amico del pd - ma ormai sono pochissimi quelli che non ho ancora cancellato dalla lista degli amici di "faccialibro" - hanno scritto nella mia bacheca: se avete voglia di perdere con uno come lui, e amenità del genere. Io potrei rispondere loro, se avessi tempo da buttar via, che loro preferiscono vincere con uno come renzi, ossia con uno che sta applicando in materia economica e sociale quanto scritto dagli esponenti della Bce e che propone delle riforme istituzionali simili a quelle contenute nel Piano di rinascita nazionale di Licio Gelli. Ma appunto io con quelli del pd preferisco non perderci troppo tempo, tanto capiscono solo quello che vogliono capire e quello che dicono loro di capire.
Peraltro Jeremy Corbyn è uno che è abituato a vincere: le elezioni nel suo collegio le ha già vinte otto volte, dal 1983. I soliti "esperti" diranno che è semplice per un laburista vincere le elezioni a Islington, nella periferia a nord di Londra, che il Labour vincerebbe lì anche candidando un asino; lo dicono curiosamente dei veri esperti in materia, ad esempio, quelli che hanno perso Bologna e quelli che hanno vinto, facendo eleggere quel puttaniere di Delbono o quell'anima candida di Merola. Forse Corbyn ha vinto per otto volte di seguito nel suo collegio perché lo conosce, lo vive, sa cosa pensano e vogliono le persone che abitano lì, sa quali sono i problemi di quel pezzo di città e prova a risolverli. Fino a ieri, quando andavate sul suo sito, prima di ogni altra cosa dovevate scegliere se avere informazioni sul Corbyn candidato alla leadership del Labour o sul Corbyn deputato di Islington, perché il suo legame con quella comunità rimane forte. Forse gli elettori di Islington - che dobbiamo supporre non abbiano l'anello al naso, in democrazia vale sempre la regola che gli elettori hanno ragione - lo hanno rivotato, anche quando non era di moda, anche quando le sue idee erano radicalmente diverse da quelle dominanti nel New Labour di Blair, perché la sua posizione è sempre stata coerente, radicalmente coerente. E continua ad esserlo.
Agli esperti di marketing politico fa strano che abbia vinto le primarie del Labour una persona non propriamente giovane, una persona non proprio attenta all'immagine, un politico di professione, uno che non è molto diplomatico e dice quello che pensa, anche se quello che dice fa arrabbiare qualcuno, uno che usa parole desuete, come socialismo. E vince in particolare tra i giovani, proprio perché è vecchio, perché veste in maniera normale, perché ha un'esperienza politica, perché parla in maniera diretta e perché si definisce socialista. Magari molti di quei giovani non sanno bene cosa significhi questa parola, molti di quei giovani non si definiscono neppure così, molti di quelli che lo sostengono, che l'hanno votato, che oggi si sono iscritti al Labour - gli iscritti sono aumentati grazie a Corbyn - sono nati in un'epoca in cui l'idea di socialismo veniva buttata a mare, dagli stessi socialisti. E' avvenuto in tutta Europa, purtroppo; non solo in Italia. Però il socialismo è qualcosa che si impara in fretta, perché è lottare contro le ingiustizie, è lottare per la libertà, è lottare per la pace e per i diritti, è lottare per un lavoro sicuro e retribuito in maniera equa, è lottare per servizi pubblici universali, è lottare per difendere i beni pubblici, e Corbyn l'ha sempre fatto, con coerenza, con testardaggine per qualcuno, Corbyn non vuole essere moderno, vuole portare avanti le proprie idee, che sono sempre quelle. E la sua coerenza è stata premiata, il suo rigore è stato premiato. E qui c'è quello che dobbiamo imparare, soprattutto qui in Italia, da quello che è successo in Gran Bretagna: il tema non è trovare il Corbyn italiano, dentro o fuori il pd, il problema è ritrovare una cultura politica diffusa, socialista.
Il Labour di Jeremy Corbyn vincerà le prossime elezioni in Gran Bretagna? Non lo so, non lo sa neppure lui, però non lotta per testimoniare un'idea, non lotta per arrivare secondo. Vuole far vincere le sue idee e, siccome le sue idee sono anche le nostre, vorrà dire che lotteremo insieme.

Then raise the scarlet standard high!
Within its shade we'll live or die.
Though cowards flinch and traitors sneer,
We'll keep the red flag flying here.


ringrazio Zaira per la versione inglese di questo post

Save the sport spirit for the Olympics. In politics winning is not an option and an honourable defeat is still a defeat.
Since the 13rd september we've been reading "experts" explaining, with patronizing patience, that Jeremy Corbyn will never be able to win an election in Britain. Too much of a socialist, too much of a radical, he can never gather the majority of votes. Not in Britain.
Curiously, those "experts" have been losing their own elections, and badly. The Labour party lost, and badly, the latest electoral chance. In Scotland it's been almost cancelled, to advantage of Scottish National Party, whose agenda contained severe criticism to the ultra liberalist model followed by Cameron and not too much opposed by Millband's Labour.
Remarkably, when european socialists accepted to compromise with neoliberal policies, to privatise public services, in a word when they stopped being socialist, they lost, and badly. Well, in Italy, they say they won. But in fact Renzi's Democrat Party does not belong to the left anymore. They promoted laws that cancelled workers' rights and their leader proclaims to take Tony Blair as his model. But twenty years later, when we all know who Tony Blair really is.
It's interesting to remind that Jeremy Corbyn won his elections, eight times. He knows his electoral college, he knows what people think and need, he knows their problems and tries to solve them. And he won. The people of Islington kept voting for him. He is not fashionable, but he is faithful to his ideals as he's always been, without any compromise.
Our "experts" are puzzled. He is not young, not "cool", not stylish, not much of a diplomat who speaks as he thinks, and he uses old disused terms such as "socialism", a word that has been by now neglected by socialists themselves, it's obsolete and archaic, not fit to modern times.
Well, strange enough, Corbyn voters are largely young people, who maybe don't understand exactly what a socialist really is. Unfortunately for them, the only socialist they ever met was Tony Blair. But they trust Jeremy Corbyn: he speaks clearly, he doesn't want to be modern, he simply defends his ideals. And after all, socialism is something that is easy to learn: it means solidarity, it means fighting for rights and for freedom, against injustice and inequality, it means defending workers' rights and public services. Corbyn always did that, stubbornly. And he stayed clean.
Corbyn's victory should be a lesson for all of us, weak and feeble italian socialists. Before starting the quest for an italian version of Jeremy Corbyn, we have to, we need to rebuild this political common ground and find this constancy again.
I don't know whether or not Corbyn's Labour Party will win next elections. He doesn't know either, but I know he will fight for an honourable defeat. He wants his ideals to win. And as his ideals are ours, we will share his fight.

giovedì 10 settembre 2015

Verba volant (210): migrante...


Migrante, sost. m e f. 

Mai come in questo caso le parole sono importanti. La retorica leghista - e di tutta la destra europea - usa un argomento apparentemente efficace, quando dice che solo una piccola percentuale delle persone che arrivano, in maniera più o meno fortunosa, qui in Europa dall'Africa e dal Medio oriente hanno il diritto di essere riconosciuti come rifugiati. Il rifugiato è una persona perseguitata, per motivi politici o etnici o religiosi, nel proprio paese che, proprio per questo, trova ospitalità in un altro paese, che riconosce legalmente il suo status. In sostanza i fascisti europei dicono: accogliamo pure i rifugiati, non siamo razzisti noi, ma gli altri, che sono tanti di più, rimandiamoli indietro, perché qui non c'è posto per tutti. Sembra un argomento perfino sensato, specialmente in un momento storico come questo, in cui la povertà colpisce tante persone anche qui, nei paesi della "vecchia" Europa, molte più persone che negli anni passati, e questo numero sembra destinato ad aumentare.
Non cadiamo in questa trappola e cerchiamo di usare le parole giuste. Aylan non era un rifugiato, non lo sarebbe stato neppure se fosse riuscito a raggiungere Berlino, Parigi o Londra. neppure se il suo viaggio non si fosse interrotto così tragicamente sulla spiaggia di Bodrum. Aylan e la sua famiglia, come gran parte delle persone che in questi anni si sono messe in cammino, non sono perseguitati in nome della loro etnia o della loro religione o delle loro idee politiche, o almeno non è davvero questo l'elemento che ha provocato la loro decisione di cominciare quel cammino, un cammino che sapevano benissimo potesse essere rischioso, fino all'estremo. In fondo Aylan e la sua famiglia neppure fuggivano in senso stretto: fuggire significa lasciare qualcosa che non ci piace, di cui abbiamo paura o che ci mette in pericolo. Aylan e la sua famiglia si sono messi in cammino perché cercavano un futuro diverso da quello che sarebbe inevitabilmente toccato a loro rimanendo lì. Per questo io credo sia giusto non chiamarli più rifugiati o profughi e definirli invece migranti, perché sono donne e uomini in cammino.
Dieci anni fa ci siamo emozionati per un film intitolato La marcia dei pinguini, ci sembravano eroici quegli animali che attraversavano regioni inospitali per raggiungere finalmente il luogo dove poter riprodursi, ci siamo stupiti di come quei pinguini sapessero esattamente dove dovevano andare, anche se non c'erano mai andati. Noi ci dimentichiamo spesso di essere animali, di far parte di questo mondo come qualunque altro essere vivente e di essere in qualche modo sottoposti alle stesse leggi di natura a cui sono sottoposti gli altri animali. Le donne e gli uomini che lasciano le città e i paesi in cui sono nati e cresciuti, in cui sono nati e morti i loro genitori, lo fanno perché sentono che è arrivato il momento di farlo, perché sentono che per i loro figli non c'è più un futuro possibile in quella terra e ne cercano semplicemente un altro, pur con tutti i rischi che questa ricerca comporta. Le persone che si mettono in cammino sanno benissimo che possono morire in questo viaggio, eppure lo cominciano lo stesso: quindi è qualcosa che noi non possiamo fermare, per quanto tentiamo di alzare barriere, di costruire muri, per quanto diciamo che non li potremo accogliere, che qui non c'è posto per loro; loro ormai sono partiti, sanno dove stanno andando, anche se non ci sono mai andati, e noi non possiamo più farci niente. Possiamo camminare come loro, con loro.
A dire la verità, qualcosa possiamo fare, dobbiamo fare. Come i nostri avi qui nella pianura padana sapevano che l'acqua non poteva essere fermata, ma doveva almeno essere guidata, condotta, irregimentata, affinché producesse meno danni e meno morti, così noi abbiamo il compito storico di gestire le persone che arrivano, che hanno cominciato quel cammino. E dobbiamo farlo adesso, che sono poche, pochissime, rispetto a quello che potrebbe ancora succedere. Dobbiamo organizzare da subito dei corridoi umanitari legali, per stroncare il traffico di esseri umani, per impedire che troppe persone muoiano nel Mediterraneo, nei Balcani o, prima ancora, nel Sahara. Ci sono già delle proposte. Ad esempio il Consiglio italiano per i rifugiati propone due alternative: i migranti potrebbero presentare direttamente la domanda nei paesi di origine - o nei paesi di transito e di prima accoglienza - presso una delle sedi dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati oppure potrebbero far richiedere una sorta di visto umanitario ai loro familiari che risiedono già in Europa. In questo modo tutti loro potrebbero avere un visto legale, per quanto temporaneo, per arrivare in uno dei paesi europei, che li dovrebbero accogliere in base a una ripartizione basata sul reddito pro capite e sulla densità abitativa. Poi occorre avere una legislazione unica in Europa in tema di accoglienza ai migranti. Una realtà tutto sommato piccola come l'Unione europea - guardate un planisfero e vedrete che, per quanto barino le carte e ci sovrastimino, siamo molto piccoli, molto più piccoli degli altri - non può permettersi di avere ventotto legislazioni differenti, per tacere di tutte le varianti ed eccezioni regionali.
Poi, come dicevo, dobbiamo cambiare le nostre teste - e il nostro linguaggio - prima ancora che le nostre leggi. Il diritto è inadeguato perché ad esempio non riconosce quelli che possiamo definire ecomigranti, ossia quelle persone che lasciano le loro terre perché sono sommerse dalle acque o sono ormai essiccate, e più in generale perché ha una visione troppo limitata dei motivi per cui una persona decide di mettersi in cammino.
Inoltre dobbiamo accettare e riconoscere le nostre responsabilità. Aylan era nato in Siria, probabilmente la sua famiglia non avrebbe deciso di lasciare quel paese, se là non ci fosse da quattro anni una guerra civile, una guerra che i governi occidentali hanno in qualche modo contribuito a far scoppiare, se non ci fosse da alcuni decenni una dittatura, che è potuta crescere e svilupparsi negli anni della Guerra fredda, se quel paese non fosse stato una pedina in mano alle potenze coloniali dalla fine del primo conflitto mondiale. Il prossimo anno "festeggeremo" il primo secolo dell'accordo Sykes-Picot, che ha segnato il destino della Siria - e di tutto il Medio oriente - il suo mancato sviluppo democratico, il suo essere una terra contesa dalle forze occidentali e dagli interessi economici che queste rappresentavano e difendevano. Tanti migranti arrivano o transitano dalla Libia e sappiamo bene quali siano le nostre responsabilità in quella terra infelice. Tanti di quelli che arrivano in queste settimane sono eritrei che fuggono dalla dittatura di Isaias Afewerki, un despota con cui in tanti fanno affari e che continua a governare quel paese grazie soprattutto al denaro che gli arriva dalle aziende europee e statunitensi. Uno slogan che sentiamo ripetere sempre è aiutiamoli a casa loro. A parte che molti di loro una casa là non ce l'hanno, o non ce l'hanno più, la prima cosa che dovremmo fare davvero è cambiare la nostra politica estera, smettere di sostenere i peggiori governi, in nome dei nostri presunti interessi, che sono invece gli interessi di pochissimi. Aiutarli in casa loro significa prima di tutto smettere di finanziare le guerre in quei paesi, smettere di far nascere gruppi come l'Isis, smettere di sostenere quei dittatori.
Adesso le grandi multinazionali non hanno neppure più bisogno dei governi e delle cancellerie per gestire i loro affari in quei paesi, sono diventate autonome, il loro potere è ormai ben più globale e ramificato di quello della politica. E naturalmente i loro interessi non combaciano mai con gli interessi di quei popoli, come non combaciano mai con i nostri interessi. Per questo Aylan non è solo un bambino che si è messo in cammino, senza sapere neppure dove stava andando, Aylan è mio figlio, tuo figlio, Aylan è l'ennesima vittima di quel conflitto terribile che ci vede tutti coinvolti, in cui noi dovremmo combattere tutti dalla stessa parte, perché il nemico è sempre quello, il capitale, potente, crudele, che ogni giorno combatte contro di noi, di cui ogni giorno sentiamo la forza sempre più spietata, che ci vuole consumatori e vittime, schiavi e clienti, lavoratori senza diritti e senza cultura. Non basta commuoversi davanti a qual corpo disteso sulla sabbia, dobbiamo avere la consapevolezza che quel bambino morto è nostro figlio e questo ci deve dare la rabbia per combattere contro chi l'ha ucciso. Perché noi sappiamo chi ha provocato la sua morte, chi l'ha voluto sempre più povero, chi l'ha costretto a fare un viaggio che non avrebbe dovuto fare, che non avrebbe voluto fare. Gli animali fanno di tutto per difendere i cuccioli della loro specie, noi uomini invece permettiamo che le forze del capitale uccidano i nostri figli. E le ringraziamo dell'elemosina che ci offrono. E' il momento di dire basta, e possiamo essere in tanti, stanno arrivando in tanti che hanno voglia di dire basta, che vogliono un altro futuro. Per questo la loro lotta è la nostra lotta, il loro futuro è il nostro.

lunedì 7 settembre 2015

Considerazioni libere (404): a proposito del mio sostegno a Syriza...

Capisco che quelli del pd e i loro giornali, a partire da Repubblica, cerchino di presentare come un fallimento l'esperienza di governo di Tsipras in Grecia; fanno il loro gioco e, se serve, sono disposti a mentire, pur di sostenere la loro tesi. Syriza rappresenta quello che loro non sono più e che fanno finta di essere. Forse prima di Syriza qualcuno poteva ancora credere che il pd fosse un partito di centrosinistra, adesso questo imbroglio non è più possibile: e questo a loro rode parecchio. E ovviamente è altrettanto naturale che i padroni e i loro giornali, a partire dal Corriere, si affannino a dire che Tsipras è finito: fanno il loro mestiere e attaccano l'unica forza veramente di sinistra che sia riuscita fino ad ora a governare, pur con mille difficoltà, un paese dell'Unione europea.
Faccio invece più fatica a capire perché una parte di persone di sinistra, anche autorevoli, anche intellettualmente in buona fede, siano così certe che quell'esperienza sia finita e anzi ne siano contente, dal momento che hanno ormai bollato Tsipras come un traditore, come uno che ha rinunciato ai propri ideali, per far rimanere il proprio paese nell'area euro. Per spiegare questo paradosso, al di là dell'atavica incapacità di un pezzo rilevante della sinistra europea - e italiana in particolare - di riconoscere le ragioni della politica, in nome di una purezza ideologica al limite dell'onanismo, c'è qualcosa che attiene alla velocità dell'informazione, alla voracità con cui le idee si consumano, all'ansia di capire tutto e subito. La politica è un processo, spesso complicato, quasi mai lineare, che molto difficilmente raggiunge i risultati che si prefigge nello spazio di una notte. Ho l'impressione che tanti che hanno gioito per la vittoria elettorale di Syriza abbiano ingenuamente creduto che bastasse quel voto, o la vittoria successiva del referendum, per cambiare le cose, e che quel voto avrebbe magicamente cambiato la situazione greca ed europea. Purtroppo non funziona così: le elezioni non sono la partita finale di un torneo di calcio, in cui il vincitore alza la coppa, sotto lo sguardo attonito dello sconfitto. La politica è una cosa un po' più complicata, che richiede tempo - oltre che intelligenza - e ora pare manchino l'uno e l'altra.
Tsipras, e chi ha con lui condiviso le scelte dolorose dello scorso luglio, credo sia dovuto partire dall'analisi realistica dei rapporti di forza tra i soggetti in campo: e certamente la Grecia era - ed è - assai più debole dei propri avversari. Spero mi permetterete quella che può sembrare una digressione, ma che credo utile per capire le cose; almeno per come le ho capite io. Molti adesso ci spiegano che la decisione di Berlinguer e del Pci di avviare quel processo che si chiamò "compromesso storico" - e che portò alla nascita del governo della "non sfiducia" - sia stato un errore, il più grave di quel politico, più rimpianto che studiato. Non so se sia stato un errore, certamente in quella fase Berlinguer fu sconfitto, duramente sconfitto, ma io non me la sento di dire che sbagliò, perché quello era il contesto storico in cui quegli uomini erano chiamati a decidere. Gli avversari del Pci erano disposti a tutto - e non erano solo minacce, visto che uccisero Moro - e di fronte a un nemico così potente e così spietato non è facile reagire, con le sole armi della politica. Il nemico che si è trovato di fronte Tsipras non è meno spietato di quello che in quegli anni uccise Gregoris Lambrakis, Salvador Allende, Aldo Moro e tanti altri, che mise le bombe, uccidendo tante persone innocenti, a Milano, a Brescia, a Bologna. In quella notte a Bruxelles non sappiamo quali minacce gli sgherri del capitale abbiano fatto - implicitamente ed esplicitamente - a Tsipras e ai negoziatori greci, ma possiamo immaginare che nessuna opzione sia stata esclusa. Non possiamo dimenticare che in Grecia le forze del capitale controllano la teppaglia fascista di Alba dorata, che è ben ramificata all'interno delle forze dell'ordine; per ora li stanno tenendo al guinzaglio, ma evidentemente sono pronti a scatenarli. La Grecia come potrebbe sopportare uno scontro interno di queste dimensioni? Quale conseguenze avrebbe per un popolo già stremato dalla crisi economica? Tsipras ha avuto paura? Forse sì, ma credo ne avrebbero avuta anche quei "rivoluzionari" salottieri che discettano della crisi greca dietro le loro tastiere e con il culo ben al caldo. E per fortuna là c'era Tsipras e non c'erano loro.
Come avrete capito io non mi sono pentito di aver sostenuto Syriza e Tsipras in questi mesi e li sosterrò ancora, spero che vincano di nuovo le elezioni e che possa nascere un nuovo governo di sinistra in Grecia. Io credo che non sia finita quell'esperienza, ma anzi stia cominciando adesso la parte più interessante. Syriza ha due grandi meriti. Il primo, come ho detto, è di avere svelato il bluff del centrosinistra europeo. Il traditore non è Tsipras, i traditori sono Schultz, Hollande, i socialisti europei - non dico renzi, perché perfino un traditore ha una sua grandezza tragica, mentre al nostro è riservata la parte del buffone - i traditori sono quelli che hanno offerto i loro voti al capitale, in cambio di un'elemosina.
E la vittoria di Syriza è proprio quella che molti indicano come una sconfitta: l'aver riportato al voto i greci. Le forze del capitale stanno attaccando contemporaneamente la democrazia e le conquiste sociali del movimento operaio - lo vediamo bene in Italia, dove il governo ha abolito lo Statuto dei lavoratori e vuole cambiare le istituzioni in senso autoritario - e quindi la decisione di Tsipras di rimettere le decisioni fondamentali al popolo, con il referendum prima e con le prossime elezioni, è qualcosa di eversivo per chi non ama la democrazia. Ai suoi colleghi europei, a questi servi del capitale, Tsipras sta dando una lezione di dignità e di alta politica. Tsipras probabilmente avrebbe trovato una maggioranza parlamentare per continuare a governare la Grecia, sarebbe riuscito a raccattare i voti di qualche "responsabile" - come fa renzi con Verdini e i suoi complici - ma ha deciso di chiedere un nuovo mandato agli elettori. E' un rischio? Forse, ma se vincerà Syriza quel governo sarà ancora più forte, in una campagna d'autunno che si presenta difficilissima. Per la Grecia e per l'Europa.
A quelli che non sono mai contenti vorrei chiedere se pensano che sia meglio affrontare i prossimi mesi con un governo guidato da Alexis Tsipras o da un qualche tecnico prono alle decisioni della Bce. Io credo che i greci capiranno che, quando arriveranno i tecnici della Troika, sarà meglio che ad incontrarli ci siano gli uomini di Syriza piuttosto che quelli di Nuova democrazia. Nelle prossime settimane in Europa dovremo finalmente avviare un ragionamento sulla que­stione del debito, peraltro un tema che non sarebbe mai stato affrontato se non ci fosse stata la vittoria di Syriza e il referendum greco; e questa discussione a chi la vogliamo lasciare, solo alla Merkel e a Schauble? Io preferisco ci sia anche Tsipras a quel tavolo. I prossimi mesi saranno decisivi per la Grecia e per l'Europa, perché c'è finalmente una possibilità, dopo molti anni, di allar­gare il fronte dell'opposizione al finanzcapitalismo, attraverso una poli­tica intel­li­gente, prag­ma­tica, effi­cace. Podemos può avere un risultato importante in Spagna, in Gran Bretagna Jeremy Corbin ha raccolto attorno a sé un movimento più vasto di quello che si poteva immaginare. In Europa una sinistra c'è e deve avere un punto di riferimento in Grecia: ne abbiamo bisogno tutti. Abbiamo bisogno di una sinistra che conosca la politica, ne capisca i tempi e le regole, che abbia il coraggio di affrontare la fatica e il rischio del governo, che non rinunci al dialogo con i cittadini. Finora Syriza ha saputo farlo, per questo io la voterei, per questo io spero possa nascere una sinistra così in Italia.