sabato 18 settembre 2010

"Funes, o della memoria" di Jorge Luis Borges

Lo ricordo (io non ho il diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva in mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti d’indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d’intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da matè, con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell’orillero antico, senza le sibilanti italiane di oggi. Non l’ho visto più di tre volte; l’ultima nel 1887… M’è parso un progetto felice quello di chiedere a tutti coloro che lo conobbero di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarà forse la più breve, certo la più povera, ma non la meno imparziale del volume che pubblicheranno. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirà di cadere nel ditirambo – genere obbligatorio in Uruguay quando il tema è un uruguayano. Letterato, persona colta, bonaerense; Funes non pronunciò queste parole ingiuriose, ma sono abbastanza sicuro che io rappresentavo per lui queste sventure. Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvatico e vernacolare”; non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.
Il mio primo ricordo di Funes è assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o febbraio del 1884. Mio padre, quell’anno, m’aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernando Haedo dalla tenuta di San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e questa non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, una enorme tempesta colore ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento da sud, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una stretta che affondava tra due altissimi marciapiedi di mattoni. D’un colpo si era fatto buio; udii in alto passi rapidi, quasi segreti; alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernando gli gridò, imprevedutamente: - Che ore sono, Ireneo? - Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: - Mancano quattro minuti alle 8, ragazzo Bernando Juan Francisco -. La voce era acuta, burlesca.
Sono così distratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non ve l’avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro. Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di sapere sempre l’ora, come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una stiratrice del paese, Marìa Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, era un inglese O’Connor, medico agli stabilimenti; secondo altri, un ranchero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.
Le estati dell’85 e dell’86 le passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, com’è naturale, di tutti quelli che conoscevo, e da ultimo, del “cronometrico Funes”. Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San
Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernando, aveva molto d’un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o sua una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto di simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato benefico… Due volte lo vidi dietro all’inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina. Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato da quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo nella valigia il De viris illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modiche virtù di latinista. In un piccolo paese, tutto si viene a sapere; Ireneo, nel suo rancho sulla costa, non tardò a sapere dell’arrivo di questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, disgraziatamente fugace, “del giorno sette febbraio dell’anno ottantaquattro”, esaltava i brillanti servizi che don Gregorio Haedo, mio zio, deceduto in quello stesso anno, “rese alle nostre due patrie nella gloriosa giornata di Ituzaingò”, e mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario “per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino”. Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata; l’ortografia, del tipo auspicato da Andrés Bello: i per y, j per g. Lì per lì, naturalmente, temetti una burla.
I miei cugini mi assicurarono che no, che erano cose da Ireneo. Non seppi se attribuire a trascuraggine, a ignoranza o a stupidità l’idea che per l’arduo latino bastasse, come solo strumento, un dizionario; per disingannarlo interamente gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.
Il 14 febbraio mi telegrafarono da Buenos Aires che tornassi immediatamente, perché mio padre non stava “niente bene”. Dio mi perdoni; il prestigio che mi valeva d’esser destinatario d’un telegramma urgente, il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma negativa della notizia e la perentorietà dell’avverbio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, tutto questo, forse, mi tolse ogni possibilità di dolore. Nel far la valigia, notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia. Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m’incamminai verso la casa di Funes.
Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, poiché soleva passare le ore morte senza accendere la candela. Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C’era una pergola; l’oscurità potè sembrarmi totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili; poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi che erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia.
L’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum.
Senza il minimo cambiamento di voce, Ireneo mi disse di entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all’alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente di umidità. Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.
Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurre le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; lascio al lettore d’immaginare i frastagliati periodi che m’incantarono quella notte.
Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito: Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonie, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m’ascoltò).
Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battagli di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: - Ho più ricordi io da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini messi insieme, da che mondo è mondo -. Anche disse: - I miei sogni, sono come la vostra veglia -. E anche: - La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti -. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandra innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo.
Queste cose che mi disse, né allora né mai le posi in dubbio. Non c’era a quel tempo cinematografo né fonografo; è tuttavia inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto.
Dall’oscurità, Funes continuava a parlare. Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemila tredici diceva (per esempio) Maximo Perez; in luogo di settemilaquattordici, La Ferrovia; altri numeri erano Luis Meliàn Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustìn de Vedia. In luogo di cinquecento, diceva nove. A ogni parole corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molti complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 365 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con i “numeri” Il Negro Timoteo o Mantello di carne. Funes non mi sentì o non volle sentirmi.
Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes, aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita e immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
I due progetti che ho detto (un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto
assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Inereo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era il più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente.
Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel modo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.
Il chiarore esistente dell’alba entrò per il patio di terra.
Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1886; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l’ Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.
Ireneo Funes morì nel 1889, d’una congestione polmonare.

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