Pagliaccio, sost. m.
Osservo queste ennesime primarie del pd più con l'interesse dello storico del teatro che con la passione del politico. Il mio giudizio su quel partito è netto, da tempo, e credo che ormai più nulla me lo farà cambiare: è assolutamente ininfluente quale sarà l'esito del 30 aprile, perché il pd è nato per distruggere la sinistra in Italia e quindi io sono - e sarò - un suo avversario.
Con questa mia curiosità per così dire scientifica ho trovato comprensibilissima la candidatura di Michele Emiliano: sta nel suo personaggio, nel canovaccio di questi teatranti. Il satrapo pugliese, esattamente come renzi, è un animale dell'oltrepolitica; per lui, proprio come per renzi, è assolutamente privo di significato definirsi di destra o di sinistra, richiamarsi a questo o quello schieramento, a questo o quel valore. A Emiliano, come a renzi, interessa il potere e ogni sua scelta è legata al raggiungimento di questo obiettivo. Emiliano ha capito che avrebbe avuto più fortuna a candidarsi con il centrosinistra e ha fatto quella scelta, evidentemente con profitto. Ha capito che adesso ci avrebbe guadagnato a essere antirenziano ed è diventato antirenziano. Per questo io ho sempre creduto poco che partecipasse a una scissione: non è nel personaggio. Emiliano non può vincere, perché non vuole vincere, non gli interessa, anzi per lui sarebbe a questo punto una iattura, solo rogne. Queste primarie gli servono per contare: gli servono voti da far pesare.
Immagino che il cacicco pugliese soffrisse che il suo dirimpettaio campano godesse di maggiore notorietà di lui: De Luca sono mesi che viene imitato da Crozza. Adesso che il comico genovese ha cominciato a interpretare anche lui, Emiliano è soddisfatto, ha raggiunto uno degli obiettivi che si era prefissato il suo ego ipertrofico. Ovviamente Emiliano non è solo facciata, è soprattutto gestione del potere e degli affari, ma - esattamente come il boss di Salerno - la sua dimensione è quella regionale: lui tanto più conta quanto più controlla dei territori. Infatti uno degli effetti più evidenti dell'oltrepolitica è proprio quella di aver spostato il baricentro del potere da un lato verso i territori e dall'altro verso autorità sovranazionali: i governi nazionali, specialmente di paesi come l'Italia, sono vasi di coccio in mezzo a questi poteri. Emiliano, che è intelligente, l'ha capito e in Puglia vuole restare.
Quello che invece trovo davvero incomprensibile è la candidatura di Andrea Orlando. L'ho conosciuto circa quattordici anni fa. Siamo praticamente coetanei. Lui faceva il suo apprendistato politico nell'organizzazione e tra noi delle feste e quelli di quel dipartimento c'erano spesso contatti. Lui era arrivato da poco a Roma da La Spezia, e infatti parlava poco, osservava, studiava, faceva gavetta. Me lo ricordo come uno serio. Ne ha fatta di strada: è uno diligente. Ed è stato anche fortunato. Nella lista con cui renzi salì al Quirinale Orlando continuava a occupare la casella dell'ambiente, mentre Nicola Gratteri avrebbe dovuto essere il nuovo Guardasigilli, ma siccome Napolitano non lo voleva, Orlando si ritrovò in pochi minuti a capo del ministero di via Arenula: di giustizia si era occupato da tempo, ne sapeva molto più che di ambiente e quindi è capitato al posto giusto. Non sempre succede.
Orlando non è come renzi o Emiliano, è uno che fa politica, che l'ha sempre fatta, per me la fa male, ma la fa, o meglio non sono assolutamente d'accordo con lui, ma la fa. E infatti ha cominciato questo percorso delle primarie come fossero una cosa seria e non la baracconata che è. Personalmente credo che avrebbe avuto ben poche chance anche se non ci fosse stata questa sorta di scissione tosco-emiliana, capeggiata da Bersani, ma così le sue speranze sono davvero ridotte al lumicino. Orlando è inadatto per le primarie, non è un artista del circo come gli altri due, lo ridicolizzeranno alla prima occasione. Come ho detto non mi dispiace: peggio per lui, se l'è cercata. Non è certo innocente il tenero Orlando. Ma la sua candidatura avrà l'unico risultato di rendere ancora più sminuito il ruolo della politica, perché l'unico politico del mazzo finirà per fare la figura del clown bianco, noioso e severo, mentre tutti gli applausi se li prenderanno i due augusti.
Venghino, siori, venghino allo spettacolo delle primarie: più gente entra, più bestie si vedono.
lunedì 27 febbraio 2017
sabato 25 febbraio 2017
Verba volant (354): speculazione...
Speculazione, sost. f.
Vedi in vetrina una giacca che ti piace. Entri in negozio, te la provi e ti sta proprio bene; anche il negoziante ti conferma che quella giacca ti cade che è una meraviglia, ti fa sembrare più magro. Decidi di acquistarla. Il negoziante ti dice il prezzo, tu tentenni: è un po' cara. Però ti piace, il negoziante capisce che la comprerai, tu ci provi e chiedi uno sconto - ci sei già andato in quel negozio, sei cliente - il negoziante ci pensa un po' e poi ti dice che te la vende per la metà del prezzo iniziale. Tu gongoli, la compri e vai a casa con la tua giacca nuova. Poi con calma ripensi al tuo recente acquisto. Anche vendendotela a metà prezzo, il negoziante ci avrà guadagnato comunque. E' giusto che ci guadagni: è il suo lavoro. Ma se tu l'avessi pagata il prezzo che aveva chiesto all'inizio, quanto ci avrebbe guadagnato? Moltissimo, forse troppo. Voleva approfittarsi di te: la prossima volta da lui non ci torni.
L'esempio è certamente banale, ma credo renda l'idea. Proviamo a cambiare un po' i termini della questione. Tu fai il sindaco. Ti presentano un progetto che prevede la realizzazione di edifici per un certo numero di metri quadri. Tu fai una valutazione, sai che quel costruttore avrà un guadagno, ma cerchi di capire che utilità ne potrà avere la città che amministri, contratti, chiedi in cambio delle opere pubbliche che il costruttore non avrebbe realizzato per suo conto, perché non vendibili. Si tratta di un processo che può essere lungo. Chi costruisce deve ottenere un qualche guadagno e anche la comunità deve guadagnarci: nel trovare questo equilibrio sta la capacità di un amministratore. Se all'improvviso, nel momento in cui la trattativa sta per essere chiusa, il costruttore presenta un progetto che è meno della metà di quello originario, ti dovrebbe venire un sospetto. Visto che ci guadagnerà anche in questo caso - non lo sta facendo per beneficenza - quanto ci avrebbe guadagnato facendo il progetto originario?
L'esempio è certamente banale, ma credo renda l'idea. Proviamo a cambiare un po' i termini della questione. Tu fai il sindaco. Ti presentano un progetto che prevede la realizzazione di edifici per un certo numero di metri quadri. Tu fai una valutazione, sai che quel costruttore avrà un guadagno, ma cerchi di capire che utilità ne potrà avere la città che amministri, contratti, chiedi in cambio delle opere pubbliche che il costruttore non avrebbe realizzato per suo conto, perché non vendibili. Si tratta di un processo che può essere lungo. Chi costruisce deve ottenere un qualche guadagno e anche la comunità deve guadagnarci: nel trovare questo equilibrio sta la capacità di un amministratore. Se all'improvviso, nel momento in cui la trattativa sta per essere chiusa, il costruttore presenta un progetto che è meno della metà di quello originario, ti dovrebbe venire un sospetto. Visto che ci guadagnerà anche in questo caso - non lo sta facendo per beneficenza - quanto ci avrebbe guadagnato facendo il progetto originario?
Sarebbe stata una speculazione ai danni della città. E quindi hai di fronte qualcuno di cui faresti meglio a non fidarti, qualcuno che vuole truffare la comunità che amministri. Dovresti stare ben attento. Non ti dico che devi rinunciare a quel progetto, ma a quel punto devi chiedere di più, devi ottenere più benefici per la tua città, non solo essere contento che c'è una qualche torre in meno e che hai messo tranquilli quelli che dicevano che il progetto era troppo grande. La cosa importante è che devi essere tu a condurre la trattativa e non devi farti condurre, che devi sapere cosa serve alla tua città e non te lo devi far dire da chi ha un'interesse a fare una cosa piuttosto che un'altra. Non è fantascienza: semplicemente si chiama politica.
venerdì 24 febbraio 2017
Considerazioni libere (417): a proposito di una notte che ci sembra senza fine...
La sinistra confusa e smarrita
Da strenuo avversario di quel partito, sono ovviamente contento che il pd sia imploso: c'è voluto molto tempo, troppo tempo, e abbiamo corso troppi rischi - se non ci fosse stato il NO del 4 dicembre adesso racconteremmo tutta un'altra storia - ma alla fine, per quanto uno cerchi di scuotere la bottiglia, acqua e olio non possono mescolarsi e il pd è destinato a finire come merita, come un partito centrista invischiato nella rete tesa da Verdini e dai suoi sodali. Tra un po' immagino che perfino Repubblica gli volterà le spalle, cercando un altro cavallo su cui puntare: renzi e il pd hanno appeal se hanno potere, quando lo perdono, smettono perfino di esistere. Probabilmente renzi continuerà a definirsi di sinistra - l'ha fatto anche nell'ultima assemblea del partito mal nato - ma tra poco abbandonerà anche queste ultime, estreme, fantasie, per rifugiarsi in una sorta di nuovismo tecnicista e vagamente compassionevole, che è la vera cifra del suo pensiero politico. Sic transit gloria mundi.
Domenica scorsa, morto il pd come partito di sinistra - con buona pace dei competitor scesi in campo a contendere le spoglie del cadavere - sono nati due nuovi partiti nella frammentata galassia di quelli che in questo paese si autodefiniscono di sinistra: a Rimini è nata Sinistra Italiana, mentre a Roma sono state gettate le basi per far rinascere qualcosa di simile a quello che sono stati i Ds. E poi in giro ci sono tanti cantieri, tanti laboratori, tante persone che - qualcuno perfino animato dalle migliori intenzioni - lavora per ricostruire la sinistra in Italia, dopo questi drammatici dieci anni dominati dal pd. Sinceramente nessuno di questi progetti mi entusiasma e comunque, a mio avviso, tutti sono inadeguati rispetto alle sfide a cui questo mondo così complicato ci mette di fronte. Mi rendo conto che la contemporaneità dell'assemblea del pd e del congresso di Sinistra Italiana ha finito per relegare quest'ultimo tra le notizie meno importanti: credo sarebbe successo comunque, perché ormai è passata l'idea che in fondo sia sempre il solito chiacchiericcio. E un po' è così; purtroppo.
La notte di cui non vediamo la fine
Il problema non è tanto che continuano a nascere nuovi partiti, ma che rischiano di essere indistinguibili l'uno dall'altro. Di notte tutti i gatti sono bigi, recita un antico proverbio. E' vero, dobbiamo renderci conto che è notte, è notte da molto tempo e lo sarà ancora per molto tempo; prima lo capiamo, meglio è.
Le risposte che vengono date in questi giorni all'annoso problema di cosa sia la sinistra, forse non sono sbagliate in sé - anche se in alcuni casi, come in quello di D'Alema e di Bersani, penso lo siano - ma soprattutto vengono date senza ascoltare le domande. Diventando vecchio, sono sempre meno paziente, e mi arrabbio quando vedo che si continua a perdere tempo. Il dibattito sulle alleanze è sterile, perché se unisci anche molti zero virgola non arrivi alla maggioranza e vince la destra. Io, come potete immaginare, anche per la mia storia personale, ho una grande considerazione per la politica, credo sia fondamentale nella vita delle persone, ma, a questo punto, al punto in cui siamo arrivati, credo che sia insufficiente a spiegare quello che la sinistra deve essere. E soprattutto sia insufficiente per tornare a essere una prospettiva credibile, capace di parlare alle persone che dovrebbe rappresentare e che, di conseguenza, dovrebbero votarla. Il problema non è che ci sono molti partiti, ma che ci sono pochi elettori.
Da strenuo avversario di quel partito, sono ovviamente contento che il pd sia imploso: c'è voluto molto tempo, troppo tempo, e abbiamo corso troppi rischi - se non ci fosse stato il NO del 4 dicembre adesso racconteremmo tutta un'altra storia - ma alla fine, per quanto uno cerchi di scuotere la bottiglia, acqua e olio non possono mescolarsi e il pd è destinato a finire come merita, come un partito centrista invischiato nella rete tesa da Verdini e dai suoi sodali. Tra un po' immagino che perfino Repubblica gli volterà le spalle, cercando un altro cavallo su cui puntare: renzi e il pd hanno appeal se hanno potere, quando lo perdono, smettono perfino di esistere. Probabilmente renzi continuerà a definirsi di sinistra - l'ha fatto anche nell'ultima assemblea del partito mal nato - ma tra poco abbandonerà anche queste ultime, estreme, fantasie, per rifugiarsi in una sorta di nuovismo tecnicista e vagamente compassionevole, che è la vera cifra del suo pensiero politico. Sic transit gloria mundi.
Domenica scorsa, morto il pd come partito di sinistra - con buona pace dei competitor scesi in campo a contendere le spoglie del cadavere - sono nati due nuovi partiti nella frammentata galassia di quelli che in questo paese si autodefiniscono di sinistra: a Rimini è nata Sinistra Italiana, mentre a Roma sono state gettate le basi per far rinascere qualcosa di simile a quello che sono stati i Ds. E poi in giro ci sono tanti cantieri, tanti laboratori, tante persone che - qualcuno perfino animato dalle migliori intenzioni - lavora per ricostruire la sinistra in Italia, dopo questi drammatici dieci anni dominati dal pd. Sinceramente nessuno di questi progetti mi entusiasma e comunque, a mio avviso, tutti sono inadeguati rispetto alle sfide a cui questo mondo così complicato ci mette di fronte. Mi rendo conto che la contemporaneità dell'assemblea del pd e del congresso di Sinistra Italiana ha finito per relegare quest'ultimo tra le notizie meno importanti: credo sarebbe successo comunque, perché ormai è passata l'idea che in fondo sia sempre il solito chiacchiericcio. E un po' è così; purtroppo.
La notte di cui non vediamo la fine
Il problema non è tanto che continuano a nascere nuovi partiti, ma che rischiano di essere indistinguibili l'uno dall'altro. Di notte tutti i gatti sono bigi, recita un antico proverbio. E' vero, dobbiamo renderci conto che è notte, è notte da molto tempo e lo sarà ancora per molto tempo; prima lo capiamo, meglio è.
Le risposte che vengono date in questi giorni all'annoso problema di cosa sia la sinistra, forse non sono sbagliate in sé - anche se in alcuni casi, come in quello di D'Alema e di Bersani, penso lo siano - ma soprattutto vengono date senza ascoltare le domande. Diventando vecchio, sono sempre meno paziente, e mi arrabbio quando vedo che si continua a perdere tempo. Il dibattito sulle alleanze è sterile, perché se unisci anche molti zero virgola non arrivi alla maggioranza e vince la destra. Io, come potete immaginare, anche per la mia storia personale, ho una grande considerazione per la politica, credo sia fondamentale nella vita delle persone, ma, a questo punto, al punto in cui siamo arrivati, credo che sia insufficiente a spiegare quello che la sinistra deve essere. E soprattutto sia insufficiente per tornare a essere una prospettiva credibile, capace di parlare alle persone che dovrebbe rappresentare e che, di conseguenza, dovrebbero votarla. Il problema non è che ci sono molti partiti, ma che ci sono pochi elettori.
In questi ultimi trent'anni abbiamo perso perfino il lessico comune della sinistra socialista, perché uno dopo l'altro abbiamo mandato al macero gli strumenti su cui quelle idee camminavano. Proviamo a uscire nel mondo vero, fuori dai social, fuori dai nostri giri consueti - perché troppo spesso ci parliamo addosso - e cerchiamo di capire cos'è la sinistra per quelle persone che dovrebbero essere di sinistra, perché sono povere, perché sono sfruttate dai loro padroni, perché il capitalismo le ha messe in ginocchio.
Ad esempio per queste persone la cooperazione cos'è? E' un modo come un altro di fare impresa. Cosa rende davvero diverso fare la spesa alla Coop o all'Esselunga? Temo nulla, se non le offerte, la qualità dei prodotti o i premi delle carte fedeltà. E troppo spesso anche per chi ci lavora c'è poca differenza tra un'impresa cooperativa e una "normale". Per molti la cooperazione è un modo di fare impresa senza pagare le tasse. Lo so che non è così, lo so che tante piccole cooperative svolgono un lavoro prezioso e hanno ideali antichi, ma per molte persone la cooperazione è questo - e tante volte purtroppo è questo - e se non ci mettiamo in relazione con queste persone - che sono la maggioranza - allora saremo sconfitti, perché continueranno a votare per Trump o per l'uomo forte del momento.
Per queste persone il sindacato cos'è? Non spiegatelo a me, che conosco il lavoro difficile di tanti sindacalisti che si impegnano con fatica sul territorio, ma a chi vede le organizzazioni sindacali come strutture distanti, incapaci di tutelarli. Ed è così, è anche così; i sindacati oggi sono un pezzo di quelle classi dirigenti che hanno portato la società in rovina, non sono antagonisti, ma in molti casi complici. Il problema non è solo il susseguirsi di episodi di malaffare, che pure pesano, di singoli esponenti del sindacato, ma l'incapacità di leggere la crisi di questi anni, di cui tutta la sinistra, sindacato compreso, è responsabile. All'inizio di questo millennio in tanti abbiamo applaudito convintamente alla cosiddetta "terza via", invece quello è stato un errore politico fatale, che troppi ancora non riconoscono. Per tante persone un partito cos'è? Lo strumento che alcuni usano per fare carriera e per diventare ricchi. Il luogo dove si parla, si parla, si parla, ma alla fine non si ottiene alcun risultato. Per chi vuole far crescere l'antipolitica una giornata come quella di domenica, con lo spettacolo indecoroso offerto dall'assemblea del pd, è un giorno da segnare in rosso sul calendario, un giorno di festa. Per vent'anni ci hanno spiegato che la politica è qualcosa che fa schifo e la profezia ormai si è avverata.
E non è che possiamo dire a tutti questi cittadini che sbagliano, perché non capiscono che valore abbiano le cooperative, i sindacati, i partiti. Non è che possiamo continuare a raccontare una storia a cui loro non riescono più a credere. Alle persone che hanno paura, che sono sfiduciate, che sono pronte a gettarsi in qualunque avventura, non possiamo più dare delle lezioni. Penso al tema dell'immigrazione: molte persone hanno paura dell'arrivo di poveri da altre parti del mondo. Noi non possiamo rispondere che stanno sbagliando, e continuare a proporre le solite soluzioni, perché i loro argomenti possono anche essere falsi, i dati su cui si basano sono sicuramente falsi - non c'è un'invasione - ma la loro paura è vera e con quella paura dobbiamo confrontarci. Se non lo facciamo vincono quelli che dicono che bisogna gettare a mare quei poveracci che arrivano da lontano. Perché le persone che hanno paura comincino a credere che un mondo diverso è possibile bisogna che tutti insieme ci facciamo carico delle paure, delle insicurezza, che costruiamo reti per aiutare le persone.
La sinistra che aiuta le persone
Secondo me a questo punto dobbiamo ricominciare da capo, consapevoli degli errori che abbiamo commesso. Occorre fare un passo indietro, molto indietro. Nella seconda metà dell'Ottocento il movimento socialista agli albori, prima di essere un partito, è stato una rete di aiuto concreto alle persone.
Mi viene sempre in mente il film I compagni di Mario Monicelli, in cui si racconta la storia delle lotte di una fabbrica tessile di Torino alla fine di quel secolo. Il socialismo prima di ogni altra cosa era rappresentato dalle collette che i lavoratori organizzavano ogni volta che uno di loro si ammalava o finiva in carcere o moriva e quindi lasciava la propria famiglia in enorme difficoltà. Quelle persone non avevano sempre le idee chiare, non erano sempre socialisti - basta vedere come trattavano il loro collega venuto dal sud, su cui esercitavano un razzismo che farebbe impallidire i leghisti di oggi, o come consideravano le donne - ma capivano che dovevano aiutarsi gli uni con gli altri e organizzavano questa forma di solidarietà, anche come forma di resistenza a un potere che li opprimeva. Il socialismo nasce prima di tutto come questo sistema di aiuto e solo in un secondo tempo è diventato un movimento politico. Senza quella concretezza iniziale sarebbe stato impossibile organizzarsi per fare altre battaglie. Quegli uomini e quelle donne capirono in quel modo, attraverso quella rete di solidarietà, che quello era il modo di affrancarsi, di lottare, di coltivare una speranza. E di creare una comunità.
Credo che siamo tornati a quei tempi lì, e infatti, come allora, di fronte a questa crisi si fa strada una risposta di destra: allora fu il fascismo, oggi è la propaganda che chiamiamo populista, quella di personaggi come Trump, ma gli obiettivi sono sempre quelli: preservare i privilegi dei ricchi e gli squilibri tra le classi, facendo finta di combatterli. Oggi per tante persone le cure mediche sono un lusso, la perdita del lavoro può gettare un'intera famiglia nella povertà, un lavoratore è disposto a rinunciare a diritti anche elementari pur di poter continuare a lavorare, un povero vede in un altro povero un nemico, qualcuno che gli toglie quel poco di cui crede di avere diritto. Per questo credo occorra ripartire da forme, anche elementari, di mutualismo, abbiamo bisogno di ricostruire quelle reti di protezione sociale che le famiglie non riescono più a organizzare e che lo stato - anche quando la sinistra era al governo - ha volutamente fatto fallire. Questa adesso è la priorità.
Alle persone che non capiscono quale sia la differenza tra destra e sinistra non possiamo dire che la soluzione è far nascere un nuovo partito o un partito nuovo. Se ci limitiamo a questo ci volteranno le spalle; credo anche giustamente, perché non possiamo riproporre sempre le stesse cose. Dobbiamo prima di tutto farci carico degli errori che abbiamo commesso. E questa ostinazione è uno dei più gravi.
Tra quelli che sono impegnati in questi mesi a ripensare la sinistra vedo che vanno particolarmente di moda metafore del tipo "occorre costruire ponti". Per costruire qualcosa ci vuole un progetto, e, anche se lo abbiamo, siamo sicuri che quel ponte così ben costruito serva a qualcosa? Rischiamo di avere un bel ponte, ma non le due rive da collegare. Io credo invece che occorra gettare dei semi, anche sapendo che da molti di questi non nascerà nulla, perché la terra è arida, perché le condizioni atmosferiche sono avverse, perché c'è qualcuno pronto a sradicare le piantine appena si fanno largo tra le zolle. Eppure chi avrebbe detto che dalle lotte di quegli operai a metà dell'Ottocento sarebbe sorto un movimento come quello socialista, capace di caratterizzare una parte significativa della storia del secolo successivo? Certo noi abbiamo avuto la forza di distruggerlo dall'interno - e ne paghiamo le conseguenze - ma credo possa rinascere, ripartendo da associazioni, da gruppi spontanei, da forme di aiuto sociale, da strumenti di mutualità solidale, in sostanza dal provare a resistere a questo mondo così violento.
E dobbiamo contemporaneamente fare comunità, anche creando momenti di aggregazione. Siamo sempre più soli, anche se questo strumento in cui scriviamo e leggiamo, ci illude del contrario, e abbiamo bisogno di comunità. Il partito, quando funzionava, era anche questo, andare in sezione era un modo per vedere altre persone, organizzare le feste era un'occasione per lavorare con altri, la casa del popolo era un punto di aggregazione politica perché era anche e soprattutto un momento di aggregazione sportiva, sociale, culturale, di divertimento. Sono convinto che gruppi di acquisto solidale, movimenti per il diritto alla casa, reti di volontariato, associazioni che organizzano ambulatori nelle periferie, artisti che portano i loro lavori tra le persone, servano di più a costruire una cultura di sinistra che i nostri documenti che nessuno leggerà, per quanto ben scritti.
Penso che la politica politicante - passatemi il brutto termine - debba fare un passo indietro e si debba assumere il compito soltanto di evitare che la terra si inaridisca del tutto e che le piante possano in qualche modo resistere, poi dovranno crescere per conto loro e cresceranno.
E noi non dobbiamo avere la pretesa di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, ne abbiamo perso il diritto, mi pare. E non dobbiamo metterci per forza un'etichetta politica o avere l'ansia di avere un simbolo da presentare alle elezioni. E forse, prima o poi, questa notte finirà.
Ad esempio per queste persone la cooperazione cos'è? E' un modo come un altro di fare impresa. Cosa rende davvero diverso fare la spesa alla Coop o all'Esselunga? Temo nulla, se non le offerte, la qualità dei prodotti o i premi delle carte fedeltà. E troppo spesso anche per chi ci lavora c'è poca differenza tra un'impresa cooperativa e una "normale". Per molti la cooperazione è un modo di fare impresa senza pagare le tasse. Lo so che non è così, lo so che tante piccole cooperative svolgono un lavoro prezioso e hanno ideali antichi, ma per molte persone la cooperazione è questo - e tante volte purtroppo è questo - e se non ci mettiamo in relazione con queste persone - che sono la maggioranza - allora saremo sconfitti, perché continueranno a votare per Trump o per l'uomo forte del momento.
Per queste persone il sindacato cos'è? Non spiegatelo a me, che conosco il lavoro difficile di tanti sindacalisti che si impegnano con fatica sul territorio, ma a chi vede le organizzazioni sindacali come strutture distanti, incapaci di tutelarli. Ed è così, è anche così; i sindacati oggi sono un pezzo di quelle classi dirigenti che hanno portato la società in rovina, non sono antagonisti, ma in molti casi complici. Il problema non è solo il susseguirsi di episodi di malaffare, che pure pesano, di singoli esponenti del sindacato, ma l'incapacità di leggere la crisi di questi anni, di cui tutta la sinistra, sindacato compreso, è responsabile. All'inizio di questo millennio in tanti abbiamo applaudito convintamente alla cosiddetta "terza via", invece quello è stato un errore politico fatale, che troppi ancora non riconoscono. Per tante persone un partito cos'è? Lo strumento che alcuni usano per fare carriera e per diventare ricchi. Il luogo dove si parla, si parla, si parla, ma alla fine non si ottiene alcun risultato. Per chi vuole far crescere l'antipolitica una giornata come quella di domenica, con lo spettacolo indecoroso offerto dall'assemblea del pd, è un giorno da segnare in rosso sul calendario, un giorno di festa. Per vent'anni ci hanno spiegato che la politica è qualcosa che fa schifo e la profezia ormai si è avverata.
E non è che possiamo dire a tutti questi cittadini che sbagliano, perché non capiscono che valore abbiano le cooperative, i sindacati, i partiti. Non è che possiamo continuare a raccontare una storia a cui loro non riescono più a credere. Alle persone che hanno paura, che sono sfiduciate, che sono pronte a gettarsi in qualunque avventura, non possiamo più dare delle lezioni. Penso al tema dell'immigrazione: molte persone hanno paura dell'arrivo di poveri da altre parti del mondo. Noi non possiamo rispondere che stanno sbagliando, e continuare a proporre le solite soluzioni, perché i loro argomenti possono anche essere falsi, i dati su cui si basano sono sicuramente falsi - non c'è un'invasione - ma la loro paura è vera e con quella paura dobbiamo confrontarci. Se non lo facciamo vincono quelli che dicono che bisogna gettare a mare quei poveracci che arrivano da lontano. Perché le persone che hanno paura comincino a credere che un mondo diverso è possibile bisogna che tutti insieme ci facciamo carico delle paure, delle insicurezza, che costruiamo reti per aiutare le persone.
La sinistra che aiuta le persone
Secondo me a questo punto dobbiamo ricominciare da capo, consapevoli degli errori che abbiamo commesso. Occorre fare un passo indietro, molto indietro. Nella seconda metà dell'Ottocento il movimento socialista agli albori, prima di essere un partito, è stato una rete di aiuto concreto alle persone.
Mi viene sempre in mente il film I compagni di Mario Monicelli, in cui si racconta la storia delle lotte di una fabbrica tessile di Torino alla fine di quel secolo. Il socialismo prima di ogni altra cosa era rappresentato dalle collette che i lavoratori organizzavano ogni volta che uno di loro si ammalava o finiva in carcere o moriva e quindi lasciava la propria famiglia in enorme difficoltà. Quelle persone non avevano sempre le idee chiare, non erano sempre socialisti - basta vedere come trattavano il loro collega venuto dal sud, su cui esercitavano un razzismo che farebbe impallidire i leghisti di oggi, o come consideravano le donne - ma capivano che dovevano aiutarsi gli uni con gli altri e organizzavano questa forma di solidarietà, anche come forma di resistenza a un potere che li opprimeva. Il socialismo nasce prima di tutto come questo sistema di aiuto e solo in un secondo tempo è diventato un movimento politico. Senza quella concretezza iniziale sarebbe stato impossibile organizzarsi per fare altre battaglie. Quegli uomini e quelle donne capirono in quel modo, attraverso quella rete di solidarietà, che quello era il modo di affrancarsi, di lottare, di coltivare una speranza. E di creare una comunità.
Credo che siamo tornati a quei tempi lì, e infatti, come allora, di fronte a questa crisi si fa strada una risposta di destra: allora fu il fascismo, oggi è la propaganda che chiamiamo populista, quella di personaggi come Trump, ma gli obiettivi sono sempre quelli: preservare i privilegi dei ricchi e gli squilibri tra le classi, facendo finta di combatterli. Oggi per tante persone le cure mediche sono un lusso, la perdita del lavoro può gettare un'intera famiglia nella povertà, un lavoratore è disposto a rinunciare a diritti anche elementari pur di poter continuare a lavorare, un povero vede in un altro povero un nemico, qualcuno che gli toglie quel poco di cui crede di avere diritto. Per questo credo occorra ripartire da forme, anche elementari, di mutualismo, abbiamo bisogno di ricostruire quelle reti di protezione sociale che le famiglie non riescono più a organizzare e che lo stato - anche quando la sinistra era al governo - ha volutamente fatto fallire. Questa adesso è la priorità.
Alle persone che non capiscono quale sia la differenza tra destra e sinistra non possiamo dire che la soluzione è far nascere un nuovo partito o un partito nuovo. Se ci limitiamo a questo ci volteranno le spalle; credo anche giustamente, perché non possiamo riproporre sempre le stesse cose. Dobbiamo prima di tutto farci carico degli errori che abbiamo commesso. E questa ostinazione è uno dei più gravi.
Tra quelli che sono impegnati in questi mesi a ripensare la sinistra vedo che vanno particolarmente di moda metafore del tipo "occorre costruire ponti". Per costruire qualcosa ci vuole un progetto, e, anche se lo abbiamo, siamo sicuri che quel ponte così ben costruito serva a qualcosa? Rischiamo di avere un bel ponte, ma non le due rive da collegare. Io credo invece che occorra gettare dei semi, anche sapendo che da molti di questi non nascerà nulla, perché la terra è arida, perché le condizioni atmosferiche sono avverse, perché c'è qualcuno pronto a sradicare le piantine appena si fanno largo tra le zolle. Eppure chi avrebbe detto che dalle lotte di quegli operai a metà dell'Ottocento sarebbe sorto un movimento come quello socialista, capace di caratterizzare una parte significativa della storia del secolo successivo? Certo noi abbiamo avuto la forza di distruggerlo dall'interno - e ne paghiamo le conseguenze - ma credo possa rinascere, ripartendo da associazioni, da gruppi spontanei, da forme di aiuto sociale, da strumenti di mutualità solidale, in sostanza dal provare a resistere a questo mondo così violento.
E dobbiamo contemporaneamente fare comunità, anche creando momenti di aggregazione. Siamo sempre più soli, anche se questo strumento in cui scriviamo e leggiamo, ci illude del contrario, e abbiamo bisogno di comunità. Il partito, quando funzionava, era anche questo, andare in sezione era un modo per vedere altre persone, organizzare le feste era un'occasione per lavorare con altri, la casa del popolo era un punto di aggregazione politica perché era anche e soprattutto un momento di aggregazione sportiva, sociale, culturale, di divertimento. Sono convinto che gruppi di acquisto solidale, movimenti per il diritto alla casa, reti di volontariato, associazioni che organizzano ambulatori nelle periferie, artisti che portano i loro lavori tra le persone, servano di più a costruire una cultura di sinistra che i nostri documenti che nessuno leggerà, per quanto ben scritti.
Penso che la politica politicante - passatemi il brutto termine - debba fare un passo indietro e si debba assumere il compito soltanto di evitare che la terra si inaridisca del tutto e che le piante possano in qualche modo resistere, poi dovranno crescere per conto loro e cresceranno.
E noi non dobbiamo avere la pretesa di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, ne abbiamo perso il diritto, mi pare. E non dobbiamo metterci per forza un'etichetta politica o avere l'ansia di avere un simbolo da presentare alle elezioni. E forse, prima o poi, questa notte finirà.
sabato 18 febbraio 2017
Verba volant (353): precedenza...
Precedenza, sost. f.
Il consiglio regionale del Veneto ha approvato, a maggioranza, una legge che prescrive che nelle graduatorie degli asili nido comunali di quella regione venga data la precedenza ai bambini i cui genitori vivono o lavorano in Veneto da almeno quindici anni. Si tratta ovviamente di una legge più di propaganda che di sostanza, fatta per dare un segnale a quegli elettori che avevano votato Zaia convinti dal suo programma "prima i veneti". Anche se la legge fosse davvero applicata, cambierebbe poco per le famiglie che vivono in quella regione, indipendentemente dalla data della loro residenza. Molto probabilmente questa legge verrà considerata anticostituzionale e con questa sentenza si farà un favore a chi l'ha promossa e votata, che avrà un altro argomento da usare nella prossima campagna elettorale per deprecare il centralismo di Roma e cavalcare la paura dei veneti "veri" contro l'invasione degli stranieri.
Proviamo a stare nel merito della legge regionale, per evitare la propaganda di cui si nutre quello schieramento politico.
Punto primo. La legge non dice che devono avere la precedenza i veneti - nemmeno i leghisti sono così stupidi - ma quelli che vivono o lavorano in Veneto da almeno quindici anni. Nella proposta di legge c'era anche l'avverbio "ininterrottamente", che è stato cassato, perché probabilmente si rischiava di lasciare fuori un bel pezzo di veneti autoctoni che i casi della vita hanno portato per un periodo fuori dalla loro terra, per studiare ad Oxford o per fare il deputato a Roma. Ovviamente anche molte persone nate in tutt'altra parte del mondo vivono e lavorano in Veneto da più di quindici anni, ma non sempre riescono a dimostrarlo, perché hanno lavorato in nero nelle fabbriche dei "bravi" cittadini veneti, hanno abitato nelle case dei "bravi" cittadini veneti, ma pagando l'affitto in nero, perché tanti che votano Lega hanno guadagnato sul fatto che gli stranieri rimanessero clandestini.
Punto secondo. Gli asili nido sono servizi comunali e quindi ogni amministrazione comunale ha adotta un proprio regolamento per regolarne il funzionamento, compreso il criterio per definirne l'accesso nel caso in cui le domande siano superiori ai posti disponibili. La regione con questa legge interviene su regolamenti comunali, con scarso rispetto per le autonomie: un paradosso per una forza politica che sbandiera il diritto all'autodeterminazione, fino alla secessione. Il sindaco leghista di San Giovanni Lupatoto dovrebbe ben adirarsi contro il "centralismo" regionale, anche se immagino che non lo farà, perché è sempre facile essere autonomisti con il culo degli altri.
Punto terzo. La legge si applica ai soli servizi gestiti dal pubblico, in questo caso i comuni, perché ovviamente il privato è sacro e ne va rispettata e tutelata l'autonomia. In Veneto poi questo privato è particolarmente sacro perché gli asili nido comunali sono pochissimi, appena il 10%, e questo servizio è demandato quasi totalmente alla chiesa cattolica, che ne trae una delle sue più significative fonti di guadagno. Inutile dire che i cattolicissimi politici della Lega - e non solo loro - in questi anni hanno fatto di tutto per favorire le strutture gestite dai preti, finanziandole direttamente e soprattutto evitando di costruire asili pubblici. In Veneto, come in molte altre realtà, la chiesa non ha concorrenza in questo campo e quindi fa sostanzialmente quello che vuole, compreso accogliere nei propri asili anche i bambini "negri", sempre che i loro genitori paghino la retta. Sono democratici i preti, per loro quelli che pagano sono tutti uguali.
Punto quarto. Purtroppo non è sempre così vero che per entrare negli asili nido c'è una lunga graduatoria. Era vero un po' di anni fa, ma adesso le cose sono cambiate, anche in Emilia-Romagna, la regione dove gli asili nido sono più diffusi e gestiti meglio. Questa riduzione delle richieste è legata al fatto che le rette degli asili nido comunali sono elevate, spesso molto elevate, e per molte famiglie si tratta di un onere non sostenibile. E perché, per colpa della crisi, sono sempre meno le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. E se lavora un solo genitore e hai un bambino devi fare dei sacrifici e rinunci all'asilo nido, anche se sarebbe un servizio utile alla crescita di tuo figlio.
Questa è la ragione per cui gli stranieri non mandano i loro figli all'asilo nido, neppure chiedono di mandarlo. Mentre sarebbe importante che lo facessero, perché la scuola rappresenta un mezzo fondamentale di integrazione, specialmente la scuola dell'infanzia e l'asilo nido. Ai leghisti che tuonano contro la perdita di identità del nostro paese vorrei ricordare che nulla come far frequentare la scuola fin dai primissimi anni di vita sarebbe utile per mantenere e far crescere questa identità. Provocatoriamente, se ai leghisti importasse davvero qualcosa dell'identità del loro territorio dovrebbero fare una legge in cui i figli dei cittadini stranieri abbiano la precedenza nelle graduatorie, anzi che obblighi le famiglie a mandare i loro figli all'asilo nido. Così quando sarà grande, Mohamed si sentirà veneto. Magari diventa perfino leghista.
Il consiglio regionale del Veneto ha approvato, a maggioranza, una legge che prescrive che nelle graduatorie degli asili nido comunali di quella regione venga data la precedenza ai bambini i cui genitori vivono o lavorano in Veneto da almeno quindici anni. Si tratta ovviamente di una legge più di propaganda che di sostanza, fatta per dare un segnale a quegli elettori che avevano votato Zaia convinti dal suo programma "prima i veneti". Anche se la legge fosse davvero applicata, cambierebbe poco per le famiglie che vivono in quella regione, indipendentemente dalla data della loro residenza. Molto probabilmente questa legge verrà considerata anticostituzionale e con questa sentenza si farà un favore a chi l'ha promossa e votata, che avrà un altro argomento da usare nella prossima campagna elettorale per deprecare il centralismo di Roma e cavalcare la paura dei veneti "veri" contro l'invasione degli stranieri.
Proviamo a stare nel merito della legge regionale, per evitare la propaganda di cui si nutre quello schieramento politico.
Punto primo. La legge non dice che devono avere la precedenza i veneti - nemmeno i leghisti sono così stupidi - ma quelli che vivono o lavorano in Veneto da almeno quindici anni. Nella proposta di legge c'era anche l'avverbio "ininterrottamente", che è stato cassato, perché probabilmente si rischiava di lasciare fuori un bel pezzo di veneti autoctoni che i casi della vita hanno portato per un periodo fuori dalla loro terra, per studiare ad Oxford o per fare il deputato a Roma. Ovviamente anche molte persone nate in tutt'altra parte del mondo vivono e lavorano in Veneto da più di quindici anni, ma non sempre riescono a dimostrarlo, perché hanno lavorato in nero nelle fabbriche dei "bravi" cittadini veneti, hanno abitato nelle case dei "bravi" cittadini veneti, ma pagando l'affitto in nero, perché tanti che votano Lega hanno guadagnato sul fatto che gli stranieri rimanessero clandestini.
Punto secondo. Gli asili nido sono servizi comunali e quindi ogni amministrazione comunale ha adotta un proprio regolamento per regolarne il funzionamento, compreso il criterio per definirne l'accesso nel caso in cui le domande siano superiori ai posti disponibili. La regione con questa legge interviene su regolamenti comunali, con scarso rispetto per le autonomie: un paradosso per una forza politica che sbandiera il diritto all'autodeterminazione, fino alla secessione. Il sindaco leghista di San Giovanni Lupatoto dovrebbe ben adirarsi contro il "centralismo" regionale, anche se immagino che non lo farà, perché è sempre facile essere autonomisti con il culo degli altri.
Punto terzo. La legge si applica ai soli servizi gestiti dal pubblico, in questo caso i comuni, perché ovviamente il privato è sacro e ne va rispettata e tutelata l'autonomia. In Veneto poi questo privato è particolarmente sacro perché gli asili nido comunali sono pochissimi, appena il 10%, e questo servizio è demandato quasi totalmente alla chiesa cattolica, che ne trae una delle sue più significative fonti di guadagno. Inutile dire che i cattolicissimi politici della Lega - e non solo loro - in questi anni hanno fatto di tutto per favorire le strutture gestite dai preti, finanziandole direttamente e soprattutto evitando di costruire asili pubblici. In Veneto, come in molte altre realtà, la chiesa non ha concorrenza in questo campo e quindi fa sostanzialmente quello che vuole, compreso accogliere nei propri asili anche i bambini "negri", sempre che i loro genitori paghino la retta. Sono democratici i preti, per loro quelli che pagano sono tutti uguali.
Punto quarto. Purtroppo non è sempre così vero che per entrare negli asili nido c'è una lunga graduatoria. Era vero un po' di anni fa, ma adesso le cose sono cambiate, anche in Emilia-Romagna, la regione dove gli asili nido sono più diffusi e gestiti meglio. Questa riduzione delle richieste è legata al fatto che le rette degli asili nido comunali sono elevate, spesso molto elevate, e per molte famiglie si tratta di un onere non sostenibile. E perché, per colpa della crisi, sono sempre meno le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. E se lavora un solo genitore e hai un bambino devi fare dei sacrifici e rinunci all'asilo nido, anche se sarebbe un servizio utile alla crescita di tuo figlio.
Questa è la ragione per cui gli stranieri non mandano i loro figli all'asilo nido, neppure chiedono di mandarlo. Mentre sarebbe importante che lo facessero, perché la scuola rappresenta un mezzo fondamentale di integrazione, specialmente la scuola dell'infanzia e l'asilo nido. Ai leghisti che tuonano contro la perdita di identità del nostro paese vorrei ricordare che nulla come far frequentare la scuola fin dai primissimi anni di vita sarebbe utile per mantenere e far crescere questa identità. Provocatoriamente, se ai leghisti importasse davvero qualcosa dell'identità del loro territorio dovrebbero fare una legge in cui i figli dei cittadini stranieri abbiano la precedenza nelle graduatorie, anzi che obblighi le famiglie a mandare i loro figli all'asilo nido. Così quando sarà grande, Mohamed si sentirà veneto. Magari diventa perfino leghista.
giovedì 16 febbraio 2017
Verba volant (352): pisciare...
Pisciare, v. intr.
Io vedo come mi guardano gli altri operai. Oggi è peggio, dopo quello che è successo a Beppe, da ieri mi scansano, evitano di guardarmi, neppure mi salutano quando i nostri sguardi inevitabilmente si incrociano all'entrata. Prima almeno mi salutavano, ma era un saluto sforzato, costretto, magari qualcuno fingeva una qualche simpatia, sperando che avrei chiuso un occhio se la pausa fosse durata più di quello previsto dal protocollo aziendale. Mi temevano. Da ieri mi disprezzano per quello che è successo a Beppe. Forse anch'io farei lo stesso se fossi al posto loro.
Mi dispiace per quello che è successo a Beppe. Mi dispiace davvero. Quando l'ho visto lì, in piedi, con i pantaloni bagnati, come imbambolato, non sapevo cosa dire, cosa fare; siamo quasi coetanei, i nostri figli hanno la stessa età. Ho rivisto mio padre quando per la prima volta se l'è fatta addosso e mi sono ricordato che ha cominciato a piangere.
Adesso tutti dicono che ho sbagliato a non permettergli di andare in bagno. Dicono che avrei dovuto usare il buon senso, che ho fatto male. Anche i capi mi hanno rimproverato, pensavo che sarei stato licenziato. Eppure le pause per andare in bagno devono essere brevi, molto brevi, e gli operai non devono abusarne: sapete quante volte me l'hanno spiegato. Mi hanno fatto una testa così.
Capisco che a fine turno sono stanchi e forse non hanno davvero bisogno di andare in bagno, vogliono solo staccarsi dalla catena e allora io dico di no. Non possono continuare ad andare in bagno. In questi anni i capi hanno ridotto le pause, sono sempre meno e più brevi, anche i lavoratori sono stati d'accordo, perché così l'azienda non avrebbe chiuso. Qui se chiude la fabbrica rimaniamo tutti a casa: non c'è altro da fare, abbiamo bisogno di questo lavoro. Con meno pause si fanno più macchine e la fabbrica può rimanere aperta solo se facciamo più macchine. E meno pause.
A me fa strano quando qualcuno che è più vecchio di me mi chiede di andare in bagno, come facevo io quando lo chiedevo alla maestra. Per questo quando dico sì lo faccio con una voce strana, gli operai dicono che mi dispiace quando dico di sì e che invece mi diverto a dir loro di no. Non è così: è che mi sembra strano dover dare il permesso di andare in bagno. Ma è il mio lavoro. Anzi il mio lavoro sarebbe quello di negare questi permessi. Sempre. Così mi hanno spiegato i capi. Non me l'hanno proprio detto così chiaro, ma me l'hanno fatto capire, facendomi vedere dei grafici, riempendomi la testa con delle parole in inglese. La fabbrica continuerà a esistere solo se gli operai smetteranno di fare delle pause. Io ho capito che se tutti smettessero di urinare forse il mio lavoro non servirebbe, ma almeno la fabbrica sarebbe salva. E il nostro lavoro sarebbe salvo. Se continueremo a pisciare loro chiuderanno la fabbrica. Ma non possiamo smettere.
Qualche giorno fa nello stabilimento Sevel di Atessa, in provincia di Chieti, di proprietà della Fiat-Chrysler, un operaio a cui è stato negato di andare in bagno se l'è fatta addosso. Ovviamente il primo pensiero - e la nostra solidarietà - va a quel lavoratore, che ha subito una tale ingiustizia, ma ho provato a immaginare cosa ha significato quell'accaduto anche per gli altri lavoratori, in particolare per il suo caporeparto, per chi ha negato quel permesso.
Io vedo come mi guardano gli altri operai. Oggi è peggio, dopo quello che è successo a Beppe, da ieri mi scansano, evitano di guardarmi, neppure mi salutano quando i nostri sguardi inevitabilmente si incrociano all'entrata. Prima almeno mi salutavano, ma era un saluto sforzato, costretto, magari qualcuno fingeva una qualche simpatia, sperando che avrei chiuso un occhio se la pausa fosse durata più di quello previsto dal protocollo aziendale. Mi temevano. Da ieri mi disprezzano per quello che è successo a Beppe. Forse anch'io farei lo stesso se fossi al posto loro.
Mi dispiace per quello che è successo a Beppe. Mi dispiace davvero. Quando l'ho visto lì, in piedi, con i pantaloni bagnati, come imbambolato, non sapevo cosa dire, cosa fare; siamo quasi coetanei, i nostri figli hanno la stessa età. Ho rivisto mio padre quando per la prima volta se l'è fatta addosso e mi sono ricordato che ha cominciato a piangere.
Adesso tutti dicono che ho sbagliato a non permettergli di andare in bagno. Dicono che avrei dovuto usare il buon senso, che ho fatto male. Anche i capi mi hanno rimproverato, pensavo che sarei stato licenziato. Eppure le pause per andare in bagno devono essere brevi, molto brevi, e gli operai non devono abusarne: sapete quante volte me l'hanno spiegato. Mi hanno fatto una testa così.
Capisco che a fine turno sono stanchi e forse non hanno davvero bisogno di andare in bagno, vogliono solo staccarsi dalla catena e allora io dico di no. Non possono continuare ad andare in bagno. In questi anni i capi hanno ridotto le pause, sono sempre meno e più brevi, anche i lavoratori sono stati d'accordo, perché così l'azienda non avrebbe chiuso. Qui se chiude la fabbrica rimaniamo tutti a casa: non c'è altro da fare, abbiamo bisogno di questo lavoro. Con meno pause si fanno più macchine e la fabbrica può rimanere aperta solo se facciamo più macchine. E meno pause.
A me fa strano quando qualcuno che è più vecchio di me mi chiede di andare in bagno, come facevo io quando lo chiedevo alla maestra. Per questo quando dico sì lo faccio con una voce strana, gli operai dicono che mi dispiace quando dico di sì e che invece mi diverto a dir loro di no. Non è così: è che mi sembra strano dover dare il permesso di andare in bagno. Ma è il mio lavoro. Anzi il mio lavoro sarebbe quello di negare questi permessi. Sempre. Così mi hanno spiegato i capi. Non me l'hanno proprio detto così chiaro, ma me l'hanno fatto capire, facendomi vedere dei grafici, riempendomi la testa con delle parole in inglese. La fabbrica continuerà a esistere solo se gli operai smetteranno di fare delle pause. Io ho capito che se tutti smettessero di urinare forse il mio lavoro non servirebbe, ma almeno la fabbrica sarebbe salva. E il nostro lavoro sarebbe salvo. Se continueremo a pisciare loro chiuderanno la fabbrica. Ma non possiamo smettere.
Qualche giorno fa nello stabilimento Sevel di Atessa, in provincia di Chieti, di proprietà della Fiat-Chrysler, un operaio a cui è stato negato di andare in bagno se l'è fatta addosso. Ovviamente il primo pensiero - e la nostra solidarietà - va a quel lavoratore, che ha subito una tale ingiustizia, ma ho provato a immaginare cosa ha significato quell'accaduto anche per gli altri lavoratori, in particolare per il suo caporeparto, per chi ha negato quel permesso.
mercoledì 15 febbraio 2017
Verba volant (351): congresso...
Congresso, sost. m.
Il termine latino congressus, da cui la parola oggetto di questa definizione, deriva dal verbo congredi, che significa propriamente camminare insieme. Nulla di più lontano da quello che avviene in queste ore nel pd: nessuno degli esponenti di quel partito sembra intenzionato a intraprendere questo cammino, tanto più in compagnia degli altri. E qui è evidenziato il primo limite di un partito che non è mai davvero nato, perché manca - è sempre mancato - il senso di appartenere a una stessa comunità.
Il pd è nato perché qualcuno ha pensato che fosse improduttivo continuare uno scontro elettorale tra i due partiti, uno erede della tradizione popolare e uno di quella socialista, che, a causa dell'anomala presenza di Berlusconi, avevano stipulato una solida, per quanto innaturale, alleanza politica a partire dalla prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. In tanti ricordano oggi, strumentalmente, il Prodi "padre" dell'Ulivo, il Prodi super partes, ma il rancoroso professore bolognese fu anche il teorico del competition is competition, ossia dello scontro frontale con gli "alleati" dell'allora Ds. E, in questa prospettiva, ciascuno dei fondatori del pd pensava che avrebbe finito per avere la meglio sugli altri: D'Alema riteneva che con la sua intelligenza avrebbe finito per prevalere, Bersani confidava invece nella organizzazione emiliana, nella forza della "ditta", mentre i democristiani sapevano che alla fine avrebbero vinto loro. E così è stato. Come scrivo da tempo, renzi non è un corpo estraneo al pd, come tanti anche in queste ore continuano a ripetere, renzi è la naturale evoluzione di un partito che già dall'inizio non si volle di sinistra e soprattutto non si volle neppure partito. E quindi adesso i vari D'Alema e Bersani, per tacere degli altri comprimari, degli allora giovani ormai precocemente incanutiti, non possono continuare a fingere che un partito esista ancora e che funzionino ancora i meccanismi che funzionavano in un'altra epoca, come quelli di un congresso.
Anche per chi, come me, è fuori da quel partito, ne è un avversario, è però deprimente la scena offerta in questi giorni, perché tutta la discussione, per quanto accesa, per quanto animata, è segnata da un'assenza incredibile: quella della politica. Anche nel dibattito in direzione, il luogo in cui pure avrebbe finalmente dovuto esserci una sorta di redde rationem, nonostante la sfilata di tutti i notabili e di tutti i satrapi del partito, non si è mai affrontato il nodo politico. La discussione è stata - e continua a essere - sul calendario del congresso, ma sinceramente non si capisce quali siano le posizioni in campo. Ovviamente renzi sta personalmente antipatico anche a me, ma non si può costruire una piattaforma congressuale su questo dato, caratteriale e non politico, eppure mi pare che la discussione sia ridotta a questo.
Eppure i temi ci sarebbero. Occorre intanto provare a capire cosa è successo in questi ultimi venticinque anni, analizzare l'evoluzione della nostra società, e provare a dare una prospettiva per il futuro. Personalmente io ho una qualche idea, che legittimamente credo sia diversa da quella di molti che militano in quel partito, e credo che i nostri errori di questi anni ci abbiano condotto a questa rovina e che adesso occorra intraprendere una strada nuova, radicalmente diversa da quella percorsa fino adesso. Immagino che nessuno del pd la pensi allo stesso modo, ma almeno vorrei sentire qualcosa che non sia un dibattito sulla data di un congresso prossimo venturo.
Naturalmente da nemico del pd mi potrebbe anche far piacere veder morire quel partito - in politica non valgono i principii decoubertiniani - ma siccome so che dalla morte del pd non ne trarrà vantaggio una sinistra che qui in Italia è ancora esangue, ma la destra peggiore, quella alla Trump e alla Le Pen, vedere questa agonia mi preoccupa.
Il termine latino congressus, da cui la parola oggetto di questa definizione, deriva dal verbo congredi, che significa propriamente camminare insieme. Nulla di più lontano da quello che avviene in queste ore nel pd: nessuno degli esponenti di quel partito sembra intenzionato a intraprendere questo cammino, tanto più in compagnia degli altri. E qui è evidenziato il primo limite di un partito che non è mai davvero nato, perché manca - è sempre mancato - il senso di appartenere a una stessa comunità.
Il pd è nato perché qualcuno ha pensato che fosse improduttivo continuare uno scontro elettorale tra i due partiti, uno erede della tradizione popolare e uno di quella socialista, che, a causa dell'anomala presenza di Berlusconi, avevano stipulato una solida, per quanto innaturale, alleanza politica a partire dalla prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. In tanti ricordano oggi, strumentalmente, il Prodi "padre" dell'Ulivo, il Prodi super partes, ma il rancoroso professore bolognese fu anche il teorico del competition is competition, ossia dello scontro frontale con gli "alleati" dell'allora Ds. E, in questa prospettiva, ciascuno dei fondatori del pd pensava che avrebbe finito per avere la meglio sugli altri: D'Alema riteneva che con la sua intelligenza avrebbe finito per prevalere, Bersani confidava invece nella organizzazione emiliana, nella forza della "ditta", mentre i democristiani sapevano che alla fine avrebbero vinto loro. E così è stato. Come scrivo da tempo, renzi non è un corpo estraneo al pd, come tanti anche in queste ore continuano a ripetere, renzi è la naturale evoluzione di un partito che già dall'inizio non si volle di sinistra e soprattutto non si volle neppure partito. E quindi adesso i vari D'Alema e Bersani, per tacere degli altri comprimari, degli allora giovani ormai precocemente incanutiti, non possono continuare a fingere che un partito esista ancora e che funzionino ancora i meccanismi che funzionavano in un'altra epoca, come quelli di un congresso.
Anche per chi, come me, è fuori da quel partito, ne è un avversario, è però deprimente la scena offerta in questi giorni, perché tutta la discussione, per quanto accesa, per quanto animata, è segnata da un'assenza incredibile: quella della politica. Anche nel dibattito in direzione, il luogo in cui pure avrebbe finalmente dovuto esserci una sorta di redde rationem, nonostante la sfilata di tutti i notabili e di tutti i satrapi del partito, non si è mai affrontato il nodo politico. La discussione è stata - e continua a essere - sul calendario del congresso, ma sinceramente non si capisce quali siano le posizioni in campo. Ovviamente renzi sta personalmente antipatico anche a me, ma non si può costruire una piattaforma congressuale su questo dato, caratteriale e non politico, eppure mi pare che la discussione sia ridotta a questo.
Eppure i temi ci sarebbero. Occorre intanto provare a capire cosa è successo in questi ultimi venticinque anni, analizzare l'evoluzione della nostra società, e provare a dare una prospettiva per il futuro. Personalmente io ho una qualche idea, che legittimamente credo sia diversa da quella di molti che militano in quel partito, e credo che i nostri errori di questi anni ci abbiano condotto a questa rovina e che adesso occorra intraprendere una strada nuova, radicalmente diversa da quella percorsa fino adesso. Immagino che nessuno del pd la pensi allo stesso modo, ma almeno vorrei sentire qualcosa che non sia un dibattito sulla data di un congresso prossimo venturo.
Naturalmente da nemico del pd mi potrebbe anche far piacere veder morire quel partito - in politica non valgono i principii decoubertiniani - ma siccome so che dalla morte del pd non ne trarrà vantaggio una sinistra che qui in Italia è ancora esangue, ma la destra peggiore, quella alla Trump e alla Le Pen, vedere questa agonia mi preoccupa.
domenica 12 febbraio 2017
Verba volant (350): ignoranza...
Nei giorni scorsi è stata pubblicata sui giornali italiani una lettera aperta, sottoscritta da seicento docenti universitari, che inizia con queste parola:
È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente.Non si tratta di un allarme ingiustificato: ce o aveva già spiegato, con estrema chiarezza, Tullio De Mauro, e ciascuno di noi lo sperimenta ogni giorno. Sempre più persone hanno difficoltà a compilare un modulo, anche quando ci sforziamo di renderli semplici e comprensibili. Troppe volte ci capita di leggere errori grammaticali in articoli di giornale o di ascoltarli in televisione. E non si tratta di un problema "minore" rispetto a quelli gravissimi in cui si dibatte il nostro paese. La mancanza di istruzione è uno dei più gravi limiti dello sviluppo democratico di un paese: non ci può essere vera democrazia in un paese in cui le persone non sanno leggere, scrivere e far di conto, come si diceva un tempo. Mi piaceva quando vedevo - ad esempio nel simbolo del Psi - il libro insieme alla falce e al martello: mi sembrava che quell'immagine ci indicasse proprio la necessità che tutte e tutti sapessero leggere e scrivere e ci indicasse un obiettivo e un impegno di lotta. Sconfiggere l'ignoranza è il primo dovere della sinistra, a ogni latitudine e in ogni tempo.
Di questa lettera però mi interessa soprattutto un altro aspetto: il suo essere così intrinsecamente italiana. Perché vede che c'è un problema e ne individua le responsabilità; degli altri. In Italia è sempre così: è sempre colpa di qualcun altro. Gli estensori e i firmatari di quella lettera dal contenuto sacrosanto non sono marziani arrivati all'improvviso nel nostro paese e chiamati a osservare, a giudicare e, nel caso, a condannare. Sono seicento professori universitari, molti di loro hanno o hanno avuto altri incarichi, molti di loro fanno o hanno fatto politica, sono seicento persone che fanno parte a tutti gli effetti della classe dirigente di questo paese. Forse se siamo a questo punto, cari professori, un po' è anche colpa vostra. Quegli insegnanti poco preparati delle scuole elementari, che non insegnano più la grammatica, sono stati vostri allievi, quei politici che hanno tolto peso all'insegnamento della grammatica sono stati vostri allievi o militano nel vostro partito, ci potete parlare anche senza bisogno di scrivere una lettera. E' anche colpa vostra, cari professori, perché è anche colpa nostra, di noi cittadini, perché quei politici li abbiamo votati, perché alla grammatica diamo poco peso, perché - quando siamo genitori - poco ci curiamo di quello che viene insegnato a scuola ai nostri figli. E anche voi, cari professori, come noi, siete cittadini e quindi condividete questa responsabilità e in più siete anche voi scuola, anche voi fate parte delle persone a cui è demandato il compito di educare le cittadine e i cittadini. Certo voi non dovete insegnare a leggere e a scrivere, a quello devono pensarci i maestri elementari, ma non pensate che forse il vostro latinorum può fare altrettanti danni?
sabato 11 febbraio 2017
Verba volant (349): chiudere...
Chiudere, v. tr.
Amo le biblioteche, le ho sempre amate. E credo che le biblioteche rappresentino una delle funzioni più importanti di una città, ossia che non possa esistere una città senza biblioteche, così come non può esistere una città senza scuole e ospedali. E per questo non mi piace quando l'ingresso in una biblioteca non è libero - e gratuito - quando per entrare in una biblioteca occorre passare attraverso due porte a vetri, come per entrare in banca, e tu rimani per qualche secondo prigioniero tra quelle due porte chiuse, in attesa che qualcuno o qualcosa ti riconosca. E infatti amo poco le banche, non tanto perché è difficile entrarci, ma per quello che ci fanno dentro.
Quindi per me è un dolore sapere che in una biblioteca che ho frequentato in gioventù, quella di via Zamboni 36 a Bologna, sono state installate queste due porte. Come noto, contro questa decisione un gruppo di studenti ha iniziato una serie di proteste, fino all'occupazione di quella stessa biblioteca, e - cosa altrettanto nota - la polizia ha sgombrato quegli studenti - con una violenza repressiva francamente intollerabile - "liberando" quella biblioteca, che ora temo sia chiusa. Una sconfitta per l'università; e per la città. E soprattutto per gli studenti che di quello spazio hanno bisogno.
Poi però bisogna raccontare anche un'altra parte di questa vicenda, che riguarda cosa le biblioteche sono diventate nelle nostre città. Per ovvi motivi anagrafici, non frequento le biblioteche universitarie bolognesi da molto tempo, ma fino a qualche anno fa andavo regolarmente in Salaborsa, la principale biblioteca pubblica di Bologna - che si trova proprio a ridosso di piazza Maggiore, nel cuore della città: cinque o sei anni fa - e immagino sia la stessa cosa anche oggi - quell'istituzione non svolgeva soltanto la funzione per cui è nata, ma ne ha assunta un'altra che tutti vediamo, ma che nessuno sembra disposto ad ammettere. La Salaborsa è, insieme alla sala d'aspetto della stazione ferroviaria, il principale luogo di riparo per molti senzatetto bolognesi: se non ci fosse quella biblioteca, se non ci fossero le biblioteche nei quartieri, molti senzatetto non saprebbero dove andare e sarebbero costretti a rimanere in strada, al freddo d'inverno e al caldo d'estate. Questa è una funzione di una biblioteca? Credo di no, però è così e non possiamo fingere che non lo sia. E infatti credo che la gestione di quella biblioteca dovrebbe essere a carico non solo dei magri bilanci del settore cultura, ma che le spese dovrebbero essere imputare anche sui costi del welfare. Questo innegabilmente crea problemi alle persone che lavorano in quell'istituzione e a chi va a leggere e a studiare. Si spaccia in Salaborsa? Immagino di sì, perché si tratta comunque di uno spazio libero e per molti versi franco. Scusate la prosaicità, ma Salaborsa è uno dei bagni pubblici più frequentati della città; questa non è una funzione di una biblioteca, però risolve le "funzioni" di moltissime persone che passano per il centro e non saprebbero come fare altrimenti. Amministrare una città significa anche dedicare spazi alle necessità dei suoi cittadini, a tutte le necessità.
A me piacerebbe che le biblioteche universitarie di Bologna fossero spazi liberi e aperti alla socialità - perché in biblioteca ci vai a studiare, ma anche per stare insieme - mi piacerebbe che fossero aperte anche di sera, di notte - anche perché per molti studenti fuorisede non è facile studiare negli spazi angusti delle case che vengono loro affittate a prezzi iperbolici dai "bravi" cittadini bolognesi. Ma nella situazione data cosa diventerebbero quegli spazi? Sarebbero impropri dormitori, sarebbero impropri bagni pubblici, sarebbero un'altra cosa rispetto a quello che dovrebbero essere.
Per questo non mi appassiona la discussione pro o contro le occupazioni, né quella pro o contro lo sgombero da parte della questura, su richiesta del rettore, con l'avallo del sindaco e il plauso dei benpensanti che affittano in nero agli studenti. Vorrei che nella mia ex città, nell'università in cui mi sono laureato - per inciso la più antica del mondo - si discutesse di spazi e di funzioni.
Non siamo di fronte a un nuovo '77, ma al manifestarsi della debolezza della città di fronte a quello che è, a quello che dovrebbe essere. Un rettore inadeguato, un sindaco inadeguato, una città inadeguata, cosa altro possono fare? Alzano la voce, sbattono i pugni sul tavolo, fanno intervenire i poliziotti soltanto per mascherare la loro pochezza, la mancanza di un'idea di futuro, l'incapacità di pensare a cosa deve essere la città e l'università, a partire da come devono essere usati i suoi spazi. E francamente anche gli studenti "ribelli" e occupanti mi pare non dimostrino grande visione del mondo. Volete occupare via Zamboni 36 per farci cosa?
In questi giorni a Bologna si stanno fronteggiando due debolezze, e visto che nessuno sa cosa farci di quello spazio finirà per rimanere chiuso. Una sconfitta per tutta la città.
Amo le biblioteche, le ho sempre amate. E credo che le biblioteche rappresentino una delle funzioni più importanti di una città, ossia che non possa esistere una città senza biblioteche, così come non può esistere una città senza scuole e ospedali. E per questo non mi piace quando l'ingresso in una biblioteca non è libero - e gratuito - quando per entrare in una biblioteca occorre passare attraverso due porte a vetri, come per entrare in banca, e tu rimani per qualche secondo prigioniero tra quelle due porte chiuse, in attesa che qualcuno o qualcosa ti riconosca. E infatti amo poco le banche, non tanto perché è difficile entrarci, ma per quello che ci fanno dentro.
Quindi per me è un dolore sapere che in una biblioteca che ho frequentato in gioventù, quella di via Zamboni 36 a Bologna, sono state installate queste due porte. Come noto, contro questa decisione un gruppo di studenti ha iniziato una serie di proteste, fino all'occupazione di quella stessa biblioteca, e - cosa altrettanto nota - la polizia ha sgombrato quegli studenti - con una violenza repressiva francamente intollerabile - "liberando" quella biblioteca, che ora temo sia chiusa. Una sconfitta per l'università; e per la città. E soprattutto per gli studenti che di quello spazio hanno bisogno.
Poi però bisogna raccontare anche un'altra parte di questa vicenda, che riguarda cosa le biblioteche sono diventate nelle nostre città. Per ovvi motivi anagrafici, non frequento le biblioteche universitarie bolognesi da molto tempo, ma fino a qualche anno fa andavo regolarmente in Salaborsa, la principale biblioteca pubblica di Bologna - che si trova proprio a ridosso di piazza Maggiore, nel cuore della città: cinque o sei anni fa - e immagino sia la stessa cosa anche oggi - quell'istituzione non svolgeva soltanto la funzione per cui è nata, ma ne ha assunta un'altra che tutti vediamo, ma che nessuno sembra disposto ad ammettere. La Salaborsa è, insieme alla sala d'aspetto della stazione ferroviaria, il principale luogo di riparo per molti senzatetto bolognesi: se non ci fosse quella biblioteca, se non ci fossero le biblioteche nei quartieri, molti senzatetto non saprebbero dove andare e sarebbero costretti a rimanere in strada, al freddo d'inverno e al caldo d'estate. Questa è una funzione di una biblioteca? Credo di no, però è così e non possiamo fingere che non lo sia. E infatti credo che la gestione di quella biblioteca dovrebbe essere a carico non solo dei magri bilanci del settore cultura, ma che le spese dovrebbero essere imputare anche sui costi del welfare. Questo innegabilmente crea problemi alle persone che lavorano in quell'istituzione e a chi va a leggere e a studiare. Si spaccia in Salaborsa? Immagino di sì, perché si tratta comunque di uno spazio libero e per molti versi franco. Scusate la prosaicità, ma Salaborsa è uno dei bagni pubblici più frequentati della città; questa non è una funzione di una biblioteca, però risolve le "funzioni" di moltissime persone che passano per il centro e non saprebbero come fare altrimenti. Amministrare una città significa anche dedicare spazi alle necessità dei suoi cittadini, a tutte le necessità.
A me piacerebbe che le biblioteche universitarie di Bologna fossero spazi liberi e aperti alla socialità - perché in biblioteca ci vai a studiare, ma anche per stare insieme - mi piacerebbe che fossero aperte anche di sera, di notte - anche perché per molti studenti fuorisede non è facile studiare negli spazi angusti delle case che vengono loro affittate a prezzi iperbolici dai "bravi" cittadini bolognesi. Ma nella situazione data cosa diventerebbero quegli spazi? Sarebbero impropri dormitori, sarebbero impropri bagni pubblici, sarebbero un'altra cosa rispetto a quello che dovrebbero essere.
Per questo non mi appassiona la discussione pro o contro le occupazioni, né quella pro o contro lo sgombero da parte della questura, su richiesta del rettore, con l'avallo del sindaco e il plauso dei benpensanti che affittano in nero agli studenti. Vorrei che nella mia ex città, nell'università in cui mi sono laureato - per inciso la più antica del mondo - si discutesse di spazi e di funzioni.
Non siamo di fronte a un nuovo '77, ma al manifestarsi della debolezza della città di fronte a quello che è, a quello che dovrebbe essere. Un rettore inadeguato, un sindaco inadeguato, una città inadeguata, cosa altro possono fare? Alzano la voce, sbattono i pugni sul tavolo, fanno intervenire i poliziotti soltanto per mascherare la loro pochezza, la mancanza di un'idea di futuro, l'incapacità di pensare a cosa deve essere la città e l'università, a partire da come devono essere usati i suoi spazi. E francamente anche gli studenti "ribelli" e occupanti mi pare non dimostrino grande visione del mondo. Volete occupare via Zamboni 36 per farci cosa?
In questi giorni a Bologna si stanno fronteggiando due debolezze, e visto che nessuno sa cosa farci di quello spazio finirà per rimanere chiuso. Una sconfitta per tutta la città.
giovedì 9 febbraio 2017
Verba volant (348): stadio...
Stadio, sost. m.
Serve davvero uno stadio nuovo ad Olimpia? C'è già quello che si trova ad oriente del tempio di Zeus, alle pendici del monte Cronos; fino ad ora è stato sufficiente per ospitare i grandi giochi panellenici.
Eppure, da quando Stesippo di Caria ha cominciato a sostenere la necessità di questo suo progetto, i cittadini della gloriosa città dell'Elide sembrano discutere soltanto di come debba essere costruito, su quale area e quanto terreno debba occupare, ma nessuno pare interrogarsi se un nuovo stadio sia effettivamente qualcosa che serve alla città.
Stesippo è arrivato ad Olimpia con il progetto di costruire questo nuovo stadio e ha spiegato all'assemblea dei cittadini che naturalmente tutte le spese saranno a suo carico. Il costruttore della Caria pare sia molto ricco, appena arrivato in città ha fatto grandi offerte ai templi e i sacerdoti, specialmente quelli potentissimi del tempio di Zeus, hanno cominciato ad avere uno speciale riguardo per questo straniero e per il suo ambizioso progetto. Stesippo ha portato in assemblea anche tanti vincitori dei giochi, i grandi beniamini degli spettatori, e tutti loro hanno detto che un nuovo stadio è necessario, che in un nuovo stadio loro potranno eccellere ancora di più e che il pubblico sarà più comodo e potrà seguire meglio le gare. I politici di Olimpia all'inizio si sono dimostrati sospettosi verso il costruttore dell'Asia minore, ma poi anche loro hanno cominciato a convincersi che il nuovo stadio è necessario. Stesippo è stato molto generoso, ma non voglio certo accusare quei nobili personaggi di essersi convinti solo grazie alle sue offerte. Sono prima di tutto i cittadini di Olimpia che vogliono il nuovo stadio, per tanti artigiani della città sarà un'occasione unica, ci sarà lavoro e opportunità di ricchezza per molte persone, girerà tanto denaro attorno a quei cantieri.
Perché Stesippo non si limiterà a costruire soltanto lo stadio, ha progetti più ampi, intende realizzare vicino all'impianto tutta una serie di botteghe da affittare a commercianti, osti, prostitute, insomma quelli che fanno affari quando appassionati da tutte le città greche arrivano ad Olimpia per i giochi. E poi c'è da costruire gli edifici dove saranno ospitati gli atleti, gli spazi per allenarsi, e un teatro per gli spettacoli, e poi ancora case per le persone che ci lavoreranno. Anche un altro tempio, così saranno più contenti i sacerdoti. E poi le strade per arrivarci e un nuovo ponte sull'Alfeo. Stesippo intende costruire attorno al suo stadio una nuova Olimpia.
In questa euforia nessuno si chiede come verranno utilizzati tutti questi edifici quando non si svolgono i giochi e non vengono ospitati gli atleti e gli spettatori delle altre città. E servono davvero nuove botteghe? Faticano quelle che già ci sono. E cosa ne sarà degli edifici della "vecchia" Olimpia, che prima o poi verranno abbandonati perché tutti i commerci e la vita sociale si concentreranno nella "nuova" città? Cosa faranno i cittadini del vecchio e glorioso stadio. Stesippo parla di riconversione, forse si potrebbe adibire a un uso diverso, magari al suo interno potrebbero essere costruite altre botteghe, altre osterie, altri lupanari; forse un altro teatro. Il mestiere di Stesippo è quello di costruire e lui, e quelli come lui, diventano più ricchi se più costruiscono, ma che ne sarà della città di Olimpia?
Serve davvero uno stadio nuovo ad Olimpia? C'è già quello che si trova ad oriente del tempio di Zeus, alle pendici del monte Cronos; fino ad ora è stato sufficiente per ospitare i grandi giochi panellenici.
Eppure, da quando Stesippo di Caria ha cominciato a sostenere la necessità di questo suo progetto, i cittadini della gloriosa città dell'Elide sembrano discutere soltanto di come debba essere costruito, su quale area e quanto terreno debba occupare, ma nessuno pare interrogarsi se un nuovo stadio sia effettivamente qualcosa che serve alla città.
Stesippo è arrivato ad Olimpia con il progetto di costruire questo nuovo stadio e ha spiegato all'assemblea dei cittadini che naturalmente tutte le spese saranno a suo carico. Il costruttore della Caria pare sia molto ricco, appena arrivato in città ha fatto grandi offerte ai templi e i sacerdoti, specialmente quelli potentissimi del tempio di Zeus, hanno cominciato ad avere uno speciale riguardo per questo straniero e per il suo ambizioso progetto. Stesippo ha portato in assemblea anche tanti vincitori dei giochi, i grandi beniamini degli spettatori, e tutti loro hanno detto che un nuovo stadio è necessario, che in un nuovo stadio loro potranno eccellere ancora di più e che il pubblico sarà più comodo e potrà seguire meglio le gare. I politici di Olimpia all'inizio si sono dimostrati sospettosi verso il costruttore dell'Asia minore, ma poi anche loro hanno cominciato a convincersi che il nuovo stadio è necessario. Stesippo è stato molto generoso, ma non voglio certo accusare quei nobili personaggi di essersi convinti solo grazie alle sue offerte. Sono prima di tutto i cittadini di Olimpia che vogliono il nuovo stadio, per tanti artigiani della città sarà un'occasione unica, ci sarà lavoro e opportunità di ricchezza per molte persone, girerà tanto denaro attorno a quei cantieri.
Perché Stesippo non si limiterà a costruire soltanto lo stadio, ha progetti più ampi, intende realizzare vicino all'impianto tutta una serie di botteghe da affittare a commercianti, osti, prostitute, insomma quelli che fanno affari quando appassionati da tutte le città greche arrivano ad Olimpia per i giochi. E poi c'è da costruire gli edifici dove saranno ospitati gli atleti, gli spazi per allenarsi, e un teatro per gli spettacoli, e poi ancora case per le persone che ci lavoreranno. Anche un altro tempio, così saranno più contenti i sacerdoti. E poi le strade per arrivarci e un nuovo ponte sull'Alfeo. Stesippo intende costruire attorno al suo stadio una nuova Olimpia.
In questa euforia nessuno si chiede come verranno utilizzati tutti questi edifici quando non si svolgono i giochi e non vengono ospitati gli atleti e gli spettatori delle altre città. E servono davvero nuove botteghe? Faticano quelle che già ci sono. E cosa ne sarà degli edifici della "vecchia" Olimpia, che prima o poi verranno abbandonati perché tutti i commerci e la vita sociale si concentreranno nella "nuova" città? Cosa faranno i cittadini del vecchio e glorioso stadio. Stesippo parla di riconversione, forse si potrebbe adibire a un uso diverso, magari al suo interno potrebbero essere costruite altre botteghe, altre osterie, altri lupanari; forse un altro teatro. Il mestiere di Stesippo è quello di costruire e lui, e quelli come lui, diventano più ricchi se più costruiscono, ma che ne sarà della città di Olimpia?
mercoledì 8 febbraio 2017
Verba volant (347): spread...
Spread, sost. m.
Io cerco di non usare termini di altre lingue, almeno quando esistono parole italiane che hanno lo stesso significato, e quindi evito di dedicare una definizione di questo inconsueto dizionario a termini stranieri, ma in questo caso devo fare un'eccezione, perché la parola spread è importante non tanto per quello che realmente significa, ma per il significato che gli è stato dato. E per la storia che racconta, la storia di un imbroglio, il più grande imbroglio della storia italiana recente.
Spero vi ricordiate quelle settimane. Era l'estate del 2011, in Italia era al governo Berlusconi - vi ricordate? quello delle televisioni, del Milan e delle puttane - e arrivò la notizia che era stata recapitata una lettera, scritta dall'allora presidente della Bce e da chi avrebbe dovuto sostituirlo poco dopo. Quella lettera rimase segreta per diverse settimane, i ministri per un po' ne negarono perfino l'esistenza e poi lentamente scoprimmo che conteneva più o meno un programma di governo, indicava quali leggi approvare e soprattutto quali scelte di politica economica attuare sia nel breve che nel lungo termine. Di fatto con quella lettera l'Italia veniva commissariata. Berlusconi - che era quello che era, parlandone da vivo - non volle accettare quelle imposizioni e quindi bisognava trovare il modo di farlo fuori. Fosse stato un altro sarebbe stato sufficiente confezionare un bello scandalo, ma con Berlusconi era impossibile: era già stato accusato di tutto, e di molto era colpevole, eppure la sua popolarità non diminuiva, anzi lui era votato proprio perché era così incredibilmente italiano.
Occorreva qualcosa d'altro e si inventarono lo spread. Cominciarono in sordina, ma giorno dopo giorno ci mostrarono che, a causa dell'ostinazione di Berlusconi, lo spread saliva. Fu uno stillicidio quotidiano, ogni giorno un piccolo ritocco in su, i giornali titolavano della crescita dello spread in prima pagina, i telegiornali davano come prima notizia la crescita dello spread.
Il trucco fu davvero ben congegnato perché in pratica l'aumento dello spread indicava che il debito pubblico italiano stava crescendo, ma in fondo era sempre cresciuto, quando c'erano le lire aveva raggiunto una cifra altissima, ma proprio perché così alta incomprensibile. Lo spread invece era un numero basso, facilmente controllabile: non ti puoi fare impressione da un debito di 2.200 miliardi di euro, ma da un indice che parte da 173 all'inizio di gennaio e quindi arriva a 300, e poi a 350, e poi a 400, in maniera inesorabile e che continua a salire, ti impressioni. E ci siamo impressionati. E così il 9 novembre di quell'anno, quando lo spread tocca il suo massimo a 574 può scattare la trappola: quello stesso giorno Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita. Il governo Berlusconi è finito.
Nasce, al di fuori della Costituzione, un governo di emergenza, non perché ci fosse una vera emergenza, ma perché avevano creato un'emergenza e quel governo vara, una dopo l'altra, le misure previste dalla lettera di agosto. Taglia in maniera drastica le pensioni, avvia un ampio piano di liberalizzazioni, riduce i diritti dei lavoratori, modifica la Costituzione introducendo il pareggio di bilancio e di fatto cedendo parte della sovranità alle autorità finanziarie dell'Unione europea. Senza la paura dello spread Monti - e il suo mandante che stava al Quirinale - non avrebbero ucciso lo stato sociale in Italia. Poi naturalmente lo spread cominciò a calare, ci mostrarono in televisione i grafici in cui scendeva e poi semplicemente smisero di parlarne: lo spread non serviva più a farci paura.
Capite perché mi preoccupo quando oggi sento i giornali che ricominciano la litania dello spread?
Io cerco di non usare termini di altre lingue, almeno quando esistono parole italiane che hanno lo stesso significato, e quindi evito di dedicare una definizione di questo inconsueto dizionario a termini stranieri, ma in questo caso devo fare un'eccezione, perché la parola spread è importante non tanto per quello che realmente significa, ma per il significato che gli è stato dato. E per la storia che racconta, la storia di un imbroglio, il più grande imbroglio della storia italiana recente.
Spero vi ricordiate quelle settimane. Era l'estate del 2011, in Italia era al governo Berlusconi - vi ricordate? quello delle televisioni, del Milan e delle puttane - e arrivò la notizia che era stata recapitata una lettera, scritta dall'allora presidente della Bce e da chi avrebbe dovuto sostituirlo poco dopo. Quella lettera rimase segreta per diverse settimane, i ministri per un po' ne negarono perfino l'esistenza e poi lentamente scoprimmo che conteneva più o meno un programma di governo, indicava quali leggi approvare e soprattutto quali scelte di politica economica attuare sia nel breve che nel lungo termine. Di fatto con quella lettera l'Italia veniva commissariata. Berlusconi - che era quello che era, parlandone da vivo - non volle accettare quelle imposizioni e quindi bisognava trovare il modo di farlo fuori. Fosse stato un altro sarebbe stato sufficiente confezionare un bello scandalo, ma con Berlusconi era impossibile: era già stato accusato di tutto, e di molto era colpevole, eppure la sua popolarità non diminuiva, anzi lui era votato proprio perché era così incredibilmente italiano.
Occorreva qualcosa d'altro e si inventarono lo spread. Cominciarono in sordina, ma giorno dopo giorno ci mostrarono che, a causa dell'ostinazione di Berlusconi, lo spread saliva. Fu uno stillicidio quotidiano, ogni giorno un piccolo ritocco in su, i giornali titolavano della crescita dello spread in prima pagina, i telegiornali davano come prima notizia la crescita dello spread.
Il trucco fu davvero ben congegnato perché in pratica l'aumento dello spread indicava che il debito pubblico italiano stava crescendo, ma in fondo era sempre cresciuto, quando c'erano le lire aveva raggiunto una cifra altissima, ma proprio perché così alta incomprensibile. Lo spread invece era un numero basso, facilmente controllabile: non ti puoi fare impressione da un debito di 2.200 miliardi di euro, ma da un indice che parte da 173 all'inizio di gennaio e quindi arriva a 300, e poi a 350, e poi a 400, in maniera inesorabile e che continua a salire, ti impressioni. E ci siamo impressionati. E così il 9 novembre di quell'anno, quando lo spread tocca il suo massimo a 574 può scattare la trappola: quello stesso giorno Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita. Il governo Berlusconi è finito.
Nasce, al di fuori della Costituzione, un governo di emergenza, non perché ci fosse una vera emergenza, ma perché avevano creato un'emergenza e quel governo vara, una dopo l'altra, le misure previste dalla lettera di agosto. Taglia in maniera drastica le pensioni, avvia un ampio piano di liberalizzazioni, riduce i diritti dei lavoratori, modifica la Costituzione introducendo il pareggio di bilancio e di fatto cedendo parte della sovranità alle autorità finanziarie dell'Unione europea. Senza la paura dello spread Monti - e il suo mandante che stava al Quirinale - non avrebbero ucciso lo stato sociale in Italia. Poi naturalmente lo spread cominciò a calare, ci mostrarono in televisione i grafici in cui scendeva e poi semplicemente smisero di parlarne: lo spread non serviva più a farci paura.
Capite perché mi preoccupo quando oggi sento i giornali che ricominciano la litania dello spread?
lunedì 6 febbraio 2017
Verba volant (346): foiba...
Foiba, sost. f.
E le foibe? Quante volte mi sono sentito buttare addosso questa domanda, mentre ricordavo a qualcuno i crimini fascisti? Ormai ho perso il conto. E quante volte mi sono messo sulla difensiva, tentando di rispondere a questa domanda? Non lo farò più, perché non ne ho più voglia, perché è una domanda che viene fatta solo per provocare e non prevede una risposta.
Sostanzialmente per lo stesso motivo ho deciso di non partecipare più a nessuna iniziativa istituzionale per il Giorno del ricordo, ho deciso che in questa giornata non scriverò più delle riflessioni su questo tema, cercando comunque di contestualizzare quegli avvenimenti, di darne una spiegazione, mettendomi ancora una volta sulla difensiva. Non perché quei fatti drammatici non meritino di essere ricordati, anzi credo che occorra studiarli ancora di più. E soprattutto perché ho troppo rispetto per la memoria per trattarla così.
Però bisogna anche cominciare a dire le cose senza ipocrisie: il Giorno del ricordo è una "festa" che hanno voluto i fascisti e io non ho voglia di partecipare a una festa di quella gente lì. Hanno voluto questa manifestazione non perché importi loro qualcosa di quel dramma, di quel popolo che si ritrovò esule, ma essenzialmente per avere anche loro qualcosa da festeggiare, visto che le altre feste civili di questo paese sono tutte, giustamente, contro di loro. E per aver qualcosa di cui accusarci. Io a questo gioco non mi presto più. E credo che sia stata una grave debolezza concedere loro questa data, accettare di metterci sul banco degli accusati, quando non abbiamo nulla di cui vergognarci. Non è un caso che l'istituzione di questa festa civile sia avvenuta negli stessi anni in cui la sinistra si è suicidata: anche questo ne è un indizio, che allora non abbiamo voluto capire fino in fondo. Questa festa è stata voluta negli anni in cui si è diffusa l'idea che la pacificazione avrebbe migliorato questo paese, l'avrebbe fatto crescere; io non ho mai creduto alla pacificazione, con certa gente non possiamo fare pace, dobbiamo continuare a disprezzarli, come meritano.
Vogliamo parlare di cosa ha significato la seconda guerra mondiale per milioni di donne e di uomini, che quel conflitto lo hanno subito per così tanti anni? Vogliamo raccontare le storie dei milioni di persone che, alla fine della guerra sono state costrette a lasciare i loro paesi perché, specialmente nell'Europa centrale e orientale, i confini sono stati tutti ritracciati, in maniera radicalmente diversa da prima? Alla fine del conflitto, in gran parte dell'Europa continentale è cominciato questo movimento di popoli, di donne e di uomini che, come i frammenti di un caleidoscopio, dovevano trovare una nuova sistemazione; e migrazioni del genere, specialmente quando avvengono in contesti così drammatici, si portano sempre dietro morte e dolore. Vogliamo parlare di cosa ha rappresentato la violenza nella prima metà del Novecento? La lotta politica era intrisa di violenza, è qualcosa che può non piacerci, che non deve piacerci, ma non possiamo fare finta che non sia così, altrimenti non capiamo né lo squadrismo fascista né le violenze dei partigiani né l'odio che subirono queste persone nel loro viaggio di ritorno in Italia, con episodi - come quello avvenuto alla stazione di Bologna - di cui francamente non possiamo che vergognarci.
C'è molto da raccontare su quegli anni, da capire, da studiare, anche con l'ambizione di scoprire qualcosa di nuovo e senza la paura di abbattere dei miti che sono stati costruiti nei decenni successivi. Però c'è un punto fermo e, se si toglie quello, cade tutto e non si capisce più nulla: in quel conflitto c'era una parte giusta e c'era una parte sbagliata, c'erano i fascisti e c'erano quelli che combattevano contro i fascisti. Io so da che parte stare e lo voglio ricordare, tutti i giorni.
E le foibe? Quante volte mi sono sentito buttare addosso questa domanda, mentre ricordavo a qualcuno i crimini fascisti? Ormai ho perso il conto. E quante volte mi sono messo sulla difensiva, tentando di rispondere a questa domanda? Non lo farò più, perché non ne ho più voglia, perché è una domanda che viene fatta solo per provocare e non prevede una risposta.
Sostanzialmente per lo stesso motivo ho deciso di non partecipare più a nessuna iniziativa istituzionale per il Giorno del ricordo, ho deciso che in questa giornata non scriverò più delle riflessioni su questo tema, cercando comunque di contestualizzare quegli avvenimenti, di darne una spiegazione, mettendomi ancora una volta sulla difensiva. Non perché quei fatti drammatici non meritino di essere ricordati, anzi credo che occorra studiarli ancora di più. E soprattutto perché ho troppo rispetto per la memoria per trattarla così.
Però bisogna anche cominciare a dire le cose senza ipocrisie: il Giorno del ricordo è una "festa" che hanno voluto i fascisti e io non ho voglia di partecipare a una festa di quella gente lì. Hanno voluto questa manifestazione non perché importi loro qualcosa di quel dramma, di quel popolo che si ritrovò esule, ma essenzialmente per avere anche loro qualcosa da festeggiare, visto che le altre feste civili di questo paese sono tutte, giustamente, contro di loro. E per aver qualcosa di cui accusarci. Io a questo gioco non mi presto più. E credo che sia stata una grave debolezza concedere loro questa data, accettare di metterci sul banco degli accusati, quando non abbiamo nulla di cui vergognarci. Non è un caso che l'istituzione di questa festa civile sia avvenuta negli stessi anni in cui la sinistra si è suicidata: anche questo ne è un indizio, che allora non abbiamo voluto capire fino in fondo. Questa festa è stata voluta negli anni in cui si è diffusa l'idea che la pacificazione avrebbe migliorato questo paese, l'avrebbe fatto crescere; io non ho mai creduto alla pacificazione, con certa gente non possiamo fare pace, dobbiamo continuare a disprezzarli, come meritano.
Vogliamo parlare di cosa ha significato la seconda guerra mondiale per milioni di donne e di uomini, che quel conflitto lo hanno subito per così tanti anni? Vogliamo raccontare le storie dei milioni di persone che, alla fine della guerra sono state costrette a lasciare i loro paesi perché, specialmente nell'Europa centrale e orientale, i confini sono stati tutti ritracciati, in maniera radicalmente diversa da prima? Alla fine del conflitto, in gran parte dell'Europa continentale è cominciato questo movimento di popoli, di donne e di uomini che, come i frammenti di un caleidoscopio, dovevano trovare una nuova sistemazione; e migrazioni del genere, specialmente quando avvengono in contesti così drammatici, si portano sempre dietro morte e dolore. Vogliamo parlare di cosa ha rappresentato la violenza nella prima metà del Novecento? La lotta politica era intrisa di violenza, è qualcosa che può non piacerci, che non deve piacerci, ma non possiamo fare finta che non sia così, altrimenti non capiamo né lo squadrismo fascista né le violenze dei partigiani né l'odio che subirono queste persone nel loro viaggio di ritorno in Italia, con episodi - come quello avvenuto alla stazione di Bologna - di cui francamente non possiamo che vergognarci.
C'è molto da raccontare su quegli anni, da capire, da studiare, anche con l'ambizione di scoprire qualcosa di nuovo e senza la paura di abbattere dei miti che sono stati costruiti nei decenni successivi. Però c'è un punto fermo e, se si toglie quello, cade tutto e non si capisce più nulla: in quel conflitto c'era una parte giusta e c'era una parte sbagliata, c'erano i fascisti e c'erano quelli che combattevano contro i fascisti. Io so da che parte stare e lo voglio ricordare, tutti i giorni.
sabato 4 febbraio 2017
Verba volant (345): polizza...
Polizza, sost. f.
Lo devo confessare: anch'io ho contratto due polizze assicurative sulla vita, una quando abbiamo fatto il mutuo per comprare casa e una come forma di risparmio a lungo termine. In entrambi i casi il beneficiario è mia moglie; anche se lavoro in comune, non mi sarebbe proprio venuto in mente di indicare il mio sindaco, ragazzo simpatico, ma decisamente troppo del pd. Comunque mia moglie sa di essere la beneficiaria - non l'ho fatto a sua insaputa - ma sono tranquillo: si tratta di cifre modeste e quindi penso che non mi ucciderà per incassare i premi; magari mi vorrebbe eliminare perché brontolo troppo, ma questa è un'altra storia. E visto che le statistiche sulla durata della vita sono a suo favore, quei premi li incasserà comunque, prima o poi.
Il tema però non sono le mie polizze - e neppure le vostre - ma quelle che un tal Romeo ha sottoscritto a favore della sindaco di Roma. E qualche riflessione su queste benedette polizze tocca farla.
Intanto dovremmo riflettere sulla notizia in sé, su come è nata. I magistrati che hanno avviato un'indagine sulla sindaco di Roma hanno cercato di tenere questa indagine lontana dai riflettori, almeno per quanto competeva a loro. Hanno giustamente svolto l'interrogatorio in un luogo segreto e immagino avranno "nascosto" da qualche parte il verbale. Tenere segreti questi verbali è un loro dovere, ma è anche un diritto dell'imputato. Noi cittadini non abbiamo il diritto di sapere cosa è stato detto in quella stanza; almeno fino a quando l'inchiesta non è conclusa e gli atti possono diventare pubblici. E questo vale per ogni indagine. Io, da cittadino, mi sento più tutelato se so che i verbali degli interrogatori - di tutti gli imputati, dal ladro di polli a Totò Riina - vengono tenuti segreti mentre si svolgono le indagini. Invece raramente lo sono, spesso qualcuno li diffonde, quasi sempre scegliendo ad arte quello che serve ai propri scopi. E questo qualcuno è un magistrato, un pubblico ufficiale, qualcuno che tradisce il proprio lavoro e il proprio ufficio. Prima o poi dovremo interrogarci su come lavorano male i magistrati in questo paese e sulla loro malafede, ma evidentemente ai giornalisti loro complici, che ricevono quei preziosi verbali o i testi delle intercettazioni, non interessa denunciare la mano che li nutre.
Ormai i verbali sono pubblici e quindi parliamo di queste polizze. Cosa ci racconta questa storia? Nulla di particolarmente nuovo, a dire il vero. Questa vicenda ci dice che Virginia Raggi è inadeguata a quel ruolo. Io - l'ho scritto più volte, prendendomi per lo più gli strali dei miei lettori - l'avrei votata se fossi cittadino romano - la voterei ancora se dall'altra parte ci fosse un candidato del pd - ma pensavo allora e penso oggi che né lei né il suo partito siano pronti a una sfida di questo genere e questo è un problema. Per tutti. Il fatto che la seconda - o forse, nonostante la canea dei giornali, la prima - forza politica del paese sia incapace di esprimere una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe mettere in ansia sia coloro che li votano che quelli che non lo fanno o non lo farebbero mai. Ma neppure questo è un tema che interessa ai giornalisti italiani, il cui unico scopo è quello di screditare gli avversari politici dei propri "padrini".
Poi la storia delle polizze ci dice un'altra cosa che già sapevamo, ossia che attorno a quell'amministrazione - ma non solo a quella ovviamente - ruota un sottobosco di personaggi, i cui interessi poco hanno a che fare con quelli dell'amministrazione. Quelle polizze francamente mi sembrano più che un gesto di inutile piaggeria o un tentativo malriuscito di corruzione, un'arma di Romeo - o dei suoi mandanti - da usare contro Raggi. Anche se un magistrato a servizio di chi non sappiamo - o lo sappiamo benissimo - non avesse fatto lo spione, probabilmente quelle polizze sarebbero saltate fuori comunque, presto o tardi, perché utilissime per tenere sotto scacco la sindaco che, per quanto debole, "loro" non riescono a controllare come vorrebbero. Temo che la debolezza di Raggi alla fine abbia stupito e spaventato anche loro. Chi fa affari intorno - e in barba - all'amministrazione comunale ha bisogno di un sindaco che decida, che faccia qualcosa, magari lo faccia male, ma lo faccia. Un'amministrazione immobile non serve neppure ai ladri, ai faccendieri, ai corrotti e ai corruttori; e infatti tutti questi richiedono un'amministrazione che decida, magari come faceva il commissario, senza le beghe e le lungaggini della politica. In Italia in tanti vogliono l'uomo forte perché si spende meno a corrompere una persona sola, per quanto avida, piuttosto che tanti.
La vicenda delle polizze è grave perché scopre non tanto l'inadeguatezza della politica - è più di vent'anni che "loro" ci dicono che la politica fa schifo e la profezia ha finito per autoavverarsi - quanto il marcio che c'è nella pubblica amministrazione. Il Comune di Roma - e non è un'eccezione rispetto al panorama desolante della pubblica amministrazione - va così non per colpa di politici malfattori e incapaci che si sono succeduti in questi anni - o non solo per colpa loro - ma soprattutto per precise responsabilità di una macchina amministrativa che si è voluto fosse debole, poco formata, impastoiata da leggi, direttive e regolamenti incomprensibili. Ci sono ormai decine di leggi, decreti, regolamenti, linee guida dell'Anac, dedicate al tema della prevenzione della corruzione, ogni Comune deve produrre rapporti, avviare controlli, monitorare procedure, eppure si continua tranquillamente a rubare - anzi si ruba più di prima - perché si tratta di norme farraginose, inconcludenti, spesso tra loro in contrasto, scritte in una lingua inaccessibile. Ogni pubblica amministrazione impegna persone a scrivere centinaia di pagine che nessuno leggerà, a redigere norme che nessuno applicherà, magari non facendo le cose che andrebbero fatte. Ad esempio le norme per i lavori pubblici sono così complesse da far desistere un funzionario onesto, mentre uno disonesto va a nozze, perché grazie alla complessità è più facile rubare. Più le leggi sono complicare più sono difficili da far rispettare e infatti in questo paese abbiano un corpus legislativo abnorme, che tende a crescere piuttosto che farsi più semplice. E poi i ladri sanno che prima o poi arriva una proroga, arriva un'emergenza, arriva qualcosa che permetterà loro di rubare, più e meglio di prima, alla faccia degli impiegati onesti che sono la maggioranza e anche dei politici seri e preparati che ci sono e che potrebbero esserci, perché nessuno "nasce imparato": si può diventare amministratori capaci, ma si preferisce non lo diventino.
Questa è la vera polizza che assicura a "loro" di poter continuare a fare i loro affari.
Lo devo confessare: anch'io ho contratto due polizze assicurative sulla vita, una quando abbiamo fatto il mutuo per comprare casa e una come forma di risparmio a lungo termine. In entrambi i casi il beneficiario è mia moglie; anche se lavoro in comune, non mi sarebbe proprio venuto in mente di indicare il mio sindaco, ragazzo simpatico, ma decisamente troppo del pd. Comunque mia moglie sa di essere la beneficiaria - non l'ho fatto a sua insaputa - ma sono tranquillo: si tratta di cifre modeste e quindi penso che non mi ucciderà per incassare i premi; magari mi vorrebbe eliminare perché brontolo troppo, ma questa è un'altra storia. E visto che le statistiche sulla durata della vita sono a suo favore, quei premi li incasserà comunque, prima o poi.
Il tema però non sono le mie polizze - e neppure le vostre - ma quelle che un tal Romeo ha sottoscritto a favore della sindaco di Roma. E qualche riflessione su queste benedette polizze tocca farla.
Intanto dovremmo riflettere sulla notizia in sé, su come è nata. I magistrati che hanno avviato un'indagine sulla sindaco di Roma hanno cercato di tenere questa indagine lontana dai riflettori, almeno per quanto competeva a loro. Hanno giustamente svolto l'interrogatorio in un luogo segreto e immagino avranno "nascosto" da qualche parte il verbale. Tenere segreti questi verbali è un loro dovere, ma è anche un diritto dell'imputato. Noi cittadini non abbiamo il diritto di sapere cosa è stato detto in quella stanza; almeno fino a quando l'inchiesta non è conclusa e gli atti possono diventare pubblici. E questo vale per ogni indagine. Io, da cittadino, mi sento più tutelato se so che i verbali degli interrogatori - di tutti gli imputati, dal ladro di polli a Totò Riina - vengono tenuti segreti mentre si svolgono le indagini. Invece raramente lo sono, spesso qualcuno li diffonde, quasi sempre scegliendo ad arte quello che serve ai propri scopi. E questo qualcuno è un magistrato, un pubblico ufficiale, qualcuno che tradisce il proprio lavoro e il proprio ufficio. Prima o poi dovremo interrogarci su come lavorano male i magistrati in questo paese e sulla loro malafede, ma evidentemente ai giornalisti loro complici, che ricevono quei preziosi verbali o i testi delle intercettazioni, non interessa denunciare la mano che li nutre.
Ormai i verbali sono pubblici e quindi parliamo di queste polizze. Cosa ci racconta questa storia? Nulla di particolarmente nuovo, a dire il vero. Questa vicenda ci dice che Virginia Raggi è inadeguata a quel ruolo. Io - l'ho scritto più volte, prendendomi per lo più gli strali dei miei lettori - l'avrei votata se fossi cittadino romano - la voterei ancora se dall'altra parte ci fosse un candidato del pd - ma pensavo allora e penso oggi che né lei né il suo partito siano pronti a una sfida di questo genere e questo è un problema. Per tutti. Il fatto che la seconda - o forse, nonostante la canea dei giornali, la prima - forza politica del paese sia incapace di esprimere una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe mettere in ansia sia coloro che li votano che quelli che non lo fanno o non lo farebbero mai. Ma neppure questo è un tema che interessa ai giornalisti italiani, il cui unico scopo è quello di screditare gli avversari politici dei propri "padrini".
Poi la storia delle polizze ci dice un'altra cosa che già sapevamo, ossia che attorno a quell'amministrazione - ma non solo a quella ovviamente - ruota un sottobosco di personaggi, i cui interessi poco hanno a che fare con quelli dell'amministrazione. Quelle polizze francamente mi sembrano più che un gesto di inutile piaggeria o un tentativo malriuscito di corruzione, un'arma di Romeo - o dei suoi mandanti - da usare contro Raggi. Anche se un magistrato a servizio di chi non sappiamo - o lo sappiamo benissimo - non avesse fatto lo spione, probabilmente quelle polizze sarebbero saltate fuori comunque, presto o tardi, perché utilissime per tenere sotto scacco la sindaco che, per quanto debole, "loro" non riescono a controllare come vorrebbero. Temo che la debolezza di Raggi alla fine abbia stupito e spaventato anche loro. Chi fa affari intorno - e in barba - all'amministrazione comunale ha bisogno di un sindaco che decida, che faccia qualcosa, magari lo faccia male, ma lo faccia. Un'amministrazione immobile non serve neppure ai ladri, ai faccendieri, ai corrotti e ai corruttori; e infatti tutti questi richiedono un'amministrazione che decida, magari come faceva il commissario, senza le beghe e le lungaggini della politica. In Italia in tanti vogliono l'uomo forte perché si spende meno a corrompere una persona sola, per quanto avida, piuttosto che tanti.
La vicenda delle polizze è grave perché scopre non tanto l'inadeguatezza della politica - è più di vent'anni che "loro" ci dicono che la politica fa schifo e la profezia ha finito per autoavverarsi - quanto il marcio che c'è nella pubblica amministrazione. Il Comune di Roma - e non è un'eccezione rispetto al panorama desolante della pubblica amministrazione - va così non per colpa di politici malfattori e incapaci che si sono succeduti in questi anni - o non solo per colpa loro - ma soprattutto per precise responsabilità di una macchina amministrativa che si è voluto fosse debole, poco formata, impastoiata da leggi, direttive e regolamenti incomprensibili. Ci sono ormai decine di leggi, decreti, regolamenti, linee guida dell'Anac, dedicate al tema della prevenzione della corruzione, ogni Comune deve produrre rapporti, avviare controlli, monitorare procedure, eppure si continua tranquillamente a rubare - anzi si ruba più di prima - perché si tratta di norme farraginose, inconcludenti, spesso tra loro in contrasto, scritte in una lingua inaccessibile. Ogni pubblica amministrazione impegna persone a scrivere centinaia di pagine che nessuno leggerà, a redigere norme che nessuno applicherà, magari non facendo le cose che andrebbero fatte. Ad esempio le norme per i lavori pubblici sono così complesse da far desistere un funzionario onesto, mentre uno disonesto va a nozze, perché grazie alla complessità è più facile rubare. Più le leggi sono complicare più sono difficili da far rispettare e infatti in questo paese abbiano un corpus legislativo abnorme, che tende a crescere piuttosto che farsi più semplice. E poi i ladri sanno che prima o poi arriva una proroga, arriva un'emergenza, arriva qualcosa che permetterà loro di rubare, più e meglio di prima, alla faccia degli impiegati onesti che sono la maggioranza e anche dei politici seri e preparati che ci sono e che potrebbero esserci, perché nessuno "nasce imparato": si può diventare amministratori capaci, ma si preferisce non lo diventino.
Questa è la vera polizza che assicura a "loro" di poter continuare a fare i loro affari.
venerdì 3 febbraio 2017
"Andrò in prigione" di Predrag Matvejevic'
Confondere la civiltà europea con la civiltà universale, è una tentazione ben nota. Dare ad una realtà concreta e contingente un significato quasi assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile discutere delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa nei confronti dell’altra.
Nei due paese candidati dell'Unione Europea - la Turchia e la Croazia - succedono nello stesso momento due casi simili : nel primo, lo scrittore Orhan Pamuk (candidato serio per il Premio Nobel) è minacciato di esser arrestato per aver riconosciuto il genocidio della sua nazione sugli armeni; nell'altro, il sottoscritto viene condannato a cinque mesi di carcere per aver scritto sulla responsabilità degli intellettuali nazionalisti che hanno aiutato i "signori della guerra" ad infiammare i conflitti.
Si, è vero che ho scritto è pubblicato, in croato e in italiano, un saggio intitolato "I nostri talebani" ( il titolo nel Piccolo triestino era più esplicito: "Talebani cristiani"). Si trattava di quelli che hanno contribuito di più ad una propaganda micidiale, colpevoli di più di duecentomila morti in ex Jugoslavia, di più di due milioni esiliati, non so quanti altri sottoposti alla "pulizia etnica". Proponevo una specie di "tribunale d’onore" che completi quello dell’Aia, dinnanzi al quale potrebbero rispondere i propagandisti dell’ultima guerra balcanica. Menzionai a quest’occasione anche i nomi : alcuni serbi, come Dobrica Cosic, l’inspiratore del famoso Memorandum dell’ Accademia serba, con alcuni suoi vicini (Matija Beckovic, Momo Kapor); aggiunsi diversi scrittori croati, fra i quali, all’ultimo posto - vista la sua modesta importanza letteraria - Mile Pesorda, poeta di Bosnia-Erzegovina che si era trasferito durante la guerra in Croazia. Quest’ultimo mi fece un processo prolungatosi durante un po’ meno di quattro anni e che finì, alcuni giorni fa, con la sentenza giudiziaria: che mi accusa "d’ingiuria e diffamazione" e mi condanna a cinque mesi di carcere. Nel motivare la sentenza il giudice ha definito offensivo il termine "talebano", che io invece consideravo abbastanza debole nel contesto.
Nei due paese candidati dell'Unione Europea - la Turchia e la Croazia - succedono nello stesso momento due casi simili : nel primo, lo scrittore Orhan Pamuk (candidato serio per il Premio Nobel) è minacciato di esser arrestato per aver riconosciuto il genocidio della sua nazione sugli armeni; nell'altro, il sottoscritto viene condannato a cinque mesi di carcere per aver scritto sulla responsabilità degli intellettuali nazionalisti che hanno aiutato i "signori della guerra" ad infiammare i conflitti.
Si, è vero che ho scritto è pubblicato, in croato e in italiano, un saggio intitolato "I nostri talebani" ( il titolo nel Piccolo triestino era più esplicito: "Talebani cristiani"). Si trattava di quelli che hanno contribuito di più ad una propaganda micidiale, colpevoli di più di duecentomila morti in ex Jugoslavia, di più di due milioni esiliati, non so quanti altri sottoposti alla "pulizia etnica". Proponevo una specie di "tribunale d’onore" che completi quello dell’Aia, dinnanzi al quale potrebbero rispondere i propagandisti dell’ultima guerra balcanica. Menzionai a quest’occasione anche i nomi : alcuni serbi, come Dobrica Cosic, l’inspiratore del famoso Memorandum dell’ Accademia serba, con alcuni suoi vicini (Matija Beckovic, Momo Kapor); aggiunsi diversi scrittori croati, fra i quali, all’ultimo posto - vista la sua modesta importanza letteraria - Mile Pesorda, poeta di Bosnia-Erzegovina che si era trasferito durante la guerra in Croazia. Quest’ultimo mi fece un processo prolungatosi durante un po’ meno di quattro anni e che finì, alcuni giorni fa, con la sentenza giudiziaria: che mi accusa "d’ingiuria e diffamazione" e mi condanna a cinque mesi di carcere. Nel motivare la sentenza il giudice ha definito offensivo il termine "talebano", che io invece consideravo abbastanza debole nel contesto.
Ho già dichiarato (tramite al giornale Novi list di Fiume) che non intendo fare ricorso: perché questo significherebbe prendere sul serio la condanna e il tribunale dal quale proviene. Sono dunque pronto di andare, nel momento deciso da "loro", subito dopo aver fatto la mia valigia, nella prigione che mi sarà assegnata. Ho una doppia cittadinanza, croata e italiana (per quest’ultima ringrazio di nuovo Claudio Magris e Raffaele La Capria che hanno chiesto al Presidente della repubblica Scalfaro di concedermela) - potrei dunque rimanere qui senza le difficoltà che incontrano gli "extracomunitari". Ma preferisco sfidare in questo modo quelli che lo meritano.
Molti amici e compagni mi sostengono in questa decisione. Soprattutto quelli che sanno come cercavo anch’io di difendere gli intellettuali perseguitati, anche quelli che "pensavano diversamente" di me: Solzenitsyn, Sacharov, Brodskij, Kis, Havel, Kundera, Milosc, Solidarnosc, Dubcek e "la Primavera di Praga", e anche "l’apertura italiana", come lo chiamavamo all’Est quando Berlinguer e i suoi compagni fecero la loro svolta antistaliniana.
Aggiungo alla fine alcuni accenni sulle idolatrie e sulle illusioni che si fanno di fronte all’Europa tanti cittadini dell’ex Europa dell’Est.
Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: quale Europa?. L’abbiamo sentita, tante volte, in diversi contesti, a partire dall’Europa del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht e dell’euro. Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini che si danno la mano e meno quella degli Stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Un’Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano (è il termine di Sacharov) e meno capitalista senza volto.
E legittimo chiedere quale diventerà l’"altra Europa", che si trova di fronte a queste alternative. In una parte dei cosiddetti "paesi dell’Est", il post-comunismo non è ancora riuscito a "raggiungere" i regimi precedenti (come livello di vita e di produzione, scambi economici, sicurezza sociale, scolarità, regime pensionistico, eccetera). Per citare solo un esempio: la Slovenia, che ha fatto il migliore risultato dei dieci nuovi membri dell’Unione, ha messo quasi otto anni per raggiungere la stessa Slovenia - la sua produttività dell’inizio degli anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che si è autoproclamato "reale" senza esserlo. Le transizioni di questi paesi durano molo più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione è un risultato).
Il cattivo odore delle vecchie tradizioni nazionaliste ristagna ancora in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. E' una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.
I nazionalisti di ogni matrice si scagliano accuse reciproche in modo parziale, esagerato, caricaturale - per condannare gli altri o giustificare se stessi. Le coscienze che tentano di ergersi "al di sopra della mischia" generalmente sono considerate "traditrici della nazione". E per questo vengono punite.
Talvolta abbiamo voglia di finire piuttosto in carcere, come sta succedendomi, che di sopportare tutto questo.
Aggiungo alla fine alcuni accenni sulle idolatrie e sulle illusioni che si fanno di fronte all’Europa tanti cittadini dell’ex Europa dell’Est.
Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: quale Europa?. L’abbiamo sentita, tante volte, in diversi contesti, a partire dall’Europa del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht e dell’euro. Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini che si danno la mano e meno quella degli Stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Un’Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano (è il termine di Sacharov) e meno capitalista senza volto.
E legittimo chiedere quale diventerà l’"altra Europa", che si trova di fronte a queste alternative. In una parte dei cosiddetti "paesi dell’Est", il post-comunismo non è ancora riuscito a "raggiungere" i regimi precedenti (come livello di vita e di produzione, scambi economici, sicurezza sociale, scolarità, regime pensionistico, eccetera). Per citare solo un esempio: la Slovenia, che ha fatto il migliore risultato dei dieci nuovi membri dell’Unione, ha messo quasi otto anni per raggiungere la stessa Slovenia - la sua produttività dell’inizio degli anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che si è autoproclamato "reale" senza esserlo. Le transizioni di questi paesi durano molo più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione è un risultato).
Il cattivo odore delle vecchie tradizioni nazionaliste ristagna ancora in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. E' una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.
I nazionalisti di ogni matrice si scagliano accuse reciproche in modo parziale, esagerato, caricaturale - per condannare gli altri o giustificare se stessi. Le coscienze che tentano di ergersi "al di sopra della mischia" generalmente sono considerate "traditrici della nazione". E per questo vengono punite.
Talvolta abbiamo voglia di finire piuttosto in carcere, come sta succedendomi, che di sopportare tutto questo.
giovedì 2 febbraio 2017
Verba volant (344): rabbia...
Rabbia, sost. f.
Italo è la vittima, Roberta è la vittima, anche Fabio è la vittima. Qualcosa non va: non può esserci una storia in cui ci sono soltanto vittime. Abbiamo bisogno che ci sia un colpevole: in fondo è rassicurante. La vicenda è purtroppo nota: Italo ha causato la morte di Roberta in un incidente stradale e Fabio, che amava Roberta, l'ha ucciso. Fabio ha certamente commesso un reato, molto grave, forse anche Italo ne ha commesso uno, meno grave, perché ovviamente non aveva l'intenzione di uccidere la ragazza. Roberta è l'unica davvero innocente. Ma questo è l'aspetto penale della storia, che è importante, ma che immagino abbia ormai poco significato per quelle famiglie, per quelli che sono rimasti. E anche per noi.
Poi ci sono queste tre vittime: due morti e uno sulla cui coscienza grava un peso indicibile. La storia di queste tre persone, di queste tre vittime, in qualche modo interroga tutti noi. Ciascuno di noi è sinceramente convinto che se gli succedesse quello che è successo a Fabio non si comporterebbe allo stesso modo, ciascuno di noi pensa che saprebbe controllare la propria rabbia, che riuscirebbe a gestire quel dolore. E' legittimo che siamo convinti di questo, è un bene che nella stragrande maggioranza dei casi le persone effettivamente ci riescano e che le vicende come quelle raccontate in questa brutta storia di cronaca siano un'eccezione, ma non possiamo esserne certi. Se non siamo santi - e non lo siamo - dobbiamo accettare questa nostra fragilità, sapere che potrebbe capitare anche a noi, che la rabbia potrebbe travolgerci. E che potremmo uccidere - o ucciderci - per la rabbia di non poter sopportare un dolore che ci dilania. Siamo debolissimi e prima lo capiamo meglio è.
Personalmente penso che essere consapevoli che in ogni momento possiamo spezzarci sia già una specie di punto di arrivo, qualcosa che alla fine può salvarci. Poi possiamo cercare di fare qualcosa di più, possiamo lavorare su noi stessi, sulla nostra rabbia, magari facendoci aiutare da chi sa e può farlo. Possiamo diventare più maturi, essere consapevoli che il mondo ha le sue regole - o non ha regole - e quindi che noi dobbiamo imparare a piegarci, ad adattarci ai cambiamenti, soprattutto quelli che non ci piacciono e soprattutto ad accettare il dolore, anche quando colpisce qualcuno a cui vogliamo bene.
Nonostante crediamo di sapere molte cose sulla nostra mente, nonostante ci siano tanti esperti in grado di aiutarci - o che millantano di aiutarci - in fondo non ne sappiamo poi tanto e non è affatto facile controllare il dolore e la rabbia. Poi viviamo in un mondo che non ci aiuta, perché ogni giorno ci vengono chieste prestazioni spesso superiori alle nostre forze. E' un mondo in cui dobbiamo essere sempre connessi, in cui dobbiamo sempre saper dire la parola giusta al momento giusto, in cui dobbiamo sempre fare la cosa giusta al momento giusto, in cui dobbiamo essere fisicamente perfetti, sempre belli, magri, sportivi, in cui dobbiamo essere sempre giovani e sani. Siccome sono cose impossibili, siamo sottoposti di continuo a una tensione che credo porti ad acuire la nostra rabbia, o che almeno non favorisca affatto la nostra capacità di tenerla sotto controllo. Nuotiamo controcorrente, anche quando abbiamo ancora la forza e la volontà di farlo. Viviamo in un mondo che ci rende più deboli proprio quando ci illude che siamo forti.
E qualcuno non ce la fa. Chi non c'è la fa è colpevole? Certo per la legge è colpevole; ed è giusto che sia così. Fabio deve scontare la sua pena, anche se quasi sicuramente non gli servirà a nulla, perché la nostra società al massimo punisce - quando ci riesce - ma non rende più forti, non aiuta a capire perché chi ha sbagliato lo ha fatto. Chi non ce la fa è colpevole soprattutto per se stesso, e la sua pena più pesante sarà portarsi dietro questa inadeguatezza. E' una pena da cui si può finire per essere schiacciati, in un esito autodistruttivo: spero non sia così per Fabio, ma ha già dimostrato di essere molto debole. Molto più debole della sua rabbia. E anche noi, ogni giorno, condividiamo questa debolezza. E, come Sisifo, portiamo un masso enorme, con grande fatica lo trasciniamo fino alla cima del mondo, ma proprio quando siamo arrivati rotola a terra e ricomincia la fatica. Ma questo non è un supplizio che dovremo patire in un'altra vita, che non ci sarà, ma in questa vita.
Come dice Lucrezio:
Italo è la vittima, Roberta è la vittima, anche Fabio è la vittima. Qualcosa non va: non può esserci una storia in cui ci sono soltanto vittime. Abbiamo bisogno che ci sia un colpevole: in fondo è rassicurante. La vicenda è purtroppo nota: Italo ha causato la morte di Roberta in un incidente stradale e Fabio, che amava Roberta, l'ha ucciso. Fabio ha certamente commesso un reato, molto grave, forse anche Italo ne ha commesso uno, meno grave, perché ovviamente non aveva l'intenzione di uccidere la ragazza. Roberta è l'unica davvero innocente. Ma questo è l'aspetto penale della storia, che è importante, ma che immagino abbia ormai poco significato per quelle famiglie, per quelli che sono rimasti. E anche per noi.
Poi ci sono queste tre vittime: due morti e uno sulla cui coscienza grava un peso indicibile. La storia di queste tre persone, di queste tre vittime, in qualche modo interroga tutti noi. Ciascuno di noi è sinceramente convinto che se gli succedesse quello che è successo a Fabio non si comporterebbe allo stesso modo, ciascuno di noi pensa che saprebbe controllare la propria rabbia, che riuscirebbe a gestire quel dolore. E' legittimo che siamo convinti di questo, è un bene che nella stragrande maggioranza dei casi le persone effettivamente ci riescano e che le vicende come quelle raccontate in questa brutta storia di cronaca siano un'eccezione, ma non possiamo esserne certi. Se non siamo santi - e non lo siamo - dobbiamo accettare questa nostra fragilità, sapere che potrebbe capitare anche a noi, che la rabbia potrebbe travolgerci. E che potremmo uccidere - o ucciderci - per la rabbia di non poter sopportare un dolore che ci dilania. Siamo debolissimi e prima lo capiamo meglio è.
Personalmente penso che essere consapevoli che in ogni momento possiamo spezzarci sia già una specie di punto di arrivo, qualcosa che alla fine può salvarci. Poi possiamo cercare di fare qualcosa di più, possiamo lavorare su noi stessi, sulla nostra rabbia, magari facendoci aiutare da chi sa e può farlo. Possiamo diventare più maturi, essere consapevoli che il mondo ha le sue regole - o non ha regole - e quindi che noi dobbiamo imparare a piegarci, ad adattarci ai cambiamenti, soprattutto quelli che non ci piacciono e soprattutto ad accettare il dolore, anche quando colpisce qualcuno a cui vogliamo bene.
Nonostante crediamo di sapere molte cose sulla nostra mente, nonostante ci siano tanti esperti in grado di aiutarci - o che millantano di aiutarci - in fondo non ne sappiamo poi tanto e non è affatto facile controllare il dolore e la rabbia. Poi viviamo in un mondo che non ci aiuta, perché ogni giorno ci vengono chieste prestazioni spesso superiori alle nostre forze. E' un mondo in cui dobbiamo essere sempre connessi, in cui dobbiamo sempre saper dire la parola giusta al momento giusto, in cui dobbiamo sempre fare la cosa giusta al momento giusto, in cui dobbiamo essere fisicamente perfetti, sempre belli, magri, sportivi, in cui dobbiamo essere sempre giovani e sani. Siccome sono cose impossibili, siamo sottoposti di continuo a una tensione che credo porti ad acuire la nostra rabbia, o che almeno non favorisca affatto la nostra capacità di tenerla sotto controllo. Nuotiamo controcorrente, anche quando abbiamo ancora la forza e la volontà di farlo. Viviamo in un mondo che ci rende più deboli proprio quando ci illude che siamo forti.
E qualcuno non ce la fa. Chi non c'è la fa è colpevole? Certo per la legge è colpevole; ed è giusto che sia così. Fabio deve scontare la sua pena, anche se quasi sicuramente non gli servirà a nulla, perché la nostra società al massimo punisce - quando ci riesce - ma non rende più forti, non aiuta a capire perché chi ha sbagliato lo ha fatto. Chi non ce la fa è colpevole soprattutto per se stesso, e la sua pena più pesante sarà portarsi dietro questa inadeguatezza. E' una pena da cui si può finire per essere schiacciati, in un esito autodistruttivo: spero non sia così per Fabio, ma ha già dimostrato di essere molto debole. Molto più debole della sua rabbia. E anche noi, ogni giorno, condividiamo questa debolezza. E, come Sisifo, portiamo un masso enorme, con grande fatica lo trasciniamo fino alla cima del mondo, ma proprio quando siamo arrivati rotola a terra e ricomincia la fatica. Ma questo non è un supplizio che dovremo patire in un'altra vita, che non ci sarà, ma in questa vita.
Come dice Lucrezio:
qui infine s'avvera per gli stolti la vita dell'inferno.
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