Scrivo questa "considerazione" sul "caso Penati" e sul cosiddetto "sistema Sesto" con molto ritardo rispetto a quando la notizia è uscita sui giornali. Il 29 agosto scorso un'amica di Facebook - già mia compagna di viaggio in treno - nonostante tutto schiettamente di sinistra, ha scritto un commento molto duro sulla vicenda. Quella rabbia era la mia rabbia e quella di tanti altri compagni. Non riesco a essere sereno su quello che è successo. Lo ammetto: con molta irrazionalità, se fosse successso nel Partito Democratico, la cosa mi avrebbe dato meno fastidio; invece è successa nel partito di cui sono stato militante, iscritto, funzionario, nelle cui liste sono stato eletto amministratore. E' qualcosa che ha colpito la comunità di cui ho fatto parte e naturalmente mi ha lasciato un segno, come sono sicuro è successo a molti altri compagni. Commentando la sua nota, le avevo scritto che ne avrei parlato sul mio blog, a mente fredda, per quanto possibile. Provo a farlo adesso.
Per dare un giudizio non ho elementi oltre a quelli apparsi sui giornali, non conosco personalmente né Penati né nessun altra delle persone coinvolte nell'inchiesta. Tra il 2004 e il 2005 ho conosciuto alcuni funzionari della Federazione di Milano, persone che facevano il mio stesso lavoro e che stavano preparando la Festa nazionale: Penati era allora il Presidente della Provincia, uno dei pochi capace di battere il centrodestra in un nord che sembrava per noi inaccessibile. Nel momento in cui Penati ha assunto un ruolo nazizonale, guidando la mozione che ha portato Bersani alla segreteria nazionale del Pd, io ero già fuori dal partito e la consideravo ormai un'altra storia. In quegli anni là, quando faceva il Presidente della Provincia, lo stimavo, lo consideravo una persona capace, un bravo amministratore, uno in grado di affrontare nel modo giusto un frangente politico e sociale complicato. Penso di essermi sbagliato.
Eravamo in tanti allora convinti che il centrodestra si potesse battere soltanto se il nostro partito si fosse attestato su posizioni un po' meno di sinistra, se avesse attirato a sé anche una parte dell'elettorato moderato. Stava cambiando lentamente l'anima del partito. Per qualche anno l'equilibrio è stato mantenuto, poi alcuni meccanismi si sono definitivamente rotti e i Democratici di Sinistra hanno velocemente imboccato la strada che ha portato la maggioranza di quel partito a chiudere quell'esperienza per dare vita a un'altra forza politica, il Pd, che, per programmi e per valori, non voleva più essere di sinistra, e che infatti ora non lo è più. Qualcosa del genere è successo anche in altri paesi della sinistra europea, ma nessun altro, come invece è successo in Italia, ha deliberatamente - e per me malauguratamente - deciso di uscire dal Pse. La questione di fondo è che questi esponenti della sinistra italiana hanno consapevolmente rinunciato a ogni pensiero critico rispetto al capitalismo che stava emergendo e che si è dimostrato quel capitalismo di rapina che ci ha condotto alla crisi di questi anni; la sinistra italiana è stata convinta e si è convinta che il mercato avesse in sé una forza regolatrice positiva, mentre il mercato, se è lasciato libero di procedere secondo la propria potente e inesorabile logica interna, inevitabilmente produce ricchezza, tantissima, per pochi e povertà, tanta, per molti.
Non sono andato fuori tema: il problema - come si diceva una volta - è politico. Torniamo a Penati e a Sesto San Giovanni. Non so se Penati è colpevole di tutte i reati che gli sono stati imputati - la credibilità e la limpidezza dei suoi accusatori sono tutte da verificare - ma certamente dalle intercettazioni lette in questi giorni nei quotidiani emerge uno stile che non può non preoccupare e inquietare: incontri clandestini tra politici e imprenditori, telefonate con parole e messaggi in codice, una familiarità sospetta tra chi dovrebbe prendere le decisioni e chi da quelle decisioni può ricavare un vantaggio o un danno. Certo Penati rappresentava una certa modernità nel suo modo di agire come politico, ma probabilmente questa modernità si è coniugata con una spregiudicatezza che non dovrebbe avere nulla a che fare con la nostra storia. I due piani, quello della politica e quello dell'etica pubblica, mi sembrano fatalmente intrecciati: la crisi di valori è stata anche crisi politica e viceversa, i due aspetti si tengono strettamente. Tanto più per il fatto che probabilmente Penati non ha utilizzato quei soldi che arrivavano in maniera segreta e anonima per arricchire se stesso, ma per contribuire al bilancio del partito. Forse Penati - e questo sarebbe ancora più grave - non si rendeva neppure del tutto contro di quello che stava facendo, di quanto fosse grave: quei rapporti erano parte della sua attività politica, del modo in cui interpretava la politica che stava caambiando. Avrebbe considerato grave prendere soldi per sé, ma si sentiva in qualche modo giustificato, dal momento che quei soldi servivano a finanziare il partito in cui militava. Anche in questo modo si perde l'anima, si perdono i valori fondanti di una politica; e ancora una volta i due piani si intrecciano indossolubilmente.
Metafora di questo cambiamento è la stessa città di Sesto San Giovanni. La storia di Sesto è la storia della sinistra italiana: le lotte operaie all'inizio del Novecento, la lotta clandestina contro il fascismo, i grandi scioperi del '44, il contributo alla Resistenza, la crescita economica e le lotte sociali del secondo dopoguerra, la capacità degli amministratori locali del Pci. Una città fatta di fabbriche, che una dopo l'altra hanno chiuso, lasciando il posto a grandi insediamenti residenziali e commerciali. Anche questo passaggio urbanistico e sociale è stato visto come un fenomeno positivo, moderno, un segno dei tempi nuovi che portava un nuovo sviluppo. Adesso cominciamo a capire che il proliferare di tanti centri commerciali ha progressivamente trasformato i cittadini in consumatori. Il problema di Sesto non sono tanto le tangenti infilate nei panettoni o il fatto che politici, ingegneri e costruttori partecipassero alle stesse feste - anche se questo sarebbe stato meglio evitarlo - ma è il fatto che l'ultima leva degli amministratori della città lombarda ha accettato questa trasformazione da città operaia a città-mercato, anzi ne ha rivendicato gli aspetti positivi: una città architettonicamente più bella, più verde, senza le ciminiere. Ma anche una città con meno rapporti umani, più chiusa in se stessa, con minori opportunità. Sarebbe stato necessario avere la forza non solo di non accettare regali o favori, ma soprattutto di pensare a un modello di sviluppo diverso. Dal momento che non abbiamo avuto la forza di fare questa seconda cosa, siamo stati più esposti alle lusinghe e ai rischi di questa modernità così spregiudicata. E questi cambiamenti ci hanno travolto.
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