mercoledì 29 febbraio 2012

"Le donne di Bagdad" di Mario Luzi

per Rossella...

Diruti gli acquedotti, saltati i cavi elettrici,
inattivi gli impianti di depurazione,
eccole, le abbiamo viste per pochi attimi,
mai viste
indelebilmente sullo schermo,
seppur semicelate dai loro panni e cenci
e chadors e pezzuole variopinte,
le donne di Bagdad con secchi, bacinelle e taniche
entrare nei ristagni della torpida corrente,
chiedere a un Tigri torbo e malvoglioso
acqua per la loro incertissima giornata...
L'estrema deiezione della creatura umana
non ha tempo. Poteva
essere mille anni fa o tremila.
La causa, neppure quella, muta.
Il fiume sotto i suoi crollati ponti
potrebbe, esso, attestarlo.
Nulla cambia nella fortuna umana -
barbugliano, si sente,
le acque grevi e impastate di rovine.
Nulla cambia - davvero nulla cambia?
Allora perché questa rivolta?
Del sangue, dell'intelligenza
come per empietà? Nell'ordine
antico, è nel previsto
ritmo dei suoi effimeri sussulti
essa pure? Arcaica al pari della guerra
che sfoggia il paradosso dei suoi avveniristici strumenti?
Davvero nulla cambia? Nulla si redime?
Vanno e vengono nelle loro tuniche
gonfie di vento, intrise d'acqua, loro
donne di Bagdad al fiume benefico e insidioso.
La morte è la sola maestà
che non vien meno. E sola
ci assicura della sacrosanta vita...

martedì 28 febbraio 2012

"Le nuove frontiere della questione sociale" di Olof Palme


Il nostro obiettivo è di estendere il processo di democratizzazione a sempre nuovi settori. Il che impedisce che anche per un solo momento dimentichiamo il nostro impegno democratico. Preservare ciò che si è conseguito nella lotta per la democrazia è una premessa per estendere il suo campo d’azione a nuovi aspetti della vita sociale. I fautori della rivoluzione in Svezia negli anni passati si sono scissi sempre più in piccole sètte, nelle quali fomentano le loro dispute interne sulla “dottrina pura”. Non abbiamo tempo per fantasticherie rivoluzionarie. Abbiamo anche troppo da fare per migliorare la società. Non possiamo permetterci alcun gioco opportunistico con la violenza né con le parole né nei fatti. Ci preme soprattutto la sicurezza dei cittadini e la loro fiducia in una pacifica convivenza e in scelte prese in maniera democratica. La democrazia oltre a significare sicurezza è anche una forza che trasforma il sistema. Quando essa ha messo radice non si può tornare indietro. Si pone però la questione del perché certi campi della società debbano rimanere chiusi al controllo e alla trasparenza democratica. Come possa essere estesa la democrazia e trovare nuove forme di attuazione? Chi rifiuta il metodo democratico perde anche l’opportunità di fondare lo sviluppo sociale sull’impegno e la fiducia popolari e di utilizzare la forza della democrazia come forza trasformatrice del sistema. In tal modo si dimostra anche indifferenza verso i problemi del cittadino medio. Viviamo in un ambiente culturale la cui tradizione è determinata da idee e valori etici. In Europa il socialismo democratico, come cita Willy Brandt dal programma di Bad Godesberg «ha le sue radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica». In Svezia questa tradizione è profondamente ancorata. Ma l’uomo vive in primo luogo i problemi di ogni giorno. Una idea astratta da sola non è sufficiente per un impegno. Si deve chiarire il nesso tra idee e problemi pratici. Si deve indicare come sia possibile risolverli. Un paese povero in via di sviluppo aspira alla sua autonomia dopo anni di dominazione coloniale. Qual è la ragione che può guadagnare il popolo alla causa della indipendenza nazionale? La possibilità concreta di costruire la società e liberarsi dalla povertà. Non è sufficiente dire: dobbiamo trasformare il sistema. Ogni sforzo in questa direzione deve collegarsi e fondarsi sulla soluzione di problemi concreti dei cittadini, sul loro bisogno di sicurezza, progresso e sviluppo. Il che si ricollega ai nostri sforzi di avere una visione complessiva dei problemi. Il socialismo richiede come ideologia politica e filosofica forte impegno intellettuale. Ma nello stesso tempo è anche straordinariamente pratico. Possiamo conseguire in larga misura il collegamento tra la difficile teoria e il lavoro concreto tramite il dibattito democratico. Il partito socialdemocratico svedese negli anni ‘30 è riuscito a tradurre questa visione complessiva in realtà per la soluzione della crisi dell’occupazione. In tal modo fu posta la base dell’azione del nostro partito per la trasformazione della società. La disoccupazione degli anni trenta non era solo un problema economico, ma anche una crisi della democrazia. La democrazia deve mostrare forza operativa in campo sociale. La concezione liberale della democrazia comportava al contrario una limitazione secondo la quale lo Stato democratico non poteva intervenire nell’economia di mercato neppure per garantire lavoro e sicurezza ai suoi cittadini. La soluzione che attuammo mostrò chiaramente che la democrazia aveva superata questo limite. Ora ci troviamo di nuovo di fronte alla stessa problematica. Le differenze di reddito minacciano di ingrandirsi. È in corso un enorme processo di trasferimento della popolazione e di concentrazione di capitale e uomini. Lavoratori perdono il loro posto di lavoro. Il nostro ambiente è minacciato da una crescente distruzione. Questi sono problemi essenziali della nostra vita di ogni giorno che possono generare facilmente un senso di insicurezza nel futuro. Nel caso che la democrazia non riesca a risolverli, esiste il pericolo dell’anarchia, il pericolo che si sviluppi una coscienza elitaria o che forze antidemocratiche si impadroniscono del potere. È necessario ravvivare e rinnovare la democrazia alla base. La struttura decisionale democratica corre il rischio di disgregarsi: in seguito alla trasformazione tecnologica, alla concentrazione economica, al rapido trasferimento della popolazione, alla lentezza burocratica. Lo sviluppo della democrazia industriale diventa la questione centrale. La democrazia anche a livello nazionale deve essere estesa a nuovi settori. Le forze tecniche ed economiche sono decisive per la configurazione del futuro. Se questo compito deve essere assunto dalla collettività allora queste forze devono essere democraticamente guidate e controllate. Il che significa che dobbiamo contare su una più ampia economia di piano. In Svezia attualmente stiamo elaborando un piano, lo ricordo come esempio, di come utilizzare nel suo complesso il territorio e la proprietà terriera. L’economia di mercato, secondo me, non può offrire alcuna soluzione a questi problemi, che sono di estrema importanza per lo sviluppo della società. Le decisioni da prendere non possono essere affidate all’economia privata. Non possiamo consentire che la corsa al profitto e la logica della concorrenza decidano sulla modificazione dell’ambiente, sulla sicurezza dei posti di lavoro o sullo sviluppo tecnico. La questione non è se vi debba essere economia di piano e più democrazia nella vita economica, ma come elaborare la prima ed organizzare la seconda.

lunedì 27 febbraio 2012

"Sopra un verso straniero" di Geogos Seferis

E si presenta ancora innanzi a me il fantasma
d'Odisseo, gli occhi rossi dal salmastro e da una brama
matura: rivedere ancora il fumo
che affiora dal calore della casa e il suo cane invecchiato
che aspetta sulla porta.
Sta, gigantesco, e mormora di tra la barba imbianchita parole della nostra lingua,
quale già la parlavano tremila anni fa.
Stende una mano incallita dalle gomene e dalla barra,
con la pelle segnata dal tramontano dall'afa e dalle nevi.
Sembra che voglia scacciare di mezzo a noi il Ciclope
titanico, monocolo, le Sirene che danno, se le ascolti,
l'oblio, Scilla e Cariddi:
tanti intricati mostri, che ci tolgono l'agio di pensare
ch'era un uomo anche lui che lottò
dentro il mondo, con l'anima e col corpo.
E il grande Odisseo: colui che disse di fare il cavallo
di legno - e gli Achei presero Troia.
M'immagino che venga a insegnarmi come fare un cavallo
di legno anch'io, per conquistare la mia Troia.
Mi dice l'ardua angoscia di sentire le vele della nave gonfie dalla memoria e l'anima farsi timone.
Ed essere solo, occulto nel buio della notte, a deriva
come festuca all'aia.
L'amaro di vedere naufragati fra gli elementi i cari,
dispersi: ad uno ad uno.
E come stranamente ti fai forte a parlare coi morti,
quando i vivi superstiti non bastano.
Parla... rivedo ancora le sue mani che sapevano, a prova,
se la gòrgone di prora era ben fatta
donarmi il mare senza flutti azzurro
nel cuore dell'inverno.

domenica 26 febbraio 2012

Considerazioni libere (272): a proposito di una storia cominciata vent'anni fa...

Il 17 febbraio del 1992 venne arrestato un tal Mario Chiesa, socialista, presidente di un'importante casa di riposo milanese: stava intascando una tangente di sette milioni di lire da un imprenditore che voleva gli fosse assegnato l'appalto della gestione delle pulizie nell'istituto. Sinceramente non ricordo quanto mi colpì allora questa notizia di cronaca; probabilmente molto poco. Ero impegnato in politica da alcuni anni, nell'aprile del '90 ero stato eletto in Consiglio comunale nella lista del Pci e nominato assessore e naturalmente la mia attenzione era rivolta soprattutto alle questioni amministrative: ricordo che in quelle settimane si discuteva di una questione molto delicata, l'eventuale statalizzazione delle scuole materne comunali. A livello nazionale poi era nato da poco più di anno, seppur dopo un lungo travaglio, il Pds, il partito nel quale militavo, e quello era il fatto per me più significativo di quella stagione politica. Ci stavamo preparando alle elezioni politiche della primavera, le prime per il Pds; il presidente Cossiga, al termine del suo periodo da "picconatore" aveva sciolto le Camere il 2 febbraio. Insomma, visto da Granarolo, l'arresto di Chiesa non era poi una gran notizia. Eppure quell'arresto ha segnato la storia recente di questo paese e anche le storie personali di molti di noi.
Ripensando a quei giorni vent'anni dopo - come i moschettieri di Dumas - si guarda a quegli avvenimenti con maggior lucidità e ci si pongono diverse domande. Perché quell'arresto, proprio quell'arresto, scatenò quella reazione? Nella storia dell'Italia repubblicana erano già scoppiati altri scandali, con protagonisti ben più importanti di Mario Chiesa, eppure non era successo nulla; c'erano state dimissioni, si è dimesso perfino un presidente della Repubblica per vicende legate a finanziamenti occulti, ma non è mai crollato il sistema politico. Poi c'è stato il 1992 e la storia è cambiata all'improvviso. Già allora, e soprattutto negli anni successivi fino alle "celebrazioni" di questi giorni, la tesi prevalente è stata che le richieste dei politici erano diventate così esose da risultare non solo eticamente intollerabili - ma si sa che l'etica non è mai molto ascoltata - ma soprattutto economicamente insostenibili da parte degli imprenditori: a furia di tirare, la corda si sarebbe spezzata, proprio nel febbraio del '92. E' una tesi che non mi ha mai convinto. Questa interpretazione si reggeva - e a sua volta giustificava - un'altra tesi allora prevalente - e ancora oggi molto in voga - ossia che in Italia si contrapponessero una classe politica incapace e corrotta e una società civile incolpevole e vessata. Da una parte c'erano i politici concussori e dall'altra gli imprenditori concussi. Troppo comodo e troppo autoassolutorio.
Ricordate lo spot del Grattaevinci, quello in cui un adulto gongola perché ha vinto una partita a scacchi, giocando contro un neonato? Si conclude con lo slogan "ti piace vincere facile?": ecco quello spot mi sembra rappresenti bene la società italiana. Gli imprenditori italiani in genere, pur professandosi strenui assertori del liberismo, faticano ad accettare le regole del mercato, non amano la concorrenza e appena ne hanno l'occasione cercano di eliminare ogni rischio d'impresa. In troppi casi e in troppi settori gli appalti non erano - e non sono - basati sulla regola che vince chi fa l'offerta migliore, ma su accordi di cartello per cui questo appalto lo vinco io e il prossimo lo vinci tu, e insieme definiamo i prezzi. Il debito pubblico italiano si è generato soprattutto per questo meccanismo, che ha fatto lievitare i prezzi delle forniture e della realizzazione delle opere pubbliche. Nelle regioni del sud questo sistema è diventato anche il modo per finanziare la criminalità organizzata, ma su questo voglio tornare anche dopo. In sostanza i soldi delle tangenti non venivano dalle tasche degli imprenditori, ma direttamente dall'erario, costretto a pagare almeno 120 quello che sarebbe dovuto costare 100. E gli esempi potrebbero continuare nell'Italia delle corporazioni, degli ordini, delle tariffe garantite, delle licenze contingentate e così via. In Italia imprenditori, banchieri, grandi assicuratori non sono nemmeno più abituati a fare impresa, non vogliono rischiare, si "accontentano" dei loro profitti sicuri.
Torniamo ora all'Italia del 1992. Eravamo in piena crisi economica. Per mettere in sicurezza i conti pubblici il governo Amato fu costretto, l'11 luglio di quell'anno, a emanare un decreto da 30.000 miliardi di lire, in cui tra gli altri provvedimenti, si decise il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari. Il 13 settembre Amato annunciò in televisione la svalutazione della lira. L'inflazione stava salendo, la Fiat aveva annunciato un vasto piano di prepensionamenti e molte aziende chiedevano di attivare la cassa integrazione. Il sistema politico italiano era andato in crisi tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta. Nel giugno del 1991 c'era stato il referendum sull'abolizione della preferenza multipla alle elezioni; alle urne si recò il 65% degli italiani e il referendum passò con il 95,6% di sì. Era un voto di sfiducia verso i partiti. Il mondo intanto era radicalmente cambiato. La fine del Pci, anche se non ci fosse stata l'inchiesta di Mani pulite, avrebbe inevitabilmente portato alla fine della Democrazia Cristiana e quindi alla fine di quell'equilibrio sociale di cui questo partito, espressione della maggioranza della classe dirigente italiana, si era fatto garante. Mi colpì molto il fatto che nel 1995, al termine del mandato cominciato nel '90, non sedessero più in Consiglio comunale di Granarolo i rappresentati di Pci, Dc e Psi, come era sempre avvenuto dalle elezioni del 1948. I tre grandi partiti della storia italiana avevano chiuso in cinque anni. Al di là di questo ricordo personale, nel '92 si percepiva che la prossima fine della Dc, ossia dell'unità politica dei cattolici, avrebbe significato la fine del sistema che garantiva ad alcuni il mantenimento dei loro privilegi.
C'è una costante nella storia dell'Italia repubblicana: non appena sono in vista dei possibili cambiamenti ci sono forze, più o meno occulte, che si incaricano di frenare questi cambiamenti. Purtroppo è sempre avvenuto in maniera drammatica, dall'eccidio di Portella delle ginestre ai morti di Reggio Emilia, dalla strage di piazza Fontana all'uccisione di Aldo Moro. Io non sono un "complottista" e so che dietro questi avvenimenti, che hanno matrici e storie molto diverse, non c'è un'unica regia, non esiste il "grande vecchio", troppe volte evocato per spiegare i molti misteri italiani. Il risultato però è inequivocabile: sono momenti che hanno segnato un arretramento o quantomeno non hanno permesso l'affermarsi di elementi di cambiamento che erano presenti nella società. Nel 1992 qualcosa stava per cambiare, francamente non so dire se in meglio o in peggio - la situazione era molto confusa - comunque si percepiva che eravamo a una svolta. E, come è sempre avvenuto, si è messa in moto quella parte della società che teme i cambiamenti, perché rischia di perdere i propri privilegi. Anche qui, ripeto per non essere frainteso, non voglio dire che ci sia stata una regia "occulta" che ha manovrato una parte della magistratura, la grande stampa, i tanti attori sociali coinvolti, ma mi limito a misurarne gli effetti. C'era un'aria di cambiamento nel paese, sinceramente vissuta e e spontanea, che si espresse appunto nel referendum del '91 e anche nel risultato delle elezioni politiche del '92, che segnarono un risultato molto negativo per la Dc e un arretramento del Psi, e l'affermarsi di alcune forze nuove, di stampo molto diverso, dalla Lega alla Rete.
Personalmente penso che Mani pulite sia scoppiata proprio allora perché quell'Italia che ho descritto prima, l'Italia degli imprenditori poco coraggiosi, l'Italia delle mille corporazioni, l'Italia della ricchezza, chiamiamola per comodità l'Italia dei "profittatori" non si è più sentita garantita da quella classe politica che fino ad allora aveva tollerato, ma anche contribuito a gestire, ad esempio attraverso il sistema tutto italiano delle partecipazioni statali, questo iperprotetto sistema economico. Era la Dc che garantiva alla perfezione questo sistema, ma appunto la Dc stava per sgretolarsi. Il Psi non avrebbe potuto sostituirsi ad essa, come forse Craxi sperava, in parte perché il giudizio dell'opinione pubblica verso il Psi non era affatto positivo, ma soprattutto perché i grandi poteri non si fidavano affatto di Craxi, che aveva dato prova in diverse occasioni di un coraggio e di una capacità di decisione autonoma che spaventava quei mondi, abituati alla duttilità dei notabili democristiani.
Anche altri non si sono sentiti più garantiti, per ragioni diverse, da un sistema politico che stava franando, penso ai cosiddetti "boiardi" di stato, ai manager delle grandi aziende pubbliche che in quei mesi hanno pensato che era arrivato il tempo di affrancarsi dai loro "padrini" politici ormai in declino, tanto più che era in atto un massiccio piano di privatizzazioni, i cui protagonisti furono i soliti noti riuniti nel consiglio di Mediobanca. Si mosse infine la più grande azienda italiana per fatturato e penetrazione sociale, la mafia: anch'essa in quella stagione sentiva che qualcosa stava succedendo; non è inutile ricordare che il 12 marzo del 1992 venne ucciso Salvo Lima, fino ad allora il maggior referente della mafia all'interno della Dc e che pochi mesi dopo vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi nel '93 ci fu la stagione delle bombe mafiose, a Firenze, a Roma, a Milano, segno che la criminalità organizzata dal sud era pronta ad alzare la voce a livello nazionale. C'è un'altra data del 1992 che merita di essere ricordata: il 29 ottobre fu ratificato in Italia il Trattato di Maastricht sull'unione monetaria: chi sapeva, chi conosceva bene le cose, sapeva anche che da quel momento le "anomalie" italiane, su cui si era costruita la storia del paese nei decenni precedenti, sarebbero in qualche modo state ricondotte all'interno di parametri ben definiti e difficili da eludere, come vediamo bene in queste settimane.
Questa Italia, passata la tempesta del '92 e del '93, questi interessi si sono oggettivamente messi in moto nel '94 per trovare una soluzione politica alla crisi. E la soluzione è stata Silvio Berlusconi. Qui comincia un'altra storia che sarebbe lungo raccontare e che non è neppure pertinente all'argomento di questa "considerazione", ma l'arrivo sulla scena di Berlusconi risolse molti dei problemi posti nel '92. Berlusconi si presentò come l'uomo nuovo, colui che non aveva mai partecipato al "teatrino della politica" e sotto di lui i poteri veri, le grandi industrie, le banche, gli uomini che sedevano - e siedono - in tanti consigli d'amministrazione hanno visto crescere il proprio potere. Poi Berlusconi è diventato B., ha perso il senno e puntualmente i grandi poteri hanno cominciato a non sentirsi garantiti neppure da lui e hanno cambiato cavallo, decidendo di prendere in mano direttamente il governo, smettere di delegare altri. Mi pare che il governo Monti segni davvero la fine di quel percorso iniziato vent'anni fa e quindi l'inizio della cosiddetta seconda repubblica, ma su questo naturalmente avremo modo di vedere e confrontarci. Magari prima che passino altri vent'anni.

sabato 25 febbraio 2012

"Jenin" di Etel Adnan


E quella notte, quando smisero di piovere tigri
e paraventi,
mentre coloro che erano venuti per rapine a mano armata
andavano via con un magro bottino,
dopo la chiusura degli amari caffè, e
dopo l’ora in cui i bordelli cominciano
a ricevere i clienti, quando gli stoppini si furono spenti
nelle loro lampade
e i preti furono tornati alla loro
abituale pedofilia,
quando la pioggia ebbe paura perché
le bombe cadevano più veloci
della luce,
un fumo denso, fatto di ossa bruciate
sopra un fuoco tenue
e trasformato in “Calcio-Palestina”,
discese,
e riempì di disperazione le gole dei boia
che poi andarono a lavarsi dalle loro madri
con le orecchie allucinate
perché sentivano le famose
trombe di Jerico
e confondevano gli anni con le stelle,
i cavalli con i granchi.
E la notte si rifiutò di piovere sulla testa della pecora,
e noi vedemmo lampi misti a
nuvole ingrossate con il sangue e le lacrime,
e la materia cominciò a parlare direttamente con i morti,
che non ascoltavano più,
e la gente non aveva voce,
e noi camminammo su rovi, spine e cardi,
e i nostri occhi esaurirono il vocabolario delle
ombre della morte,
e allora discese –seguendo la pioggia- un
angelo di cui nessuno conosceva il nome.
Egli cominciò a contare i feriti qua e là
e le amputazioni fatte con coltelli da cucina,
e quell’angelo scrisse ogni cosa in un libro di
oro e fango.
Per questo il mare dilagò, tremò di terrore,
obbligò le sue onde a vigilare,
e noi, al sentire suonare strumenti barbarici
giurammo che dovevamo uccidere la vita, e la morte,
avendo già visto uno spazio di lacrime e fuoco.
Nessuno uscì vivo dal campo
ma il tuono scosse le case piene di bambini,
e la miseria indossò abiti da donna,
e nessuno si fermò, mentre tutto ciò che era vivo
era morto.
Avvolgemmo la morte in una enorme bandiera e
la calammo in quella fossa comune che era diventata
la città: il cibo quotidiano dei suoi abitanti
furono le briciole aride della memoria.
Non disegneremo linee diritte ma chiederemo
alla primavera di tenere un diario di guerra,
chiederemo all’autunno di prendere posto fra i traditori.
Illumineremo le finestre con cera che brucia,
ma non chiedete ai pipistrelli di indicare la strada alle
volpi del deserto.
Preparate i camion che ci porteranno
al mattatoio.
Lì, si terrà un banchetto con bollitori
pieni di agnello cotto in limone e sangue.
Un banchetto preparato per i generali vittoriosi,
quello appena descritto.
Il sole si velò.
In un'orgia di furia, sleale ed efficiente
una tempesta si portò via i letti.
Le armi per uccidere sono più fredde dell’aria
che le circonda. Feriscono ma non fanno paura.
A Jenin è stato creato il male da un nuovo ordine.
Il male ha subito una mutazione che è
l’opposto di quella che ci aspettavamo.
Abbiamo dunque diritto ad odiare – ma non
ci affrettiamo a stupide conclusioni. Non siamo di questo mondo.
Le foreste stanno crescendo più fitte, gli animali notturni
stanno generando mostri.
Il male ha bussato alla porta, nella stessa
notte in cui la pioggia ha smesso di cadere.
I boulevard stanno perdendo attrattiva.
I cavalli corrono ad annegarsi,
senza alcuna ragione.
Viviamo nel perimetro tempestato di stelle
dell’incubo che esaspera la bellezza di questa primavera,
una primavera abitata da alberi in fiore,
montagne umide coronate da nubi translucide,
e la brezza che si mantiene sveglia quando i nostri
occhi smarriscono la strada da ovest a est attraverso
le colline rosa.
Ecco il dolore della gente che è circondata
da carri armati e incarcerata dallo sguardo
di assassini che hanno attraversato confini che sono
null’altro che le prime linee delle loro
molteplici prigioni:
tutto ciò solo per aggravare la bellezza di un mondo
posseduto da un’altra follia, estranea alla nostra
condizione.
C’è un tragico incontro fra la morte
di alcuni e la vita moltiplicata di altri:
altri essendo le gelide e felici onde
di un oceano che muggisce il suo piacere di essere nato
un’eternità prima della nostra misera coscienza.
La differenza fra ciò che imputridisce
e ciò che non smette di rinnovarsi
ci fissa.
Viviamo negli abissi.
Altrove la nebbia inghiotte le zone industriali.
Emanazioni di ciminiere che costellano
l’orizzonte riempiono le bocche di lavoratori necessari ma
dichiarati indesiderabili.
I gas bruciano le loro memorie.
Hanno dimenticato che prima di imbarcarsi sul battello
avevano un nome e un indirizzo.
Come buonuscita avranno malattie incurabili.
Lassù, sulla mia unica montagna, gli uccelli emettono
canzoni in codice, volano a coppie,
colpiscono l’aria con le ali e con gioia.
Nelle nostre teste sigillate i pensieri rappresentano
un vomito di gas velenoso –
e ricompensano se stessi.
La funzione primordiale della sopravvivenza
sta fornendo scuse per la morte;
è per questo che la Natura con noi ci ha rinunciato.
Rimane inaccessibile.
Quello che noi ne diciamo
non è che un pallido riflesso della sua realtà.
Ci siamo resi estranei
al nostro destino
sebbene la nostra infanzia
mostrasse un’esuberante lucidità.
Cosa è accaduto al passato?
Gli assassini non si fermano alla carne.
Cercano l’invisibile,
la nostra precedente beatitudine.
Nel frattempo, l’universo invecchia.
Miliardi di anni sono passati
e le stelle si battono per la loro vita:
brillare non le preserva dalla
definitiva scomparsa.
So che la materia non ha occhi,
che non ha smesso di respirare.
Sotto le tombe c’è la terra fresca.
Abbiamo visto tappeti tessuti con tinte vegetali:
uno aveva il colore ocra del volto
di uno degli uomini assassinati
a Jenin.
Non vi preoccupate, non dovrete guardare
né il tappeto, né quel cadavere.
Durante questo tempo, mentre i soldati nemici
lavoravano nel buio, l’universo invecchiava.
Con noi.
Come noi.
Nel nostro crollo finale trascineremo Dio stesso
verso la Sua fine.
Per ora, qualcuno governa, qualcuno scompare...
Nel campo c’era un campo,
i gradi dell’inferno entrano uno nell’altro.
Siamo seduti in questa stazione di comfort,
contemplazione e rinuncia.
L’ustione bianca si muove sui corpi,
ciascuno prigioniero del suo dolore.
Il dolore è murato nelle ossa, le ossa
nel corpo, e il corpo in case
murate a loro volta.
Sopra le porte ridotte in macerie
una volta c’erano iscrizioni,
o un semplice disegno.
Il sangue e l'inchiostro dei calamai si sono mischiati,
per questo le nuove scritte sono sporche di fango.
Sulle membra sparpagliate, abiti e
mobili sono diventati una dura coperta.
La notte si è chiesta se fosse morale nascondere
tale mostruosità, poi ha deciso:
resterà sospesa in alto nel cielo,
come ultimo bene dei diseredati.
Il silenzio è disceso e in assenza
di una scala è caduto giù con tutto il suo peso,
come piombo.
Alcuni di quelli che avevano cominciato la loro mortale agonia
riconobbero quel silenzio.
Chiamarono in aiuto le madri
ma le donne dormivano nella stanza accanto,
le loro teste mozzate riposavano sui cuscini.
Il fazzoletto di Sohrawardi si era macchiato...
Settimane dopo la carneficina un giovane
cercava di imparare, da un libro, come
diventare costruttore di cimiteri.
Ma non riuscì a trovare un pezzo di terreno
per la sepoltura dei morti.
Allora abbandonò i suoi studi
e si unì ad un’organizzazione clandestina.
Nessuno sa dove sia, né se è ancora
tra noi.
C’è qualcosa di più degradato della morte,
di più assente, è ciò che è stato cancellato
col cassino di un bambino dalla lavagna della Storia.
La Storia, l’ultima illusione.
Nel freddo delle nostre case senza riscaldamento
ci tenevamo caldi con
la memoria dei nostri antenati, pensando ai
i nostri bisnonni come a semidei.
Sì. Certo.
Nient’altro.
Ma arrivarono loro– i bastardi, a sradicare,
con le bombe,
a dirci molto semplicemente che noi non esistevamo.
Cominciarono con gli ulivi,
poi con i frutteti,
poi, con gli edifici,
e quando tutto fu scomparso,
gettarono, uno sopra l’altro,
i bambini, i vecchi e gli sposi,
in una fossa comune,
tutto ciò per dire al mondo dei mezzo-morti
che noi non esistevamo,
che non siamo mai esistiti,
e che perciò avevano ragione...
a sterminarci tutti.

giovedì 23 febbraio 2012

da "Elena" di Yiannis Ritsos


Ah, sì, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie
senza senso,
sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose
che erano state già decise da altri in nostra assenza. E
gli uomini, innocenti,
a infilarsi le forcine negli occhi a sbattere la testa
contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non
cede
né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da
una fessura
un po' di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal
tempo. Eppure - chissà -
là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che
inizia
la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza
dell'uomo
tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli,
tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po'
d'alloro
e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello
d'oro.

mercoledì 22 febbraio 2012

"Penelope" di Yiannis Ritsos


Non era possibile che non lo riconoscesse alla luce del focolare; non c’erano
i panni logori del mendicante, il travestimento, no; segni certi:
la cicatrice sul ginocchio, la forza, la furbizia nell’occhio. Terrorizzata,
appoggiando la schiena al muro, cercava una giustificazione,
ancora un intervallo di tempo di breve durata, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
venti anni di attesa e di sogni, per quest’infelice,
per questo vecchio grondante sangue? Si lasciò cadere su una sedia
guardò lentamente i pretendenti morti sul pavimento, come se guardasse
i suoi propri desideri morti. E: "Bentornato", gli disse,
sentendo estranea, lontana la sua voce. Sulle ginocchia il telaio suo
riempiva il soffitto di ombre a forma di grata; e quanti uccelli aveva tessuto
con cuciture rosse lucenti su fogliame verde, all’improvviso,
quella notte del ritorno, finirono in nera cenere
volando basso nel cielo piatto dell’estrema sofferenza.

martedì 21 febbraio 2012

Considerazioni libere (271) a proposito di quello che si potrebbe fare per salvare la Grecia...

Non c'è una sola Grecia. C'è la Grecia antica, i cui confini non coincidono con quelli della penisola ellenica, ma arrivano ad abbracciare praticamente tutte le terre che si affacciano sul Mediterraneo – questo davvero meriterebbe di essere chiamato "mare egeo" – la Grecia ideale che abbiamo imparato a conoscere attraverso i libri oppure attraverso le opere d'arte e le reliquie archeologiche sparse nei musei di tutto il mondo – la Grecia è stata anche depredata di tante sue ricchezze, non dobbiamo mai dimenticarlo – la Grecia che ha creato il modo occidentale di vedere l'uomo, la natura, l'universo, e che ci ha dato le categorie di pensiero che continuiamo a usare ogni giorno nelle nostre filosofie, la Grecia che ha ispirato i poeti, anche molti secoli dopo che si sono spente le fiamme del rogo che distrusse la biblioteca di Alessandria; è la Grecia che io amo immensamente e a cui ho dedicato tante pagine di questo blog, la Grecia di Omero e di Borges, la Grecia di Sofocle e di Dürrenmatt, la Grecia di Odisseo e di Protagora. Poi c'è la Grecia della memoria antifascista, la Grecia che ebbe il coraggio di liberarsi, con le proprie forze, dagli eserciti di occupazione dell'Italia di Mussolini e della Germania di Hitler e poi la Grecia che seppe liberarsi una seconda volta, alla metà degli anni Settanta, da una durissima dittatura militare fascista, la Grecia della Resistenza e dei poeti e degli intellettuali esuli; anche di questa Grecia ho raccolto in questo blog molte testimonianze, dalle musiche di Mikis Theodorakis ai versi di Titos Patrikios e Georgos Seferis. Infine c'è la Grecia di oggi, la Grecia delle donne e degli uomini che soffrono le conseguenze di una crisi terribile e che sono le vittime di un esperimento politico ed economico destinato a distruggere per sempre quel paese, così come, prima della Grecia, gli uomini del Fondo monetario e della Banca mondiale hanno distrutto Haiti e tanti paesi africani, con il pretesto di fare il bene di quei popoli. C'è anche una Grecia che lotta, ancora una volta, per difendere la propria libertà e la propria dignità; e non è un caso che alcuni dei protagonisti delle lotte di ieri siano ancora lì a testimoniare, con la propria voce o anche solo con la propria presenza in piazza, la voglia di lottare di quel popolo.
Guardando i servizi dei telegiornali e leggendo gli articoli dei giornali – non molti a dire il vero, perché ormai sono quasi tutti omologati al pensiero unico del liberismo trionfante – cercando comunque di capire quello che sta succedendo, non riesco a distinguere le diverse immagini di quel paese che mi è così caro, pur se non ci sono mai andato. Mi angoscia pensare che, dopo questo primo esperimento in Europa, condotto sulla pelle dei greci, toccherà al Portogallo di Pessoa e di Saramago, per poi passare a una cavia più grande: la Spagna o l'Italia. Varrà forse la pena chiedersi come mai i paesi più deboli dell'Europa – almeno di quella che una volta avremmo chiamato Europa occidentale – sono anche quelli in cui sono durate più a lungo e sono finite più tardi – in alcuni casi solo pochi decenni fa – le dittature fasciste; penso che una relazione ci sia, mentre altri preferiscono indugiare, in maniera francamente razzista, su una presunta inferiorità civile e politica dei paesi mediterranei, dei paesi del sud.
Provate a leggere gli articoli che alcuni giornali – non inquadrati, o alcuni direbbero troppo inquadrati – dedicano a questo sfortunato paese: ne esce un quadro desolante. Le aziende stanno progressivamente chiudendo, i negozi non aprono e, se aprono, rimangono vuoti, cresce il numero dei disoccupati, cresce il numero di persone che fa la fila davanti agli uffici di collocamento e alle mense per i poveri, è diminuito perfino l’introito delle lotterie, che pure in paesi in crisi, ma non ancora alla bancarotta – come ad esempio l’Italia – continua a crescere. I fondamentali dell’economia, come si chiamavano una volta – prima che l’unico parametro di riferimento diventasse lo spread – sono tutti negativi. La disoccupazione ha raggiunto il 20,9%, 3 milioni di persone – quasi un terzo del paese – sono a rischio di indigenza, il pil in un anno è sceso di oltre il 7%. Soprattutto non c’è alcuna prospettiva per il futuro; e questo è il dato più terribile, al di là di ogni dato statistico.
La Grecia è un paese ormai fallito, per colpa delle sue classi dirigenti e per colpa delle istituzioni finanziarie internazionali, che hanno imposto alla Grecia una cura sbagliata, che finora non è stata efficace e che si rivelerà a breve esiziale. Nessuno è esente da colpe, soprattutto tra i greci, se la situazione è arrivata al punto in cui è arrivata. Mentre pochissimi si arricchivano enormemente a spese della collettività, tanti godevano di alcune piccole prebende, i benefici che i patroni sanno sempre elargire ai loro clientes; e così quasi tutti hanno goduto di piccoli o grandi privilegi e hanno preferito tacere, mentre il paese andava inesorabilmente alla deriva. Ora i grandi ricchi si sono messi in salvo, hanno già "esportato" i loro capitali nelle confortevoli banche svizzere e sperano che il paese fallisca definitivamente, magari reintroducendo una dracma svalutata, per poter tornare e acquistare in svendita l'intero paese; si illudono anch'essi, perché saranno preceduti da chi ha più risorse e più influenza: i cinesi hanno già acquistato il Pireo. Per i poveri, finiti i loro piccoli privilegi, è venuta l'ora di rendere i conti, anche per le colpe degli altri.
Come hanno denunciato in pochi in questi anni, la corruzione è un male diffuso in maniera endemica in quel paese, non solo nel ceto politico, ma in tutti i settori della società. Per tante persone la possibilità di ottenere un impiego pubblico, in cambio dell'appoggio a questo o quel partito, a questo o quel sindacato, a questo o quel capobastone, ha rappresentato il punto di arrivo e, una volta ottenuto, la possibilità di passare dalla parte del vessato a quella, più remunerativa, del vessatore. Troppo spesso nella pubblica amministrazione chi non è corrotto è troppo stupido o perfino troppo indolente per farlo. Come è ormai noto il governo di centrodestra di Kostas Karamanlís, mentre i governi di centrodestra dell'Europa chiudevano benignamente gli occhi, ha truccato i conti per dimostrare di poter entrare nell'eurozona: anche questo, purtroppo, è la Grecia. Sono tante le cose che hanno contribuito a far sì che la situazione degenerasse in questo modo. Le Olimpiadi del 2004 sono costate oltre un decimo del pil e non hanno portato alcun reale beneficio al paese, se non per i costruttori delle grandi opere. La Grecia è uno dei paesi europei che ha la più alta spesa per armamenti: il governo greco spende ogni anno per l'acquisto di armi quasi il 3% del pil e i maggiori venditori di armi e tecnologie belliche sono proprio la Germania e la Francia, ossia i paesi che ora impongono la "cura da cavallo" che probabilmente ucciderà la Grecia. E che pretendono di inviare i propri "commissari" a vigilare sul governo di Atene.
Sappiamo ormai qual è la ricetta impartita al "malato" greco: liberalizzare le tariffe, i mercati e il lavoro, privatizzare i servizi pubblici, bloccare le assunzioni, diminuire i finanziamenti per scuole, ospedali, università, servizi sociali; una cura che impone di riportare il debito del paese, ormai chiaramente in recessione, al 60% del pil, in regime di parità di bilancio. Un obiettivo impossibile. Chiedere a un paese privo di esportazione, come la Grecia, feroci tagli di spesa e non proporzionali aumenti d'imposta, con lo scopo di infondere "fiducia" al sistema per riavviare finalmente la crescita, è una mossa da analfabeti economici e da fanatici ideologizzati. Sono le stesse ricette che le stesse persone hanno imposto ad Haiti e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Il vero salvataggio della Grecia e, in prospettiva, degli altri paesi "deboli" dell’Europa non può avvenire seguendo le regole imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali. Una prima soluzione, per tamponare l'emergenza, potrebbe passare attraverso un accordo che dimezzi in modo selettivo i debiti pubblici che non possono essere ripagati o che li sterilizzi, ad esempio allungando di molto le scadenze. Questo accordo trasferirebbe l'insolvenza dagli stati, ossia dai cittadini, alle banche, in modo da separare il credito commerciale dagli investimenti speculativi. Quanti più saranno gli stati a rischio che si impegnano su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla. Ma non a caso l'Europa, per non correre rischi, ha imposto alla Grecia un primo ministro che viene dalle fila della Bce e che quindi garantisce l'ortodossa applicazione delle regole decise tra Francoforte, New York e Bruxelles. E – en passant – ha fatto lo stessa cosa in Italia. Almeno gli spagnoli se lo sono eletti il loro Monti, anche se il risultato alla fine non cambierà.
Ma la vera soluzione del problema greco – e di quello portoghese, spagnolo, italiano – è ripensare in maniera radicale al modo in cui funziona la nostra società, a come intendiamo lo sviluppo, nella convinzione che continuare su questa strada ci porterà fatalmente a sbattere. In un tempo di crisi così radicale come quello che stiamo vivendo, dobbiamo fare i conti, sia a livello nazionale che a quello locale, con i modi in cui otteniamo e gestiamo le risorse primarie, energetiche e alimentari. L'unica risorsa a cui possiamo accedere nel giro di pochissimo tempo sono risparmio ed efficienza energetica; su questo dovremmo cominciare a lavorare seriamente, anche perché le soluzioni già ci sono, manca troppo spesso la volontà di attuarle. Probabilmente dovremo sperimentare – adattandoci – forme di utilizzo delle risorse che adesso ci appaiono dettate dalla povertà e dal bisogno, ma che potrebbero rivelarsi utili per il futuro, oltre che più consone allo sviluppo naturale della nostra specie. Negli articoli che descrivevano le festività natalizie ad Atene tutti i commentatori notavano che nella città mancavano le luminarie e gli addobbi luminosi delle vetrine: probabilmente ci sono luci di cui si può fare a meno, perché la luce servirà per vedere e non per farsi vedere. Allo stesso modo la mancanza di carburante potrebbe spingerci a usare di meno le auto private e di più i mezzi pubblici. Un futuro e per ora impossibile nuovo governo greco – nuovo davvero – potrebbe decidere di convertire in tempi rapidi le fabbriche affinché producano impianti per le fonti rinnovabili e di cogenerazione, mezzi di trasporto collettivi e a basso consumo. In fondo durante la guerra i governi di tutti i paesi europei erano riusciti a convertire gran parte delle loro industrie per sostenere lo sforzo bellico; bisognerebbe fare lo stesso in tempo di pace. Il governo potrebbe promuovere nuovi interventi edilizi per eliminare la dispersione energetica e definire delle politiche per una più efficace e compatibile gestione degli orari. Un discorso analogo si potrebbe fare per quel che riguarda l'approvvigionamento alimentare: il futuribile governo greco potrebbe sostenere una conversione dell'agricoltura che sia meno dipendente dal petrolio, favorendo anche un'alimentazione meno dipendente da derrate importate. Uno sforzo del genere, fortemente innovativo, potrebbe coinvolgere tante famiglie e potrebbe cambiare l'aspetto del paese, che soffre da troppo tempo di incuria e di abbandono; ricorderete certamente gli incendi che ciclicamente distruggono quel paese, così come le piogge stanno piegando tanti territori italiani. Il sempre più futuribile governo greco potrebbe avere un programma che preveda interventi sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul ciclo di vita dei materiali e sulla diminuzione dei rifiuti, con interventi che riducano gli sprechi e producano occupazione di qualità. Magari si potrebbero anche fare dei debiti – che non sono il male in sé, ma sono pericolosi solo quando si sa di non poterli onorare – per finanziare scuola, università, servizi sanitari efficienti. Forse questa è un'altra soluzione possibile, anche se ora nessuno ha il coraggio di proporre un programma elettorale con proposte del genere; comunque, nonostante la sua carica utopistica, è un programma meno irrealistico e folle dell'idea di affidare alla liberalizzazione dei servizi e dei rapporti di lavoro, in una parola al mercato nella sua sfrenatezza, la ripresa di una crescita che sottragga la Grecia al cappio del debito e della crisi.

lunedì 20 febbraio 2012

"Se ne andarono gli occhi" di Odisseas Elitis

Se ne andarono gli occhi ma precedevano le nostre anime
Al loro incontro nei cieli
Brillò attimo puro
Ansioso tremolìo
Specchio fedele delle nostre viscere

Più in alto
Nella solitaria unità delle sue stelle
Regna la Quiete

Perché la liberammo dal nostro corpo
Perché la svuotammo delle nostre speranze
Perché le portammo in voto la nostra Idea

Rigenera sentimenti

domenica 19 febbraio 2012

"La nostra terra è chiusa" di Georgos Seferis


La nostra terra è chiusa, tutta monti 
che hanno per tetto il basso cielo giorno e notte. 
Non abbiamo fiumi, non abbiamo pozzi non abbiamo sorgenti, 
solo poche cisterne, e queste vuote, che risuonano e che veneriamo. 
Suono stagnante e sordo, uguale alla nostra solitudine 
uguale al nostro amore, uguale ai nostri corpi. 
Ci stupiamo di aver potuto una volta costruire 
case capanne e ovili. 
E le nozze nostre, le fresche ghirlande e le dita 
diventano enigmi inspiegabili alla nostra anima. 
Come sono nati come si son fatti forti i nostri figli? 
La nostra terra è chiusa. La chiudono 
due cupe Simplegadi. Nei porti 
la domenica quando scendiamo a respirare 
vediamo rischiarati al tramonto 
rottami di viaggi mai portati a termine 
corpi che non sanno più come amare.

sabato 18 febbraio 2012

da "I ventitre giorni della città di Alba" di Beppe Fenoglio

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell'anno 1944.
Ai primi d'ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline (non dormivano da settimane, tutte le notti quelli scendevano a far bordello con le armi, erano esauriti gli stessi borghesi che pure non lasciavano più il letto), il presidio fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l'incolumità dell'esodo. I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò.
I repubblicani passarono il fiume Tanaro con armi e bagagli, guardando indietro se i partigiani subentranti non li seguivano un po' troppo dappresso, e qualcuno senza parere faceva corsettine avanti ai camerati, per modo che, se da dietro si sparava un colpo a tradimento, non fosse subito la sua schiena ad incassarlo. Quando poi furono sull'altra sponda e su questa di loro non rimase che polvere ricadente, allora si fermarono e voltarono tutti, e in direzione della libera città di Alba urlarono: - Venduti, bastardi e traditori, ritorneremo e v'impiccheremo tutti! - Poi dalla città furono visti correre a cerchio verso un sol punto: era la truppa che si accalcava a consolare i suoi ufficiali che piangevano e mugolavano che si sentivano morire dalla vergogna. E quando gli parve che fossero consolati abbastanza tornarono a rivolgersi alla città e a gridare: - Venduti, bastardi...! - eccetera, ma stavolta un po' più sostanziosamente, perché non erano tutti improperi quelli che mandavano, c'erano anche mortaiate che riuscirono a dare in seguito un bel profitto ai conciatetti della città.
I partigiani si cacciarono in porte e portoni, i borghesi ruzzolarono in cantina, un paio di squadre corse agli argini da dove apri un fuoco di mitraglia che ammazzò una vacca al pascolo sull'altra riva e fece aria ai repubblicani che però marciaron via di miglior passo.
Allora qualcuno s'attaccò alla fune del campanone della cattedrale, altri alle corde delle campane dell'altre otto chiese di Alba e sembrò che sulla città piovesse scheggioni di bronzo. La gente, ferma o che camminasse, teneva la testa rientrata nelle spalle e aveva la faccia degli ubriachi o quella di chi s'aspetta il solletico in qualche parte. Così la gente, pressata contro i muri di via Maestra, vide passare i partigiani delle Langhe. Non che non n'avesse visti mai, al tempo che in Alba era di guarnigione il II Reggimento Cacciatori degli Appennini e che questi tornavano dall'aver rastrellato una porzione di Langa, ce n'era sempre da vedere uno o due con le mani legate col fildiferro e il muso macellato, ma erano solo uno o due, mentre ora c'erano tutti (come credere che ce ne fossero altri ancora?) e nella loro miglior forma.
Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n'era per cento carnevali. Fece un'impressione senza pari quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria cogli alamari neri e le bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio. Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: - Ahi, povera Italia! - perché queste ragazze avevano delle facce e un'andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l'occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s'erano scaraventate in città.

venerdì 17 febbraio 2012

"Mi piace ciò che vedo dal mio balcone" di Sotirios Pastakas


Mi piace ciò che vedo dal mio balcone.
La biancheria le antenne paraboliche.
Vedere dietro gli
specchi più o meno là
sullo sfondo l’Acropoli
bella come un tempo.
Vi inviterò
A spartire con me quello che
io vedo, siàtene certi,
vi chiamerò.
Perché io solo a guardare
tanta bellezza
da quassù?
Vi chiamerò.

La vita dall’alto della Croce
è stupenda.

giovedì 16 febbraio 2012

"La porta dei leoni" di Titos Patrikios


I leoni erano scomparsi da tempo
non se ne trovava uno in tutta la Grecia
o forse uno soltanto, braccato
si era nascosto da qualche parte nel Peloponneso,
non minacciava piú nessuno
finché Eracle uccise anche quello.
Tuttavia il ricordo dei leoni
non smise mai di incutere timore:
spaventava la loro immagine
sugli scudi e gli stemmi,
spaventava il loro emblema
sui monumenti delle battaglie,
spaventava il loro bassorilievo
sull’architrave di pietra della porta.
Spaventa sempre il nostro grave passato,
spaventa il racconto degli eventi
nella scritta incisa sull’architrave
della porta che attraversiamo tutti i giorni.

mercoledì 15 febbraio 2012

"Elogio della ghigliottina" di Piero Gobetti

articolo da "La Rivoluzione Liberale", novembre 1922

Il fascismo vuole guarire gli Italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l’appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell’anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun migliore panegirista della pratica. L’attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure.
La nostra polemica contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il nostro antifascismo prima che un’ideologia, è un istinto.
Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo letterario dei cristiani, delusione di ottimisti. La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C’è un valore incrollabile al mondo: l’intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti.
Temiamo che pochi siano così coraggiosamente radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa incontrare nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso un insolente realismo obbiettivo.
Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una paura dell’imprevisto che seguiteremo ad indicare come provinciale per non ricorrere a più allarmanti definizioni. Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo nipote di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l’ora dei conti. Il fascismo in Italia è un’indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione. Confessiamo di avere sperato che la lotta tra fascisti e social-comunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio del 1922 "La Rivoluzione Liberale" con fiducia verso la lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, tuttavia sorgeva. In Italia c’era della gente che si faceva ammazzare per un’idea, per un interesse, per una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace. È difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica quotidiana che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell’unanimità, ci si attesta l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie. Certe ore di ebbrezza valgono per confessioni e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l’impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano. Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte. Ma è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile. Si può credere all’utilità dei tutori e giustificare Giolitti e Nitti, ma i padroni servono soltanto per farci ripensare a La Congiura dei Pazzi ossia ci riportano a costumi politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi. È doloroso dover pensare con nostalgia all’illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri fino in fondo, c’è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. C’è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro. Mussolini può essere un eccellente Ignazio di Loyola; dove c’è un De Maistre che sappia dare una dottrina, un’intransigenza alla sua spada?

"Il mio testamento" di Michalis Katsaròs


Resistete a colui che costruisce una piccola casa e dice: "qui sto bene"
resistete a colui che rientra a casa e dice: "dio sia lodato"
resistete al tappeto persiano dei condomini
all'ometto dietro la scrivania
alla società d'import-export
all'istruzione di stato
alle tasse
a me stesso che vi parlo
resistete a colui che per ore intere dal podio saluta le sfilate
resistete al presidente del tribunale
alle musiche, ai tamburi, alle parate
a tutti i congressi supremi dove chiacchierano bevendo caffè i congressisti consiglieri
a questa signora sterile che distribuisce santini, incenso e mirra
a me stesso che vi parlo
resistete ancora a tutti coloro che si dicono grandi
a tutti coloro che scrivono discorsi di circostanza accanto alla stufa invernale
alle adulazioni, agli auguri
ai tanti inchini che scribacchini e vili rivolgono al loro saggio superiore
resistete agli uffici per stranieri e ai passaporti
alle orribili bandiere degli stati e alla diplomazia
alle fabbriche di materiali bellici
a coloro che chiamano lirismo le belle parole
alle canzoni di guerra
alle languide canzoni strappalacrime
agli spettatori del vento
a tutti gli indifferenti
a coloro che si dicono vostri amici
e anche a me, a me che vi parlo
resistete.
Allora potremo forse con sicurezza avanzare verso la libertà.

martedì 14 febbraio 2012

"Gli amici" di Titos Patrikios


Non il ricordo degli amici uccisi
a straziarmi le viscere.
E’ il pianto per le migliaia di sconosciuti
che lasciarono gli occhi spenti
nei becchi degli uccelli,
che stringono nelle mani gelate
una manciata di bossoli e di spini.
I passanti sconosciuti
con cui non parlammo mai
con cui solo per poco ci guardammo
quando ci fecero accendere la sigaretta
nella strada serale.
Le migliaia di amici sconosciuti
che diedero la vita
per me.

lunedì 13 febbraio 2012

"Alla maniera di G.S." di Giorgos Seferis


Dovunque viaggio la Grecia m'accora.
Al Pelio fra i castagni la camicia di Nesso
sgusciava tra le foglie per fare viluppo al mio corpo,
mentre salivo l'erta e mi seguiva il mare
salendo anch'esso come mercurio di termometro
fin che trovammo l'acqua alla montagna.
A Santorino, come sfioravo isole naufraghe
e udivo chissà dove tra le pomici un flauto,
inchiodò la mia mano al discollato
una freccia vibrata d'un tratto
dal limitare d'una giovinezza
spenta. A Micene sollevai i macigni e i tesori degli Atridi
e mi giacqui con essi all'albergo «Belle Hélène»;
dileguarono all'alba, quando garrì Cassandra
con un gallo sospeso al collo nero.
A Spezze a Poro a Mìcono
tutto lo strazio delle barcarole.

Intanto la Grecia viaggia, viaggia sempre
e se «fiorir vediamo il mare Egeo di morti»,
sono quelli che vollero prendere la grande nave a nuoto,
quelli stanchi d'attendere le navi che non salpano,
l'ELSA, l'AMBRACICO, la SAMOTRACE.
Fischiano adesso le navi che fa sera al Pireo,
fischiano fischiano sempre, ma non si muove argano
e non brilla catena madida nell'estrema luce che muore,
e il capitano resta pietrificato, tutto bianco e oro.

Dovunque viaggio la Grecia m'accora:
cortine di montagne, arcipelaghi, nudo granito.
La nave che viaggia si chiama AGONIA 937.

Considerazioni libere (270): a proposito di morti di cui non si parla...

Capisco - non approvo né giustifico, mi limito a cogliere le ragioni - che le cosiddette cancellerie occidentali, ossia i nostri distratti e disastrati governi, tacciano su quello che sta succedendo in Siria. La Siria non è la Libia, che, nonostante i suoi importanti giacimenti petroliferi, rimane alla periferia del mondo, almeno di questo mondo con le sue complicate strategie geopolitiche. Poi c'è un mondo fatto di donne e di uomini, un mondo fatto di poveri e di deboli, ma questo difficilmente è oggetto di studio e di analisi. Il mondo - questo e quello, senza differenza - non può permettersi una guerra in quel paese, che finirebbe per coinvolgere - volenti o nolenti - le tre potenze regionali tra cui si trova sempre più stretta quell'antica nazione: Israele, Iran e Turchia. Nel 2007, tra il silenzio dell'opinione pubblica e la colpevole distrazione dei governi occidentali e delle Nazioni Unite, Israele distrusse un impianto nucleare in territorio siriano, costruito probabilmente grazie all'aiuto iraniano; pensate cosa potrebbe succedere oggi, dal momento che anche il governo degli ayatollah dispone di armi nucleari. Questa "nuova" guerra finirebbe naturalmente per coinvolgere gli Stati Uniti e, questa volta, anche Russia e Cina. La Russia "zarista" di Putin non può permettersi di perdere l'unico alleato nella regione e uno dei suoi maggiori clienti nel commercio delle armi. Russia e Cina poi non possono accettare che succeda in Siria quello che è successo in Libia, quando la loro posizione attendista e sostanzialmente pro-Gheddafi è stata di fatto aggirata dall'intervento franco-inglese, coperto politicamente da Obama. Infine le due più grandi e influenti dittature del mondo non possono certo vedere di buon occhio questi popoli che reclamano libertà e diritti: l'esempio delle varie "primavere" rischia di essere pericoloso anche per l'impenetrabile ed immutabile regime cinese. I nostri piccoli governi europei non hanno certo tempo e voglia per occuparsi della Siria, visto che la crisi economica incombe, mentre Atene letteralmente brucia. La guerra in Siria non ci sarà e francamente credo che sia un bene, viste le condizioni e i rischi sempre incombenti in quella tormentata regione. Questo naturalmente non risolve il problema del popolo siriano.
Quello che non capisco - e che non approvo - è il "nostro" silenzio sulla Siria.  I giornali e i media parlano molto poco della Siria, gli intellettuali non ne parlano affatto - Bernard-Henri Lévy ha ingigantito per umana vanità il proprio ruolo come ispiratore della guerra contro Gheddafi, ma certo la sua voce è stata importante e soprattutto non isolata - non ne parlano i politici progressisti - i socialisti francesi e tedeschi perché contano di tornare tra poco tempo al governo dei loro paesi, gli italiani perché non esistono - noi, ossia l'opinione pubblica genericamente intesa, non parliamo della Siria. Eppure in Siria si muore, tutti i giorni.
In quel paese si compiono da quasi un anno delitti contro l'umanità. A essere precisi la dittatura della famiglia Asad è cominciata nel 1970 e già nel 1982 Asad padre ha ordinato il massacro di Hama: un terzo della città fu rasa al suolo e furono uccise circa 40mila persone, considerate oppositori del regime. Diciamo pure che questa è storia, qualcosa di cui è meglio non occuparsi. Partiamo da quando i giovani tunisini hanno costretto alle dimissioni Ben Ali. Asad figlio - a cui i governi occidentali davano credito perché si era laureato in oftalmologia a Londra e aveva sposato una sua connazionale bella e "occidentale" - disse che il "contagio" non sarebbe mai arrivato fino in Siria. E mentre cadevano uno dopo l'altro Mubarak, Gheddafi, Saleh, alcuni ragazzi di Deraa hanno cominciato a scrivere slogan sui muri, poi i loro genitori hanno protestato contro gli arresti dei loro ragazzi, poi le autorità tribali hanno cominciato ad alzare la voce contro gli arresti degli uomini che avevano protestato e così il "contagio" è arrivato fino all'esercito, nelle cui fila ci sono state diserzioni tali da portare alla costituzione del "Libero esercito siriano". Ci sono stati arresti arbitrari, torture, esecuzioni sommarie. In questi giorni in Siria c'è una guerra civile: Homs - l'antica Emesa, patria di Eliogabalo - viene bombardata da giorni dall'esercito regolare. Ci sono combattimenti ad Aleppo, città patrimonio dell'umanità. La Siria, bisogna ricordarlo, è un luogo ricco di storia, Damasco è il più antico insediamento umano che continua a essere abitato. In questi undici mesi ci sono stati migliaia di morti, prevalentemente civili, decine di migliaia di profughi, edifici distrutti: ci sono ragioni per indignarsi, per scendere in piazza, per firmare appelli. Anche con il rischio di essere velleitari. E invece nulla.
Temo che tanti "bravi democratici" progressisti stiano zitti perché hanno visto che in Tunisia, come in Egitto, quando le persone sono andate a votare hanno premiato partiti e movimenti conservatori e moderati di impronta islamica. Questi bravi democratici sono convinti che i tunisini e gli egiziani si siano "sbagliati" e quindi che nessuno di quei popoli - compresi i siriani quindi - meriti la democrazia. Si tratta di un errore molto grave che denota stupidità e razzismo. In democrazia vale sempre la regola che i cittadini non si "sbagliano"; possono essere ingannati, ma questa è un'altra storia. Non possiamo avere la presunzione di dire  che una democrazia non è tale solo perché non ci è piaciuto l'esito delle elezioni. E poi si può essere conservatori e democratici, i due termini - e lo dico da uomo di sinistra - non sono necessariamente in contrasto. Alcune settimane fa ad esempio abbiamo dato l'ultimo saluto a Oscar Luigi Scalfaro, che è stato indubbiamente un difensore strenuo delle regole democratiche, ma con altrettanto rigore un conservatore in campo politico e morale. In Egitto come in Tunisia ci sono state delle elezioni, ci sono dei nuovi partiti e c'è un parlamento. Nonostante le delusioni della sinistra laica, sarà difficile tornare indietro, perché il fattore scatenante la rivolta, ossia una nuova generazione con un radicato spirito di contestazione, connessa alla rete, è ancora presente; i movimenti islamici agiscono in uno spazio democratico che non hanno crea­to, ma hanno ormai accettato.
Chi ha un po' di memoria ricorderà le grandi manifestazioni tra l'autunno del '90 e i primi giorni del '91 contro l'invasione statunitense dell'Iraq. Fu un momento importante per tanti di noi, inutile sul piano pratico perché quella mobilitazione non fermò il conflitto, ma politicamente significativa: l'opinione pubblica fece sentire la propria voce, fece capire che era in disaccordo con la decisione dei governi che vollero e sostennero quella campagna militare. Chi criticava quel movimento, oltre a molta retorica filoamericana, aveva ragione su un punto fondamentale: non eravamo stati altrettanto determinati e numerosi nel criticare il regime di Saddam. Era un argomento che non eravamo in grado di contrastare efficacemente. E' un errore che non possiamo permetterci con la Siria: non dobbiamo in alcun modo essere complici di Asad, e anche il nostro silenzio rischia di rafforzare la convinzione di quel dittatore che la fine del suo regime significherebbe la caduta nel caos dell'intera regione. Qualunque cosa succeda - e ci auguriamo per le siriane e i siriani che avvenga il prima possibile - noi dobbiamo poter dire che abbiamo fatto il possibile, per quanto possa essere poco, per far allontanare Asad dal suo paese. Chi crede nella pace - e pace vuol dire anche impedire che un altro popolo sia schiacciato dal proprio tiranno - deve chiedere che si trovi una soluzione politica che permetta l'esilio di Asad, ossia quello che non si è voluto fare né con Saddam né con Gheddafi. Asad meriterebbe di essere punito per quello che ha fatto e per quello che ha permesso di fare, ma si possono anche accettare compromessi, quando ne va di mezzo la salvezza di un popolo. La politica è anche questo. L'importante è non rinunciare, non cedere al silenzio.

domenica 5 febbraio 2012

"Penziere mieje" di Eduardo De Filippo


Penziere mieje, levàteve sti panne,
stracciàtev' 'a cammisa, e ascite annuro.
Si nun tenite n'abito sicuro,
tanta vestite che n'avit' 'a fa?
Menàteve spugliate mmiez' 'a via,
e si facite folla, cammenate.
Si sentite strillà, nun ve fermate:
nu penziero spugliato 'a folla fa.
Currite ncopp' 'a cimma 'e na muntagna,
e quanno 'e piede se sò cunzumate:
un'ànema e curaggio, e ve menate...
nzerrano ll'uocchie, primm' 'e ve menà!
Ca ve trovano annuro? Nun fa niente.
Ce sta sempe nu tizio canusciuto,
ca nun 'o ddice... ca rimmane muto...
e ca ve veste, primm' 'e v'atterrà.

sabato 4 febbraio 2012

Considerazioni libere (269): a proposito di licenziamenti e di una "giusta causa"...

Mario Monti è un politico che porta avanti - legittimamente - le proprie idee politiche. Il fatto che sia al governo senza essersi sottoposto al giudizio degli elettori, anche di quelli che potenzialmente avrebbero potuto votare per lui, è un'anomalia della storia italiana di cui ho già parlato e che francamente - al punto in cui siamo arrivati - finisce per essere irrilevante. Monti ormai è lì, ci starà per un bel pezzo e con lui - e con la sua politica - dovremo fare i conti. Per farlo diventare presidente del consiglio è stato usato l'elegante escamotage di presentarlo come un "tecnico": passiamo pure sopra anche a questo. Fortunatamente Monti ha il buon gusto e l'intelligenza di non continuare a prenderci in giro e da un po' di tempo fa quello che deve fare, anche perché i tre maggiori partiti italiani, che hanno una nettissima maggioranza parlamentare, ammettono, ormai abbastanza esplicitamente, di far parte di questa stessa maggioranza. Condivido in pieno una frase scritta qualche giorno fa da Adriano Sofri: "un governo liberale è un dono del cielo - del colle, dell'accerchiamento europeo e mondiale, dell'altura che volete - anche perché ridà a una sinistra riformatrice un interlocutore avversario di cui essere all'altezza"; io avrei usato l'espressione "un governo di destra", ma il senso non cambia. C'è poi - e su questo Sofri sorvola - un'altra anomalia: in Italia non esiste un partito che rappresenti la "sinistra riformatrice", dal momento che il Pd ha fatto, anch'esso legittimamente, un'altra scelta. Noi che, nel nostro piccolo - come le ben note formiche - e purtroppo senza alcuna struttura e senza alcun collegamento, proviamo a dire "qualcosa di sinistra" adesso possiamo finalmente ricominciare a discutere di cose concrete, chiamando le cose con il loro nome.
La tenacia con cui il governo Monti vuole cancellare dalla legislazione italiana l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori è figlia di una precisa visione ideologica. Nulla di più: non ci sono ragioni di politica economica per sostenere la necessità di abrogare quella norma. Non esiste un motivo "tecnico" - nonostante i tentativi teorici dei vari Ichino e compagnia cantante - per cancellare questa norma.
La rigidità del mercato del lavoro del nostro paese è molto sopravvalutata, è una di quelle bugie che, a forza di esser dette, finiscono per essere considerate vere. L'Ocse - ossia la più autorevole organizzazione internazionale di studi economici, nata come strumento per aiutare gli stati europei a usufruire delle risorse del Piano Marshall - ha definito un indice per misurare proprio la rigidità dei regimi di protezione dell'impiego, quindi uno strumento per misurare la facilità o la difficoltà delle imprese a licenziare i lavoratori. L'Ocse - e, ripeto, non la Terza Internazionale - ha calcolato questo indice per quarantasei paesi. L'ultimo rapporto, quello riferito al 2008, mette in evidenza per l'Italia una relativa facilità di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato nelle imprese con più di quindici dipendenti, proprio quei lavoratori a cui si applica il famigerato art. 18; l'indice Ocse posiziona l'Italia al decimo posto, al livello della tanto decantata Danimarca, che dovrebbe essere il modello a cui tendere. Chi sostiene la necessità di abolire l'art. 18 spiega che una minore rigidità nelle norme che definiscono i licenziamenti favorirà la crescita dell'occupazione. Non è vero. Questa correlazione non è dimostrata empiricamente da nessun risultato statistico, per nessun paese. In Italia il progressivo calo dell'occupazione - che ha ormai una tendenza strutturale - non è stato né fermato né rallentato dalle riforme del 1997 e del 2003, varate rispettivamente da un governo di centrosinistra e da uno di centrodestra. L'introduzione di una proliferazione di nuovi contratti, la crescita di sempre maggiori forme di precarietà non ha significato un aumento dell'occupazione. Tutt'altro. I dati che l'Istat ha presentato in questi giorni sono lì e rappresentano una realtà drammatica, soprattutto per i giovani, per le donne e per il Mezzogiorno: per una giovane donna campana o siciliana, per quanto brava, trovare un lavoro è un'impresa al limite dell'impossibile.
Sulle conseguenze dell'introduzione di leggi per favorire la diffusione dei contratti cosiddetti atipici c'è un documento - redatto da quei comunisti del Fondo Monetario Internazionale - in cui si dice esplicitamente che nei paesi in cui sono state introdotte riforme tese a introdurre una maggiore flessibilità, specialmente con l'estensione dei lavori a tempo determinato - per non parlare di altre fantasie della legislazione italiana - c'è stato un aumento della disoccupazione. Nel documento si spiega che questo aumento della disoccupazione è certo e provato nei periodi di crisi, come quello che stiamo vivendo; a chi sostiene che comunque, superata la crisi, queste riforme genereranno nuovi posti di lavoro, il documento risponde in questo modo: "In principio, il mercato del lavoro duale dovrebbe portare benefici durante la ripresa, poiché le imprese dovrebbero essere più pronte a reimpiegare i lavoratori con contratti temporanei, piuttosto che permanenti. Se ciò si verificherà è ancora da vedere". Ci permettiamo anche noi di dubitare, come i compagni del Fondo. C'è infine un'ultima considerazione, che naturalmente per Monti non riveste grande interesse, visto che lui è ricco di suo e ha un ottimo stipendio, ma che a noi di sinistra dovrebbe far suonare qualche campanello d'allarme. C'è una relazione precisa tra minore rigidità dei regimi di protezione dell'impiego e diminuzione dei salari, ossia nei paesi dove è più facile licenziare i salari tendono a essere più bassi. Questo è facilmente verificabile anche tra i giovani italiani, la generazione nata intorno al 1980, quella che Gianluca Briguglia definisce dei "precari nativi", ossia la "prima generazione di persone che non si pone il problema della pretesa di un posto fisso": i loro salari medi sono inferiori a quelli dei loro genitori.
Se allora l'abolizione dell'art. 18 non garantisce affatto la crescita dell'occupazione, non sarà che Monti - e chi per lui - pensa che questa riforma sia utile proprio per ridurre i salari dei lavoratori? Il sospetto viene perché pare strano che Monti e i suoi amici si incaponiscano in una lotta per puro spirito ideologico, per il solo gusto di togliere una norma che ritengono sbagliata. A qualcosa - e a qualcuno - deve servire togliere l'art. 18. Ai lavoratori no.
Mi rendo conto che al punto in cui siamo già la difesa dell'art. 18 pare un compito troppo duro per le nostre deboli forze, eppure la nostra scelta dovrebbe essere quella di rilanciare, bisognerebbe fare una battaglia culturale, prima ancora che politica, per chiedere l'estensione dell'art. 18 anche alle aziende con meno di quindici dipendenti. Non dico sia semplice, ma ne varrebbe la pena e forse potrebbe aggregare una maggioranza più ampia di quella che ci possiamo aspettare: sarebbe davvero una "giusta causa".

mercoledì 1 febbraio 2012

da "Invenzione di Don Chiosciotte" di Edoardo Sanguineti

Don Chisciotte anticipa e calcola, prende e abbandona - nessuno sa chi e quando, e nessuno sa come: pensa che presto morirà, che occorre camminare in fretta - e guarda i suoi paesaggi: Don Chisciotte parla, state in silenzio ad ascoltare, voi che siete una buona brigata, e tu Dulcinea - che sai capire e soffrire: Don Chisciotte si espone e si dichiara e si spiega e si dimostra - questo è Don Chisciotte: io apro il tempo che viene, come una porta o una finestra: o come una qualunque cosa chiusa: - Don Chisciotte canta le sue canzoni di fronte a tutti i luoghi della terra: ho poco da dire, nulla anzi, nulla da dire: - io affretto il passo, per ritrovarlo: le pulite ragazze sulla spiaggia che leggono racconti di altre terre non sono più con noi: noi non siamo più con loro: e tu con me: la stagione dei gassometri e delle ciminiere è evaporata nel vento: la pioggia ci ha colti in corsa, il bavero era proprio rialzato: e ridi incomprensibile: sei l'amico indifferente, senza peso: sai soffiare sulle tue mani, inventare il tuo vento ti lascerò personaggio, anche se Dulcinea non vorrebbe, homme plein de sens - a fingere da solo le storie poliziesche a inseguire le fanciulle verdi: avrai la tua solitudine: - il gatto si rifugia sull'albero: ha raggiunto i rami più sottili - la turba dei meschini ha le scale e le scope: il chiarore è un cerchio, segue una zona oscura, il terzo settore è di luce: la pioggia arriva a tratti diseguali, le formiche ti insidiano, ti assediano, Dulcinea, non puoi fuggire: sul ponte gli uomini oziosi contemplano ombre, biciclette nere controluce, mentre cercano le donne: le caserme si illuminano, i soldati si gettano sul prato, Dulcinea sta sugli alberi - viaggia sull'elefante candido di marmo, ma per una repentina conclusione è scagliata a terra: la ragione è nei ponti, che sono pieni di significati: - il ragazzo bruciava le formiche concentrando la luce nella lente: - le assorbiva crepitanti nello zolfo wir haben, wo wir lieben, je nur dies: sinander lassen: dove l'orizzonte è più basso, ormai appena visibile, per Dulcinea si solleva, e per lei soltanto, il profilo di sogno del viaggiatore sensibile: inchini augurali per la luna che ritorna, per la cenere che sui giardini si consuma: per il tuo profilo che resiste nel silenzio: ma se le trombe si inerpicano nel cielo e il buttasella insistente mi evoca, io sono l'uomo che deve partire: il torneo riprende - la risata si fa acuta: i frati non gettano più le caramelle e ritrovano la loro testa pesante, e io sono l'uomo che sale sulle nuvole e nei paesaggi colloca figure: se la tua si sciupa e tu precipiti, la tua partenza è soprattutto la mia: la distanza è immobile: nessuna misura può risolversi in una tua felicità - le bandiere continuano a torcersi altissime: e confondono i colori: