domenica 24 febbraio 2019

Verba volant (629): cavatappi...

Cavatappi, sost. m.

Perché un cavatappi costa 2,95 euro e un altro ne costa invece quaranta? Tutti e due svolgono la funzione per cui sono stati costruiti, ossia ci permettono di aprire, con pochissimo sforzo, le bottiglie di vino. Il primo è un normale cavatappi che possiamo acquistare a questo prezzo in uno degli innumerevoli negozi sparsi per il mondo di una grande catena che ha l'insegna gialla e blu, mentre il secondo cavatappi ha un nome, si chiama Anna G, è prodotto da Alessi sul progetto di Alessandro Mendini, uno dei più importanti designer e architetti italiani, che è morto a Milano il 18 febbraio 2019. Mendini non ha "rivoluzionato" il cavatappi - che funziona esattamente come quello brevettato nel 1930 dallo statunitense Dominick Rosati, ossia con una vite di Archimede azionata da due bracci - ma lo ha trasformato, facendo di quelle leve le due braccia di una donna a cui ha disegnato un viso stilizzato, un viso che è diventato una delle icone del design italiano.
Quindi perché il cavatappi di Alessi costa di più di quello che abbiamo nel secondo cassetto della nostra cucina? Perché è bello. Perché, pur continuando a essere un oggetto d'uso, con cui aprire le bottiglie di vino, è il frutto del lavoro di un artista.
Banalmente il lavoro di Mendini - come quello di Giò Ponti, dei fratelli Castiglioni, di Bruno Munari e di tanti altri - è stato esattamente questo: rendere belle le cose che noi usiamo tutti i giorni. Ovviamente non c'è nulla di banale in questo lavoro, visto che è impossibile definire perché sono belle la lampada Arco o la macchina da scrivere Valentine di Ettore Sottsass o appunto il cavatappi di Mendini. Perché loro sono stati artisti di una specie particolare, non sono solo stati capaci di creare delle opere d'arte, spesso piccole come questi oggetti di cucina, ma soprattutto hanno avuto la capacità di creare un gusto. Quando agli inizi degli anni Novanta è uscito il cavatappi Anna G, in qualche modo il nostro gusto estetico era già stato forgiato affinché noi lo considerassimo bello. Non è un trucco, non è la favola dei vestiti nuovi dell'imperatore, non diciamo che è bello solo perché l'ha disegnato un designer famoso e quindi bisogna dire che è bello per far credere di essere intelligenti - anche se ovviamente il rischio c'è, perché la stupidità umana è difficilmente contenibile - ma diciamo che è bello, perché ci è stato insegnato che quelle forme sono belle, perché quel disegno è in qualche modo figlio di un gusto che quegli artisti hanno creato nel corso degli anni. Si tratta naturalmente di un equilibrio difficile da raggiungere, perché ogni oggetto di design deve allo stesso tempo adattarsi ai nostri gusti e costruirne dei nuovi, ma un artista è grande proprio quando è capace di trovare questo punto di equilibrio.
Voglio parlare del cavatappi di Mendini non solo perché lui è morto, ma perché credo sia importante - specialmente in questa società e in questo tempo in cui domina il brutto - pensare alla forza che ha avuto il nostro paese quando ha creato il bello. La rinascita economica dell'Italia - quello che gli storici hanno chiamato boom o miracolo economico - è figlia in gran parte del design, e soprattutto del connubio tra la capacità artistica di pochi e le capacità artigianali e tecniche di tanti. Perché basta un disegnatore per tracciare le linee di un cavatappi, ma poi servono tecnici e operai - in questo caso quelli del distretto dell'acciaio di Omegna sul lago d'Orta - per far sì che un progetto diventi un oggetto riproducibile e riprodotto in scala industriale. Non esiste il design senza la fabbrica, e quindi senza gli operai, e quegli operai devono avere i soldi - e l'educazione - per potersi comprare anche Anna G, ossia un oggetto che costa di più solo perché è più bello.
Siccome abbiamo smesso di fare così, abbiamo smesso di investire sulla cultura del design e sulla cultura tecnica e degli operai, siamo precipitati nella società del brutto. Perché i lavoratori non hanno i soldi - anche quando avessero l'educazione - per comprare un cavatappi che costa di più solo perché è più bello, e quindi si devono accontentare di quello che costa 2,95 euro, per realizzare il quale vengono sfruttati degli altri lavoratori in qualche altra parte del mondo. Anzi non hanno neppure più bisogno di comprare un cavatappi, perché costa meno il vino in cartone: è meno buono, ma chi se ne importa in questa società in cui il lavoro - di chi disegna, di chi costruisce e anche di chi fa il vino - è considerato solo un costo e non una ricchezza.
E in questa società del brutto, non serve educare al bello, ma basta dire che è bello, anzi bisogna dire che lo dobbiamo comprare. E noi compriamo, compriamo tante cose, che magari costano poco, ma è meglio se sono brutte, è meglio se sono fatte male e si rompono facilmente, così le butteremo per comprarne delle altre. Per fare cose brutte non servono né i designer né gli operai, servono solo i negozi per venderle - aperti tutti i giorni dell'anno, a tutte le ore del giorno - e servono clienti abituati al brutto, e di quelli ne hanno finché ne vogliono.

venerdì 22 febbraio 2019

Verba volant (628): scelta...

Scelta, sost. f.

Francamente non è molto verosimile che il comandante delle truppe di occupazione accetti di liberare un terrorista solo per onorare una festa religiosa dei suoi nemici, tanto più che uno dei motivi che giustifica l'occupazione è proprio quello di combattere quel fondamentalismo. E ancor meno che deleghi la scelta su quale terrorista liberare alla folla aizzata dai capi dei ribelli o, peggio, dalle autorità collaborazioniste. Ed è ancora più strano che lo abbia fatto uno come il prefetto Ponzio Pilato, che disprezzava quel popolo che doveva governare e che eseguì il suo incarico con crudeltà razzista.
Se non è successo l'episodio di Barabba, perché tutti e quattro i biografi del figlio del falegname di Nazareth raccontano questa storia? Ovviamente perché non volevano raccontare quello che era davvero successo, ma dovevano fare un'operazione di propaganda. Per altro ben riuscita, visto che ne parliamo ancora duemila anni dopo.
I biografi di Joshua non avevano interesse a scontrarsi frontalmente con la potenza di Roma. Erano realisti: sapevano che non c'era spazio per uno staterello ebraico contro l'impero che controllava tutto il mondo conosciuto. L'obiettivo era quello di scalzare la classe dirigente ebraica che, mettendosi sotto l'ombrello di Roma, aveva assunto il controllo del paese. I veri nemici dei seguaci di Joshua sono Erode, sono i sacerdoti del sinedrio e sono ovviamente gli "altri" terroristi, quelli che, aspirando a quello stesso potere, erano potenziali concorrenti.
Barabba era un criminale? No, era solo il capo di un'organizzazione politica che lottava - certo con metodi piuttosto violenti - contro il potere costituito. Esattamente come facevano Joshua e i suoi compagni, che probabilmente condividevano gli stessi metodi della banda di Barabba. Come si finanziavano quelle bande? Immagino con delle rapine. Un ribelle come avrebbe potuto mantenersi per tre anni in un altro modo? E immagino che anche la banda di Joshua abbia compiuto delle azioni dimostrative: non credo bastassero le storie sulle vigne e sulle pecore per fare proseliti nelle violente città della Palestina. E se non era pericoloso non si capisce neppure perché le autorità ebraiche - e quelle romane - si sarebbero prese la briga di finanziare un delatore all'interno della banda e di arrestare e metterne a morte il capo. Joshua era un rivale politico, uno che poteva prendere il loro posto, uno che doveva essere ucciso. E che ovviamente, dopo che era morto, doveva essere etichettato come un terrorista. E per questo comincia la contropropaganda evangelica.
Ma se il popolo di Gerusalemme - almeno quella parte di popolo che era solita rumoreggiare in piazza - fosse stato chiamato a decidere chi liberare tra Joshua e Barabba, chi avrebbe scelto? So che ci piace pensare che la folla avrebbe scelto Barabba, anche perché così noi possiamo fare bella figura e dire in maniera ipocrita che avremmo scelto Joshua. No, il popolo di Gerusalemme avrebbe lasciato entrambi in carcere, meglio tenersi Erode e Caifa, meglio tenersi quelli che conoscevano e che garantivano i loro interessi, quelli che avevano permesso ai mercanti di stare nel tempio. Il popolo non sceglie mai Barabba, ma preferisce chi ha il potere, e anche per questo quelli che dicono di richiamarsi alla propaganda di Joshua sono diventati come Caifa, perché vogliono continuare a essere scelti. Le persone non scelgono mai Barabba, perché preferiscono scegliere quelli che hanno i loro stessi difetti.
Allora in questi giorni evitiamo di scomodare Barabba, tirandolo dentro a inutili e anacronistici paralleli moderni: anche questa volta le persone hanno scelto quello che è più simile a loro.

mercoledì 20 febbraio 2019

Verba volant (627): manette...

Manette, sost. f. pl.

Io c'ero nel '92 e nel '93, facevo politica attiva, vivevo quegli anni di improvvisi e spesso drammatici cambiamenti con inevitabile preoccupazione, ma - anche per via dell'età - con un certo ottimistico entusiasmo: pensavo davvero di poter fare la differenza. Ma evidentemente non è stato così.
Erano gli anni che per pigrizia giornalistica chiamammo di Tangentopoli. Erano i mesi in cui gli arresti si susseguivano a un ritmo sfrenato, perché le manette erano diventate uno strumento di indagine. Questo era in sostanza il metodo del tanto osannato pool dei magistrati milanesi: veniva tolta la libertà a molte persone e poi cominciava l'indagine, confidando in crolli psicologici e soprattutto nella viltà dei traditori. Qualcuno allora tentò di protestare, tentò di dire che quella strada ci avrebbe condotto al baratro, ma non volevamo ascoltare, perché volevamo quegli arresti. Ne volevamo sempre di più.
C'era cattiveria nell'aria. Ogni arresto era accolto da applausi e più l'arrestato era potente più questi erano fragorosi. Era la cattiveria che vedemmo nella notte del 30 aprile '93, davanti all'ingresso del Raphael. Vedevamo le manette e gioivamo. Gli arresti erano diventati uno spettacolo televisivo, che aprivano ogni sera i telegiornali. E tante fortune politiche sono nate grazie a quelle manette: chi nelle piazze urlava contro i ladri e contro i corrotti veniva seguito, a prescindere da qualunque altra cosa dicesse, chi aveva fatto scattare quelle manette veniva portato sugli scudi.
Adesso, riguardando a quella storia con il disincanto di chi non ha più vent'anni, sono convinto che ci fosse un disegno. Non sono un complottista, non penso che ci sia stato qualcuno che deliberatamente fece scoppiare quello scandalo e condusse le vicende fino a dove sono giunte, ma certamente in tanti fummo guidati, più o meno consapevolmente, verso un esito che qualcuno aveva prefigurato e da cui ha tratto incredibili benefici. Il biennio di Tangentopoli ha segnato la fine definitiva della democrazia rappresentativa e parlamentare nel nostro paese, ha sancito la morte dei partiti politici e la decomposizione degli altri corpi intermedi, ha decretato la nascita di una sorta di post-democrazia, in cui le scelte sono sempre più sottratte ai cittadini a favore di un'élite tecnico-capitalista, che negli anni successivi si è imposta e ha dominato senza controlli e senza freni i paesi occidentali, non solo l'Italia, in cui la Costituzione è stata messa "sotto tutela" e spesso disapplicata.
E noi abbiamo partecipato a tutto questo, abbiamo fatto di tutto per uccidere i partiti - peraltro già agonizzanti - votando a favore dell'introduzione del maggioritario, dell'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle regioni, riducendo il finanziamento pubblico alla politica, assumendo come un dato di fatto un bipolarismo posticcio, in cui fingevamo di dividerci, per poi fare le stesse cose una volta arrivati al governo. E lo abbiamo fatto sempre elogiando i magistrati, anzi - in particolare nel campo di quello che cominciammo a chiamare centrosinistra - scegliendo preferibilmente come nostre guide alcuni di loro, perché erano nell'immaginario di quegli anni - e purtroppo per molti è ancora così - gli unici depositari delle virtù politiche.
Ripensandoci quegli anni sono stati terribili per la storia politica e sociale del nostro paese: eravamo cattivi, volevamo vendetta. Ma forse pensavamo ancora che qualcosa potesse cambiare.
Anche perché mi ricordo bene di quegli anni, ho molta paura di quello che sta succedendo oggi. L'immotivato entusiasmo con cui abbiamo accolto la notizia dell'arresto dei genitori di un leader che disprezziamo, la sete di vendetta dei sostenitori di quel leader, che ora vogliono un arresto nell'altro campo, per una sorta di legge del taglione, lo scoramento che ha preso tanti per il mancato rinvio a giudizio di un ministro, sono i segnali che stiamo precipitando di nuovo in quel clima. Mi aspetto una stagione in cui le manette torneranno a essere protagoniste, in cui prima si arresterà e poi si comincerà a indagare, in cui gli arresti torneranno a essere uno spettacolo televisivo. Ma c'è anche una differenza profonda con quegli anni ormai lontani: adesso è solo rancore, è solo cattiveria, non c'è l'idea che qualcosa potrà cambiare.
Abbiamo visto quali sono stati gli esiti di quel biennio della storia italiana, come sia la democrazia e la politica ne siano uscite profondamente ridimensionate e ferite. Sinceramente non so, in questo clima avvelenato, quali potrebbero essere le conseguenze di una nuova stagione come quella. Temo le peggiori.

lunedì 18 febbraio 2019

Verba volant (626): autonomo...

Autonomo, agg. m.

L'Emila-Romagna non esiste. O meglio, esiste una suddivisione amministrativa della repubblica italiana che ha questo nome; si tratta peraltro di un'entità amministrativa che ha una storia molto lunga, visto che il suo territorio corrisponde più o meno alla Gallia cispadana, diventata la Regio VIII, a seguito delle riforme di Augusto. Ed esiste un ente, che ha sede a Bologna, in viale Aldo Moro, che ha alcune importanti funzioni e in cui lavorano - facendo spesso molto bene - tante colleghe e tanti colleghi. Nonostante tutto questo l'Emilia-Romagna non esiste, perché nessuno di noi che è nato e vive qui si definisce emiliano-romagnolo. Esistono invece i territori che la compongono, in ciascuno dei quali si possono riconoscere caratteri originari e unificanti, per quanto simili da Piacenza a Rimini. Esiste certamente la Romagna ed esiste l'Emilia - il territorio che conosco meglio, perché ci sono nato, ci ho sempre vissuto, ci ho fatto politica - che ha caratteristiche diverse in ciascuno dei suoi centri ordinatori, disposti - a eccezione di Ferrara, che anche per questo ha un proprio peculiare carattere - lungo la via Emilia.
Non è una questione oziosa, non è il tema per alimentare degli anacronistici campanilismi - come quello sulla primogenitura dei tortellini che da sempre divide Bologna e Modena - ma un punto importante, visto che l'Emilia-Romagna sarà una delle tre regioni - insieme alla Lombardia e al Veneto - a cui saranno devolute funzioni importanti, a seguito della cosiddetta autonomia differenziata. Si tratta di un provvedimento dalle conseguenze notevoli - e potenzialmente pericolose - su cui mi pare si discuta troppo poco. Che coinvolge più in generale il tema delle funzioni amministrative - ossia chi debba fare cosa - e della coesione di questo paese.
Come sapete, io sono sempre stato radicalmente contrario alla trasformazione delle Province in enti di secondo grado e quindi all'abolizione delle elezioni provinciali. Se proprio occorreva modificare l'assetto delle autonomie locali in questo paese - cosa di cui non sono del tutto convinto - se si voleva proprio risparmiare sul numero degli eletti - su cui non sono assolutamente d'accordo e che anzi trovo politicamente pericoloso - si sarebbe dovuto potenziare il ruolo delle Province, magari riducendole - ad esempio in Emilia-Romagna potevano dimezzarsi, passando da dieci a cinque - e contestualmente ridurre le funzioni delle Regioni, trasformando queste in enti di secondo grado, facendole diventare una sorta di "unione delle province".
Il problema è che da molti anni non esiste un'idea complessiva sul sistema delle autonomie, nonostante che il più vecchio partito italiano tra quelli rappresentati in parlamento sia una forza politica di carattere regionale, che ha ideologicamente oscillato tra la secessione e il federalismo, pur partecipando a governi tra i più centralisti della storia repubblicana. Nessuno ha avuto la voglia e ha fatto la fatica di elaborare una teoria complessiva sull'intero sistema delle autonomie, preferendo le riforme ad effetto, come è stata quella dell'abolizione delle Province. E spesso le stesse forze politiche, gli stessi leader, sono stati un giorno centralisti e quello successivo federalisti, a seconda di dove quel giorno erano al governo. Questa è gestione del potere, ma non è politica.
Per tutto questo io, da cittadino che vive in Emilia-Romagna e che ci vivrà ancora a lungo - almeno finché non potrò finalmente lasciare l'Italia - sono radicalmente contrario a questo accordo. Perché su tutela e sicurezza del lavoro, norme generali sull'istruzione, governo del territorio, protezione civile, tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, tutela della salute, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, rapporti internazionali, organizzazione della giustizia di pace, agricoltura, protezione della fauna, esercizio dell’attività venatoria e acquacoltura, promozione e organizzazione di attività culturali, ordinamento sportivo, quello che viene deciso in Emilia-Romagna deve essere diverso da quello che viene deciso in Lombardia, in Toscana, in Calabria?
Per una volta, stiamo nel merito e proviamo a dire cosa sia giusto o sbagliato, indipendentemente da chi lo sostiene e chi lo avversa. Alcune delle funzioni elencate - istruzione, salute, cultura, ambiente, sicurezza sul lavoro, per non parlare di finanza pubblica e rapporti internazionali - sono funzioni tipicamente statali. Esattamente quando abbiamo deciso che l'Emilia-Romagna deve diventare uno stato? Non mi pare che l'attuale amministrazione regionale - peraltro votata da un'infima minoranza, visto che si è trattato di un turno elettorale tra i più ignorati del secondo dopoguerra - abbia ottenuto un tale mandato. O questo accordo è una barzelletta e le parole non contano nulla o, se contano, bisogna assumersene le conseguenze: dire che tre territori del nostro paese possono avere tali poteri, significa dire che lo stato italiano non esiste più, se non in forma residuale. Lo abbiamo deciso? Non mi pare e comunque deciderlo richiede un certo grado di condivisione e un certo tempo, visto che la nostra Costituzione dice un'altra cosa. Non possono essere due governi, uno nazionale e uno regionale, attraverso un atto - di cui non è nemmeno chiara la natura giuridica - fare una cosa del genere.
Se la Regione è un ente troppo piccolo per assumersi certe funzioni - almeno per me lo è - è troppo grande per altre che sono in questo corposo elenco. Perché il governo del territorio deve essere gestito a livello regionale? Che senso ha fare una programmazione territoriale che va da Rimini a Piacenza, i cui territori hanno caratteristiche così diverse? Occorre invece progettare su scala più piccola, ad esempio su quella provinciale, perché i fiumi sono da sempre elementi ordinatori di questo territorio. Governare Bologna significa progettare un territorio che va da Porretta a Molinella, due realtà molto differenti una dall'altra, ma entrambe attraversate dal Reno. Come e quanto si costruisce a monte, sull'appennino, incide necessariamente su quello che succede a valle, nella bassa. E' solo un esempio, ma tutto il nostro territorio è innervato dai fiumi - e dai canali che l'uomo ha via via costruito - che, nascendo in montagna, confluiscono nel Po e ciascuno di questi ha caratteristiche diverse, il cui governo deve rimanere a livello locale. Mentre noi abbiamo fatto l'opposto: abbiamo smantellato le Province e abbiamo reso debolissimi i Comuni, mai così ininfluenti sulla vita dei loro cittadini.
Mi rendo conto che per fare una cosa del genere bisognerebbe avere la testa e il cuore di conoscere un territorio, l'ambizione di governarlo. Tutte cose che oggi latitano non solo nella classe politica, ma anche nella società, che si frega bellamente di quello che succede, pur di mantenere la propria prebenda, il proprio pezzetto di potere.
Francamente, al punto in cui siamo, non essere governati da Roma o da Bologna cambia poco.

mercoledì 13 febbraio 2019

Verba volant (625): canzone...

Canzone, sost. f.

Immagino che qualcuno di voi, intuendo che parlerò di Sanremo, non continuerà a leggere questa definizione, pensando che con tutti i problemi che ci sono in Italia, non possiamo continuare a farci distrarre dal festival. Fate pure, smettete pure di leggere, ma vi assicuro che non sono solo canzonette.
Per lo più ce lo dimentichiamo, ma il nome completo di questa manifestazione, giunta alla 69° edizione, è Festival della canzone italiana e quindi il concorso dovrebbe premiare la miglior canzone. Io ho provato ad ascoltare quella che quest'anno ha vinto Sanremo. Ho fatto un po' fatica - lo ammetto - ho perfino qualche dubbio che quella cosa lì possa essere definita una canzone, ma questo dipende ovviamente dalla mia età. Non ho ascoltato le altre canzoni e quindi non entro nel dibattito - che appassiona il paese - se abbia meritato o meno il premio.
Gli etimologisti non sono d'accordo sull'origine del verbo cantare: alcuni riconoscono la radice del sanscrito kanati, che significa gridare, mentre altri la radice di can'sati, che in quella stessa lingua antica significa raccontare. Qualcuno, sentendo Mahmood e altri suoi "colleghi", potrebbe dire che la prima etimologia è quella esatta, ma Soldi, al di là delle mie o vostre preferenze, è certamente una canzone perché racconta, a suo modo, una storia. E soprattutto racconta una storia che è a un tempo privata, personale, e universale. E' una storia di ipocrisia e di falsi sentimenti, una storia molto attuale, visto che gran parte dei rapporti tra le persone sono misurati unicamente dal denaro, in cui vali solo per quanto vendi, spendi, guadagni, per il tuo conto in banca o comunque per quello che puoi vendere.
E' una denuncia sincera? Non so, non possiamo chiedere tanto a un giovane che è nato e cresciuto in questa società di merda. Ma alle canzoni non dobbiamo chiedere la sincerità, basta la verità. E quella di Soldi è certamente una storia "vera", che descrive il mondo in cui stiamo crescendo i nostri figli. Basta questo per fare una canzone, che può anche vincere il festival di Sanremo nel 2019.
Poi è verosimile che Mahmood abbia vinto più per quello che è che per la sua canzone. E' credibile che la giuria d'onore, composta come una collezione di figurine, alla Veltroni - mancava solo l'atleta parolimpica per completare la consueta compagnia di giro del progressismo à la carte e dei buoni sentimenti - e quella dei giornalisti abbiano voluto "fare resistenza", premiando il giovane italiano dalla pelle un po' più scura, per mandare un "messaggio" al governo dei muri, dei porti chiusi, del razzismo trionfante. Naturalmente il razzismo non si combatte in questo modo, ma vallo a spiegare alle "anime belle" che non frequentano le periferie di cui parla Mahmood e da cui anche lui immagino se ne andrà dopo Sanremo, se non se n'è già andato. Immagino però la loro soddisfazione - perché l'ho letta anche in tanti commenti di favorevoli a questo premio - per aver fatto il "bel gesto", certi in questo modo di essersi pulita la coscienza; e da domani potranno continuare a essere gli stronzi "progressisti" di sempre, che - come un leghista qualsiasi - accettano uno "straniero" quando è ricco, quando è un campione, quando è una bella donna, ma se ne infischiano quando è povero. Perché contano i soldi. Mahmood va bene perché ha vinto.
Anche noi, che non facciamo parte di giurie di qualità, votiamo sempre di più il cantante, la sua storia, il suo aspetto, rispetto alla canzone. Solo che, a differenza di quelli che sono riconosciuti in una giuria, possiamo permetterci di essere razzisti anche durante Sanremo, come siamo ogni altro giorno dell'anno. Sarebbe una storia da raccontare, e da farci una canzone.

domenica 10 febbraio 2019

Verba volant (624): gloria...

Gloria, sost. f.

La signorina Felicita conduce il suo ospite a visitare il solaio di Vill'Amarena. L'avvocato, che è diventato - proprio a causa sua - un frequentatore sempre più assiduo di quella casa, vuole guardare il ritratto della Marchesa, che è stato relegato in quella stanza "perché porta pena", visto che in certe notti di luna piena si sentono ancora i passi dell'antenata lungo i corridoi della villa. Non è quel ritratto arcadico il tesoro più prezioso di quel solaio, almeno per il poeta, che si perde ad ammirare le tante cose che nel corso degli anni sono finite ammucchiate lassù, quel "ciarpame reietto" che è così caro alla sua Musa.
Di fronte ad alcune stampe la signorina Felicita chiede
«Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»
E il poeta sorride e pensa alla vanità della gloria
un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell'Impero,
la brutta effige incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso! 
Non è andata meglio al dottor Torquato Tasso, morto a Ferrara alla fine dell'Ottocento, qualche anno prima che Guido Gozzano scrivesse questi versi sul suo amore impossibile per la signorina Felicita. Il mondo si sarebbe dimenticato di lui se fortunatamente alcuni esponenti di Fratelli d'Italia non avessero denunciato lo stato di abbandono in cui versa la sua tomba nel cimitero della città estense. A dire il vero erano così indignati perché credevano che quella fosse la tomba del Torquato Tasso della Gerusalemme liberata. Peccato che il poeta sia sepolto a Roma, nella chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo, non molto lontano dalla quercia del Tasso - ma questa è un'altra storia. Quelli di Fratelli d'Italia ce l'avevano messa davvero tutta per far bella figura, per far vedere che la cultura non è qualcosa di cui si occupa solo la sinistra, sarebbe bastato che quel giorno avessero guardato Wikipedia invece di Youporn e forse avrebbero evitato l'inconveniente, ma la cultura - si sa - fa brutti scherzi, specialmente quando non si è abituati. Però credo sia doveroso ringraziare quegli incauti frequentatori di cimiteri, quantomeno a nome del dottor Torquato Tasso. E anche a nome di Torquato Tasso (quello della Gerusalemme e della quercia), di Guido Gozzano, e di tutta la genia dei poeti, il cui destino è quello di finire ritratti in brutti quadri dimenticati nei solai. 
Immagino che quegli incauti non si siano mai sognati di leggere la Gerusalemme liberata: farebbe loro bene, perché certo in quel poema ci sono i buoni e i cattivi, ma non tutti i "nostri" sono i buoni e non tutti i "loro" sono i cattivi e può anche succedere che ci si innamori, pur militando in campi avversi. E farebbe loro bene leggere la Gerusalemme perché le donne in quel poema non sono solo belle, non sono solo l'oggetto della fantasie dei maschi, ma sono vere protagoniste, come la signorina Felicita, che è molto più saggia e più forte del suo spasimante che alla fine, per paura del futuro con lei, fugge in India.
E come dice un altro poeta:
Fu vera gloria? 
Certo dimenticheremo i poeti, perfino Torquato Tasso, ma non dimenticheremo mai le "loro" donne; non dimenticheremo Erminia, Armida, e anche Felicita. 

venerdì 8 febbraio 2019

Verba volant (623): crusca...

Crusca, sost. f.

Quando Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini e Bastiano de’ Rossi cominciarono a ritrovarsi con una certa regolarità nelle loro case di Firenze, decisero di chiamarsi la "brigata dei crusconi". Erano letterati che non volevano prendersi troppo sul serio, come facevano invece i loro colleghi che si riunivano nell'Accademia fiorentina. Scrivevano e recitavano quelle che chiamavano "cruscate", ossia discorsi giocosi, in cui di sera giocavano con quelle parole con cui invece di giorno erano soliti "lavorare". Quando nell'ottobre del 1582 Lionardo Salviati si unì al gruppo, nacque davvero la Crusca e quei letterati si assunsero il compito di separare il fior di farina, ossia la buona lingua, dalle sue parti meno pregiate, e diedero vita all'impresa di scrivere il primo vocabolario della lingua italiana, la cui prima edizione fu stampata nel 1612. Ne seguì una seconda nel 1623, una terza nel 1691, una quarta completata nel 1738, mentre la quinta, iniziata nel 1811, rimase incompiuta alla lettera "o".
Mi pare evidente che la storia dell'Accademia della Crusca sia qualcosina di più del dibattito se si possa dire "esci il cane" (che peraltro non si può dire e nessun accademico vi dirà mai che si può dire). C'è però in questa vicenda, su cui si sono scatenate battute e ironie, qualcosa di positivo. Perché con le parole - come ci hanno insegnato i primi "crusconi" - bisogna anche giocare, scherzare, e non dobbiamo prenderci troppo sul serio quando le usiamo. 
Pensate quanto io reputi importanti le parole, se ho deciso - si parva licet - di cominciare a scrivere un vocabolario. Ma proprio perché penso che le parole siano importanti, credo che dovremmo usarle più di quanto facciamo. E dovremmo usarne di più, perché quelle che adoperiamo sono purtroppo sempre meno, come ci ha insegnato un maestro della parole come Tullio De Mauro. E inevitabilmente quando usiamo le parole le trasformiamo, le facciamo nostre, le inventiamo a volte. Pensate a una bambina e a un bambino che cominciano a parlare e che, ascoltando quello che dicono i "grandi", usano quelle parole in maniera molto creativa, storpiandole, dando loro significati diversi da quelli che sono scritti nel vocabolario dei loro genitori. Quelle parole, quelle costruzioni sintattiche e grammaticali, non sono meno "giuste" di quelle codificate dagli accademici della Crusca. Per parafrasare uno che con le parole sapeva giocare come pochi altri, e che sapeva parlare con i bambini:
la mia grammatica è solo differente dalla vostra
In Italia siamo fortunati ad avere un'istituzione come l'Accademia della Crusca e dobbiamo tenercela cara; e ovviamente dobbiamo spendere per mantenerla e farla vivere. E dobbiamo ringraziare gli accademici perché ci ricordano ogni giorno che ci sono forme corrette e forme scorrette, forme accettate e forme da rifiutare, visto che l'ignoranza non è un "crimine", è una cosa che si può correggere studiando e non qualcosa di cui vantarsi con arroganza, come oggi troppo spesso succede. L'Accademia della Crusca è necessaria, oserei dire costituzionalmente. Perché gli accademici con il loro lavoro - che troppe volte viene accusato di pedanteria - ci ricordano che la sintassi e la grammatica sono una "garanzia democratica". Ai cittadini non fa bene né essere trattati con il latinorum degli azzeccagarbugli, dei dotti che, al soldo dei potenti di turno, usano la loro cultura per ingannare, né con le volgarità della lingua dei "nuovi" potenti che, fingendosi "popolari", parlano male, e usano quelle parole per far pensare male. Imparare la grammatica e la sintassi, imparare che "esci il cane" è un errore, significa avere gli strumenti per capire gli altri, e anche per lottare per i propri diritti. 
Mentre impariamo quello che la Crusca ci insegna, mentre impariamo a parlare bene - e quindi a pensare bene - dobbiamo anche sapere che una lingua non è fatta soltanto dagli accademici, ma è creata ogni giorno da noi, da tutti noi. La lingua che parlano gli attuali accademici della Crusca farebbe rizzare i capelli in testa al povero Salviati. Una lingua è in gran parte la codificazione di errori, ossia si trasforma continuamente proprio grazie ai nostri "errori", che finiscono per diventare la norma. In fondo l'italiano è solo un latino pieno di errori e di storpiature, di costruzioni sintattiche e grammaticali su cui Cicerone sarebbe inorridito, di tantissimi "esci il cane" che via via hanno preso il loro posto d'onore nei vocabolari. Per questo dobbiamo esercitare la parola, dobbiamo parlare e scrivere, dobbiamo usare questo strumento che è la nostra lingua, senza avere troppa paura di sbagliare. E anche di scherzare. Perché anche noi siamo la Crusca.

martedì 5 febbraio 2019

Verba volant (622): scarafaggio...

Scarafaggio, sost. m.

Non sembra, perché in quei sei anni hanno scritto e interpretato moltissime canzoni, hanno fatto tanti concerti, si sono trasformati molte volte, ma la storia dei Beatles è davvero molto breve. E si è consumata tremula come una speranza. Dal 5 ottobre 1962, quando uscì Love me do, al concerto sul tetto del n. 3 di Savile row del 30 gennaio 1969. So bene che c'è una storia prima e dopo queste date, prima che diventassero i Beatles e dopo, nonostante non fossero più i Beatles. C'è una storia che non si è interrotta neppure l'8 dicembre 1980 - quando abbiamo drammaticamente saputo che i Beatles non sarebbero mai più tornati - e che non finirà neppure quando morirà l'ultimo dei Fab four. E quando qualcuno dirà che i Beatles sono morti, noi - come Korov'ev nel Maestro e Margherita - risponderemo:
Protesto! I Beatles sono immortali.
Ci sono artisti destinati a essere capiti solo dopo molti anni, perché la loro condizione è proprio quella di essere avanti rispetto al tempo in cui vivono e nonostante questo, più sono grandi, più la loro lezione è destinata a influenzare il cammino di noi persone "normali". Che diventeremo in un certo modo, perché quegli artisti ci sono stati, perché ci hanno detto, anche se noi non lo potevamo ancora capire, che saremmo cambiati; e in quale direzione.
E poi ci sono i Beatles. Che non hanno raccontato il futuro, ma lo hanno fatto deflagrare, perché le persone - e i giovani in particolare - li stavano aspettando. Perché i Beatles sono la musica dell'età dell'oro - come la chiama Eric Hobsbawm - ossia degli anni in cui una generazione - la prima che non era stata costretta a combattere, che non aveva perso le proprie migliori energie in un conflitto - pensò che fosse arrivato il momento di attaccare quello che c'era stato prima, le vecchie classi dirigenti, le istituzioni sentite come sempre più conservatrici, insomma tutto quello che in qualche modo rappresentava l'autorità. Era una generazione davvero nuova, più istruita e più ricca - peraltro grazie al sacrificio della vituperata generazione dei padri - e quei giovani, non solo qui in Europa, ma anche nei paesi che proprio in quegli anni si stavano liberando da secoli di colonialismo, potevano legittimamente credere che, come loro avevano trovato un mondo migliore da quello in cui erano cresciuti i loro padri, avrebbero potuto lasciare un mondo migliore ai loro figli. Un'età dell'oro è tale perché è ottimista, è piena di speranza. E l'ottimismo ha bisogno di musica, ha bisogno di essere cantato. E per quello c'erano i Beatles.
E' facile fare i profeti dopo che le cose sono avvenute. E oggi naturalmente sappiamo che quelle speranze erano destinate a infrangersi. Anche se credo che neppure il più pessimista tra quelli vissuti nell'età dell'oro avrebbe potuto immaginare quello che sta succedendo ora. E gli anni tra il 1969 e il 1970 segnarono proprio la fine di quelle speranze. Ovviamente il mondo è diventato quello che è diventato non perché i Beatles si sono sciolti, ma è significativo che sia avvenuto tutto negli stessi mesi. Perché in quei giorni si sono definitivamente infrante le speranze di rivolta dei paesi dell'Africa. Perché in quei giorni il capitalismo ha fatto capire che non era più tempo di pace e che la guerra - anche se questa volta di classe - sarebbe ricominciata. E l'avrebbe ricominciata anche arruolando tanti di quei giovani che avevano cantato le canzoni dei Beatles, e anzi riuscendo a usare proprio quelle canzoni, perché la musica sarebbe diventata uno dei più potenti strumenti di comunicazione di massa da mettere al servizio del consumismo.
Immagino sia terribile vedere infrangere una speranza così fortemente radicata, a cui si credeva in maniera così convinta. Noi fortunatamente non lo abbiamo mai dovuto provare, visto che non ne abbiamo mai davvero avuto una. C'è rimasta almeno abbiamo qualche bella canzone. 
Oh yesterday came suddendly... 

domenica 3 febbraio 2019

Verba volant (621): pallone...

Pallone, sost. m.

Sabato sera: prima di andare a vedere uno spettacolo in un piccolo teatro della Bassa, Zaira e io decidiamo di mangiare un panino e bere un bicchiere di lambrusco in un locale di Fidenza, a pochi metri dell'uscita dell'A1. Nonostante la serata inclemente, il posto è abbastanza pieno.
Quando stiamo per finire, vediamo entrare una squadra di calcio di serie A. Si mettono in fila alla cassa, ordinano chi un panino, chi un piatto di pasta, spostano i piccoli tavoli per fare un'unica tavolata e mangiare insieme, approfittano per andare in bagno. Per noi due è ora di alzarci, dobbiamo andare a teatro, lasciamo la squadra che mangia, scherza, immagino che anche loro tra poco si alzeranno per riprendere il viaggio verso casa. Tutto molto normale, direte voi. Vero, ma quante volte avete mangiato un panino insieme a una squadra di calcio di serie A?
Dimenticavo di dirvi il nome della squadra: è l'Orobica. Ieri pomeriggio hanno perso 3-1 contro la Florentia a Figline Val d'Arno. È una squadra neopromossa ed è ultima in classifica. Dimenticavano anche di dirvi che sono ragazze.
Naturalmente non sarebbe mai successo con una squadra di serie A, quella "vera", quella di cui parlano le televisioni e i giornali. I giocatori dell'ultima in classifica della serie A non sarebbero mai entrati così in un locale, non avrebbero dovuto spostare loro i tavoli, fare la fila alla cassa, pagarsi il panino e la bibita, come hanno fatto ieri sera le ragazze dell'Orobica. Ma giustamente loro non sono star, non meritano interviste, commenti, articoli, sono solo ragazze che giocano a pallone. E che la sera, finita la partita, tornano a casa, dopo essersi pagate un panino. E che lunedì mattina torneranno a scuola e al lavoro. Perché il pallone è roba da maschi, è qualcosa di cui possono viverci bene solo i maschi.
Per la cronaca, non sembrava di stare seduti accanto a una squadra che aveva perso, che è ultima in classifica e che rischia la retrocessione, nessun dramma. Probabilmente erano deluse e arrabbiate - è naturale che lo fossero - ma ieri sera erano un gruppo di ragazze che mangiavano insieme, che parlavano, qualcuna scriveva sul telefonino, tutto molto normale: solo ragazze che giocano a pallone.
Grazie, continuate a essere solo ragazze che giocano a pallone. E forza Orobica.

sabato 2 febbraio 2019

Verba volant (620): maiale...

Maiale, sost. m.

Secondo il calendario astrologico cinese - che è lunisolare - il 5 febbraio 2019 comincia l'anno del maiale, un animale che in quel paese è simbolo di prosperità e di ricchezza.
Il maiale è per molti popoli un simbolo di abbondanza e di crescita. Per i Romani questo animale era consacrato a Maia, una delle più antiche divinità italiche, quando quel popolo di contadini calcolava ancora il tempo seguendo il corso della luna; e prima che, vergognandosi di essere contadini, trasformassero le loro antiche divinità in imitazioni posticce degli dei della Grecia classica. E così Maia, la dea della fecondità e del risveglio della natura in primavera, la dea della terra e delle sue ricchezze - una delle tante incarnazioni della Grande madre, la dea mediterranea primigenia - divenne semplicemente la madre di Mercurio, una statua bianca in una gipsoteca. Della sua antica potenza rimane una traccia nel nome del mese di maggio - il mese della fioritura - e appunto nella parola che indica familiarmente quello che Linneo ha chiamato sus scrofa domesticus. Peraltro anche in suino c'è una radice - dal greco antico questa volta - che indica lo stesso concetto, ossia la potenza generatrice della natura.
Secondo il racconto di Virgilio, una grande scrofa bianca, con i suoi trenta cuccioli, fu il segno mandato a Enea per dirgli che il suo peregrinare era finito e che in quel luogo, vicino alla foce del Tevere, sarebbe nata la "nuova" Troia, la città destinata a governare su tutto il mondo. Per quel grande poeta, non a caso nato in mezzo alla pianura padana, la scrofa viene prima della lupa.
E allora festeggiamo anche noi, insieme al miliardo e mezzo di cinesi, l'anno del maiale. A dire il vero, noi emiliani, nel nostro piccolo, è da un bel pezzo che "celebriamo" questo animale. O meglio noi celebriamo il maiale attraverso il lavoro delle donne e degli uomini, la loro capacità di saperlo trasformare in un'incredibile serie di salumi, la forza e l'ingegno di renderlo un sapere tradizionale.
Ad esempio visitare la cantina dei culatelli dei fratelli Spigaroli a Polesine, farsi spiegare come vanno stagionati, come bisogna saper "catturare" la nebbia della Bassa, l'umidità del Po e poi il freddo e il caldo della pianura, significa accostarsi - anche se solo per pochi minuti - a una tradizione che affonda in un tempo lontano e in cui generazioni di donne e di uomini di queste terre - che magari non sapevano né leggere né scrivere - hanno affinato una capacità che non ha eguali e che ci permette di gustare qualcosa di unico. E lo stesso si può raccontare per il prosciutto, per il salame Felino, per la coppa, per la spalla cotta di San Secondo - così amata da Giuseppe Verdi, un altro figlio della nostra pianura - solo per citare alcuni tra i più noti salumi della provincia dove vivo, in cui il maiale rappresenta una parte importante del pil. E poi - per allagarsi un po' al resto dell'Emilia - ci sono la mortadella - a cui da bolognese sono molto legato - la salama da sugo, la pancetta piacentina, il cotechino, salumi che sai sempre riconoscere, ma che - quando sono davvero buoni, quando sono fatti come devono essere fatti - sono sempre diversi, perché sono il frutto, oltre che della capacità degli uomini, anche dell'imponderabilità della natura.
Dovremmo festeggiare l'anno del maiale non solo mangiandolo - come facciamo troppo e troppo spesso, visto che non soffriamo più la miseria, che ci ricorda quanta ricchezza rappresenti questo animale - ma soprattutto riuscendo a ricordare quanto sia importante il cibo, come non debba essere svilito e sprecato. E quanto siano fondamentali il saper fare e il saper insegnare, ossia quanto sia fondamentale il lavoro e come questo sia la vera ricchezza della nostra terra.
E soprattutto anche noi dovremmo smettere di vergognarci di essere stati contadini. Nel nome di Maia e del maiale.