giovedì 29 settembre 2011
"Luna nova" di Salvatore Di Giacomo
La luna nova ncopp’a lu mare
stenne na fascia d’argiento fino;
dint’a la varca nu marenare
quase s’addorme c’ ’a rezza ’nzino...
Nun durmí, scétete, oi marenà,
votta ’sta rezza, penza a vucà!
Dorme e suspira stu marenare,
se sta sunnanno la nnammurata...
Zitto e cuieto se sta lu mare,
pure la luna se nc’è ncantata...
Luna d’argiento, lass’ ’o sunnà,
vaselo nfronte, nun ’o scetà...
Comme a stu suonno de marenare
tu duorme, Napule, viat’ a tte!
Duorme, ma nzuonno lacreme amare
tu chiagne, Napule!... Scétete, scé’!...
Puozze na vota resuscità!...
Scétate, scétete, Napule, Na’!...
La luna nuova sopra al mare / stende una fascia di argento fino; / dentro alla barca un marinaio quasi s’addormenta con la rete da pesca accanto... // Non dormire, svegliati, ehi marinaio, / getta questa rete, pensa a remare! // Dorme e sospira questo marinaio, / si sta sognando / l’innamorata... / Zitto e quieto se ne sta il mare, / pure la luna s’è incantata... // Luna d’argento, lascialo sognare, / bacialo in fronte, non lo svegliare... // Come questo sogno di marinaio / tu dormi, Napoli, beata tu! / Dormi, ma in sogno lacrime amare / tu piangi, Napoli!... Svegliati, su!... // Che tu possa una volta resuscitare!... / Svegliati, svegliati, Napoli, Na’!...
domenica 25 settembre 2011
Considerazioni libere (250): a proposito di Palestina...
Credo di averlo già scritto qualche mese fa, ma purtroppo la situazione non è cambiata, anzi è - se possibile - peggiorata. Abbiamo bisogno di disintossicarci dalla politica italiana, o meglio da quella che ormai per consuetudine siamo abituati a chiamare politica, ma che tutto è, tranne quello. Da mesi le prime cinque o sei pagine dei quotidiani incolonnano articoli di cronaca giudiziaria e di cronaca di costume, farciti di intercettazioni, retroscena più o meno verosimili e dichiarazioni, anche queste più o meno verosimili - è sempre più difficile capire la differenza tra le dichiarazioni dei politici e quelle dei loro imitatori - e tutto questo zibaldone passa sotto il titolo "politica italiana". Oggi a pranzo a me e mia moglie è capitato di vedere il notiziario di Euronews; provavo una strana sensazione, mi sentivo quasi straniato, finché Zaira non mi ha fatto notare quanto fosse inusuale vedere un telegiornale senza la pletora di dichiarazioni dei sedicenti protagonisti della politica italiana.
L'unico rifugio è ormai la politica estera, perché nel mondo, nonostante B. e i suoi corifei - che lo lodino o lo ingiurino poco importa, sempre quello è l'oggetto dei loro discorsi - la pensino probabilmente in modo diverso, qualcosa continua a succedere. C'è una notizia che più delle altre credo valga la pena di commentare: due giorni fa, il 23 settembre, di fronte all'assemblea generale della Nazioni Unite, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese ha presentato la richiesta formale dell'adesione all'Onu della Palestina, ossia ha chiesto che il suo paese venga riconosciuto come uno stato tra gli stati, in base ai confini del 1967 e con Gerusalemme come capitale. Anni fa una notizia come questa avrebbe scaldato gli animi della sinistra italiana, ora non si capisce quale sia la posizione sull'argomento del maggior partito del centrosinistra, che, ostaggio di una piccola, ma influente, lobby filoisraeliana, fatta da un paio di deputati e di qualche illustre commentatore - cinque persone in tutto - ha completamente dimenticato la propria storia a sostegno del popolo palestinese. Anche su questo argomento, pur di non scontentare nessuno, il Pd miseramente tace.
Da almeno vent'anni - gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993 da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, sotto lo sguardo del presidente Clinton - si dice che l'unica soluzione possibile per risolvere la questione israelo-palestinese è descritta dalla formula "due popoli, due stati". In questi vent'anni però non si è fatto un solo passo concreto per raggiungere questo obiettivo. La classe dirigente israeliana - dopo l'uccisione di Rabin nel novembre '95 - porta gran parte della responsabilità di questo fallimento. per alcuni anni si è detto che nessuna soluzione era possibile fino a quando Arafat fosse stato il leader dell'Olp; Arafat è morto nel 2004 e gli è succeduto il pragmatico e diplomatico Abu Mazen, ma i negoziati sono rimasti fermi. Negli anni successivi i politici israeliani hanno spiegato che non si poteva avviare una trattativa fino a quando fossero continuati gli attacchi terroristici - e in più c'era stato anche l'11 settembre. Raggiunta una tregua sostanziale, con la fine degli attentati contro le città israeliane, i negoziati però non sono ripresi. Netanyahu ora non sta neppure cercando un pretesto; si dice favorevole alla creazione dello stato palestinese, ma non dà seguito a questa affermazione, avendo formato uno degli esecutivi più a destra della breve storia di Israele, con un ruolo predominante dei partiti religiosi oltranzisti. Gli israeliani non solo sono rimasti immobili in questi vent'anni nella loro posizione di non permettere la creazione di uno stato palestinese, ma hanno, con più o meno enfasi, accelerando o rallentando le operazioni, proceduto a costruire insediamenti nelle zone occupate, vere e proprie colonie, spesso con gli elementi più reazionari della popolazione. In questi vent'anni gli insediamenti non si sono mai fermati, se non per alcuni mesi, sotto le pressanti richieste di Obama, che poi si è progressivamente disinteressato della questione, preferendo non scontentare le potenti associazioni degli ebrei americani. Un accordo di pace è possibile soltanto se Israele riconosce di essere una potenza occupante e quindi ritira le proprie truppe dalla Cisgiordania, toglie l'assedio a Gaza, permette la creazione della Palestina. Non ci sono altre vie possibili, deve rendersene conto anche chi sostiene acriticamente Israele, sia per storia personale e antiche convinzioni sia per più recenti conversioni e convenienze, come i postfascisti italiani, da B. a Fini.
Con onestà bisogna riconoscere che in questi vent'anni i capi palestinesi hanno dato l'impressione - e forse qualcosa di più di un'impressione - di accettare lo status quo, nonostante anche in questo caso le dichiarazioni pubbliche raccontassero un'altra storia. La nascita della Palestina significherebbe prima di tutto la fine dell'Olp e per uomini che hanno costruito la loro carriera politica e, in alcuni casi, anche la loro fortuna economica, proprio grazie a quell'organizzazione, non deve essere facile tagliare il ramo su cui sono comodamente seduti. Non è un caso che all'indomani delle prime manifestazioni dei giovani egiziani in piazza Tahir le reazioni di Netanyahu e di Abu Mazen siano state dello stesso tenore: pieno sostegno al regime di Mubarak e condanna dei manifestanti. Nessuno dei due ha capito cosa stava succedendo.
Netanyahu continua a non capire che qualcosa sta cambiando, perfino in Israele: c'è una nuova generazione che chiede, pretende, garanzie per il proprio futuro e non accetta più i dettami di una classe politica sempre più autoreferenziale. Abu Mazen sta invece cercando di rimediare agli errori dei mesi scorsi. Il successore di Arafat ha capito che di fronte alla ferma volontà di Israele di non negoziare rimangono solo tre opzioni per i palestinesi: arrendersi e continuare a vivere per qualche altro decennio sotto l'occupazione dell'esercito israeliano; lanciare la terza intifada; mobilitare il mondo a favore della causa palestinese. La prima opzione è impossibile, in questi tempi in cui i giovani si mobilitano in tutto il Medio Oriente; la seconda è estremamente pericolosa e dalle conseguenze imprevedibili, ma inevitabile se la terza non riuscirà a dare frutti reali.
Per questo l'ipocrisia occidentale è così pericolosa, sia da parte degli Stati Uniti che si sono già dichiarati pronti a porre il veto sulla proposta palestinese sia da parte dei paesi europei, le cui posizioni oscillanti finiranno per confluire in una pilatesca astensione. L'Italia sta spingendo perché l'Unione Europea esprima un giudizio negativo sulla richiesta di Abu Mazen e questo la dice lunga sulla lungimiranza in politica estera di questo governo, in cui prevale una ideologia reazionaria. Il no delle Nazioni Unite, richiesto da Israele, imposto dagli Stati Uniti con la complice ignavia europea - mentre le nazioni emergenti, con in testa il Brasile, hanno già dichiarato il loro voto favorevole - avrà conseguenze adesso difficili da valutare.
Naturalmente nemmeno un eventuale, per quanto improbabilissimo, parere favorevole delle Nazioni Unite risolverebbe di colpo i problemi. Ci sarebbe prima di tutto la questione dei profughi, di tutti quei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Quale sarebbe il loro status una volta che nata la nuova Palestina? Sarebbero cittadini del nuovo stato o sarebbero considerati stranieri? E poi c'è la questione della rappresentanza. Nell'Anp l'abitudine al confronto democratico è scarsa, le decisioni sono prese dai capi; la Palestina dovrebbe prepararsi a essere governata da organi democratici, a cui la società palestinese non è pronta a riconoscere legittimità, così come sta avvenendo in altri paesi arabi. C'è la grande questione dei diritti, soprattutto dei diritti delle donne, su cui la cultura araba e orientale deve ancora fare grandi passi. Nessuno di questi problemi però è paragonabile a quelli che nasceranno di fronte a un no del mondo alle legittime richieste palestinesi.
Chi crede nella pace deve lavorare affinché nasca il prima possibile la Palestina: solo uno stato vero, democratico, con una costituzione che preveda diritti e doveri, può avere la forza e l'autorità di negoziare con Israele e di combattere il terrorismo.
L'unico rifugio è ormai la politica estera, perché nel mondo, nonostante B. e i suoi corifei - che lo lodino o lo ingiurino poco importa, sempre quello è l'oggetto dei loro discorsi - la pensino probabilmente in modo diverso, qualcosa continua a succedere. C'è una notizia che più delle altre credo valga la pena di commentare: due giorni fa, il 23 settembre, di fronte all'assemblea generale della Nazioni Unite, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese ha presentato la richiesta formale dell'adesione all'Onu della Palestina, ossia ha chiesto che il suo paese venga riconosciuto come uno stato tra gli stati, in base ai confini del 1967 e con Gerusalemme come capitale. Anni fa una notizia come questa avrebbe scaldato gli animi della sinistra italiana, ora non si capisce quale sia la posizione sull'argomento del maggior partito del centrosinistra, che, ostaggio di una piccola, ma influente, lobby filoisraeliana, fatta da un paio di deputati e di qualche illustre commentatore - cinque persone in tutto - ha completamente dimenticato la propria storia a sostegno del popolo palestinese. Anche su questo argomento, pur di non scontentare nessuno, il Pd miseramente tace.
Da almeno vent'anni - gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993 da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, sotto lo sguardo del presidente Clinton - si dice che l'unica soluzione possibile per risolvere la questione israelo-palestinese è descritta dalla formula "due popoli, due stati". In questi vent'anni però non si è fatto un solo passo concreto per raggiungere questo obiettivo. La classe dirigente israeliana - dopo l'uccisione di Rabin nel novembre '95 - porta gran parte della responsabilità di questo fallimento. per alcuni anni si è detto che nessuna soluzione era possibile fino a quando Arafat fosse stato il leader dell'Olp; Arafat è morto nel 2004 e gli è succeduto il pragmatico e diplomatico Abu Mazen, ma i negoziati sono rimasti fermi. Negli anni successivi i politici israeliani hanno spiegato che non si poteva avviare una trattativa fino a quando fossero continuati gli attacchi terroristici - e in più c'era stato anche l'11 settembre. Raggiunta una tregua sostanziale, con la fine degli attentati contro le città israeliane, i negoziati però non sono ripresi. Netanyahu ora non sta neppure cercando un pretesto; si dice favorevole alla creazione dello stato palestinese, ma non dà seguito a questa affermazione, avendo formato uno degli esecutivi più a destra della breve storia di Israele, con un ruolo predominante dei partiti religiosi oltranzisti. Gli israeliani non solo sono rimasti immobili in questi vent'anni nella loro posizione di non permettere la creazione di uno stato palestinese, ma hanno, con più o meno enfasi, accelerando o rallentando le operazioni, proceduto a costruire insediamenti nelle zone occupate, vere e proprie colonie, spesso con gli elementi più reazionari della popolazione. In questi vent'anni gli insediamenti non si sono mai fermati, se non per alcuni mesi, sotto le pressanti richieste di Obama, che poi si è progressivamente disinteressato della questione, preferendo non scontentare le potenti associazioni degli ebrei americani. Un accordo di pace è possibile soltanto se Israele riconosce di essere una potenza occupante e quindi ritira le proprie truppe dalla Cisgiordania, toglie l'assedio a Gaza, permette la creazione della Palestina. Non ci sono altre vie possibili, deve rendersene conto anche chi sostiene acriticamente Israele, sia per storia personale e antiche convinzioni sia per più recenti conversioni e convenienze, come i postfascisti italiani, da B. a Fini.
Con onestà bisogna riconoscere che in questi vent'anni i capi palestinesi hanno dato l'impressione - e forse qualcosa di più di un'impressione - di accettare lo status quo, nonostante anche in questo caso le dichiarazioni pubbliche raccontassero un'altra storia. La nascita della Palestina significherebbe prima di tutto la fine dell'Olp e per uomini che hanno costruito la loro carriera politica e, in alcuni casi, anche la loro fortuna economica, proprio grazie a quell'organizzazione, non deve essere facile tagliare il ramo su cui sono comodamente seduti. Non è un caso che all'indomani delle prime manifestazioni dei giovani egiziani in piazza Tahir le reazioni di Netanyahu e di Abu Mazen siano state dello stesso tenore: pieno sostegno al regime di Mubarak e condanna dei manifestanti. Nessuno dei due ha capito cosa stava succedendo.
Netanyahu continua a non capire che qualcosa sta cambiando, perfino in Israele: c'è una nuova generazione che chiede, pretende, garanzie per il proprio futuro e non accetta più i dettami di una classe politica sempre più autoreferenziale. Abu Mazen sta invece cercando di rimediare agli errori dei mesi scorsi. Il successore di Arafat ha capito che di fronte alla ferma volontà di Israele di non negoziare rimangono solo tre opzioni per i palestinesi: arrendersi e continuare a vivere per qualche altro decennio sotto l'occupazione dell'esercito israeliano; lanciare la terza intifada; mobilitare il mondo a favore della causa palestinese. La prima opzione è impossibile, in questi tempi in cui i giovani si mobilitano in tutto il Medio Oriente; la seconda è estremamente pericolosa e dalle conseguenze imprevedibili, ma inevitabile se la terza non riuscirà a dare frutti reali.
Per questo l'ipocrisia occidentale è così pericolosa, sia da parte degli Stati Uniti che si sono già dichiarati pronti a porre il veto sulla proposta palestinese sia da parte dei paesi europei, le cui posizioni oscillanti finiranno per confluire in una pilatesca astensione. L'Italia sta spingendo perché l'Unione Europea esprima un giudizio negativo sulla richiesta di Abu Mazen e questo la dice lunga sulla lungimiranza in politica estera di questo governo, in cui prevale una ideologia reazionaria. Il no delle Nazioni Unite, richiesto da Israele, imposto dagli Stati Uniti con la complice ignavia europea - mentre le nazioni emergenti, con in testa il Brasile, hanno già dichiarato il loro voto favorevole - avrà conseguenze adesso difficili da valutare.
Naturalmente nemmeno un eventuale, per quanto improbabilissimo, parere favorevole delle Nazioni Unite risolverebbe di colpo i problemi. Ci sarebbe prima di tutto la questione dei profughi, di tutti quei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Quale sarebbe il loro status una volta che nata la nuova Palestina? Sarebbero cittadini del nuovo stato o sarebbero considerati stranieri? E poi c'è la questione della rappresentanza. Nell'Anp l'abitudine al confronto democratico è scarsa, le decisioni sono prese dai capi; la Palestina dovrebbe prepararsi a essere governata da organi democratici, a cui la società palestinese non è pronta a riconoscere legittimità, così come sta avvenendo in altri paesi arabi. C'è la grande questione dei diritti, soprattutto dei diritti delle donne, su cui la cultura araba e orientale deve ancora fare grandi passi. Nessuno di questi problemi però è paragonabile a quelli che nasceranno di fronte a un no del mondo alle legittime richieste palestinesi.
Chi crede nella pace deve lavorare affinché nasca il prima possibile la Palestina: solo uno stato vero, democratico, con una costituzione che preveda diritti e doveri, può avere la forza e l'autorità di negoziare con Israele e di combattere il terrorismo.
lunedì 19 settembre 2011
"Preghiera" di Adonis
venerdì 16 settembre 2011
Considerazioni libere (249): a proposito di Sesto San Giovanni...
Scrivo questa "considerazione" sul "caso Penati" e sul cosiddetto "sistema Sesto" con molto ritardo rispetto a quando la notizia è uscita sui giornali. Il 29 agosto scorso un'amica di Facebook - già mia compagna di viaggio in treno - nonostante tutto schiettamente di sinistra, ha scritto un commento molto duro sulla vicenda. Quella rabbia era la mia rabbia e quella di tanti altri compagni. Non riesco a essere sereno su quello che è successo. Lo ammetto: con molta irrazionalità, se fosse successso nel Partito Democratico, la cosa mi avrebbe dato meno fastidio; invece è successa nel partito di cui sono stato militante, iscritto, funzionario, nelle cui liste sono stato eletto amministratore. E' qualcosa che ha colpito la comunità di cui ho fatto parte e naturalmente mi ha lasciato un segno, come sono sicuro è successo a molti altri compagni. Commentando la sua nota, le avevo scritto che ne avrei parlato sul mio blog, a mente fredda, per quanto possibile. Provo a farlo adesso.
Per dare un giudizio non ho elementi oltre a quelli apparsi sui giornali, non conosco personalmente né Penati né nessun altra delle persone coinvolte nell'inchiesta. Tra il 2004 e il 2005 ho conosciuto alcuni funzionari della Federazione di Milano, persone che facevano il mio stesso lavoro e che stavano preparando la Festa nazionale: Penati era allora il Presidente della Provincia, uno dei pochi capace di battere il centrodestra in un nord che sembrava per noi inaccessibile. Nel momento in cui Penati ha assunto un ruolo nazizonale, guidando la mozione che ha portato Bersani alla segreteria nazionale del Pd, io ero già fuori dal partito e la consideravo ormai un'altra storia. In quegli anni là, quando faceva il Presidente della Provincia, lo stimavo, lo consideravo una persona capace, un bravo amministratore, uno in grado di affrontare nel modo giusto un frangente politico e sociale complicato. Penso di essermi sbagliato.
Eravamo in tanti allora convinti che il centrodestra si potesse battere soltanto se il nostro partito si fosse attestato su posizioni un po' meno di sinistra, se avesse attirato a sé anche una parte dell'elettorato moderato. Stava cambiando lentamente l'anima del partito. Per qualche anno l'equilibrio è stato mantenuto, poi alcuni meccanismi si sono definitivamente rotti e i Democratici di Sinistra hanno velocemente imboccato la strada che ha portato la maggioranza di quel partito a chiudere quell'esperienza per dare vita a un'altra forza politica, il Pd, che, per programmi e per valori, non voleva più essere di sinistra, e che infatti ora non lo è più. Qualcosa del genere è successo anche in altri paesi della sinistra europea, ma nessun altro, come invece è successo in Italia, ha deliberatamente - e per me malauguratamente - deciso di uscire dal Pse. La questione di fondo è che questi esponenti della sinistra italiana hanno consapevolmente rinunciato a ogni pensiero critico rispetto al capitalismo che stava emergendo e che si è dimostrato quel capitalismo di rapina che ci ha condotto alla crisi di questi anni; la sinistra italiana è stata convinta e si è convinta che il mercato avesse in sé una forza regolatrice positiva, mentre il mercato, se è lasciato libero di procedere secondo la propria potente e inesorabile logica interna, inevitabilmente produce ricchezza, tantissima, per pochi e povertà, tanta, per molti.
Non sono andato fuori tema: il problema - come si diceva una volta - è politico. Torniamo a Penati e a Sesto San Giovanni. Non so se Penati è colpevole di tutte i reati che gli sono stati imputati - la credibilità e la limpidezza dei suoi accusatori sono tutte da verificare - ma certamente dalle intercettazioni lette in questi giorni nei quotidiani emerge uno stile che non può non preoccupare e inquietare: incontri clandestini tra politici e imprenditori, telefonate con parole e messaggi in codice, una familiarità sospetta tra chi dovrebbe prendere le decisioni e chi da quelle decisioni può ricavare un vantaggio o un danno. Certo Penati rappresentava una certa modernità nel suo modo di agire come politico, ma probabilmente questa modernità si è coniugata con una spregiudicatezza che non dovrebbe avere nulla a che fare con la nostra storia. I due piani, quello della politica e quello dell'etica pubblica, mi sembrano fatalmente intrecciati: la crisi di valori è stata anche crisi politica e viceversa, i due aspetti si tengono strettamente. Tanto più per il fatto che probabilmente Penati non ha utilizzato quei soldi che arrivavano in maniera segreta e anonima per arricchire se stesso, ma per contribuire al bilancio del partito. Forse Penati - e questo sarebbe ancora più grave - non si rendeva neppure del tutto contro di quello che stava facendo, di quanto fosse grave: quei rapporti erano parte della sua attività politica, del modo in cui interpretava la politica che stava caambiando. Avrebbe considerato grave prendere soldi per sé, ma si sentiva in qualche modo giustificato, dal momento che quei soldi servivano a finanziare il partito in cui militava. Anche in questo modo si perde l'anima, si perdono i valori fondanti di una politica; e ancora una volta i due piani si intrecciano indossolubilmente.
Metafora di questo cambiamento è la stessa città di Sesto San Giovanni. La storia di Sesto è la storia della sinistra italiana: le lotte operaie all'inizio del Novecento, la lotta clandestina contro il fascismo, i grandi scioperi del '44, il contributo alla Resistenza, la crescita economica e le lotte sociali del secondo dopoguerra, la capacità degli amministratori locali del Pci. Una città fatta di fabbriche, che una dopo l'altra hanno chiuso, lasciando il posto a grandi insediamenti residenziali e commerciali. Anche questo passaggio urbanistico e sociale è stato visto come un fenomeno positivo, moderno, un segno dei tempi nuovi che portava un nuovo sviluppo. Adesso cominciamo a capire che il proliferare di tanti centri commerciali ha progressivamente trasformato i cittadini in consumatori. Il problema di Sesto non sono tanto le tangenti infilate nei panettoni o il fatto che politici, ingegneri e costruttori partecipassero alle stesse feste - anche se questo sarebbe stato meglio evitarlo - ma è il fatto che l'ultima leva degli amministratori della città lombarda ha accettato questa trasformazione da città operaia a città-mercato, anzi ne ha rivendicato gli aspetti positivi: una città architettonicamente più bella, più verde, senza le ciminiere. Ma anche una città con meno rapporti umani, più chiusa in se stessa, con minori opportunità. Sarebbe stato necessario avere la forza non solo di non accettare regali o favori, ma soprattutto di pensare a un modello di sviluppo diverso. Dal momento che non abbiamo avuto la forza di fare questa seconda cosa, siamo stati più esposti alle lusinghe e ai rischi di questa modernità così spregiudicata. E questi cambiamenti ci hanno travolto.
Per dare un giudizio non ho elementi oltre a quelli apparsi sui giornali, non conosco personalmente né Penati né nessun altra delle persone coinvolte nell'inchiesta. Tra il 2004 e il 2005 ho conosciuto alcuni funzionari della Federazione di Milano, persone che facevano il mio stesso lavoro e che stavano preparando la Festa nazionale: Penati era allora il Presidente della Provincia, uno dei pochi capace di battere il centrodestra in un nord che sembrava per noi inaccessibile. Nel momento in cui Penati ha assunto un ruolo nazizonale, guidando la mozione che ha portato Bersani alla segreteria nazionale del Pd, io ero già fuori dal partito e la consideravo ormai un'altra storia. In quegli anni là, quando faceva il Presidente della Provincia, lo stimavo, lo consideravo una persona capace, un bravo amministratore, uno in grado di affrontare nel modo giusto un frangente politico e sociale complicato. Penso di essermi sbagliato.
Eravamo in tanti allora convinti che il centrodestra si potesse battere soltanto se il nostro partito si fosse attestato su posizioni un po' meno di sinistra, se avesse attirato a sé anche una parte dell'elettorato moderato. Stava cambiando lentamente l'anima del partito. Per qualche anno l'equilibrio è stato mantenuto, poi alcuni meccanismi si sono definitivamente rotti e i Democratici di Sinistra hanno velocemente imboccato la strada che ha portato la maggioranza di quel partito a chiudere quell'esperienza per dare vita a un'altra forza politica, il Pd, che, per programmi e per valori, non voleva più essere di sinistra, e che infatti ora non lo è più. Qualcosa del genere è successo anche in altri paesi della sinistra europea, ma nessun altro, come invece è successo in Italia, ha deliberatamente - e per me malauguratamente - deciso di uscire dal Pse. La questione di fondo è che questi esponenti della sinistra italiana hanno consapevolmente rinunciato a ogni pensiero critico rispetto al capitalismo che stava emergendo e che si è dimostrato quel capitalismo di rapina che ci ha condotto alla crisi di questi anni; la sinistra italiana è stata convinta e si è convinta che il mercato avesse in sé una forza regolatrice positiva, mentre il mercato, se è lasciato libero di procedere secondo la propria potente e inesorabile logica interna, inevitabilmente produce ricchezza, tantissima, per pochi e povertà, tanta, per molti.
Non sono andato fuori tema: il problema - come si diceva una volta - è politico. Torniamo a Penati e a Sesto San Giovanni. Non so se Penati è colpevole di tutte i reati che gli sono stati imputati - la credibilità e la limpidezza dei suoi accusatori sono tutte da verificare - ma certamente dalle intercettazioni lette in questi giorni nei quotidiani emerge uno stile che non può non preoccupare e inquietare: incontri clandestini tra politici e imprenditori, telefonate con parole e messaggi in codice, una familiarità sospetta tra chi dovrebbe prendere le decisioni e chi da quelle decisioni può ricavare un vantaggio o un danno. Certo Penati rappresentava una certa modernità nel suo modo di agire come politico, ma probabilmente questa modernità si è coniugata con una spregiudicatezza che non dovrebbe avere nulla a che fare con la nostra storia. I due piani, quello della politica e quello dell'etica pubblica, mi sembrano fatalmente intrecciati: la crisi di valori è stata anche crisi politica e viceversa, i due aspetti si tengono strettamente. Tanto più per il fatto che probabilmente Penati non ha utilizzato quei soldi che arrivavano in maniera segreta e anonima per arricchire se stesso, ma per contribuire al bilancio del partito. Forse Penati - e questo sarebbe ancora più grave - non si rendeva neppure del tutto contro di quello che stava facendo, di quanto fosse grave: quei rapporti erano parte della sua attività politica, del modo in cui interpretava la politica che stava caambiando. Avrebbe considerato grave prendere soldi per sé, ma si sentiva in qualche modo giustificato, dal momento che quei soldi servivano a finanziare il partito in cui militava. Anche in questo modo si perde l'anima, si perdono i valori fondanti di una politica; e ancora una volta i due piani si intrecciano indossolubilmente.
Metafora di questo cambiamento è la stessa città di Sesto San Giovanni. La storia di Sesto è la storia della sinistra italiana: le lotte operaie all'inizio del Novecento, la lotta clandestina contro il fascismo, i grandi scioperi del '44, il contributo alla Resistenza, la crescita economica e le lotte sociali del secondo dopoguerra, la capacità degli amministratori locali del Pci. Una città fatta di fabbriche, che una dopo l'altra hanno chiuso, lasciando il posto a grandi insediamenti residenziali e commerciali. Anche questo passaggio urbanistico e sociale è stato visto come un fenomeno positivo, moderno, un segno dei tempi nuovi che portava un nuovo sviluppo. Adesso cominciamo a capire che il proliferare di tanti centri commerciali ha progressivamente trasformato i cittadini in consumatori. Il problema di Sesto non sono tanto le tangenti infilate nei panettoni o il fatto che politici, ingegneri e costruttori partecipassero alle stesse feste - anche se questo sarebbe stato meglio evitarlo - ma è il fatto che l'ultima leva degli amministratori della città lombarda ha accettato questa trasformazione da città operaia a città-mercato, anzi ne ha rivendicato gli aspetti positivi: una città architettonicamente più bella, più verde, senza le ciminiere. Ma anche una città con meno rapporti umani, più chiusa in se stessa, con minori opportunità. Sarebbe stato necessario avere la forza non solo di non accettare regali o favori, ma soprattutto di pensare a un modello di sviluppo diverso. Dal momento che non abbiamo avuto la forza di fare questa seconda cosa, siamo stati più esposti alle lusinghe e ai rischi di questa modernità così spregiudicata. E questi cambiamenti ci hanno travolto.
mercoledì 14 settembre 2011
da "Rosencrantz e Guildenstern sono morti" di Tom Stoppard
Ti va una partita?
Guildenstern
Siamo spettatori.
R Facciamo il gioco delle domande?
G E come si gioca?
R E’ semplice, si fanno delle domande.
G Affermazione! Uno a zero.
R Non vale.
G Perché?
R Non avevo ancora cominciato.
G Affermazione, due a zero.
R Ma che conti tutto?
G Come?
R Conti tutto?
G Fallo! Niente ripetizioni, tre a zero. Partita per me.
R Io non gioco se continui in questo modo.
G A chi il servizio?
R Mmm…
G Esitazione. Zero a uno.
R A chi tocca?
G Perché?
R Perché no?
G Perché cosa?
R Fallo. Niente sinonimi, uno pari.
G In nome di Dio, ma che succede?
R Fallo. Domanda retorica. Due a uno.
G A che equivale tutto questo?
R Non lo indovini?
G Stai parlando con me?
R C’è qualcun altro?
G Chi?
R E io che ne so?
G E lo chiedi a me?
R Ma fai sul serio?
G E’ una domanda retorica?
R No.
G Negazione, due pari. Punto e partita.
R Ma che ti prende oggi?
G Quando?
R Cosa?
G Sei sordo?
R Sono morto?
G Si o no?
R C’è scelta?
G C’è Dio?
R Fallo. No, nessun non sequitur, no. Tre a due. Una partita a testa.
G Come ti chiami?
R E tu come ti chiami?
G Prima tu.
R Affermazione. Uno a zero.
G Come ti chiami quando sei a casa?
R Tu come ti chiami?
G Quando sono a casa?
R Perché, è diverso a casa?
G Quale casa?
R Non ce l’hai?
G Perché me lo chiedi?
R Dove vuoi arrivare?
G Come ti chiami?
R Ah, ripetizione. Due a zero. Punto partita.
G Ma chi credi di essere?
R Domanda retorica. Partita e incontro per me!
qui la versione del film, diretto dallo stesso Tom Stoppard
martedì 13 settembre 2011
"Te deum" di Charles Reznikoff
sabato 10 settembre 2011
Considerazioni libere (248): a proposito di un anniversario...
E siamo arrivati al decimo anniversario dell'11 settembre, quell'11 settembre di cui tutti parlano, spesso anche a sproposito - perché per ogni vero democratico l'11 settembre era già un giorno triste, il giorno da dedicare al ricordo di Salvador Allende e della democrazia cilena, uccisi dal golpe fascista di Pinochet e di Nixon. Dieci anni sono davvero pochi per trarre un qualche bilancio e noi, che siamo stati spettatori di quella strage globale - forse il primo evento storico di quella rilevanza vissuto in diretta dal mondo - ne siamo troppo coinvolti: due motivi che dovrebbero trattenere ciascuno di noi dal dare giudizi trancianti, dal fare affermazioni apodittiche, dal costruire sistemi pieni di certezze. Eppure ne abbiamo lette - anche a poche ore dagli attentati, quando la prudenza avrebbe dovuto frenare ogni altra considerazione che non fosse l'umana pietà per le vittime - e ne leggiamo tutti i giorni di affermazioni di questo tenore. Una delle tesi più ricorrenti è che l'11 settembre è il "giorno che ha cambiato la storia" o "il mondo", a seconda della preferenza per le iperboli dei diversi autori.
Non so, non ne ero convinto allora e non riesco a esserlo neppure ora, a dieci anni di distanza. Personalmente penso che non sia cambiato né il mondo né la storia, ma piuttosto che sia cambiato un modo per raccontare questo e quella per non raccontare quello che davvero succede nel mondo. Diciamo che è cambiato il modo con cui noi rappresentiamo la storia: a ben vedere, c'è una qualche differenza. Ho l'impressione che il nostro mondo - chiamiamolo pure l'occidente, anche se l'espressione non mi piace molto - crollato il comunismo, dissolta l'Unione Sovietica, avesse bisogno di un antagonista, di un "nemico" e in questo affanno, durato alcuni anni, sia arrivato l'11 settembre. Direi finalmente, se questa affermazione non potesse suonare troppo dura e forse ingiustamente polemica. Intendiamoci, io non sono affatto uno di quelli che pensa che l'attentato contro le Twin towers sia stata una grande macchinazione del governo statunitense per giustificare la guerra contro Afghanistan e Iraq. L'attentato contro il cuore degli Stati Uniti è stato certamente voluto e pensato da terroristi che avevano lo scopo di radicalizzare lo scontro tra mondo occidentale e mondo islamico e devo constatare che il loro obiettivo è stato pienamente raggiunto.
Cosa è successo in questi dieci anni? Da allora l'Afghanistan è un territorio - onestamente non può essere definito uno stato - che sopravvive a stento, vittima delle sue divisioni, l'Iraq è stato devastato e il suo petrolio è stato conquistato dalle multinazionali occidentali, russe e cinesi, il Pakistan è sempre più sull'orlo di una crisi che, visto l'arsenale atomico di cui dispongono i generali di quel paese, potrebbe rivelarsi catastrofica. Per fortuna Al Qaeda è stata decapitata, ma nessuno sa con certezza quante cellule vivano negli Stati Uniti e in Europa, pronte a entrare in azione. In questi dieci anni c'è stato un enorme numero di morti, in una guerra che nessuno ha dichiarato e che nessuno capisce come possa finire; è anche cambiato il modo di fare la guerra. C'è stata un'altra conseguenza, forse meno evidente, ma non meno drammatica: in nome della guerra al terrorismo islamico sicuramente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, probabilmente anche gli altri paesi occidentali - dall'archivio di Gheddafi stanno emergendo notizie ben più inquietanti di quelle fornite da Wikileaks - hanno sospeso alcuni diritti umani fondamentali, come quello secondo cui un prigioniero di guerra non può essere torturato, mai, per nessun motivo.
L'occidente, guidato dagli Stati Uniti, ha risposto all'attacco dell'11 settembre con la guerra, ma dopo dieci anni mi sembra evidente che quella risposta fosse inadeguata. Per il mondo occidentale c'era un'alternativa a questa reazione? Io credo di sì, se solo non si fosse voluto considerare tutto il mondo musulmano come un potenziale avversario, il "nemico" da sostituire a quello comunista. Per inciso, dovendo scegliere un nemico, abbiamo "scelto" quello più debole, perché l'altro potenziale nemico, la Cina, effettivamente ben più temibile, è parsa troppo potente e impossibile da affrontare sul piano economico prima che militare. Per tornare al 2001, penso che il mondo islamico - che peraltro non è quel "monolite" che noi ci raccontiamo, ma è ben più complesso e variegato - e anche lo stesso movimento più radicale e jihadista, che non riconosceva bin Laden come suo unico leader, si sarebbe potuto dividere e neutralizzare se quell'attentato, nella sua brutalità, fosse stato affrontato come un crimine e si fosse organizzata un’operazione internazionale per catturare i presunti responsabili. Nella fretta di fare la guerra, nella certezza di avere trovato il "nemico", questa idea non è stata neanche presa in considerazione. E così siamo inesorabilmente scivolati lungo la china pericolosa dello "scontro di civiltà", teorizzato da entrambe le parti e perseguito con accanimento dai più radicali, di qua e di là.
La cosiddetta "primavera araba" ha dimostrato che il mondo non si divide tra occidentali e orientali, tra cristiani e musulmani, ma tra poveri e ricchi, tra privilegiati e sfruttati; e questa divisione è sempre più profonda. I giovani tunisini, egiziani, algerini, siriani, libici, yemeniti che hanno riempito le piazze delle loro città, che hanno sfidato la repressione dei loro regimi, hanno alzato le loro voci non contro l'occidente, ma contro quei vecchi governanti che hanno approfittato, spesso facendo ottimi affari con i loro "nemici" occidentali, delle ricchezze di quei paesi, hanno protestato non contro gli Stati Uniti, ma contro le burocrazie corrotte dei loro paesi, contro quelli che hanno costruito i loro piccoli e grandi privilegi, anche approfittando dello stato di guerra. Come mi è già capitato di scrivere, non ci sono differenze fondamentali tra i giovani che riempiono le piazze di Tunisi, del Cairo e di Damasco con quelli che protestano nelle piazze di Atene, di Madrid, o di Santiago del Cile. Così come ci sono ben poche differenze tra il tunisino sfruttato dai caporali nella raccolta dei pomodori in Salento e il giovane laureato milanese che, non essendo "figlio di", passa da un lavoro precario all'altro. Una propaganda tanto efficace quanto interessata è riuscita ad alimentare queste pretese differenze, per alcune forze politiche europee è diventata l'unica bandiera ideologica: noi, i bianchi, i cristiani, i "buoni", da una parte e loro, gli arabi e i neri, i musulmani, i "cattivi" dall'altra.
Come per ogni democratico, per ogni persona di sinistra, per me la parte giusta non erano i regimi comunisti del Patto di Varsavia, ma i giovani ungheresi e cecoslovacchi delle rivolte del '56 e del '68, non il regime cinese, ma gli studenti e gli operai di piazza Tiananmen; allo stesso modo avremmo dovuto da subito dire che c'era una bella differenza tra i regimi dei paesi arabi - anche quelli "amici" come l'Arabia Saudita - e i popoli che subivano quelle dittature, che magari erano costretti a scendere in piazza per "maledire" i nemici occidentali. L'11 settembre, chi l'ha voluto e chi ha risposto nel modo in cui sappiamo, ha oggettivamente impedito di leggere, di interpretare, questa differenza e ha trasformato un mondo, una cultura, una religione, in un nemico. Sono molte le vittime dell'11 settembre e credo sarebbe onesto ricordarle tutte, anche quelle che sono morte mesi e anni dopo, in base a scelte sbagliate seguite a quel tragico attentato.
C'è un'immagine che è diventata uno dei simboli della strage: è la fotografia del "falling man", l'uomo che cade, il gesto disperato di una persona che si gettò da una delle torri un istante prima del fatale impatto. Ho pensato diverse volte che quell'uomo che cade sia una sorta di metafora del nostro mondo che, sull'orlo della catastrofe, non ha retto alla prova.
Non so, non ne ero convinto allora e non riesco a esserlo neppure ora, a dieci anni di distanza. Personalmente penso che non sia cambiato né il mondo né la storia, ma piuttosto che sia cambiato un modo per raccontare questo e quella per non raccontare quello che davvero succede nel mondo. Diciamo che è cambiato il modo con cui noi rappresentiamo la storia: a ben vedere, c'è una qualche differenza. Ho l'impressione che il nostro mondo - chiamiamolo pure l'occidente, anche se l'espressione non mi piace molto - crollato il comunismo, dissolta l'Unione Sovietica, avesse bisogno di un antagonista, di un "nemico" e in questo affanno, durato alcuni anni, sia arrivato l'11 settembre. Direi finalmente, se questa affermazione non potesse suonare troppo dura e forse ingiustamente polemica. Intendiamoci, io non sono affatto uno di quelli che pensa che l'attentato contro le Twin towers sia stata una grande macchinazione del governo statunitense per giustificare la guerra contro Afghanistan e Iraq. L'attentato contro il cuore degli Stati Uniti è stato certamente voluto e pensato da terroristi che avevano lo scopo di radicalizzare lo scontro tra mondo occidentale e mondo islamico e devo constatare che il loro obiettivo è stato pienamente raggiunto.
Cosa è successo in questi dieci anni? Da allora l'Afghanistan è un territorio - onestamente non può essere definito uno stato - che sopravvive a stento, vittima delle sue divisioni, l'Iraq è stato devastato e il suo petrolio è stato conquistato dalle multinazionali occidentali, russe e cinesi, il Pakistan è sempre più sull'orlo di una crisi che, visto l'arsenale atomico di cui dispongono i generali di quel paese, potrebbe rivelarsi catastrofica. Per fortuna Al Qaeda è stata decapitata, ma nessuno sa con certezza quante cellule vivano negli Stati Uniti e in Europa, pronte a entrare in azione. In questi dieci anni c'è stato un enorme numero di morti, in una guerra che nessuno ha dichiarato e che nessuno capisce come possa finire; è anche cambiato il modo di fare la guerra. C'è stata un'altra conseguenza, forse meno evidente, ma non meno drammatica: in nome della guerra al terrorismo islamico sicuramente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, probabilmente anche gli altri paesi occidentali - dall'archivio di Gheddafi stanno emergendo notizie ben più inquietanti di quelle fornite da Wikileaks - hanno sospeso alcuni diritti umani fondamentali, come quello secondo cui un prigioniero di guerra non può essere torturato, mai, per nessun motivo.
L'occidente, guidato dagli Stati Uniti, ha risposto all'attacco dell'11 settembre con la guerra, ma dopo dieci anni mi sembra evidente che quella risposta fosse inadeguata. Per il mondo occidentale c'era un'alternativa a questa reazione? Io credo di sì, se solo non si fosse voluto considerare tutto il mondo musulmano come un potenziale avversario, il "nemico" da sostituire a quello comunista. Per inciso, dovendo scegliere un nemico, abbiamo "scelto" quello più debole, perché l'altro potenziale nemico, la Cina, effettivamente ben più temibile, è parsa troppo potente e impossibile da affrontare sul piano economico prima che militare. Per tornare al 2001, penso che il mondo islamico - che peraltro non è quel "monolite" che noi ci raccontiamo, ma è ben più complesso e variegato - e anche lo stesso movimento più radicale e jihadista, che non riconosceva bin Laden come suo unico leader, si sarebbe potuto dividere e neutralizzare se quell'attentato, nella sua brutalità, fosse stato affrontato come un crimine e si fosse organizzata un’operazione internazionale per catturare i presunti responsabili. Nella fretta di fare la guerra, nella certezza di avere trovato il "nemico", questa idea non è stata neanche presa in considerazione. E così siamo inesorabilmente scivolati lungo la china pericolosa dello "scontro di civiltà", teorizzato da entrambe le parti e perseguito con accanimento dai più radicali, di qua e di là.
La cosiddetta "primavera araba" ha dimostrato che il mondo non si divide tra occidentali e orientali, tra cristiani e musulmani, ma tra poveri e ricchi, tra privilegiati e sfruttati; e questa divisione è sempre più profonda. I giovani tunisini, egiziani, algerini, siriani, libici, yemeniti che hanno riempito le piazze delle loro città, che hanno sfidato la repressione dei loro regimi, hanno alzato le loro voci non contro l'occidente, ma contro quei vecchi governanti che hanno approfittato, spesso facendo ottimi affari con i loro "nemici" occidentali, delle ricchezze di quei paesi, hanno protestato non contro gli Stati Uniti, ma contro le burocrazie corrotte dei loro paesi, contro quelli che hanno costruito i loro piccoli e grandi privilegi, anche approfittando dello stato di guerra. Come mi è già capitato di scrivere, non ci sono differenze fondamentali tra i giovani che riempiono le piazze di Tunisi, del Cairo e di Damasco con quelli che protestano nelle piazze di Atene, di Madrid, o di Santiago del Cile. Così come ci sono ben poche differenze tra il tunisino sfruttato dai caporali nella raccolta dei pomodori in Salento e il giovane laureato milanese che, non essendo "figlio di", passa da un lavoro precario all'altro. Una propaganda tanto efficace quanto interessata è riuscita ad alimentare queste pretese differenze, per alcune forze politiche europee è diventata l'unica bandiera ideologica: noi, i bianchi, i cristiani, i "buoni", da una parte e loro, gli arabi e i neri, i musulmani, i "cattivi" dall'altra.
Come per ogni democratico, per ogni persona di sinistra, per me la parte giusta non erano i regimi comunisti del Patto di Varsavia, ma i giovani ungheresi e cecoslovacchi delle rivolte del '56 e del '68, non il regime cinese, ma gli studenti e gli operai di piazza Tiananmen; allo stesso modo avremmo dovuto da subito dire che c'era una bella differenza tra i regimi dei paesi arabi - anche quelli "amici" come l'Arabia Saudita - e i popoli che subivano quelle dittature, che magari erano costretti a scendere in piazza per "maledire" i nemici occidentali. L'11 settembre, chi l'ha voluto e chi ha risposto nel modo in cui sappiamo, ha oggettivamente impedito di leggere, di interpretare, questa differenza e ha trasformato un mondo, una cultura, una religione, in un nemico. Sono molte le vittime dell'11 settembre e credo sarebbe onesto ricordarle tutte, anche quelle che sono morte mesi e anni dopo, in base a scelte sbagliate seguite a quel tragico attentato.
C'è un'immagine che è diventata uno dei simboli della strage: è la fotografia del "falling man", l'uomo che cade, il gesto disperato di una persona che si gettò da una delle torri un istante prima del fatale impatto. Ho pensato diverse volte che quell'uomo che cade sia una sorta di metafora del nostro mondo che, sull'orlo della catastrofe, non ha retto alla prova.
mercoledì 7 settembre 2011
"Il nemico del sole" di Samih a-Qasim
Perderò, forse, lo stipendio,
come tu lo desideri;
sarò costretto a vendere abito e materasso;
farò, forse, il portatore di pietre;
il facchino,
lo zappino di strada
oppure l’operaio in una officina;
forse sarò anche costretto a cercare nei letami
per trovare un grano da mangiare;
o forse morirò nudo e affamato.
Ciò malgrado non mi rassegnerò mai a te,
o nemico del sole!
Ma resisterò fino all’ultima goccia
di sangue nelle mie vene.
Tu mi potresti rubare l’ultimo palmo di suolo;
saresti capace di dare alle prigioni
la mia giovane età;
di privarmi dell’eredità di mio nonno:
degli arredamenti, degli utensili casalinghi
e dei recipienti.
Saresti pure capace di dare al fuoco
le mie poesie ed i libri miei
ed ai cani la mia carne.
Saresti – come è vero – un incubo
sul cuore del nostro villaggio,
o nemico del sole!
Ciò malgrado, non mi rassegnerò mai a te
e, fino all’ultima goccia
di sangue nelle mie vene
resisterò!…
Potresti spegnermi la luce che m’illumina la notte
e privarmi di un bacio di mia madre;
i ragazzi vostri sarebbero capaci di insultare
il mio popolo e mio padre;
qualche vigliacco di voi sarebbe capace di
falsificare pure la mia storia.
Tu stesso potresti privare i figli miei
di un abito di festa;
saresti capace di ingannare,
con falso volto,
gli amici miei,
crocifiggermi i giorni su una visione umiliante,
o nemico del sole!
Ciò malgrado, non mi rassegnerò mai a te
e, fino all’ultima goccia di sangue nelle mie vene
resisterò!…
O nemico del sole!
Nel porto vedo degli ornamenti,
dei segni di gioia;
sento delle voci allegre
e degli applausi entusiasti
che infuocano d’allegria la gola;
e nell’orizzonte vedo una vela
che sfida il vento e le onde
sormontando con fiducia i pericoli!
Questo è il ritorno di Ulisse
dal mare dello smarrimento.
Questo è il ritorno del sole
e dell’uomo espatriato!…
Per gli occhi di lui e della amata terra
giuro di non rassegnarmi mai a te
e fino all’ultima goccia di sangue nelle vene,
resisterò,
resisterò,
resisterò!…
lunedì 5 settembre 2011
da "Romolo il Grande" di Friedrich Dürrenmatt
Giulia
E va bene. Perché non dovrei riconoscere la verità? Possiamo anche parlarci sinceramente. E' vero, io sono ambiziosa. Per me non esiste al mondo altro che il concetto dell'impero. Dopotutto, l'ultimo grande imperatore, Giuliano, era il mio proavo, ed è una cosa di cui vado fiera. E tu che cosa sei, invece? Niente altro che il figlio di un patrizio squattrinato. Ma anche tu sei ambizioso, evidentemente, altrimenti non saresti riuscito a diventare imperatore di un impero universale, ma saresti rimasto lo sconosciuto, la nullità che eri un tempo.
Romolo
Non è stata l'ambizione che mi ha spinto a conquistare il trono, ma la necessità. Quello che per te era il fine, per me non è stato che un mezzo. Se son diventato imperatore è stato soltanto per concretare la mia concezione politica.
Giulia
Una concezione politica, tu? E quando mai ne hai avuta una? Nei vent'anni del tuo regno non hai fatto altro che mangiare, bere, dormire, leggere e allevar polli. Non hai mai varcato il cancello di questa villa, non ti sei mai recato nella tua capitale, e le finanze dell'impero sono così completamente esauste che d'ora in poi dovremo vivere come due pezzenti. L'unica tua abilità consiste nello sconfiggere con la tua ironia ogni pensiero che miri ad abolirti. Ma che tu pretenda di esserti basato su di una concezione politica è un'incredibile menzogna. Perfino nella megalomania di Nerone e nella pazzia di Caligola c'era più senso politico che nella tua passione per le galline. L'unica tua concezione è la tua pigrizia!
Romolo
Proprio così. La mia concezione politica è di non far nulla.
Giulia
Ma per questo non avevi mica bisogno di diventare imperatore.
Romolo
Al contrario: solo da imperatore la mia inazione poteva avere un senso. Se un privato poltrisce, ciò non ha alcun effetto politico.
Giulia
E invece se è l'imperatore che poltrisce, è tutto lo Stato che è minacciato.
Romolo
Ecco, vedi.
Giulia
Che vuoi dire?
Romolo
Che finalmente sei arrivata a capire il motivo della mia pigrizia.
Giulia
Ma è assurdo! Nessuno può negare la necessità dello Stato!
Romolo
E io non nego la necessità dello Stato, ma solo la necessità del nostro Stato. Col tempo, esso era divenuto un impero universale e cioè un organismo che praticava apertamente l'assassinio, il saccheggio, l'oppressione, la rapina a spese degli altri popoli, finché non son venuto io.
Giulia
Se questo è quel che pensi dell'impero romano, non capisco proprio perché sei voluto diventare imperatore.
Romolo
E' da secoli ormai che l'impero romano continua a esistere soltanto perché c'è ancora un imperatore. Per liquidare l'impero non avevo dunque altra scelta che quella di diventare imperatore.
Giulia
Sei pazzo. Oppure è tutto il resto del mondo che è pazzo.
Romolo
Ho scelto questa seconda alternativa.
E va bene. Perché non dovrei riconoscere la verità? Possiamo anche parlarci sinceramente. E' vero, io sono ambiziosa. Per me non esiste al mondo altro che il concetto dell'impero. Dopotutto, l'ultimo grande imperatore, Giuliano, era il mio proavo, ed è una cosa di cui vado fiera. E tu che cosa sei, invece? Niente altro che il figlio di un patrizio squattrinato. Ma anche tu sei ambizioso, evidentemente, altrimenti non saresti riuscito a diventare imperatore di un impero universale, ma saresti rimasto lo sconosciuto, la nullità che eri un tempo.
Romolo
Non è stata l'ambizione che mi ha spinto a conquistare il trono, ma la necessità. Quello che per te era il fine, per me non è stato che un mezzo. Se son diventato imperatore è stato soltanto per concretare la mia concezione politica.
Giulia
Una concezione politica, tu? E quando mai ne hai avuta una? Nei vent'anni del tuo regno non hai fatto altro che mangiare, bere, dormire, leggere e allevar polli. Non hai mai varcato il cancello di questa villa, non ti sei mai recato nella tua capitale, e le finanze dell'impero sono così completamente esauste che d'ora in poi dovremo vivere come due pezzenti. L'unica tua abilità consiste nello sconfiggere con la tua ironia ogni pensiero che miri ad abolirti. Ma che tu pretenda di esserti basato su di una concezione politica è un'incredibile menzogna. Perfino nella megalomania di Nerone e nella pazzia di Caligola c'era più senso politico che nella tua passione per le galline. L'unica tua concezione è la tua pigrizia!
Romolo
Proprio così. La mia concezione politica è di non far nulla.
Giulia
Ma per questo non avevi mica bisogno di diventare imperatore.
Romolo
Al contrario: solo da imperatore la mia inazione poteva avere un senso. Se un privato poltrisce, ciò non ha alcun effetto politico.
Giulia
E invece se è l'imperatore che poltrisce, è tutto lo Stato che è minacciato.
Romolo
Ecco, vedi.
Giulia
Che vuoi dire?
Romolo
Che finalmente sei arrivata a capire il motivo della mia pigrizia.
Giulia
Ma è assurdo! Nessuno può negare la necessità dello Stato!
Romolo
E io non nego la necessità dello Stato, ma solo la necessità del nostro Stato. Col tempo, esso era divenuto un impero universale e cioè un organismo che praticava apertamente l'assassinio, il saccheggio, l'oppressione, la rapina a spese degli altri popoli, finché non son venuto io.
Giulia
Se questo è quel che pensi dell'impero romano, non capisco proprio perché sei voluto diventare imperatore.
Romolo
E' da secoli ormai che l'impero romano continua a esistere soltanto perché c'è ancora un imperatore. Per liquidare l'impero non avevo dunque altra scelta che quella di diventare imperatore.
Giulia
Sei pazzo. Oppure è tutto il resto del mondo che è pazzo.
Romolo
Ho scelto questa seconda alternativa.
domenica 4 settembre 2011
Considerazioni libere (247): a proposito di per cosa e contro cosa...
Chi mi conosce e soprattutto chi ha imparato a farlo attraverso questo blog, sa che io domani farò sciopero e sarò in piazza, insieme alle compagne e ai compagni della Cgil e - spero - a tantissimi lavoratori. Ho dedicato parecchie "considerazioni" a questo tema e francamente mi sembra stucchevole citarmi: non voglio abusare troppo della vostra pazienza. I motivi per fare questo sciopero li ha spiegati bene la Cgil e, con la solita lucida precisione, Corrado Stajano in un articolo che spero leggerete. Le ragioni per essere indignati, per essere incazzati le abbiamo ogni giorno sotto gli occhi.
Capisco lo spirito con cui il presidente Napolitano chiede unità in un momento così difficile per il paese e, anche se può sembrare una contraddizione - o almeno molti la fanno sembrare tale - io cerco di scioperare e di manifestare con questo spirito unitario.
Da dipendente pubblico non sciopero contro il mio "datore di lavoro", ossia contro l'amministrazione comunale in cui e per cui lavoro. So che tra i più colpiti da questa manovra finanziaria - come avviene ormai da troppi anni - ci sono proprio i Comuni e so anche che sono tanto più colpiti quanto più sono ben amministrati. Non sciopero contro un'amministrazione che pure ha lo stesso colore politico del governo che ha varato, o meglio sta tentando di varare, una manovra che cambia ogni giorno, se non ogni ora, e che ha un forte connotato classista. Vorrei vedere - e il discorso vale per molti - un po' più di coerenza tra le proteste degli amministratori e le scelte concrete che essi operano ogni giorno; ma mi pare che a questo punto ci si trovi tutti sulla stessa barca e a rinfacciarsi parole e scelte tra amministratori e dipendenti si rischi di fare la fine dei capponi di Renzo.
Naturalmente non sciopero contro i cittadini, che sono gli unici a subire il disagio della mia protesta. Da militante spero che domani il mio ufficio rimanga chiuso e che non funzioni nessun servizio del Comune in cui lavoro. Da lavoratore che crede nella funzione pubblica del suo lavoro - e non è un caso che questo governo non usi più questa espressione, nemmeno per la denominazione del ministero, così come ha "abolito" il termine pubblica istruzione - mi spiace che vengano tolti ai cittadini alcuni loro diritti di base. Tutti i lavoratori che creano un disservizio agli altri, e tanto più noi dipendenti pubblici, abbiamo il dovere di spiegare ai cittadini il motivo per cui stiamo scioperando, consapevoli che stiamo lottando anche per loro, pur nel momento che lediamo qualche loro diritto.
Mi ha colpito un'affermazione fatta dal segretario della Camera del lavoro di Bologna, Danilo Gruppi, riferita alla sciopero di domani: "Con queste misure i padroni non si portano a casa niente. Solo qualche giornata di ponte in meno. La imprese edili che piangono e hanno tutte le ragioni. La norma sulla tassazione degli utili delle cooperative è vergognosa. I consumi sono tornati al livello del 2000. La verità è che le imprese sono in ginocchio e il governo non ha fatto nulla per sostenerle. Questa manovra è una disgrazia per le imprese, scioperiamo per salvare il nostro sistema produttivo". Sono completamente d'accordo, questo è lo spirito di vera coesione nazionale. Io domani sciopero non solo per i lavoratori, ma sciopero per l'Italia, per il futuro di questo paese.
Il mio spirito di coesione nazionale però finisce necessariamente qui. Non mi si può chiedere di stare sulla stessa barca con questo governo, con chi è responsabile di questo stato di cose, con gli evasori e i furbi di ogni risma, con i ricchi che difendono i loro privilegi. Cito ancora una volta Stajano: "è difficile, se non impossibile, un'unità d'intenti, una condivisione dell'agire, spesso auspicate, quando i principi fondamentali su cui dovrebbe reggersi una comunità vengono così smaccatamente negati". Io contro questi manifesto e manifesterò e con questa Italia non voglio avere niente a che fare. Non c'è appello che tenga: è il momento delle scelte, o di qua o di là.
Capisco lo spirito con cui il presidente Napolitano chiede unità in un momento così difficile per il paese e, anche se può sembrare una contraddizione - o almeno molti la fanno sembrare tale - io cerco di scioperare e di manifestare con questo spirito unitario.
Da dipendente pubblico non sciopero contro il mio "datore di lavoro", ossia contro l'amministrazione comunale in cui e per cui lavoro. So che tra i più colpiti da questa manovra finanziaria - come avviene ormai da troppi anni - ci sono proprio i Comuni e so anche che sono tanto più colpiti quanto più sono ben amministrati. Non sciopero contro un'amministrazione che pure ha lo stesso colore politico del governo che ha varato, o meglio sta tentando di varare, una manovra che cambia ogni giorno, se non ogni ora, e che ha un forte connotato classista. Vorrei vedere - e il discorso vale per molti - un po' più di coerenza tra le proteste degli amministratori e le scelte concrete che essi operano ogni giorno; ma mi pare che a questo punto ci si trovi tutti sulla stessa barca e a rinfacciarsi parole e scelte tra amministratori e dipendenti si rischi di fare la fine dei capponi di Renzo.
Naturalmente non sciopero contro i cittadini, che sono gli unici a subire il disagio della mia protesta. Da militante spero che domani il mio ufficio rimanga chiuso e che non funzioni nessun servizio del Comune in cui lavoro. Da lavoratore che crede nella funzione pubblica del suo lavoro - e non è un caso che questo governo non usi più questa espressione, nemmeno per la denominazione del ministero, così come ha "abolito" il termine pubblica istruzione - mi spiace che vengano tolti ai cittadini alcuni loro diritti di base. Tutti i lavoratori che creano un disservizio agli altri, e tanto più noi dipendenti pubblici, abbiamo il dovere di spiegare ai cittadini il motivo per cui stiamo scioperando, consapevoli che stiamo lottando anche per loro, pur nel momento che lediamo qualche loro diritto.
Mi ha colpito un'affermazione fatta dal segretario della Camera del lavoro di Bologna, Danilo Gruppi, riferita alla sciopero di domani: "Con queste misure i padroni non si portano a casa niente. Solo qualche giornata di ponte in meno. La imprese edili che piangono e hanno tutte le ragioni. La norma sulla tassazione degli utili delle cooperative è vergognosa. I consumi sono tornati al livello del 2000. La verità è che le imprese sono in ginocchio e il governo non ha fatto nulla per sostenerle. Questa manovra è una disgrazia per le imprese, scioperiamo per salvare il nostro sistema produttivo". Sono completamente d'accordo, questo è lo spirito di vera coesione nazionale. Io domani sciopero non solo per i lavoratori, ma sciopero per l'Italia, per il futuro di questo paese.
Il mio spirito di coesione nazionale però finisce necessariamente qui. Non mi si può chiedere di stare sulla stessa barca con questo governo, con chi è responsabile di questo stato di cose, con gli evasori e i furbi di ogni risma, con i ricchi che difendono i loro privilegi. Cito ancora una volta Stajano: "è difficile, se non impossibile, un'unità d'intenti, una condivisione dell'agire, spesso auspicate, quando i principi fondamentali su cui dovrebbe reggersi una comunità vengono così smaccatamente negati". Io contro questi manifesto e manifesterò e con questa Italia non voglio avere niente a che fare. Non c'è appello che tenga: è il momento delle scelte, o di qua o di là.
"La mendicante" di Charles Reznikoff
venerdì 2 settembre 2011
Considerazioni libere (246): a proposito di una scelta difficile e dolorosa...
Immagino avrete letto qualche articolo sulla vicenda delle due gemelli siamesi nate poco più di due mesi fa all'ospedale Sant'Orsola di Bologna. Fortunatamente per le due bambine, e soprattutto per quella famiglia, la loro vicenda non è diventata un caso mediatico e le notizie che le riguardano sono in genere di taglio basso e rimangono nelle pagine interne dei quotidiani. Speriamo continui così anche quando - tra poco tempo ormai - la vicenda avrà un esito tanto drammatico quanto prevedibile, con la morte di una delle due, la più debole, e la sopravvivenza della sola che potrà continuare a usare il loro unico cuore. Pochissimi giorni fa, al compimento dei due mesi, l'ospedale ha diramato un comunicato per dire che le bambine stanno crescendo, sono arrivate a un chilo di peso; "è evidente l'accrescimento corporeo - si legge nel bollettino medico - e, pur con le limitazioni legate alla congiunzione toracica e addominale, si muovono spontaneamente e mostrano qualche attenzione per l'ambiente circostante". Pur nel rispetto dei sentimenti di quella famiglia e anche del lavoro dei medici, credo sia necessario fare qualche riflessione su una vicenda che, pur avendo caratteri di eccezionalità, presenta degli elementi su cui sempre più dovremo confrontarci nel prossimo futuro.
Credo sia onesto partire da un dato di fatto difficilmente controvertibile: le due bambine sono nate vive e sopravvivono, pur in una situazione così difficile e clinicamente critica, solo perché hanno avuto l'opportunità - direi la fortuna, se tale termine non suonasse offensivo - di nascere ora in un paese che dispone di tecnologie e di conoscenze mediche estremamente avanzate. Se questa gravidanza fosse avvenuta in gran parte degli altri paesi del mondo - e temo anche in qualche altra regione del nostro paese - o se fosse avvenuta nello stesso luogo soltanto dieci anni fa, le due bambine non sarebbero mai sopravvissute e anzi un tale parto avrebbe rischiato di mettere a repentaglio anche la vita della loro madre. In qualche modo il comunicato del Sant'Orsola esplicita questo fatto in maniera lampante, pur nella prosa asettica di un bollettino medico: le due neonate "mantengono necessariamente il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali"; al di là di tutto questo, si conclude che "non si sono presentate ulteriori complessità da trattare". Le bambine stanno bene.
La natura avrebbe già preso una propria decisione, drammatica e crudele quanto la natura sa essere, ma gli uomini hanno adesso la forza per avere il sopravvento sulle leggi della natura. Il dibattito si è spostato su un altro piano: è tutto degli uomini. Non si può invocare la natura, dicendo che farà il suo corso e che sceglierà quale delle due bambine potrà sopravvivere, non possiamo più chiamare in causa la natura, quando gli uomini hanno deliberatamente deciso di forzarne gli esiti. E' altrettanto evidente che gli uomini che hanno deciso di prendersi questo enorme potere, questa responsabilità così terribile, non sanno come usarlo o almeno non sanno come affrontare le conseguenze delle proprie decisioni.
Il Comitato di Bioetica dell'università di Bologna ha espresso il proprio autorevole parere, spiegando che ci sono due opzioni: "la prima è quella in cui le due neonate non versino in condizioni di imminente e grave pericolo di vita: in questo caso, il Comitato ritiene eticamente corretto che i medici non intervengano per procedere ad una separazione, che provocherebbe la morte di una delle due gemelle"; la seconda, nel caso in cui ci sia "imminente e grave pericolo di vita", prevede che i medici possano salvare la bambina più forte, sacrificando la più debole. Anche le gerarchie cattoliche, attraverso l'arcivescovo Fisichella, si sono espresse a favore di questa soluzione; ha detto l'eminente esponente cattolico che "davanti alla reale possibilità della morte per le due neonate, ogni sforzo per salvarne almeno una è da noi considerato come un atto di amore a favore della vita e, come tale, è lecito". Francamente mi sembra una posizione debole e un po' pilatesca. Le due bambine non stanno vivendo da sole, sono letteralmente tenute in vita dai medici che, per usare ancora una volta le loro parole, mantengono "il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali". Senza questo intervento terapeutico, che potremmo anche definire accanimento, le due bambine sarebbero morte da due mesi e questo dibattito non avrebbe senso.
E cosa succederebbe se quel momento fatidico, il momento in cui i medici registrano un "imminente e grave pericolo di vita" non arrivasse mai o arrivasse dopo che nelle due bambine si sia sviluppata coscienza e consapevolezza della propria situazione? Sicuramente, se la separazione avvenisse oggi, la bambina superstite, la sopravvissuta, non ricorderebbe le poche settimane in cui una parte del suo corpo è stato condiviso con un'altra persona, un'altra lei; ma cosa succederebbe se la separazione avvenisse tra un anno, quale trauma sarebbe per la bambina più forte il ricordo, per quanto tenue, di quella sua sorella più debole, di quella creatura che non ce l'ha fatta? Noi non sappiamo cosa c'è nella testa di quelle due bambine, i medici dicono che stanno mostrando "qualche attenzione per l'ambiente circostante", ma per ciascuna di loro due l'ambiente circostante è prima di tutto quell'altra, quella strana bambina che esce dal proprio petto. Forse per le due bambine nate a Bologna la crisi arriverà presto e costringerà i medici a intervenire, ma cosa succederà tra dieci anni, quando i progressi della medicina avranno fatto ulteriori passi in avanti? Forse l'ipotesi che quella strana creatura a due teste possa sopravvivere, possa raggiungere l'età dello sviluppo, possa arrivare ad avere consapevolezza di sé non è così peregrina. E allora cosa succederà? Cosa succederà quando avremo tanta forza per impedire la morte, ma non abbastanza per garantire un normale livello di vita?
Come ho detto all'inizio, ho rispetto per i genitori delle due bambine, penso che il loro travaglio in queste settimane e nelle settimane che hanno immediatamente preceduto il parto, dopo che è stata diagnosticata la malattia delle due bambine, sia al di là di ogni comprensione. Con grande franchezza però devo dire che la loro scelta di mettere comunque al mondo le due bambine sia stato un atto di egoismo. Le loro legittime convinzioni etiche e religiose hanno avuto la meglio sulla pietà verso le loro figlie. Queste due persone hanno già dei figli: immagino che anche su questi bambini - di cui non conosco l'età - per quanto sia sviluppata la consapevolezza di quello che sta succedendo, questa vicenda lascerà dei segni, se non altro per il fatto che in queste settimane tutte le energie, fisiche e psicologiche, dei loro genitori sono rivolte a quell'incubatrice dell'ospedale di Bologna. La scelta di non abortire mi pare una sopraffazione anche verso di loro, un modo per salvarsi l'anima, per poter continuare a proclamare i propri principi, senza pensare a nessun'altra conseguenza. Capisco bene quanto possa essere doloroso, specialmente per una madre, decidere di abortire, ma che dolore subirà adesso quella donna, quando una bambina che lei ha visto e accarezzato, una bambina che forse ha imparato a riconoscerla come la propria madre morirà?
Come vedete è una vicenda che ci pone molte domande, a cui è difficile, quasi impossibile trovare una risposta univoca, eppure non possiamo più far finta di niente. E' qualcosa che ci coinvolge, che ci coinvolgerà. E' la nostra storia di donne e di uomini.
Credo sia onesto partire da un dato di fatto difficilmente controvertibile: le due bambine sono nate vive e sopravvivono, pur in una situazione così difficile e clinicamente critica, solo perché hanno avuto l'opportunità - direi la fortuna, se tale termine non suonasse offensivo - di nascere ora in un paese che dispone di tecnologie e di conoscenze mediche estremamente avanzate. Se questa gravidanza fosse avvenuta in gran parte degli altri paesi del mondo - e temo anche in qualche altra regione del nostro paese - o se fosse avvenuta nello stesso luogo soltanto dieci anni fa, le due bambine non sarebbero mai sopravvissute e anzi un tale parto avrebbe rischiato di mettere a repentaglio anche la vita della loro madre. In qualche modo il comunicato del Sant'Orsola esplicita questo fatto in maniera lampante, pur nella prosa asettica di un bollettino medico: le due neonate "mantengono necessariamente il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali"; al di là di tutto questo, si conclude che "non si sono presentate ulteriori complessità da trattare". Le bambine stanno bene.
La natura avrebbe già preso una propria decisione, drammatica e crudele quanto la natura sa essere, ma gli uomini hanno adesso la forza per avere il sopravvento sulle leggi della natura. Il dibattito si è spostato su un altro piano: è tutto degli uomini. Non si può invocare la natura, dicendo che farà il suo corso e che sceglierà quale delle due bambine potrà sopravvivere, non possiamo più chiamare in causa la natura, quando gli uomini hanno deliberatamente deciso di forzarne gli esiti. E' altrettanto evidente che gli uomini che hanno deciso di prendersi questo enorme potere, questa responsabilità così terribile, non sanno come usarlo o almeno non sanno come affrontare le conseguenze delle proprie decisioni.
Il Comitato di Bioetica dell'università di Bologna ha espresso il proprio autorevole parere, spiegando che ci sono due opzioni: "la prima è quella in cui le due neonate non versino in condizioni di imminente e grave pericolo di vita: in questo caso, il Comitato ritiene eticamente corretto che i medici non intervengano per procedere ad una separazione, che provocherebbe la morte di una delle due gemelle"; la seconda, nel caso in cui ci sia "imminente e grave pericolo di vita", prevede che i medici possano salvare la bambina più forte, sacrificando la più debole. Anche le gerarchie cattoliche, attraverso l'arcivescovo Fisichella, si sono espresse a favore di questa soluzione; ha detto l'eminente esponente cattolico che "davanti alla reale possibilità della morte per le due neonate, ogni sforzo per salvarne almeno una è da noi considerato come un atto di amore a favore della vita e, come tale, è lecito". Francamente mi sembra una posizione debole e un po' pilatesca. Le due bambine non stanno vivendo da sole, sono letteralmente tenute in vita dai medici che, per usare ancora una volta le loro parole, mantengono "il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali". Senza questo intervento terapeutico, che potremmo anche definire accanimento, le due bambine sarebbero morte da due mesi e questo dibattito non avrebbe senso.
E cosa succederebbe se quel momento fatidico, il momento in cui i medici registrano un "imminente e grave pericolo di vita" non arrivasse mai o arrivasse dopo che nelle due bambine si sia sviluppata coscienza e consapevolezza della propria situazione? Sicuramente, se la separazione avvenisse oggi, la bambina superstite, la sopravvissuta, non ricorderebbe le poche settimane in cui una parte del suo corpo è stato condiviso con un'altra persona, un'altra lei; ma cosa succederebbe se la separazione avvenisse tra un anno, quale trauma sarebbe per la bambina più forte il ricordo, per quanto tenue, di quella sua sorella più debole, di quella creatura che non ce l'ha fatta? Noi non sappiamo cosa c'è nella testa di quelle due bambine, i medici dicono che stanno mostrando "qualche attenzione per l'ambiente circostante", ma per ciascuna di loro due l'ambiente circostante è prima di tutto quell'altra, quella strana bambina che esce dal proprio petto. Forse per le due bambine nate a Bologna la crisi arriverà presto e costringerà i medici a intervenire, ma cosa succederà tra dieci anni, quando i progressi della medicina avranno fatto ulteriori passi in avanti? Forse l'ipotesi che quella strana creatura a due teste possa sopravvivere, possa raggiungere l'età dello sviluppo, possa arrivare ad avere consapevolezza di sé non è così peregrina. E allora cosa succederà? Cosa succederà quando avremo tanta forza per impedire la morte, ma non abbastanza per garantire un normale livello di vita?
Come ho detto all'inizio, ho rispetto per i genitori delle due bambine, penso che il loro travaglio in queste settimane e nelle settimane che hanno immediatamente preceduto il parto, dopo che è stata diagnosticata la malattia delle due bambine, sia al di là di ogni comprensione. Con grande franchezza però devo dire che la loro scelta di mettere comunque al mondo le due bambine sia stato un atto di egoismo. Le loro legittime convinzioni etiche e religiose hanno avuto la meglio sulla pietà verso le loro figlie. Queste due persone hanno già dei figli: immagino che anche su questi bambini - di cui non conosco l'età - per quanto sia sviluppata la consapevolezza di quello che sta succedendo, questa vicenda lascerà dei segni, se non altro per il fatto che in queste settimane tutte le energie, fisiche e psicologiche, dei loro genitori sono rivolte a quell'incubatrice dell'ospedale di Bologna. La scelta di non abortire mi pare una sopraffazione anche verso di loro, un modo per salvarsi l'anima, per poter continuare a proclamare i propri principi, senza pensare a nessun'altra conseguenza. Capisco bene quanto possa essere doloroso, specialmente per una madre, decidere di abortire, ma che dolore subirà adesso quella donna, quando una bambina che lei ha visto e accarezzato, una bambina che forse ha imparato a riconoscerla come la propria madre morirà?
Come vedete è una vicenda che ci pone molte domande, a cui è difficile, quasi impossibile trovare una risposta univoca, eppure non possiamo più far finta di niente. E' qualcosa che ci coinvolge, che ci coinvolgerà. E' la nostra storia di donne e di uomini.
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