lunedì 31 dicembre 2018

Cose fatte nel 2018...

Visto che siamo alla fine dell'anno, mi pare doveroso fare un breve bilancio di questo 2018.
Mi ero dato alcuni obiettivi e sono contento di averli rispettati quasi tutti.


venerdì 28 dicembre 2018

Verba volant (607): carbone...

Carbone, sost. m. 

Il 21 dicembre 2018 è stata chiusa l'ultima miniera di carbone della Ruhr: adesso possiamo davvero scrivere che è finito il Novecento. Almeno qui in Europa. Perché, al di là delle ideologie e della propaganda, al di là delle scelte e delle alleanze politiche, il controllo di quel patrimonio minerario e della ricchezza che rappresentava è stato uno degli elementi che ha scatenato i conflitti mondiali che hanno segnato così drammaticamente il secolo che è appena finito. E si tratta di un ciclo storico che risale a molti secoli addietro, perché la storia dell'Europa è in sostanza la storia dei conflitti tra le potenze europee - e segnatamente la Francia e la Germania - per il controllo della valle del Reno, che è poi diventato il conflitto per il controllo del carbone e delle industrie della Ruhr.
E adesso quel carbone non c'è più e quindi viene a mancare la causa scatenante di ogni possibile conflitto futuro. O meglio, il carbone nella Ruhr c'è ancora, ma è troppo in profondità e quindi estrarlo è diventato se non impossibile - viviamo nel tempo in cui vogliamo che nulla sia impossibile - quantomeno diseconomico.
Peraltro la fine del carbone della Ruhr - un fenomeno che era ormai evidente da anni - è il motivo per cui noi siamo la prima generazione di europei che non abbiamo combattuto una guerra all'interno dei confini del continente in cui siamo nati. Spero che nessuno di voi creda alle favolette sulla buona volontà dei padri fondatori delle istituzioni comunitarie. Non c'è stata una nuova guerra in Europa non perché sono stati firmati i Trattati di Roma - che, come ogni trattato, poteva diventare carta straccia - ma perché non c'erano più le ragioni economiche per sostenere un tale conflitto. Perché in sostanza chi decide davvero le guerre sapeva già che il carbone della Ruhr stava per finire.
La chiusura dell'ultima miniera di carbone della Ruhr può essere usata come la data per sancire la fine del Novecento, proprio perché questo è il secolo delle guerre per il controllo del carbone, visto che è anche il secolo in cui l'energia è diventata l'elemento indispensabile per garantire e sostenere il progresso tecnico e scientifico. Il Novecento è il secolo delle scoperte, della velocità, del futuro, e il carbone è stato quello che ha dato l'energia a tutto questo, peraltro un'energia molto sporca, di cui ora paghiamo le conseguenze. Il secolo che è cominciato con le avanguardie artistiche che celebravano il movimento e con i cannoni dispiegati lungo il fronte della Somme, ossia con attività che avevano "fame" di carbone, era fatale che finisse una volta terminato questo combustibile.
Infine il carbone è così importante per la storia del Novecento perché in quelle miniere si trovava uno dei fronti più avanzati e combattuti della guerra di classe. Quando Eugène Pottier - l'autore dell'Internationale - deve dire chi sono i nemici dei lavoratori nella lutte finale, cita non a caso les rois de la mine et du rail. La chiusura dell'ultima miniera della Ruhr significa che allora è finita la guerra di classe? Ovviamente no, e questo è il motivo per cui io continuo ostinatamente a considerarmi un residuato bellico di quel secolo. Perché se i "re delle miniere" hanno deciso che estrarre il carbone nella Ruhr non è più conveniente è perché spendono molto meno - e quindi loro guadagnano molto di più - a farlo estrarre in altri parti del mondo, dove i lavoratori possono essere sfruttati senza che si lamentino, dove la terra e l'acqua possono essere inquinate senza che nessuno protesti. E anche noi, figli e nipoti dei minatori della Ruhr, che siamo diventati impiegati e lavoriamo in uffici con l'aria condizionata, seduti dietro lo schermo di un personal computer, sfruttiamo quei nostri fratelli che non vediamo, perché abbiamo bisogno di sempre più energia e vogliamo spendere sempre meno. Il Novecento è proprio finito, perché è finita anche la guerra di classe: hanno vinto les rois de la mine.

mercoledì 26 dicembre 2018

Verba volant (606): fabbro...

Fabbro, sost. m.

Quando i maschi decisero che il momento della fecondazione era più importante di quello del parto, e quindi che era finalmente arrivato il tempo di prendere il potere, togliendolo alle donne, avevano bisogno di nuovi dei: volevano smettere di venerare la Grande madre. Ed ecco allora questi due nuovi dei, figli di Era, i fratelli Ares ed Efesto, il dio soldato e il dio fabbro. Secondo una leggenda, arrivata a noi grazie a Esiodo, soltanto Ares era figlio anche di Zeus, perché il dio fabbro era stato concepito dalla sola Era: il mondo vecchio evidentemente faticava a essere sconfitto. E il dio fabbro era più antico del dio soldato, perché il fabbro era una creatura a suo modo magica. Quando ancora c'era la dea lunare, questa proteggeva, nella sua natura misteriosamente trina, i medici, i fabbri e i poeti, ossia quei "maghi" che sapevano fare le cose, che sapevano creare dal nulla.
Omero - le cui storie risalgono a tempi molto antichi, ai tempi della luna - non ama molto i due fratelli che dice siano entrambi figli di Zeus ed Era. Nel racconto omerico Ares è solo capace di combattere e non conosce la themis, la giustizia e la pietà; e soprattutto combatte sempre dalla parte di chi è destinato a vincere. Ares è certamente un dio molto moderno. Efesto era brutto, zoppo e aveva un pessimo carattere.
Sempre Omero racconta che Ares ed Efesto hanno non solo la stessa madre, ma "condividono" anche la stessa donna. Afrodite era la sposa del dio fabbro, ma gli preferiva di gran lunga il dio soldato. O forse il dio fabbro e il dio soldato non sono davvero due figure distinte, ma sono la stessa persona, perché il soldato per combattere ha bisogno di armi e solo il fabbro gliele può fabbricare. E il dio fabbro per continuare a lavorare ha bisogno che il dio soldato continui a combattere. Il dio fabbro vuole la guerra, ha bisogno della guerra per continuare a vendere spade e lance, scudi e armature. Il dio fabbro lo conosciamo bene e continuiamo ad adorarlo.
Le fucine di Efesto si trovano sotto l'Etna e quando la produzione di armi è a pieno regime le fiamme e il fumo arrivano fino alla cima del monte e i colpi risuono così forte da far tremare le terra. Gli uomini che vivono quella terra sanno bene che è sempre attiva l'officina di Efesto, in cui lavorano i ciclopi e misteriose donne, create dallo stesso dio, automi dotati di parola e capaci di creare qualsiasi cosa ordini il loro padrone. Quando il dio dei maschi prende il potere comanda su questo esercito di donne-robot, prive di volontà, la cui unica funzione è quella di produrre senza mai fermarsi. C'è qualcosa di terribile - e di profetico - in questo racconto omerico. Il dio fabbro non è più il "mago", la cui attività è affine a quella del poeta e del medico, ma un creatore di morte e di distruzione.
In questi giorni in cui nelle fucine di Efesto sotto l'Etna l'attività ferve con una tale intensità da spaventare gli uomini che vivono alle pendici di quella montagna, dobbiamo pensare che sarebbe ora di spodestare dall'Olimpo i due fratelli che, dopo aver sconfitto tutti gli altri dei, hanno ormai in pugno le nostre vite.

venerdì 21 dicembre 2018

Verba volant (605): ritorno...

Ritorno, sost. m.

Credo che prima o poi dovremmo interrogarci sulle conseguenze del fatto che la letteratura occidentale è fondata sulla storia di uno che, dopo aver combattuto lontano dalla sua patria per ben dieci anni, ne impiega altri dieci per tornare a casa - un viaggio che avrebbe potuto fare in alcune settimane - e quando torna pretende che tutto torni come prima. Peraltro in questi vent'anni - e specialmente nei dieci impiegati per tornare - ha sistematicamente tradito la propria sposa, esigendo che lei invece gli rimanesse fedele.
Naturalmente nei secoli successivi gli autori si sono sforzati di trovare una qualche giustificazione per Odisseo: voleva scoprire il mondo, conoscere nuovi popoli, era insaziabilmente curioso. Balle. A Odisseo non interessa affatto conoscere nuovi mondi, al massimo vuole poter raccontare di essere andato in moltissimi posti e in ognuno di questi di aver fatto sesso. Odisseo è solo un fanfarone che vuole avere molte storie da raccontare agli amici del bar.
E' un'altra la storia che dovremmo raccontare: quella di Penelope. La storia che non è mai stata raccontata.
Subito dopo che Odisseo è partito per quella guerra lontana, Penelope si è resa conto che adesso toccava a lei governare Itaca. Laerte era un vecchio sclerotico, un altro che passava il tempo a raccontare di quando era andato in guerra in Colchide insieme a Giasone. Telemaco era appena un bambino. Penelope non voleva fare la fine di sua cugina Elena, sempre in balia del marito di turno. O di sua madre che se ne stava chiusa in casa a tessere e disfare sempre la stessa tela, per realizzare il corredo perfetto per la figlia. Voleva essere lei a decidere della sua vita e aveva anche l'ambizione di cambiare in meglio quella che era diventata la sua isola.
Odisseo non aveva investito un soldo per migliorare la rete idrica di Itaca, mentre Penelope fece scavare pozzi e canali, in modo da rendere l'isola più fertile e meno faticoso il lavoro nei campi. Fece ampliare il porto e favorì chi voleva avviare nuovi commerci. Istituì delle scuole pubbliche e obbligò le famiglie a far studiare i bambini - e le bambine - perché voleva che tutti, proprio tutti, sapessero leggere e scrivere.
Per finanziare tutto questo aumentò le tasse ai cittadini più ricchi. Il governo di Penelope cominciò a dare parecchio fastidio ai notabili di Itaca e anche delle città vicine, che decisero che era giunto il momento di far smettere quella donna testarda e pericolosa. Misero fuori la voce che ormai Odisseo era morto, che non sarebbe più tornato; e comunque, anche se fosse scampato alla guerra, lo conoscevano abbastanza bene da sapere che si sarebbe fermato in ogni postribolo da Troia a Itaca. Dissero che Penelope avrebbe dovuto risposarsi, perché Itaca doveva tornare a essere governata da un re. Penelope resistette: disse che sentiva che Odisseo sarebbe finalmente tornato, che non poteva tradirlo e intanto chiese aiuto ai rappresentanti della camera di commercio affinché la sostenessero. E naturalmente loro non volevano tornasse un re aristocratico, visto che Itaca, grazie a Penelope, stava prosperando come non mai. Anche i contadini e gli artigiani si schierarono con Penelope: fu organizzata una grande manifestazione davanti al palazzo a cui parteciparono moltissime donne. I proci capirono che non era il caso di insistere e si ritirarono prima che Penelope decidesse di aumentare ancora le tasse sui loro beni.
Adesso l'unico problema per Itaca - e per Penelope - era il ritorno di Odisseo. I messaggeri che avevano annunciato che Troia era caduta, raccontarono che Odisseo era stato visto in Sicilia, e poi lungo le coste del Tirreno, che si era invaghito di una tal Calipso e che ne stava in un'isoletta tra l'Italia e l'Africa.
La regina sapeva che prima o poi anche Calipso lo avrebbe gettato via di casa - come aveva fatto Circe - e che alla fine il marito avrebbe voluto tornare. Non lo poteva permettere: aveva lavorato troppo per le giovani donne di Itaca e non voleva che Odisseo rovinasse tutto. E poi Penelope non voleva lasciare la sua amata Calliope, ed essere costretta a giacere con Odisseo in quello scomodissimo letto intagliato nel tronco di un vecchio ulivo, che ormai era diventato un pollaio. Mandò in segreto un messaggio a Calipso: che se lo tenesse, la camera di commercio di Itaca era disposta a pagarla ogni anno per quell'impegno. Ma - come Penelope aveva previsto - la donna rifiutò.
Allora Penelope inventò una storia a cui sapeva che il marito non avrebbe resistito. Alcuni finti mercanti giunti a Ogigia gli raccontarono che oltre le colonne d'Eracle c'era un'isola dove le donne erano bellissime, e la loro regina era la donna più bella del mondo. Odisseo - come Penelope aveva immaginato - non resistette e seguì la sua semenza.
Non sappiamo cosa sia poi successo a Odisseo, probabilmente fece naufragio. Sappiamo invece che Penelope fondò a Itaca anche una biblioteca e che alla fine abolì la monarchia, perché voleva che le donne e gli uomini studiassero e amministrassero la loro città. Morì felice. Le rimase un unico cruccio: aveva saputo che stava girando per la Grecia un vecchio cieco che inventava delle storie su suo marito.

martedì 18 dicembre 2018

Verba volant (604): assorbente...

Assorbente, sost. m.

Faccio parte di una generazione che ci ha messo un po' di tempo a sapere cosa succede alle donne ogni trenta giorni. Quando ero piccolo, c'erano giornate in cui mia madre non stava bene, ma ovviamente non potevo ricavarne una regola generale e poi c'erano questi pacchetti di colore blu scuro che acquistava quando faceva la spesa e che erano una delle cose che in casa non doveva mancare mai. Sinceramente non ricordo quando ho saputo cosa stava davvero succedendo, ma credo tardi e comunque in maniera confusa. Ci ho messo un po' di tempo - troppo tempo - per saperne abbastanza.
Non so cosa succeda adesso, ma credo che, nonostante la pubblicità affronti il tema certamente in maniera più esplicita rispetto agli anni Settanta, i giovani maschi abbiano per un bel pezzo della loro adolescenza una vaga idea di quella cosa lì. Perché mi pare che anche i maschi adulti non ne abbiano un'idea così precisa. Non è il periodo - come credono in tanti - in cui le nostre mogli, sorelle, colleghe, amiche sono particolarmente nervose: fosse questo basterebbe una camomilla.
Mi pare che gli uomini non si rendano conto di quello che succede, pur riguardando anche una questione di soldi, un tema di cui i maschi, giovani e adulti, amano occuparsi. Grazie a qualche inchiesta che finalmente si può trovare in rete, possiamo vedere che l'Italia è praticamente l'unico paese europeo in cui gli assorbenti e tutti gli altri articoli che possono essere usati durante il ciclo mestruale sono tassati con l'aliquota Iva più alta prevista, ossia il 22%. La Spagna la sta per portare al 4%, il Regno Unito l'ha abbassata al 5% nel 2000 e la Francia al 5,5% nel 2015. In Belgio e in Olanda è al 6%, mentre in Irlanda è stata azzerata. So che l'Europa non va più di moda e neppure io sono un gran sostenitore delle istituzioni comunitarie, ma francamente fare i sovranisti sugli assorbenti mi pare piuttosto stupido.
E poi c'è una questione più generale che riguarda la povertà delle donne. Immagino ricorderete il bel film di Ken Loach Io, Daniel Blake. Sono proprio assorbenti ciò che Katie cerca di rubare dal supermercato, perché sono prodotti che non hanno alla food bank; e da questo furto comincia per lei la discesa che la porterà a prostituirsi. Nei paesi dell'Africa sub-sahariana almeno una ragazza su dieci non va a scuola quando ha il ciclo, perché le loro famiglie non hanno i soldi per comprare gli assorbenti o perché nelle loro scuole non ci sono gabinetti e acqua corrente. Nel mondo ci sono milioni di donne che hanno meno possibilità dei loro coetanei maschi solo perché hanno il ciclo mestruale e quindi non possono studiare e lavorare come loro. Mentre ovviamente potrebbero farlo, anzi potrebbero farlo meglio di loro.
Il tema non è soltanto l'aliquota su questi prodotti in Italia - e pure si tratta di una questione rilevante su cui occorre subito intervenire - o anche quello più drammatico della mancanza di questi prodotti per milioni di donne, ma più in generale sull'invisibilità delle donne. E un segno evidente del fatto che questa società non vede le donne è proprio il fatto che non spiega agli uomini cosa sia il ciclo mestruale. E quello che non si sa non è neppure possibile affrontarlo.
Sembra un paradosso, attorno a noi ci sono continuamente immagini di donne, ma si tratta per lo più di immagini dei loro corpi. E più appaiono i corpi delle donne più loro diventano invisibili. E irrilevanti i loro problemi. Oggi in Italia sarebbe più facile organizzare una mobilitazione per ridurre l'aliquota Iva sugli alimenti per gli animali che sugli assorbenti.
Sembra un paradosso, ma credo ne sapessero di più i nostri antenati nell'antica Grecia, anche se il ciclo mestruale era uno degli elementi del culto dei misteri, era qualcosa di cui non si poteva e non si doveva parlare. Nell'antica Grecia i misteri erano certamente segreti - e infatti noi ne possiamo solo intuire i temi dominanti - ma non erano invisibili. E con loro le donne. Duemilacinquecento anni dopo non vediamo le donne come Katie, non vediamo le ragazze che non vanno a scuola perché hanno il ciclo, non crediamo sia un problema se l'Iva per gli assorbenti è al 22%.

domenica 16 dicembre 2018

Verba volant (603): cometa...

Cometa, sost. f.

Ogni volta che da bambini, quando ci dicevano di disegnare il presepio, abbiamo fatto la lunga coda gialla della stella o abbiamo attaccato sulla capanna la cometa tagliata nel cartone e ricoperta di carta argentata, non sapevamo cosa nascondesse quel nostro gesto innocente.
E' Matteo che racconta della stella apparsa per annunciare la nascita di Gesù; e usa il termine greco ἀστὴρ - astèr - che indica proprio una stella, e non κομήτης - kométes.  Nei primi secoli della cristianità i padri della chiesa pensavano - sulla scorta di Platone - che le stelle potessero avere un'anima e quindi, come diceva Giovanni Crisostomo, che fossero angeli. E un angelo avrebbe potuto prendersi la briga di guidare i magi fino a Betlemme. Non tutti erano d'accordo con questa tesi, ad esempio Origene di Alessandria diceva che le stelle non erano angeli e che quindi quella di Betlemme era stata un fenomeno naturale, per quanto miracoloso. Non era una di quelle questioni per cui gli antichi erano disposti a scannarsi, ma ci volle un concilio, il secondo di Costantinopoli del 553, per risolvere la diatriba: in quella sede infatti si stabilì che le stelle erano cose e quindi non avevamo un'anima. Il problema di cosa fosse quella stella rimaneva - anzi diventava più difficile da risolvere - perché Matteo dice che la stella "precedeva" i magi e che a un certo punto "si fermò". C'era decisamente qualcosa di strano in quella stella.
Se oggi noi disegniamo una coda a quella stella è per colpa di un usuraio. Agli inizi del Trecento Enrico Scrovegni, erede di una ricchissima famiglia di Padova, decise che era il momento che la sua famiglia fosse ricordata non solo per il modo in cui erano diventati così ricchi. Acquistò da un nobile decaduto l'area dell'antica arena romana della città, ci fece costruire un bellissimo palazzo con annessa una cappella privata e la fece affrescare al pittore più famoso e quotato del suo tempo, il fiorentino Giotto, che fortunatamente per Scrovegni in quei mesi era già a Padova per eseguire dei lavori nella basilica del Santo. Bisogna dire che questa operazione di marketing familiare riuscì solo in parte a Enrico, visto che pochi anni dopo un altro fiorentino avrebbe messo suo padre Rinaldo all'Inferno, proprio tra gli usurai. 
Comunque sia Giotto si gettò nell'impresa e realizzò uno dei capolavori assoluti dell'arte europea. Il pittore fiorentino decise di raccontare tutta la vita di Gesù. A noi interessa un affresco del secondo registro della parete a sud, l'Adorazione dei magi. Ci sono tutti quelli che ci devono essere - e quelli che ci sono ancora nei nostri presepi - Maria, Giuseppe e il bambinello, i magi, i cammelli e i servi che li conducono, gli angeli - anzi di uno di loro non si vede il viso perché è coperto dalla trave che sorregge il tetto della capanna, un tocco di geniale realismo. La vera novità di questo affresco è la cometa, con la sua coda luminosa.
Giotto aveva "inventato" la cometa. Dipinge gli affreschi della Cappella degli Scrovegni tra il 1303 e il 1305 e nell'ottobre 1301 aveva certamente visto la cometa di Halley, visibile sulla terra circa ogni settantasei anni. E' per questa ragione che noi ancora oggi mettiamo la cometa sul nostro presepio: potere dell'arte.
Ogni passaggio di questa cometa ha di volta in volta terrorizzato e affascinato gli uomini. Nel 989 molti di quelli che la videro pensarono che annunciasse l'imminente fine del mondo. Nel 1456, visto che la sua coda sembrava una scimitarra, si pensò che annunciasse un nuovo attacco dei turchi che solo tre anni prima avevano conquistato Costantinopoli. Giovanni Pascoli nel 1910 scrisse una poesia dedicata al passaggio della cometa. Sono versi cupi, carichi di presagi funesti: sa per scoppiare la guerra, Pascoli lo sente, e sa che non è colpa della cometa.
Pensa probabilmente alle storie raccontate su questa cometa, Giacomo Leopardi quando scrive:
Ma le comete che cosa hanno di spaventevole per sé, più ch'altro corpo celeste, o che la via lattea? E volendole pigliare per segni e presagi, perché non di bene?
Perché siamo uomini, perché sappiamo bene quello che facciamo e quello che stiamo per fare. 

giovedì 13 dicembre 2018

Verba volant (602): pianto...

Pianto, sost. m.

Non prego; visto che non credo, mi sembra naturale non pregare. Rispetto chi prega; è una cosa che fatico a capire, ma sono tante le cose che non capisco. Non rispetto chi fa finta di pregare. Ovviamente è difficile per noi sapere se qualcun'altro crede veramente a quello che dice quando sta pregando; in qualche caso posso avere dei sospetti, ma - come si dice in questi casi - è la mia parola contro la sua. Certo quando uno va a pregare in una chiesa che non gli appartiene o davanti a un dio che non è il suo, qui mi pare che i sospetti si facciano un po' più fondati.
Ho visto in questi giorni un noto politico italiano, che professa in maniera molto veemente la propria fede religiosa cattolica, raccogliersi in preghiera davanti al Muro del pianto. Non è ovviamente il primo e immagino non sarà neppure l'ultimo: indossare una kippah e pregare in quel luogo sacro è una photo opportunity a cui un politico - e non solo italiano - difficilmente sfugge, indipendentemente che creda o meno o in che cosa creda. Perché gli ebrei votano - e in Italia votano molto a destra - perché molti ebrei sono ricchi e ai politici piace fare contenti i ricchi, perché così si fa vedere che si condanna l'Olocausto, senza tirare in ballo i tedeschi, perché, secondo un'efficace campagna mediatica di lungo periodo - in cui ovviamente gli intellettuali e i propagandisti ebrei hanno avuto una parte molto considerevole - questa è una cosa che si deve fare quando si va a Gerusalemme.
Quei mattoni squadrati davanti ai quali tanti pregano con sincerità e altrettanti - se non di più -ostentano una fede che non hanno, sono ciò che rimane del tempio di Gerusalemme, distrutto dalle truppe romane guidate dal generale Tito nel 70. A dire il vero non è che fosse proprio il muro del tempio, ma è una parte del muro di contenimento del colle su cui era costruito il tempio, che rimase in piedi perché attorno si erano accumulate le macerie e quindi non poteva essere raggiunto e perché a Tito parve giusto che rimanesse quel manufatto a ricordare la vittoria di Roma. A dire il vero quando Tito lo fece distruggere quel muro di contenimento era stato costruito da pochi anni e si trattava di fatto di un'opera dell'architettura romana, che i romani distrussero.
Quindi chi va a Gerusalemme davanti al Muro di pianto va a vedere prima di tutto il ricordo di un attacco militare. E penso che, indipendentemente da quello che ciascuno di noi crede, sia importante farlo: è un esercizio di memoria. Se andrò ad Hiroshima immagino che mi fermerò in silenzio - non prego, ma penso sia un luogo in cui chi lo fa lo debba fare - di fronte al Gembaku Dome, la costruzione rimasta in piedi, per quanto danneggiata, più vicina a dove è caduta la bomba, e che è diventata il Memoriale della pace. Naturalmente fermarsi in quel luogo, provare dolore per quello che è successo, pregare per chi crede, non deve farci dimenticare cosa fecero i giapponesi negli anni precedenti e durante tutto il secondo conflitto mondiale, che regime terribile è stato sconfitto anche grazie a quell'ordigno.
Ai presidenti degli Stati Uniti che hanno fatto la loro sfilata elettorale sotto il Muro del pianto mi piacerebbe ricordare che quella guerra antichissima, di cui ora osservano un rudere, fu scatenata da una superpotenza contro un piccolo paese, in mano a una casta di fondamentalisti religiosi, che era considerato un covo di terroristi. Tito aveva avuto il compito di "esportare" l'ordine di Roma fino a quella lontana e ribelle provincia dell'impero. Lo fece con una ferocia spietata, ma anche con risultati assai scarsi in prospettiva; infatti, nonostante, sia riuscito a distruggere il tempio, non ha certo debellato il fondamentalismo ebraico. Non credo che Trump o Obama o Bush o Clinton amino ricordare troppo questa storia, quando pagano il loro tributo alla potente comunità ebraica statunitense e al loro più fedele alleato in Medio oriente.
Io non amo le superpotenze che vogliono imporre il loro ordine al mondo, ma neppure i fondamentalisti religiosi e quindi fatico a riconoscere in quel muro un simbolo che mi è caro. Anche perché, in nome della storia che parte da quella distruzione e facendosi scudo dell'intoccabile Olocausto, il governo israeliano ha creato e sostiene un regime di apartheid, in cui esistono cittadini con pieni diritti e cittadini che ne hanno meno, sempre meno, a base etnica e religiosa, in cui ci sono cittadini che possono prendere la terra ad altri cittadini, sempre in nome di quella purezza etnica e di quella fede che ostentano davanti al Muro del pianto.
Ovviamente non pretendo che Salvini capisca queste cose, lui ha preso i suoi voti dall'Unione delle comunità ebraiche e tanto gli bastava. Ma voi quando dovete trovare un posto per piangere - o eventualmente per pregare - credo possiate trovarne qualcuno di meglio.

mercoledì 12 dicembre 2018

Verba volant (601): basta...

Basta, interiez.

Leggo che Gionata Boschetti è nato il 7 dicembre 1992: potrebbe essere mio figlio. Anzi è mio figlio, perché, al di là del dato strettamente biologico e anche un po' casuale di chi fornisce il fatale spermatozoo, tutti quelli della generazione venuta dopo la nostra sono nostri figli. Tutti noi abbiamo insegnato loro quello che volevamo e potevamo e quindi tutti noi siamo responsabili di quello che sono diventati e di quello che diventeranno quelli venuti dopo di noi. E Gionata Boschetti è diventato Sfera Ebbasta.
Adesso ci fa schifo quello che è diventato nostro figlio? Pare di sì a leggere quello che scriviamo su di lui. Questa storia mi ricorda un po' Il ritratto di Dorian Gray: arriva un momento in cui la differenza tra quello che Dorian è e quello che vede rappresentato nel quadro appare insopportabile, ma questa differenza è solo apparente, perché Dorian è davvero invecchiato, si è solo illuso di non farlo. E così noi quando guardiamo nostro figlio che su palco dice quello che dice, sentiamo una differenza che ci pare incolmabile, eppure quel ragazzo siamo noi.
Non siamo stati noi che per anni gli abbiamo insegnato che la cosa più importante è il denaro? Che abbiamo ostentato i nostri soldi, anche quando non ne avevamo, soprattutto quando non ne avevamo, e che abbiamo trasformato in eroi alcune persone solo perché sfacciatamente ricche? Non siamo noi che per anni abbiamo inseguito i marchi e le mode? Non siamo stati noi che per anni gli abbiamo spiegato che una donna vale solo per quello che appare e che le abbiamo considerate tutte "troie", perché pensavamo di poterle comprare e usare? Non siamo stati noi che per anni gli abbiamo mostrato che la prepotenza, l'egoismo, la falsità vincono sempre? Sì, siamo stati noi e adesso Sfera Ebbasta ce lo rigetta in faccia, ripetendo con poca fantasia e nessun talento quello che noi per anni abbiamo detto.
Ripensando al film Bohemian rhapsody, ho controllato quando è nato Farrokh Bulsara. Ecco, lui poteva essere mio padre: tra e me e lui c'è più o meno la stessa differenza d'età che c'è tra me e Gionata Boschetti. Io naturalmente non sono il figlio segreto di Freddy Mercury, sono il figlio noto di Luigi Billi: immagino che mio padre non abbia mai ascoltato Bohemiam rhapsody e, se lo avesse fatto, non gli sarebbe piaciuta. Però era uno che mi ha insegnato, tra le altre, questa cosa: se credi che quello che stai facendo sia la cosa giusta da fare, devi ostinatamente perseguire quel tuo obiettivo, anche se ti dicono che una canzone di sei minuti è una follia che non passerà mai in radio e con cui non venderai mai un disco.
Evidentemente io non ho capito molto di quello che mi hanno insegnato mio padre e i Queen, se mio figlio è quella roba lì. O forse a noi hanno insegnato soprattutto altre cose - e noi non abbiamo avuto la forza di opporci. Ci hanno insegnato la sopraffazione, la volgarità, la violenza, l'esaltazione dell'ignoranza, tutto quello che vediamo quando ci guardiamo intorno, se alziamo un po' la testa dagli schermi dei nostri smartphone e di cui fingiamo di scandalizzarci quando lo notiamo in rete. Ed è quello che vedono i nostri figli, che immagino capiscano esattamente quello che dice Sfera Ebbasta, mentre noi ormai lo consideriamo una serie di sillabe messe a caso.
Secondo la Crusca basta è un composto che viene da bene stare. Sinceramente non mi sembra di poter dire che stiamo bene. Gli etimologisti Diez e Littré dicono invece che in questa parola c'è una radice che indica colmo: probabilmente siamo davvero arrivati al limite. Ma non so quanto ne siamo consapevoli.

domenica 9 dicembre 2018

Verba volant (600): disgrazia...

Disgrazia, sost. f.

Il tema non è chiedersi perché agli adolescenti di oggi piaccia della musica di merda - in linea di massima ogni generazione pensa che la musica di quella venuta dopo faccia schifo - o interrogarsi sulla capacità genitoriale delle madri che accompagnano i propri figli in discoteca all'età in cui le nostre ci permettevano al massimo di guardare la televisione fino alle dieci e mezza. E non mi concentrerei neppure troppo sul ragazzo che ha fatto un gesto stupido, molto stupido, probabilmente per una bravata di cui non poteva certo immaginare le conseguenze: una delle poche cose che impariamo invecchiando è che la stupidità umana è un fattore ineliminabile dalle nostre vite. Almeno quanto la sfortuna.
Dovremmo invece riflettere seriamente sul fatto che una cosa del genere potrebbe succedere anche a noi - anche se non andremo mai a uno spettacolo di questo rapper volgare e ignorante - perché a ciascuno di noi può capitare di incontrare uno particolarmente stupido che non si rende conto della propria stupidità. Mi dispiace dirlo con questa brutalità - soprattutto perché si tratta di morti giovanissimi e ovviamente innocenti, pensando ai quali siamo naturalmente addolorati - ma le persone morte a Corinaldo in quella tragica notte sono state particolarmente sfortunate e contro questa casualità noi uomini non possiamo fare nulla.
Una cosa del genere può succedere a ciascuno di noi, perché noi - tutti noi - frequentiamo locali, pubblici e privati, che non sono a norma, che non possono neppure essere messi a norma. Lo facciamo sempre e spesso anche consapevolmente. Quando abbiamo voglia di andare a vedere uno spettacolo e riusciamo a infilarci negli ultimi posti - posti che magari sono stati aggiunti all'ultimo proprio per soddisfare le richieste del pubblico pagante - siamo contenti e non scriviamo vibranti post su Facebook contro l'avidità del gestore della sala. Quando andiamo in un bar molto affollato - e anzi ci siamo andati proprio perché ci vanno tutti - non pensiamo a dove sono le uscite di sicurezza e a dove scappare se qualcuno fa lo stupido. Ci lamentiamo, spesso anche rumorosamente, quando dobbiamo aspettare perché vengono fatti dei controlli di sicurezza. E potrei raccontarvi molti altri casi, perché - come noto - noi amiamo le regole solo quando vengono fatte applicare agli altri.
Se chi gestisse locali, ristoranti, spazi dedicati al divertimento, applicasse alla lettera la miriade di regole - tra l'altro spesso contraddittorie - che ci sono in questo paese probabilmente non aprirebbe nemmeno. Vale per questo, come per quasi tutto il resto in Italia. Da una parte c'è un corpus di regole farraginose e complicate, che tendenzialmente vengono riscritte in maniera sempre più vessatoria a seguito di una disgrazia. In Italia le leggi sul pubblico spettacolo, almeno dall'incendio del cinema Statuto in poi, sono sempre state varate in occasioni del genere e immagino che, sull'onda dei commenti dei social, neppure questa volta mancherà una nuova legge perché "non vogliamo che si ripeta una nuova Corinaldo". In mezzo c'è un sparuto drappello di controllori che non ha le risorse, le competenze e che al massimo si può far rilasciare una bella dichiarazione autografa del gestore che tutto è stato fatto a norma, in modo da non dover pagare per i mancati - e spesso materialmente impossibili - controlli. E dall'altro lato c'è il mondo vero, in cui in mezzo a quelli che lavorano bene, ci sono quelli che lavorano male, che ovviamente tendono sempre a crescere. Sinceramente non so se il gestore della Lanterna azzurra sia uno dei primi o dei secondi. Certo, se avesse rispettato la norma che gli impone poco più di quattrocento persone a sera, avrebbe ricevuto un mare di critiche da quelli che non avevano avuto la "fortuna" di vedere Coso-e-basta. O forse è stato solo troppo avido e ha riempito quella sala più del limite che lui conosce e che è comunque superiore a quello che gli "impone" la legge. Qualcuno forse indagherà e qualcun altro, forse, pagherà. In genere in Italia non avviene né l'una né l'altra cosa. In attesa della prossima disgrazia. Perché contro la stupidità non si può far nulla. E perché non facciamo mai nulla affinché non si ripeta una nuova disgrazia.

venerdì 7 dicembre 2018

Verba volant (599): spada...

Spada, sost. f.

Attila è una delle opere risorgimentali di Giuseppe Verdi, una di quelle per cui il Maestro di Busseto è stato celebrato come uno dei padri dell'Italia unita. E certamente in quest'opera - che debuttò a Venezia il 17 marzo 1846, nel pieno delle temperie politica e culturale che portò al Quarantotto - Verdi vuole raccontare la nascita di una "nuova" Italia, che non è più Roma e il suo impero ormai morente, rappresentati dal generale Ezio, che di fronte al re degli unni che sta per sottomettere l'intero paese, non sa fare altro che proporgli un patto politico - prenditi tutto il resto del mondo, ma lascia a noi l'Italia - che noi definiremmo proprio da "basso impero". E mentre l'imperatore fugge in fretta e furia da Roma invece che guidare la difesa del paese - è qualcosa che succederà anche in tutt'altra epoca - rimane solo il vecchio papa a difendere l'Urbe. La cosa più significativa è che questa "nuova" Italia nasce per opposizione a un condottiero venuto dal nord dell'Europa, in ultima istanza tedesco. Chissà come dovevano vibrare gli animi dei patrioti veneziani a sentire raccontare quella storia di "resistenza" al nemico invasore, tanto più che nell'opera si fa preciso riferimento alla nascita della loro città da parte dei profughi fuggiti dalla conquistata Aquileia.
I nostri animi non possono più vibrare così, visto che l'Italia è poi stata fatta, in qualche modo. Ed è stata fatta non prima degli italiani - come lamentava D'Azeglio - ma nonostante gli italiani.
Non so cosa abbia spinto la Scala a scegliere proprio questa opera per inaugurare la nuova stagione - probabilmente ragioni di carattere musicale e artistico di cui non sono competente e quindi non posso commentare - ma mi piace pensare che sia stata scelta Attila perché la vera protagonista è una donna, anzi la protagonista - ossia Odabella, figlia del signore di Aquileia - è l'unico personaggio veramente positivo di questo dramma. Attila è il conquistatore, il "nemico" sanguinario e crudele. Ezio è il rappresentante di un mondo in declino e condannato a essere travolto. Rimane la coppia dei "nuovi" italiani, Odabella e Foresto, ma tra i due non c'è confronto. Foresto è - nelle parole dello stesso Verdi - il "perfetto cornuto", colui che, pur professando a ogni piè sospinto il proprio amore per Odabella, non sa riconoscere che lei è più forte e coraggiosa di lui. Foresto è tanti di noi, che abbiamo paura del valore delle nostre compagne, non lo sappiamo accettare, lo sentiamo come un pericolo alla nostra supposta virilità. Invece è Attila che riconosce la forza e l'energia di Odabella, e si invaghisce di lei; probabilmente Attila è un don Giovanni che non riesce ad amare, ma di fronte alla giovane italiana vacilla e rischia di essere sincero.
Giuseppe Verdi quando deve raccontare la nascita della "nuova" Italia ci dice che sta avvenendo grazie a una donna. E una donna che ama il suo nemico. Perché Attila è soprattutto una storia d'amore.
Odabella entra in scena all'inizio del dramma. Di fronte ad Attila che ha conquistato Aquileia, facendone uccidere tutti gli uomini, tra cui il padre della giovane, vengono condotte queste coraggiose guerriere, che hanno combattuto con grande valore. Il re rimane ammirato in particolare dal coraggio di Odabella, che gli chiede, con un atto temerario, le sia resa la spada per poter continuare a combattere. Attila, con un gesto che vuol esser galante, le dona la propria spada e da questo momento Odabella diventa una sorta di "prigioniera" volontaria nel campo degli unni. C'è qualcosa di strano - e di apparentemente inverosimile - in questa combattente, in questa "nemica" che, armata, gode di una notevole libertà a corte e che può seguire Attila nel corso delle sue scorrerie per l'Italia, fino alle porte di Roma. La spada è il legame tra i due amanti che non si dichiarano. Teoricamente lei continua a stare vicino ad Attila per ucciderlo, ma il momento adatto pare non arrivare mai; anzi a un certo punto, gli salva la vita, impedendogli di bere la coppa di vino che Foresto aveva avvelenato. Giustifica questo gesto con la volontà di essere lei quella che deve vendicare il padre e la sua città. C'è qualcosa che però non torna nella storia. Alla fine del dramma sarà Odabella a uccidere Attila, ma il suo è ancora un atto d'amore: il re è perduto e accerchiato, per questo vuole essere lei a toglierli la vita.
Verdi e Piave - che sistemò il libretto di Solera, che non aveva convinto il Maestro - non ci dicono cosa succede dopo la morte di Attila, ma francamente è difficile immaginare Odabella che, nella sua casa in un'isola della laguna, fa la "brava" moglie di Foresto, magari cucendo merletti. Se avessero già inventato le Americhe, forse Odabella avrebbe potuto andare a combattere in quelle terre lontane, a continuare là la sua lotta, come Garibaldi, oppure sarebbe potuta diventare un pirata e magari trasformarsi in una leggenda, come l'Olandese volante.
Chissà come sarebbe stata la "nuova" Italia se Odabella fosse diventata, anche ufficialmente, la regina degli unni, grazie a quelle nozze di cui nell'opera si celebra solo la vigilia? E se l'Italia fosse nata grazie a questo matrimonio tra nemici, tra stranieri? Dovremmo fidarci di più di quello che fanno le donne.

mercoledì 5 dicembre 2018

Verba volant (598): ragazza...

Ragazza, sost. f.

Scriviamo sempre perché qualcuno ci legga. Se qualcuno vi dice che lo fa solo per sé, senza curarsi dei potenziali lettori, vi sta mentendo o, peggio, sta mentendo a se stesso. Certamente nell'antica Grecia non c'era questa ipocrisia romantica: chi scriveva voleva che gli altri conoscessero quello che aveva scritto. E soffriva quando questo non accadeva o quando non gli veniva riconosciuto il valore che pensava di meritare. E' quello che è successo a Euripide: ebbe scarso successo mentre era vivo. Magari era apprezzato negli ambienti letterari, ma il grande pubblico non lo amava e per questo ottenne pochi riconoscimenti. Per questa ragione se ne andò, ormai vecchio, da Atene, pur continuando ostinatamente a scrivere, sperando di ottenere finalmente la fama. Che arrivò con l'ultima opera, che neppure terminò e che fu allestita da un suo nipote. Come successe a Puccini con Turandot, anche per l'Ifigenia in Aulide ci fu qualcuno che si incaricò di completare l'opera, aggiungendo un finale, per renderla rappresentabile, ma in entrambi i casi possiamo benissimo fare a meno di quell'aggiunta posticcia.
Le navi che da tutta la Grecia si sono radunate nel porto tebano di Aulide per salpare verso Troia sono bloccate da giorni: non tira un alito di vento. L'indovino Calcante spiega che Artemide impedisce alla flotta di partire, irata con Agamennone: l'unico modo per placare la dea è il sacrificio della primogenita del re, Ifigenia.
Agamennone vorrebbe resistere, spera che prima o poi il vento ricomincerà a soffiare, ma le truppe rumoreggiano: loro vogliono partire, Ifigenia deve essere sacrificata. Così, su consiglio di Odisseo, Agamennone scrive alla moglie Clitennestra, dicendo che Achille non partirà se prima non si sono celebrate le sue nozze con Ifigenia. La regina non sta nella pelle: la propria figlia sta per sposare il più valoroso degli eroi greci, e così le due donne raggiungono il prima possibile il campo greco. Qui comincia una specie di commedia degli equivoci, perché Ifigenia non capisce il motivo della tristezza del padre alla vigilia delle nozze e Clitennestra non comprende l'esitazione del futuro genero, ma Achille non sta esitando, semplicemente non sa nulla del matrimonio. Caduto l'inganno delle nozze, è presto svelato il vero motivo per cui Ifigenia è stata convocata al campo dei greci.
E qui Euripide mette in scena tutta la meschineria dei "grandi" eroi, dei padri fondatori della civiltà ellenica. Agamennone esita di fronte alla rabbia della moglie e alle lacrime della figlia, ma alla fine accetta il sacrificio, perché è l'unico modo per garantire il proprio potere. Euripide ci fa capire che non è in gioco la spedizione: il sacrificio di Ifigenia non serve a far partire le navi, ma a farle partire sotto il comando di Agamennone. I capi greci vogliono partire, hanno già individuato un possibile sostituto, Palamede, che tra l'altro è più popolare presso le truppe dell'altezzoso signore di Micene. Il sacrificio di Ifigenia è inutile, basterebbe un passo indietro di Agamennone, la sua rinuncia a guidare la spedizione. Odisseo è il solito bugiardo, il cui unico obiettivo è ritagliarsi una fetta di potere il più grande possibile. Anche Achille non fa una gran figura in questa tragedia: quando capisce l'inganno, non si adira con Agamennone perché questi vuole uccidere la propria figlia, ma solo perché ha sfruttato il suo nome, perché gli ha fatto fare una brutta figura. E anche quando si erge a difensore della giovane, lo fa non per vera convinzione, ma per alimentare la propria leggenda, tanto sa che il destino di Ifigenia è segnato e che anche lui potrà finalmente andare a Troia a prendere quello che gli spetta.
Di fronte a tutte queste meschinità, a questi uomini schiavi della loro ambizione, della loro avidità, della loro vanità, del loro egoismo, Ifigenia fa un gesto di libertà: è lei che decide di sacrificarsi, risolvendo una situazione di stallo che tutti quei "grandi" uomini non riescono a sbloccare. I critici hanno spesso trovato inverosimile questa decisione così matura - e improvvisa - di Ifigenia, che era poco più di una bambina, un'adolescente, all'inizio entusiasta per le nozze e poi atterrita dalla morte. Ma, come ho detto, Euripide non concorre per il "premio della critica", vuole dire una cosa al suo pubblico e quel pubblico sappiamo che l'ha capita.
Come la possiamo capire ancora noi. Se solo volessimo. Ma naturalmente, al di là di qualche lacrima di circostanza, di qualche frase ipocrita, noi stiamo dalla parte di Agamennone, di Odisseo, di Achille, perché sono loro che fanno la storia - e che scrivono le storie - non certo da quella di Ifigenia. 
La tragedia scritta da Euripide si chiude con la giovane donna che lascia la scena per recarsi sull'altare dove sarà sacrificata, pronunciando questi versi:
Ahimè, o fulgida luce, o raggio di Zeus,
un'altra vita avrò, un'altra sorte.
O cara luce, addio!
Queste sono le ultime parole scritte da Euripide. Chi si è assunto l'onere di continuare l'Ifigenia in Aulide ha raccontato la versione più rassicurante del mito: nel momento in cui il pugnale sta per violare la ragazza, appare Artemide che mette sull'altare una cerva bianca e porta con sé Ifigenia, facendola diventare una sua sacerdotessa. Mentre l'araldo racconta a Clitennestra il miracolo a cui ha assistito, il vento comincia a soffiare: la spedizione può finalmente prendere il mare per andare a fare la guerra. Come vedete, un inutile lieto fine.
Euripide sa - e noi sappiamo - che Ifigenia è morta, uccisa da quegli uomini che dicono di amarla, ma che, quando devono fare una scelta, scelgono sempre se stessi. Perché non hanno capito niente. E a noi rimane l'immagine di quella giovane donna che cammina, sola e consapevole, verso la luce. Perché ha capito tutto.

sabato 1 dicembre 2018

Verba volant (597): infedeltà...

Infedeltà, sost. f.

Chissà cosa avevano in mente gli insegnanti di alcune scuole medie di Ascoli Piceno che hanno deciso di non portare i loro alunni alla rappresentazione aperta delle scuole di Così fan tutte di Mozart? Forse hanno controllato su Wikipedia e hanno incautamente letto che questa opera ha "ispirato" l'omonimo film di Tinto Brass, interpretato da una splendente Claudia Koll. Voglio rassicurare quegli insegnanti: il collegamento tra le due opere è assai labile. E comunque credo che i loro studenti abbiano già visto cose ben più osé rispetto a quel film del '92, per non parlare dell'opera di Mozart.
Certo l'opera, scritta da Lorenzo Da Ponte, non è per educande. Si parla di infedeltà e di tradimenti, con esplicita e disinvolta allegria.
Le protagoniste sono due giovani sorelle, Dorabella e Fiordiligi, fidanzate con due ufficiali, rispettivamente Ferrando e Guglielmo. L'azione comincia per la provocazione di don Alfonso, un vecchio filosofo - fanno sempre danni questi filosofi - amico dei due giovani, che spiega loro che
è la fede delle femmine come l'Araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa!
I giovani protestano: le loro fidanzate sono, e saranno sempre, fedeli. Don Alfonso, scettico, propone loro di verificarlo: fingeranno di doversi recare al fronte, lasciando quindi temporaneamente le loro giovani dame, e travestiti da ufficiali albanesi arriveranno in città e tenteranno di conquistare uno la fidanzata dell'altro. En passant, pare ci sia stato un tempo in cui farsi passare per albanesi in Italia fosse un titolo di merito. Don Alfonso trova un'alleata in Despina, la cameriera delle ragazze, che, cinica come lui sul tema dell'amore e della fedeltà, spiega che i loro fidanzati al fronte non saranno certo fedeli e quindi le esorta a
far all'amor come assassine,
approfittando dell'assenza di Ferrando e Guglielmo.
Il piano di don Alfonso alla fine funziona. Le ragazze, dopo qualche iniziale tentennamento, cedono alla corte dei loro nuovi spasimanti, perché appunto
così fan tutte.
E' una favola - e le favole devono finire bene - e così, ancora su suggerimento di don Alfonso, i due giovani "tornano" e si riprendono le "legittime" fidanzate.
L'opera si chiude con tutti i personaggi che cantano
fortunato l'uom che prende / ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa.
Ecco la parola che è mancata fino a ora e che è la morale di questa storia. E che ci fa capire che non è una storia di corna, o un frivolo divertissiment. Siamo nel pieno dell'epoca dei Lumi: Così fan tutte viene rappresentata a Vienna il 26 gennaio 1790, non sono passati neppure sei mesi dalla presa della Bastiglia e l'imperatore Giuseppe II non immagina cosa succederà alla propria sorella andata in sposa a Luigi XVI.
Ma è davvero la ragione che domina questo gioco intellettuale, che Mozart accompagna con la sua musica scintillante e razionalmente misurata? L'illuminismo è qualcosa di più complesso e Mozart è testimone - come vediamo anche nel Flauto magico - di questa complessità.
Aleggia su questa storia di tradimenti veri e immaginati il ghigno di Voltaire, che guarda disilluso il mondo che crede di aver raggiunto la ragione. Perché le vere coppie, le coppie che potrebbero funzionare, non sono quelle della realtà, ma quelle della finzione. Dorabella, quando può scegliere uno dei due ufficiali albanesi, sceglie Guglielmo e Fiordiligi sente l'amore, forse per la prima volta, nelle parole di Ferrando. I quattro giovani sono stati veramente loro solo quando hanno finto di essere altri, ma la società non vuole che siano loro stessi, ma le maschere che qualcuno ha imposto loro.
I travestimenti sono l'altro elemento di questa opera. Sono ovviamente mascherati Guglielmo e Ferrando, ma basta davvero un turbante per cambiare aspetto? Succede ai due giovani quello che capita a Clark Kent, che diventa irriconoscibile solo perché indossa calzamaglia e mantello. Anche Despina si maschera, per ben due volte: prima si finge medico e "guarisce" i due ufficiali albanesi che hanno tentato il suicidio, dopo essere stati inizialmente respinti, e poi diventa il notaio davanti a cui redigere i contratti matrimoniali tra le giovani e i due "nuovi" pretendenti, in un gioco che sembra ormai scoperto. Tutto è finzione: forse l'unica vera è quel contratto notarile, quella transazione commerciale,  che è la vera essenza del matrimonio. Anche Fiordiligi si traveste da ufficiale per raggiungere il fronte e vedere se davvero Guglielmo le è ancora fedele, si mette il cappello da uomo e non si riconosce più, ma è proprio così che la scopre Ferrando, dichiarandole il suo amore. Ferrando che non è più Ferrando si dichiara a Fiordiligi che non è più Fiordiligi.
Questo continuo cambiare di maschere ci dice che la vita è una convenzione, che non prevede la nostra felicità. Forse è qualcosa che non dobbiamo svelare alle ragazze e ai ragazzi che frequentano la scuola media.