giovedì 30 aprile 2015
"Vietnam" di Wislawa Szymborska
Donna, come ti chiami? - Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? - Non lo so.
Perchè ti sei scavata una tana sottoterra? - Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? - Non lo so.
Perchè mi hai morso la mano? - Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? - Non lo so.
Da che parte stai? - Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. - Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? - Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? - Si.
mercoledì 29 aprile 2015
Verba volant (180): stallo...
Stallo, sost. m.
Colpevolmente abbiamo smesso di parlare della Grecia anche noi, che pure abbiamo sostenuto con passione la campagna elettorale di Syriza, che abbiamo gioito per la vittoria di quel partito e per la formazione del nuovo governo e che infine abbiamo sperato che quel vento di cambiamento arrivasse fino a noi. In quei giorni ci sentivamo tutti greci, poi, come sempre ci accade, ci siamo distratti, persi dietro ad altre questioni, in gran parte futili. Invece è proprio adesso che la sinistra greca ha bisogno di noi, ha bisogno della nostra attenzione vigile, ha bisogno che scendiamo in piazza, se necessario, per difendere la scelta che la maggioranza di quel popolo ha fatto in maniera democratica.
E manifestare e lottare per la Grecia non significa sottovalutare il momento gravissimo che stiamo vivendo noi in Italia, proprio adesso che, con la decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale - su questa pericolosa legge elettorale - la democrazia è pesantemente sotto attacco. Tanto più in questo momento la loro lotta è la nostra lotta. Tanto più in questo momento non possiamo tirarci indietro.
L'Europa di destra, i mercati finanziari, i grandi poteri economici vogliono soffocare nella culla quel bambino: evidentemente un oracolo, seduto a Francoforte o a Londra o a New York, ha predetto che quell'essere innocente, diventato adulto, potrà scardinare il loro potere e quindi hanno deciso di ucciderlo, senza tanti complimenti. Poi troveranno un medico compiacente che dirà che si è trattato di una morte naturale, che il bambino era troppo gracile, che non sarebbe mai potuto sopravvivere.
I giornali dei padroni, gli unici che ci permettono di leggere, ci raccontano distrattamente che sta andando avanti la trattativa tra il governo greco e l'Europa, ci dicono che ci sono delle difficoltà, che siamo a un punto di stallo, si dilungano sugli aspetti marginali, sul cattivo carattere di Varoufakis, sul colore dei suoi zainetti. Sappiamo molte più cose della moglie del ministro greco che di quello che si dicono i rappresentanti dell'Eurogruppo in quegli incontri decisivi, non solo per la Grecia, ma anche per noi.
Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Se anche Tsipras dovesse cedere, stretto dal ricatto delle cancellerie europee, taglieggiato dai rappresentanti delle istituzioni finanziarie internazionali, non deve venir meno la nostra fiducia. Sapevamo che si sarebbero scatenati contro Syriza e contro la Grecia, che avrebbero attaccato quel paese senza nessuna pietà. E sappiamo che hanno il coltello dalla parte del manico e che sono pronti a usarlo.
In questi giorni si sta giocando una partita forse decisiva e non possiamo essere soltanto spettatori. Credo sia significativo che uno dei punti su cui la trattativa si è arenata sia la decisione del governo greco di reintrodurre in quel paese i contratti collettivi di lavoro. E' qualcosa che l'Europa dei padroni non riesce ad accettare. Questo rende molto chiaro che non si tratta di una trattativa politica o economica, ma solo di uno scontro ideologico. I padroni - e i governi al loro servizio - non vogliono che ci siano i contratti collettivi, perché - ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio - il lavoratore quando è solo finisce per presentarsi davanti al padrone con il cappello in mano, perché il padrone è più forte, è quello che decide se farti lavorare o lasciarti a casa, e quello che decide, se ti fa lavorare, quanto darti di stipendio. Il lavoratore diventa più forte del padrone solo quando lotta insieme agli altri lavoratori.
Può sembrare una banalità eppure il punto fondamentale è proprio questo. E non dobbiamo dimenticarlo, alla vigilia del Primo Maggio, quando torneremo, ancora una volta, in piazza. Lo vediamo anche in Italia. Cosa ha fatto davvero l'attuale governo di destra, questo governo che risponde unicamente agli interessi dei padroni? Per prima cosa ha abolito gli articoli più importanti dello Statuto dei lavoratori, ossia la legge che tutelava le donne e gli uomini che lavorano, contro i padroni. Poi cerca di indebolire il sindacato perché, pur con tutti i suoi limiti, questo è lo strumento che i lavoratori si sono dati per lottare insieme.
Non dobbiamo mai dimenticare che il lavoro dà senso alla democrazia. E la democrazia tutela il lavoro. Per questo i padroni attaccano l'uno e l'altra. Per questo ci attaccano, qui e in Grecia. Per questo dobbiamo resistere, qui e in Grecia.
Nel gioco degli scacchi, lo stallo è la posizione del re che, pur non essendo sottoposto a offesa nella casa in cui si trova, dovendo di necessità essere mosso, non può occupare altra casa senza esporsi alla presa da parte di un pezzo avversario. Lo stallo non ci basta più e forse è il caso di pensare se continuare a giocare, cercando il modo più efficace per dare scacco. Forse è venuto il momento di ribaltare la scacchiera e di gettare a terra il re.
Colpevolmente abbiamo smesso di parlare della Grecia anche noi, che pure abbiamo sostenuto con passione la campagna elettorale di Syriza, che abbiamo gioito per la vittoria di quel partito e per la formazione del nuovo governo e che infine abbiamo sperato che quel vento di cambiamento arrivasse fino a noi. In quei giorni ci sentivamo tutti greci, poi, come sempre ci accade, ci siamo distratti, persi dietro ad altre questioni, in gran parte futili. Invece è proprio adesso che la sinistra greca ha bisogno di noi, ha bisogno della nostra attenzione vigile, ha bisogno che scendiamo in piazza, se necessario, per difendere la scelta che la maggioranza di quel popolo ha fatto in maniera democratica.
E manifestare e lottare per la Grecia non significa sottovalutare il momento gravissimo che stiamo vivendo noi in Italia, proprio adesso che, con la decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale - su questa pericolosa legge elettorale - la democrazia è pesantemente sotto attacco. Tanto più in questo momento la loro lotta è la nostra lotta. Tanto più in questo momento non possiamo tirarci indietro.
L'Europa di destra, i mercati finanziari, i grandi poteri economici vogliono soffocare nella culla quel bambino: evidentemente un oracolo, seduto a Francoforte o a Londra o a New York, ha predetto che quell'essere innocente, diventato adulto, potrà scardinare il loro potere e quindi hanno deciso di ucciderlo, senza tanti complimenti. Poi troveranno un medico compiacente che dirà che si è trattato di una morte naturale, che il bambino era troppo gracile, che non sarebbe mai potuto sopravvivere.
I giornali dei padroni, gli unici che ci permettono di leggere, ci raccontano distrattamente che sta andando avanti la trattativa tra il governo greco e l'Europa, ci dicono che ci sono delle difficoltà, che siamo a un punto di stallo, si dilungano sugli aspetti marginali, sul cattivo carattere di Varoufakis, sul colore dei suoi zainetti. Sappiamo molte più cose della moglie del ministro greco che di quello che si dicono i rappresentanti dell'Eurogruppo in quegli incontri decisivi, non solo per la Grecia, ma anche per noi.
Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Se anche Tsipras dovesse cedere, stretto dal ricatto delle cancellerie europee, taglieggiato dai rappresentanti delle istituzioni finanziarie internazionali, non deve venir meno la nostra fiducia. Sapevamo che si sarebbero scatenati contro Syriza e contro la Grecia, che avrebbero attaccato quel paese senza nessuna pietà. E sappiamo che hanno il coltello dalla parte del manico e che sono pronti a usarlo.
In questi giorni si sta giocando una partita forse decisiva e non possiamo essere soltanto spettatori. Credo sia significativo che uno dei punti su cui la trattativa si è arenata sia la decisione del governo greco di reintrodurre in quel paese i contratti collettivi di lavoro. E' qualcosa che l'Europa dei padroni non riesce ad accettare. Questo rende molto chiaro che non si tratta di una trattativa politica o economica, ma solo di uno scontro ideologico. I padroni - e i governi al loro servizio - non vogliono che ci siano i contratti collettivi, perché - ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio - il lavoratore quando è solo finisce per presentarsi davanti al padrone con il cappello in mano, perché il padrone è più forte, è quello che decide se farti lavorare o lasciarti a casa, e quello che decide, se ti fa lavorare, quanto darti di stipendio. Il lavoratore diventa più forte del padrone solo quando lotta insieme agli altri lavoratori.
Può sembrare una banalità eppure il punto fondamentale è proprio questo. E non dobbiamo dimenticarlo, alla vigilia del Primo Maggio, quando torneremo, ancora una volta, in piazza. Lo vediamo anche in Italia. Cosa ha fatto davvero l'attuale governo di destra, questo governo che risponde unicamente agli interessi dei padroni? Per prima cosa ha abolito gli articoli più importanti dello Statuto dei lavoratori, ossia la legge che tutelava le donne e gli uomini che lavorano, contro i padroni. Poi cerca di indebolire il sindacato perché, pur con tutti i suoi limiti, questo è lo strumento che i lavoratori si sono dati per lottare insieme.
Non dobbiamo mai dimenticare che il lavoro dà senso alla democrazia. E la democrazia tutela il lavoro. Per questo i padroni attaccano l'uno e l'altra. Per questo ci attaccano, qui e in Grecia. Per questo dobbiamo resistere, qui e in Grecia.
Nel gioco degli scacchi, lo stallo è la posizione del re che, pur non essendo sottoposto a offesa nella casa in cui si trova, dovendo di necessità essere mosso, non può occupare altra casa senza esporsi alla presa da parte di un pezzo avversario. Lo stallo non ci basta più e forse è il caso di pensare se continuare a giocare, cercando il modo più efficace per dare scacco. Forse è venuto il momento di ribaltare la scacchiera e di gettare a terra il re.
martedì 28 aprile 2015
Palmiro Togliatti parla alla Camera l'8 dicembre 1952
Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti
chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma
della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario
Scelba, la cosiddetta "legge truffa".
Qui potete leggere il testo completo.
Togliatti
La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.
Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E di qui derivano molte cose. Di qui derivano tutti i diritti economici e sociali, deriva la previsione di quelle riforme delle strutture economiche,che volemmo fosse nella Costituzione come indicazione di una strada per l’avvenire, e a proposito della quale un dibattito elegante ebbi allora con l’onorevole Calamandrei, e risolvemmo la cosa accontentandoci di metterci d’accordo su una citazione di Dante. Le riforme economiche, però, sono rimaste nella Costituzione e ne sono parte essenziale.
Da questa definizione particolare del nostro ordinamento democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto si riferisce al diritto politico .e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato, non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata, quella dei partiti politici, che la Costituzione stessa richiama in quel suo articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico (cioè in eguaglianza) a determinare la politica nazionale.
Questo è il nostro ordinamento costituzionale, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente e che certamente è essenziale è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo?
[...]
Se guardiamo alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando i quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.
[...]
Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, sì, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però - e la Costituzione lo afferma - rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi allora appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.
[...]
Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!
La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa - dice Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.
Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative - diceva - possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
[...]
II 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una nuova classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.
Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie. La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme [...]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.
Qui potete leggere il testo completo.
Togliatti
La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.
Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E di qui derivano molte cose. Di qui derivano tutti i diritti economici e sociali, deriva la previsione di quelle riforme delle strutture economiche,che volemmo fosse nella Costituzione come indicazione di una strada per l’avvenire, e a proposito della quale un dibattito elegante ebbi allora con l’onorevole Calamandrei, e risolvemmo la cosa accontentandoci di metterci d’accordo su una citazione di Dante. Le riforme economiche, però, sono rimaste nella Costituzione e ne sono parte essenziale.
Da questa definizione particolare del nostro ordinamento democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto si riferisce al diritto politico .e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato, non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata, quella dei partiti politici, che la Costituzione stessa richiama in quel suo articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico (cioè in eguaglianza) a determinare la politica nazionale.
Questo è il nostro ordinamento costituzionale, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente e che certamente è essenziale è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo?
[...]
Se guardiamo alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando i quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.
[...]
Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, sì, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però - e la Costituzione lo afferma - rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi allora appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.
[...]
Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!
La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa - dice Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.
Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative - diceva - possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
[...]
II 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una nuova classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.
Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie. La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme [...]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.
lunedì 27 aprile 2015
Verba volant (179): livella...
Livella, sost. f.
'A livella è una poesia celeberrima di Totò, che immagino tutti conosciate. E' una di quelle poesie che viene più citata - spesso a sproposito - che letta, e capita veramente. Infatti viene ricordata spesso dai ricchi e dai potenti, per consolare noi poveri e ultimi. Leggendo quei versi, fingendo di commuoversi, i ricchi sembrano dirci: "vedete che anche noi moriremo, e quando saremo morti saremo tutti uguali, noi e voi". E così, se proprio non riusciamo ad essere contenti della nostra situazione, se proprio continuiamo a dolerci della nostra povertà, dobbiamo almeno rassegnarci: tanto arriverà 'a livella. Solo che non funziona così. Ci hanno fregato. Da sempre.
Facciamo un esempio. Un terremoto è un evento naturale che i ricchi possono permettersi. Le loro case sono costruite per resistere a questi violenti movimenti della crosta terrestre, loro e le loro famiglie hanno tempo per esercitarsi, in modo da comportarsi nella maniera migliore quando la terra comincerà a tremare e, se proprio succede qualcosa, se - nonostante tutte le loro precauzioni - qualche calcinaccio dovesse comunque cadere, c'è sempre qualcuno pronto a intervenire per soccorrerli, per togliere la polvere dai loro giardini così ben curati. E quindi i ricchi, per lo più, sopravvivono a un terremoto, anche molto violento.
I poveri invece vivono in case costruite male - aggiustate alla buona, con materiali scadenti, per spendere il meno possibile - messe lì una sull'altra, così quando crolla la prima crollano tutte le altre - come quando si fanno cadere le tessere del domino. I poveri e le loro famiglie non hanno tempo per fare esercitazioni, neppure i figli dei poveri che, quando vanno a scuola, vanno in scuole costruite male, destinate a crollare anche quando tira il vento. E quando la scossa alla fine arriva, i poveri sono sempre gli ultimi ad essere soccorsi, e non tutti vengono soccorsi. Non sappiamo neppure quanti sono i morti tra i poveri: non possiamo perdere tempo a trovare tutti i cadaveri, tanto i poveri sono tutti uguali. E i ricchi, nonostante la commozione dei primi cinque minuti, non sono molto generosi e spesso qualcuno di loro ruba quello che poco prima gli altri hanno donato per aiutare i poveri. Anzi qualcuno di loro, un po' più bastardo degli altri ricchi, aspetta il terremoto dei poveri, perché per lui sarà una bella occasione per diventare ancora più ricco. 'A livella non funziona con il terremoto, perché muoiono solo i poveri. E con tutte le altre catastrofi naturali, che di naturale hanno ben poco.
Diciamo allora senza ipocrisie che esistono i terremoti "di classe", che uccidono soltanto i poveri. E così quando la furia distruttrice della natura colpisce Haiti o il Nepal le donne e gli uomini di quei paesi muoiono, semplicemente. Non sapremo mai quanti, non sapremo mai i loro nomi. Magari è morto, per caso, anche qualche ricco, e di lui sapremo certamente il nome, recupereremo il suo cadavere, faremo solenni funerali, perché non si può lasciare un ricco, anche se morto, in mezzo ai poveri. Ma di tutti gli altri non ci importa nulla, non saranno mai una notizia per i giornali dei ricchi, che hanno cose ben più importanti di cui occuparsi.
Quelle donne e quegli uomini non sono stati uccisi dal terremoto, come dicono con enfasi retorica i soliti giornali dei ricchi, ma sono stati uccisi uccisi dalla loro povertà, sono stati uccisi dai ricchi, che hanno costruito la loro ricchezza proprio sulle spalle dei poveri. Il terremoto del Nepal - di cui oggi piangiamo per qualche minuto le vittime - così come il terremoto di Haiti - di cui ci siamo già dimenticati, come di tutti gli altri che l'hanno preceduto - non sono altro che episodi della guerra di classe che i ricchi hanno dichiarato ai poveri e che stanno, purtroppo, vincendo. Anche perché noi abbiamo smesso di combattere.
Smettiamo quindi di interpellare sismologi, geologi, scienziati di qualsiasi specie, a cui chiedere quando e dove sarà il prossimo terremoto. Ve lo posso dire io, con matematica certezza, chi sarà la prossima vittima del prossimo terremoto: un povero.
'A livella è una poesia celeberrima di Totò, che immagino tutti conosciate. E' una di quelle poesie che viene più citata - spesso a sproposito - che letta, e capita veramente. Infatti viene ricordata spesso dai ricchi e dai potenti, per consolare noi poveri e ultimi. Leggendo quei versi, fingendo di commuoversi, i ricchi sembrano dirci: "vedete che anche noi moriremo, e quando saremo morti saremo tutti uguali, noi e voi". E così, se proprio non riusciamo ad essere contenti della nostra situazione, se proprio continuiamo a dolerci della nostra povertà, dobbiamo almeno rassegnarci: tanto arriverà 'a livella. Solo che non funziona così. Ci hanno fregato. Da sempre.
Facciamo un esempio. Un terremoto è un evento naturale che i ricchi possono permettersi. Le loro case sono costruite per resistere a questi violenti movimenti della crosta terrestre, loro e le loro famiglie hanno tempo per esercitarsi, in modo da comportarsi nella maniera migliore quando la terra comincerà a tremare e, se proprio succede qualcosa, se - nonostante tutte le loro precauzioni - qualche calcinaccio dovesse comunque cadere, c'è sempre qualcuno pronto a intervenire per soccorrerli, per togliere la polvere dai loro giardini così ben curati. E quindi i ricchi, per lo più, sopravvivono a un terremoto, anche molto violento.
I poveri invece vivono in case costruite male - aggiustate alla buona, con materiali scadenti, per spendere il meno possibile - messe lì una sull'altra, così quando crolla la prima crollano tutte le altre - come quando si fanno cadere le tessere del domino. I poveri e le loro famiglie non hanno tempo per fare esercitazioni, neppure i figli dei poveri che, quando vanno a scuola, vanno in scuole costruite male, destinate a crollare anche quando tira il vento. E quando la scossa alla fine arriva, i poveri sono sempre gli ultimi ad essere soccorsi, e non tutti vengono soccorsi. Non sappiamo neppure quanti sono i morti tra i poveri: non possiamo perdere tempo a trovare tutti i cadaveri, tanto i poveri sono tutti uguali. E i ricchi, nonostante la commozione dei primi cinque minuti, non sono molto generosi e spesso qualcuno di loro ruba quello che poco prima gli altri hanno donato per aiutare i poveri. Anzi qualcuno di loro, un po' più bastardo degli altri ricchi, aspetta il terremoto dei poveri, perché per lui sarà una bella occasione per diventare ancora più ricco. 'A livella non funziona con il terremoto, perché muoiono solo i poveri. E con tutte le altre catastrofi naturali, che di naturale hanno ben poco.
Diciamo allora senza ipocrisie che esistono i terremoti "di classe", che uccidono soltanto i poveri. E così quando la furia distruttrice della natura colpisce Haiti o il Nepal le donne e gli uomini di quei paesi muoiono, semplicemente. Non sapremo mai quanti, non sapremo mai i loro nomi. Magari è morto, per caso, anche qualche ricco, e di lui sapremo certamente il nome, recupereremo il suo cadavere, faremo solenni funerali, perché non si può lasciare un ricco, anche se morto, in mezzo ai poveri. Ma di tutti gli altri non ci importa nulla, non saranno mai una notizia per i giornali dei ricchi, che hanno cose ben più importanti di cui occuparsi.
Quelle donne e quegli uomini non sono stati uccisi dal terremoto, come dicono con enfasi retorica i soliti giornali dei ricchi, ma sono stati uccisi uccisi dalla loro povertà, sono stati uccisi dai ricchi, che hanno costruito la loro ricchezza proprio sulle spalle dei poveri. Il terremoto del Nepal - di cui oggi piangiamo per qualche minuto le vittime - così come il terremoto di Haiti - di cui ci siamo già dimenticati, come di tutti gli altri che l'hanno preceduto - non sono altro che episodi della guerra di classe che i ricchi hanno dichiarato ai poveri e che stanno, purtroppo, vincendo. Anche perché noi abbiamo smesso di combattere.
Smettiamo quindi di interpellare sismologi, geologi, scienziati di qualsiasi specie, a cui chiedere quando e dove sarà il prossimo terremoto. Ve lo posso dire io, con matematica certezza, chi sarà la prossima vittima del prossimo terremoto: un povero.
venerdì 24 aprile 2015
Verba volant (178): coraggio...
Coraggio, sost. m.
Non so se questa domanda ve la siete fatta anche voi, ma io me lo sono chiesto spesso: avrei avuto il coraggio?
Sono cresciuto ascoltando racconti sulla Resistenza, ho letto molti libri - romanzi, saggi, memorie - ho avuto la fortuna di incontrare diversi partigiani, per me il 25 Aprile è sempre stato - e lo è ancora - la festa più importante dell'anno, insieme al Primo Maggio. Partecipare a quella manifestazione - e alle altre che ricordano gli episodi più significativi di quegli anni - è un rito laico fondante della mia identità civile e politica. Chi legge con qualche regolarità questo blog sa quanto siano importanti per me la memoria di quegli avvenimenti e di quelli che li precedettero, il ricordo di quelle donne e di quegli uomini, a cui dobbiamo tanto.
Ci ho ripensato in questi giorni, ricordando la proclamazione della República Española e quel tragico conflitto, in cui era così chiaro da che parte stare, qual era la parte giusta, anche se pochi poi si schierarono da quella parte, preferendo girare la testa altrove, preferendo non vedere, e così la Repubblica fu travolta non solo dalla sanguinaria reazione dei fascisti, ma anche dall'indifferenza dei "democratici".
Eppure non so rispondere a questa domanda. Naturalmente vorrei poter dire sì, vorrei poter rispondere che sarei stato un attivo antifascista, che avrei fatto il partigiano, che sarei stato disposto a tutto pur di dare la libertà agli italiani. Ma non sarebbe onesto. Probabilmente non avrei avuto il coraggio, probabilmente avrei trovato molti motivi, validi, validissimi, per non combattere. Forse avrebbe prevalso la responsabilità verso la mia famiglia o forse la consapevolezza dei miei limiti "bellici" - conoscendomi credo che sarei stato più un peso che un reale aiuto per una qualsiasi banda partigiana. O forse avrei avuto semplicemente - e umanamente - paura. Qualcuno fece come il grande latinista Concetto Marchesi che, nel giustificare la decisione di giurare fedeltà al fascismo, disse che continuare a fare il suo lavoro di professore universitario sarebbe stata "un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo". Magari, meno nobilmente, sarei stato - come ce ne furono tanti in quegli anni e che non mi sento affatto di biasimare - un afascista, qualcuno che, pur non aderendo a quel regime, non aveva il coraggio di reagire, che pensava soltanto - anche se non è mai "soltanto", perché queste cose sono importanti - alla propria famiglia, al proprio lavoro. Forse sarei stato una "brava persona", ma allora non bastava essere una brava persona, bisognava essere capaci di gesti straordinari, bisognava essere eroi.
Pensare a cosa avremmo fatto noi, a come ci saremmo comportati di fronte a quelle scelte estreme, riflettere sui nostri limiti, ci fa capire ancora di più quanto coraggio ebbero quelle donne e quegli uomini, quanto fu forte la loro consapevolezza politica, quanto furono inflessibili i loro valori e ci fa essere ancora più grati per quello che hanno fatto, per quello che ci hanno lasciato.
Ma ci spinge anche a non essere più vigliacchi, a non trovare scuse, a non continuare a girare la testa dall'altra parte. Se loro fecero tanto in condizioni così difficili, quando rischiare la vita propria e della propria famiglia era una possibilità concreta, noi, che siamo chiamati a lottare in condizioni molto meno difficili, che non rischiamo la vita, ma solo un po' delle nostre comodità, come possiamo rifiutarci di combattere? Anche se la lotta ci sembra così dura.
Mio Signore, io purtoppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il "capitale", oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al "potere" dare scacco e salvare il mondo intero?
Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà?
qui potete sentire tutta la canzone di Francesco Guccini
Non so se questa domanda ve la siete fatta anche voi, ma io me lo sono chiesto spesso: avrei avuto il coraggio?
Sono cresciuto ascoltando racconti sulla Resistenza, ho letto molti libri - romanzi, saggi, memorie - ho avuto la fortuna di incontrare diversi partigiani, per me il 25 Aprile è sempre stato - e lo è ancora - la festa più importante dell'anno, insieme al Primo Maggio. Partecipare a quella manifestazione - e alle altre che ricordano gli episodi più significativi di quegli anni - è un rito laico fondante della mia identità civile e politica. Chi legge con qualche regolarità questo blog sa quanto siano importanti per me la memoria di quegli avvenimenti e di quelli che li precedettero, il ricordo di quelle donne e di quegli uomini, a cui dobbiamo tanto.
Ci ho ripensato in questi giorni, ricordando la proclamazione della República Española e quel tragico conflitto, in cui era così chiaro da che parte stare, qual era la parte giusta, anche se pochi poi si schierarono da quella parte, preferendo girare la testa altrove, preferendo non vedere, e così la Repubblica fu travolta non solo dalla sanguinaria reazione dei fascisti, ma anche dall'indifferenza dei "democratici".
Eppure non so rispondere a questa domanda. Naturalmente vorrei poter dire sì, vorrei poter rispondere che sarei stato un attivo antifascista, che avrei fatto il partigiano, che sarei stato disposto a tutto pur di dare la libertà agli italiani. Ma non sarebbe onesto. Probabilmente non avrei avuto il coraggio, probabilmente avrei trovato molti motivi, validi, validissimi, per non combattere. Forse avrebbe prevalso la responsabilità verso la mia famiglia o forse la consapevolezza dei miei limiti "bellici" - conoscendomi credo che sarei stato più un peso che un reale aiuto per una qualsiasi banda partigiana. O forse avrei avuto semplicemente - e umanamente - paura. Qualcuno fece come il grande latinista Concetto Marchesi che, nel giustificare la decisione di giurare fedeltà al fascismo, disse che continuare a fare il suo lavoro di professore universitario sarebbe stata "un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo". Magari, meno nobilmente, sarei stato - come ce ne furono tanti in quegli anni e che non mi sento affatto di biasimare - un afascista, qualcuno che, pur non aderendo a quel regime, non aveva il coraggio di reagire, che pensava soltanto - anche se non è mai "soltanto", perché queste cose sono importanti - alla propria famiglia, al proprio lavoro. Forse sarei stato una "brava persona", ma allora non bastava essere una brava persona, bisognava essere capaci di gesti straordinari, bisognava essere eroi.
Pensare a cosa avremmo fatto noi, a come ci saremmo comportati di fronte a quelle scelte estreme, riflettere sui nostri limiti, ci fa capire ancora di più quanto coraggio ebbero quelle donne e quegli uomini, quanto fu forte la loro consapevolezza politica, quanto furono inflessibili i loro valori e ci fa essere ancora più grati per quello che hanno fatto, per quello che ci hanno lasciato.
Ma ci spinge anche a non essere più vigliacchi, a non trovare scuse, a non continuare a girare la testa dall'altra parte. Se loro fecero tanto in condizioni così difficili, quando rischiare la vita propria e della propria famiglia era una possibilità concreta, noi, che siamo chiamati a lottare in condizioni molto meno difficili, che non rischiamo la vita, ma solo un po' delle nostre comodità, come possiamo rifiutarci di combattere? Anche se la lotta ci sembra così dura.
Mio Signore, io purtoppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il "capitale", oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al "potere" dare scacco e salvare il mondo intero?
Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà?
qui potete sentire tutta la canzone di Francesco Guccini
lunedì 20 aprile 2015
Verba volant (177): futuro...
Futuro, sost. m.
Le donne e gli uomini che hanno fatto la Resistenza erano giovani, spesso molto giovani; per lo più lo dimentichiamo, anche perché li abbiamo conosciuti quando ormai erano vecchi. E infatti la Resistenza è stato un movimento che ha avuto molti caratteri della giovinezza: l'entusiasmo, la temerarietà, la spontaneità. Ed ha avuto successo anche grazie a queste caratteristiche: forse tante azioni non sarebbero state neppure pensate - né tantomeno messe in pratica - se quei ragazzi fossero stati più saggi e più assennati, come sarebbero poi diventati negli anni e come ci hanno insegnato ad essere. A leggere le memorie dei partigiani quei ragazzi e quelle ragazze erano in qualche modo perfino spensierati, nonostante avessero imparato a conoscere molto presto la durezza della guerra, le atrocità della tortura, la morte. E spesso quei partigiani ti confessano la loro scarsa consapevolezza di allora: andavano e combattevano, perché sentivano - più che sapevano - che era giusto così. Le donne e gli uomini che hanno fatto la Resistenza - quelle ragazze e quei ragazzi - lottavano per il loro futuro e per quello dei loro figli - qualcuno era già padre e madre, nonostante la giovane età - tutti si immaginavano padri e madri. Chi è giovane vede inevitabilmente davanti a sé tanto futuro e lotta per conquistarne uno migliore di quello che le condizioni date sembrano offrirgli. La speranza è un altro attributo indispensabile della giovinezza, anche - e soprattutto - la speranza di cose impossibili. C'è tutta la vecchiaia per essere saggi ed essere realisti.
Pensavo a questa cosa, rileggendo un dato che conoscevo, ma su cui forse non ci siamo soffermati abbastanza. E che abbiamo dimenticato. L'Europa è il continente con l'età media più alta: già nel 1990 era di 37 anni, mentre nel 2050 sarà di 47; l'Africa invece è il continente più giovane - e lo rimarrà a lungo: l'età media era di 18 anni nel 1990 mentre sarà di 31 nel 2050. Noi e i tedeschi siamo tra i più vecchi - rispettivamente 44,5 e 46,1 anni; mentre nei paesi del Maghreb è circa la metà e in quelli dell'Africa centrale ancora più bassa.
Non sapremo mai l'età media delle donne e degli uomini che sono morti l'altra notte nel Mediteranneo, e di quelli che sono morti nelle notti precedenti e di quelli che moriranno nelle prossime notti. Non sappiamo neppure il loro numero, figurarsi i nomi e le identità. Però è facile immaginare che fossero giovani, che fossero ragazze e ragazzi che avevavo già visto tante cose, che avevano già sofferto tanto, che magari avevano già dei figli, ma che erano ancora giovani e avevano le caratteristiche più belle della giovinezza.
Ci vuole una certa dose di incoscienza per intraprendere un viaggio così, che - bisogna ricordarlo a quelli che adesso dicono che il problema è garantire una presenza militare in Libia - non comincia sulle coste meridionali del Mediterraneo, ma molto più lontano. Spesso devono oltrepassare il deserto e probabilmente pare loro semplice attraversare quel relativamente piccolo braccio di mare che li separa dall'Europa. E anche quando arrivano in Europa - se ci arrivano - il loro viaggio non è finito, anzi rischia di cominciare la parte più dura, perché la stragrande maggioranza di loro deve prepararsi a soffrire un lungo periodo di povertà. Alcuni più sfortunati vengono sfruttati, alcune divengono prostitute; molti qui muoiono, senza aver realizzato neppure una parte dei propri sogni, senza aver visto un po' della felicità che avevano immaginato, probabilmente illudendosi, all'inizio del viaggio.
Lampedusa - quando ci arrivano - per molti di loro è l'inizio di una nuova sofferenza. Allora ci vuole un coraggio che sfocia nella temerarietà per cominciare questa avventura; eppure cominciano, anche perché sono giovani e credono di avere davanti a sé tutto il futuro. E si immaginano padri e madri di bambini che nasceranno in condizioni migliori di quelle in cui sono nati loro. Ci vuole scarsa consapevolezza, se non vera e propria incoscienza, per venire qui a farsi insultare, a farsi sfruttare, a farsi uccidere talvolta. Probabilmente molti, se chiedessimo loro perché hanno cominciato quel viaggio, non saprebbero risponderci in maniera chiara: sentono che devono farlo, che è giusto farlo, più di quanto ne capiscano le ragioni.
Sono giovani e dobbiamo perdonare loro anche queste speranze, per quanto siano vane. E, noi che giovani non lo siamo più, dovremmo anche provare a interrogarci sulle cause che spingono tante donne e tanti uomini a cominciare questo viaggio disperato, a interrogarci sulle povertà, sulle ingiustizie, sulle disuguaglianze; e cominciare a combattere affinché spariscano.
Loro sono giovani, hanno davanti a sé tanto futuro e lottano per conquistarne uno migliore di quello che le condizioni date - e noi che quelle condizioni contribuiamo a crearle - sembrano offrire. Basterebbe questo a capire che la loro lotta dovrebbe essere anche la nostra. Se vogliamo sperare in un futuro un po' migliore, per loro e per noi.
sabato 18 aprile 2015
Considerazioni libere (400): a proposito del 25 aprile...
Spero mi scuserete, ma questa "considerazione" sarà più personale del solito: alla fine un blog è quello che una volta chiamavamo più prosaicamente diario. Ho proposto a Zaira di celebrare il prossimo 25 aprile a Milano, per partecipare alla manifestazione nazionale dell'Anpi. E' la seconda volta che ci vado, perché quasi sempre ho celebrato questa festa nella città dove vivevo o lavoravo: Granarolo, Bologna, Castel Maggiore e infine Salsomaggiore. Un anno siamo andati a Monte Sole, un luogo dove è importante tornare ogni tanto - anche al di fuori delle date canoniche - perché camminando tra quei ruderi, osservando quegli alberi, ascoltando i silenzi di quelle belle colline, senti più vivo il dramma di quelle donne e di quegli uomini. Il 25 aprile naturalmente lo si può ricordare dovunque, ma certo ci sono luoghi dove la memoria è più viva: un anno mi piacerebbe farlo a Sant'Anna di Stazzema.
Questo sarà un 25 aprile particolare, intanto perché si tratta di un anniversario "rotondo": il settantesimo e quindi credo sia giusto festeggiarlo in maniera per così dire istituzionale, insieme a tante altre persone, che condividono questi valori. E poi perché sarà il primo anniversario della morte di mio padre, una delle persone che mi ha insegnato il motivo per cui è giusto celebrare il 25 aprile. Era da poco finita la manifestazione qui a Salsomaggiore, quando ricevetti la telefonata con cui mi dissero che stava per morire.
A Milano ci sono andato - insieme a mio padre e a un po' di compagni di Granarolo - nel 1994. Sembra un secolo fa: non ero laureato, non conoscevo ancora Zaira, non sapevo dove fosse Salsomaggiore, non usavamo internet - io avevo da pochi mesi il cellulare - facevo l'assessore nel mio Comune e pensavo che "da grande" avrei fatto l'insegnante. Qualcuno di voi sicuramente c'era e se lo ricorderà: fu un anno particolare, e una manifestazione particolare. Nanni Moretti la descrive a suo modo all'inizio di Aprile. C'erano state le elezioni politiche il 27 e il 28 marzo, le prime con la "nuova" legge elettorale - la legge Mattarella - le prime della cosiddetta "seconda Repubblica". Noi avevamo perso - perso male, anche perché pensavamo di vincere - e aveva vinto Berlusconi e al governo c'erano i fascisti di Alleanza nazionale. Per molti di noi fu un trauma, che sentimmo in maniera ancora più forte proprio il 25 aprile, perché quel governo, per la prima volta nella storia della Repubblica, non solo non festeggiava quella data - il capo del governo platealmente non partecipò a nessuna manifestazione - ma non riconosceva il valore fondante di quell'avvenimento storico. La Democrazia cristiana festeggiava il 25 aprile, loro no. Loro erano diversi e volevano fare un'Italia diversa; e ci sono riusciti, purtroppo.
Andare a Milano fu un gesto di opposizione, un gesto di rabbia, per quanto impotente. La città leghista ci accolse ovviamente con freddezza, ma soprattutto il clima era pessimo: ricordo che piovve tutto il pomeriggio e fu anche complicato tenere insieme il gruppo; da Granarolo avevamo fatto un pullman e io ricordo di quel giorno soprattutto il lavoro per non "perdere" nessuno. Quel cielo grigio, quella pioggia incessante, quella giornata fredda, nonostante fossimo a fine aprile, erano la metafora di come stavamo, di come saremmo stati negli anni successivi. L'inverno del nostro scontento, avrebbe detto Shakespeare, non era finito, ma anzi stava per cominciare.
Quell'anno - e quella manifestazione - ha segnato in qualche modo la storia delle celebrazioni successive, perché, al di là delle frasi di circostanza, della retorica istituzionale, la Festa della Liberazione è stata via via presentata come una festa "nostra", una festa di reduci, una festa "antica" che non serviva più alla "nuova" Italia. E contemporaneamente si è fatto più asfissiante il tentativo di riscrivere tutta la storia di quegli anni, si è fatta strada l'idea della pacificazione, fino all'equiparazione tra chi aveva combattuto nella Resistenza e chi per la repubblica di Salò. Non ci sono stati solo i libri di Pansa e di altri pennivendoli che hanno lucrato sul revisionismo, ma tanti esponenti del nostro partito e della sinistra hanno cominciato a pensare - e a dire - che il mondo era cambiato e doveva cambiare anche il 25 aprile. Sono stato contento quando ho letto che il "nuovo" Presidente - non a caso un vecchio democristiano - in questi giorni ha parlato di "pericolose equiparazioni", ma ormai molta acqua è passata e per tanti italiani il 25 aprile è soltanto un giorno rosso del calendario, l'occasione di un ponte o magari il momento per andare a fare shopping in uno dei tanti centri commerciali aperti. Fascista ormai non sembra significare più nulla e noi che continuiamo ostinatamente a usare questa parola veniamo giudicati, quando va bene, dei vecchi aggrappati ai nostri ricordi, dei fossili del Novecento.
Personalmente torno a Milano, dopo ventun'anni, perché credo che il momento sia grave come allora, anzi più grave, proprio perché sono passati ventun'anni e perché non sento quella rabbia di allora, ma solo l'impotenza. Io, come tanti altri, ho anche smesso di fare politica - a parte questo blog, a cui mi aggrappo tenacemente, per non perdere il vizio. Vado a Milano per fare opposizione a questo governo, a questo regime, che - nonostante le parole di circostanza - non riconosce il 25 aprile, i valori del del 25 aprile, perché non rispetta la Costituzione. L'attacco alla Carta è più violento ora che allora, perché intanto si sono fatti furbi, lo stanno facendo in maniera più eversiva, ma con toni decisamente più gentili, con meno baldanza, anzi facendo finta di rispettarne le forme. E renzi andrà a Monte Sole, senza paura di sfidare il ridicolo - tanto sarà applaudito anche lì - nonostante sia il presidente del consiglio che vuole abolire il Senato, che ha scritto una legge elettorale che assegna al vincitore delle elezioni - e quindi a lui - un potere smisurato, che ha cancellato lo Statuto dei lavoratori.
Torno a Milano, dopo ventun'anni - sperando almeno che non piova, anche perché adesso non affronto bene l'umidità come allora - per dare la mia testimonianza, per ritrovarmi tra compagni, per sentirmi meno solo. Ventun'anni fa ero più ottimista, pensavo che ce l'avremmo comunque fatta - e per un momento ci illudemmo, nel '96, di aver passato il momento più buio. Adesso non lo sono più, anche perché abbiamo capito che il nemico contro cui combattiamo non è Berlusconi o renzi o quello che di volta in volta mettono lì ad eseguire gli ordini, ma un potere senza volto, la cui ideologia è diventata invasiva e ormai dominante. Ma anche se ormai siamo sconfitti - almeno noi che abbiamo fatto tanti e tali errori che ci hanno fatto arrivare a questo punto - credo che sia giusto celebrare la Festa della Liberazione - a Milano o dove volete e potete farlo - almeno per ringraziare chi ci ha dato questa opportunità, chi si è battuto a costo della vita, chi ci ha creduto. E per tenere viva un'idea, fino a quando arriverà una generazione nuova, che riprenderà la lotta.
Grazie a voi uomini liberi.
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
Questo sarà un 25 aprile particolare, intanto perché si tratta di un anniversario "rotondo": il settantesimo e quindi credo sia giusto festeggiarlo in maniera per così dire istituzionale, insieme a tante altre persone, che condividono questi valori. E poi perché sarà il primo anniversario della morte di mio padre, una delle persone che mi ha insegnato il motivo per cui è giusto celebrare il 25 aprile. Era da poco finita la manifestazione qui a Salsomaggiore, quando ricevetti la telefonata con cui mi dissero che stava per morire.
A Milano ci sono andato - insieme a mio padre e a un po' di compagni di Granarolo - nel 1994. Sembra un secolo fa: non ero laureato, non conoscevo ancora Zaira, non sapevo dove fosse Salsomaggiore, non usavamo internet - io avevo da pochi mesi il cellulare - facevo l'assessore nel mio Comune e pensavo che "da grande" avrei fatto l'insegnante. Qualcuno di voi sicuramente c'era e se lo ricorderà: fu un anno particolare, e una manifestazione particolare. Nanni Moretti la descrive a suo modo all'inizio di Aprile. C'erano state le elezioni politiche il 27 e il 28 marzo, le prime con la "nuova" legge elettorale - la legge Mattarella - le prime della cosiddetta "seconda Repubblica". Noi avevamo perso - perso male, anche perché pensavamo di vincere - e aveva vinto Berlusconi e al governo c'erano i fascisti di Alleanza nazionale. Per molti di noi fu un trauma, che sentimmo in maniera ancora più forte proprio il 25 aprile, perché quel governo, per la prima volta nella storia della Repubblica, non solo non festeggiava quella data - il capo del governo platealmente non partecipò a nessuna manifestazione - ma non riconosceva il valore fondante di quell'avvenimento storico. La Democrazia cristiana festeggiava il 25 aprile, loro no. Loro erano diversi e volevano fare un'Italia diversa; e ci sono riusciti, purtroppo.
Andare a Milano fu un gesto di opposizione, un gesto di rabbia, per quanto impotente. La città leghista ci accolse ovviamente con freddezza, ma soprattutto il clima era pessimo: ricordo che piovve tutto il pomeriggio e fu anche complicato tenere insieme il gruppo; da Granarolo avevamo fatto un pullman e io ricordo di quel giorno soprattutto il lavoro per non "perdere" nessuno. Quel cielo grigio, quella pioggia incessante, quella giornata fredda, nonostante fossimo a fine aprile, erano la metafora di come stavamo, di come saremmo stati negli anni successivi. L'inverno del nostro scontento, avrebbe detto Shakespeare, non era finito, ma anzi stava per cominciare.
Quell'anno - e quella manifestazione - ha segnato in qualche modo la storia delle celebrazioni successive, perché, al di là delle frasi di circostanza, della retorica istituzionale, la Festa della Liberazione è stata via via presentata come una festa "nostra", una festa di reduci, una festa "antica" che non serviva più alla "nuova" Italia. E contemporaneamente si è fatto più asfissiante il tentativo di riscrivere tutta la storia di quegli anni, si è fatta strada l'idea della pacificazione, fino all'equiparazione tra chi aveva combattuto nella Resistenza e chi per la repubblica di Salò. Non ci sono stati solo i libri di Pansa e di altri pennivendoli che hanno lucrato sul revisionismo, ma tanti esponenti del nostro partito e della sinistra hanno cominciato a pensare - e a dire - che il mondo era cambiato e doveva cambiare anche il 25 aprile. Sono stato contento quando ho letto che il "nuovo" Presidente - non a caso un vecchio democristiano - in questi giorni ha parlato di "pericolose equiparazioni", ma ormai molta acqua è passata e per tanti italiani il 25 aprile è soltanto un giorno rosso del calendario, l'occasione di un ponte o magari il momento per andare a fare shopping in uno dei tanti centri commerciali aperti. Fascista ormai non sembra significare più nulla e noi che continuiamo ostinatamente a usare questa parola veniamo giudicati, quando va bene, dei vecchi aggrappati ai nostri ricordi, dei fossili del Novecento.
Personalmente torno a Milano, dopo ventun'anni, perché credo che il momento sia grave come allora, anzi più grave, proprio perché sono passati ventun'anni e perché non sento quella rabbia di allora, ma solo l'impotenza. Io, come tanti altri, ho anche smesso di fare politica - a parte questo blog, a cui mi aggrappo tenacemente, per non perdere il vizio. Vado a Milano per fare opposizione a questo governo, a questo regime, che - nonostante le parole di circostanza - non riconosce il 25 aprile, i valori del del 25 aprile, perché non rispetta la Costituzione. L'attacco alla Carta è più violento ora che allora, perché intanto si sono fatti furbi, lo stanno facendo in maniera più eversiva, ma con toni decisamente più gentili, con meno baldanza, anzi facendo finta di rispettarne le forme. E renzi andrà a Monte Sole, senza paura di sfidare il ridicolo - tanto sarà applaudito anche lì - nonostante sia il presidente del consiglio che vuole abolire il Senato, che ha scritto una legge elettorale che assegna al vincitore delle elezioni - e quindi a lui - un potere smisurato, che ha cancellato lo Statuto dei lavoratori.
Torno a Milano, dopo ventun'anni - sperando almeno che non piova, anche perché adesso non affronto bene l'umidità come allora - per dare la mia testimonianza, per ritrovarmi tra compagni, per sentirmi meno solo. Ventun'anni fa ero più ottimista, pensavo che ce l'avremmo comunque fatta - e per un momento ci illudemmo, nel '96, di aver passato il momento più buio. Adesso non lo sono più, anche perché abbiamo capito che il nemico contro cui combattiamo non è Berlusconi o renzi o quello che di volta in volta mettono lì ad eseguire gli ordini, ma un potere senza volto, la cui ideologia è diventata invasiva e ormai dominante. Ma anche se ormai siamo sconfitti - almeno noi che abbiamo fatto tanti e tali errori che ci hanno fatto arrivare a questo punto - credo che sia giusto celebrare la Festa della Liberazione - a Milano o dove volete e potete farlo - almeno per ringraziare chi ci ha dato questa opportunità, chi si è battuto a costo della vita, chi ci ha creduto. E per tenere viva un'idea, fino a quando arriverà una generazione nuova, che riprenderà la lotta.
Grazie a voi uomini liberi.
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
mercoledì 15 aprile 2015
Verba volant (176): dimenticare...
Chi, come me, prova a fare una costante testimonianza di memoria non può dimenticare che il primo filosofo e il primo storico della tradizione occidentale sono due greci, ma nati entrambi a Mileto, le cui rovine sono a cinque chilometri a nord della città turca di Akköy. Uno degli uomini che ha fondato la religione cristiana è un ebreo, cittadino romano, nato nella città di Tarso, nell'attuale provincia turca di Mersin. Uno dei testi più importanti della nostra letteratura è un poema che racconta la storia dell'assedio decennale di una città, le cui rovine si trovano sulla costa turca. Per queste e per molte altre ragioni un europeo sente un legame speciale con quel paese che, pur con le sue peculiarità, è parte integrante dell'Europa, indipendentemente dalle scelte politiche di chi governa - e governerà - la Turchia e l'Unione europea.
La Turchia è un grande paese e come tale ha molte contraddizioni. Allo stesso modo amiamo tante cose degli Stati Uniti, pur detestandone molte altre, forse di più. Ci emozioniamo ogni volta che leggiamo le poesie - sia quelle d'amore sia quelle politiche - di Nazim Hikmet e siamo solidali con le ragazze e i ragazzi che manifestano per la democrazia e per i diritti in quel paese, almeno quanto critichiamo il governo di Erdogan. Proprio per questo credo che quel paese debba fare finalmente i conti con la sua storia, anche in maniera brutale.
Francesco ha fatto bene a ricordare nella maniera più solenne a lui consentita - e quindi durante un rito religioso - il dramma del popolo armeno, usando la parola che deve essere usata: genocidio. Avrebbe potuto esprimere la propria solidarietà al popolo armeno usando altre parole, e sarebbero state comunque significative, ma in questo modo, proprio usando la parola genocidio, ha fatto una cosa utile al popolo turco, prima ancora che a quello armeno. E una cosa utile a tutti noi, perché ci ha costretti a non dimenticare.
Noi lo sappiamo quanto sia difficile fare i conti con la storia peggiore e per questo, da bravi italiani, abbiamo provato a svicolare, a eludere la verità, a dire che in fondo non era poi colpa nostra, che molte decisioni le abbiamo subite. Per i tedeschi è stato ancora più difficile, perché per loro questi piccoli escamotage non erano davvero possibili. E i turchi, prima o poi, dovranno ammettere che nel 1915, cent'anni fa, in un momento drammatico per tutta l'Europa, in anni che hanno segnato una cesura profonda non solo tra due secoli, ma tra due età della storia, fu programmata ed eseguita la cancellazione di un popolo: per questa programmazione sistematica e "scientifica" delle esecuzioni quello armeno può essere considerato il primo genocidio moderno. E altri purtroppo ne seguirono.
La Turchia aspira legittimamente a svolgere un ruolo nel vicino Oriente e lo sta svolgendo, spesso con scelte discutibili, ma non è questo il punto. Le scelte politiche possono cambiare, la storia invece non cambia e fa parte di noi. Se non riusciamo a riconoscere i genocidi del passato, se non riusciamo a parlarne senza infingimenti, non riusciremo a riconoscere quelli che accadono ancora, sotto i nostri occhi. E' passato un anno dal rapimento di 267 ragazze nigeriane nella città di Chibok e ormai ci siamo dimenticati anche di loro. Non ci piace ricordarlo, ma c'è un mondo in cui in cui sono sistematicamente calpestati i diritti umani e le libertà, un mondo in cui lo sterminio degli innocenti è la prassi quotidiana. E i posteri ci chiederanno il conto della nostra ignavia, della nostra fretta di dimenticare.
Dimenticare ha la stessa etimologia di demente: chi dimentica è folle. Ma chi obbliga a dimenticare è un criminale.
martedì 14 aprile 2015
"Storia universale" di Gianni Rodari
In principio la Terra era tutta sbagliata, renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi non c’erano ponti.
Non c’erano sentieri per salire sui monti.
Ti volevi sedere?
Neanche l’ombra di un panchetto.
Cascavi dal sonno?
Non esisteva il letto.
Per non pungersi i piedi, né scarpe né stivali.
Se ci vedevi poco non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita non c’erano palloni:
mancava la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni, anzi a guardare bene mancava anche la pasta.
Non c’era nulla di niente.
Zero via zero, e basta.
C’erano solo gli uomini, con due braccia per lavorare, e agli errori più grossi si poté rimediare.
Da correggere, però, ne restano ancora tanti:
rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti.
lunedì 13 aprile 2015
"Il diritto al delirio" di Eduardo Galeano
Ormai sta nascendo il nuovo millennio. La faccenda non è da prendere troppo sul serio. Il tempo si burla dei confini che noi inventiamo per credere che lui ci obbedisca. Il tempo continua, silenzioso, il suo cammino lungo le vie dell’eternità e del mistero. In verità, non c’è nessuno che sappia resistere: chiunque sente la tentazione di domandarsi come sarà il tempo che sarà. Benché non possiamo indovinare il tempo che sarà, possiamo avere almeno il diritto di immaginare come desideriamo che sia.
Nel 1948 e nel 1976, le Nazioni Unite proclamarono le grandi liste dei diritti umani: tuttavia la stragrande maggioranza dell’umanità non ha altro che il diritto di vedere, udire e tacere. Che direste se cominciassimo a praticare il mai proclamato diritto di sognare? Che direste se delirassimo per un istante?
Puntiamo lo sguardo oltre l’infamia, per indovinare un altro mondo possibile: l’aria sarà pulita da tutto il veleno che non venga dalla paure umane e dalle umane passioni; nelle strade, le automobili saranno schiacciate dai cani; la gente non sarà guidata dalla automobile, non sarà programmata dai calcolatori, né sarà comprata dal supermercato, né osservata dalla televisione; la televisione cesserà d’essere il membro più importante della famiglia e sarà trattato come una lavatrice o un ferro da stiro; la gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare; ai codici penali si aggiungerà il delitto di stupidità che commettono coloro che vivono per avere e guadagnare, invece di vivere unicamente per vivere, come il passero che canta senza saper di cantare e come il bimbo che gioca senza saper di giocare; in nessun paese verranno arrestati i ragazzi che rifiutano di compiere il servizio militare; gli economisti non paragoneranno il livello di vita a quello di consumo, né paragoneranno la qualità della vita alla quantità delle cose; i cuochi non crederanno che alle aragoste piaccia essere cucinate vive; gli storici non crederanno che ai paesi piaccia essere invasi; i politici non crederanno che ai poveri piaccia mangiare promesse; la solennità non sarà più una virtù, e nessuno prenderà sul serio chiunque non sia capace di prendersi in giro; la morte e il denaro perderanno i loro magici poteri, e né per fortuna né per sfortuna, la canaglia si trasformerà in virtuoso cavaliere; nessuno sarà considerato eroe o tonto perché fa quel che crede giusto invece di fare ciò che più gli conviene; il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà, e l’industria militare sarà costretta a dichiararsi in fallimento; il cibo non sarà una mercanzia, né sarà la comunicazione un’affare, perché cibo e comunicazione sono diritti umani; nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà d’indigestione; i bambini di strada non saranno trattati come spazzatura, perché non ci saranno bambini di strada; i bambini ricchi non saranno trattati come fossero denaro, perché non ci saranno bambini ricchi; l’educazione non sarà il privilegio di chi può pagarla; la polizia non sarà la maledizione di chi non può comprarla; la giustizia e la libertà, gemelli siamesi condannati alla separazione, torneranno a congiungersi, ben aderenti, schiena contro schiena; una donna nera, sarà presidente del Brasile e un’altra donna nera, sarà presidente degli Stati Uniti d’America; una donna india governerà il Guatemala e un’altra il Perù; in Argentina, le pazze di Plaza de Mayo saranno un esempio di salute mentale, poiché rifiutarono di dimenticare nei tempi dell’amnesia obbligatoria; la Santa Chiesa correggerà gli errori delle tavole di Mosè, e il sesto comandamento ordinerà di festeggiare il corpo; la Chiesa stessa detterà un altro comandamento dimenticato da Dio: “Amerai la natura in ogni sua forma”; saranno riforestati i deserti del mondo e i deserti dell’anima; i disperati diverranno speranzosi e i perduti saranno incontrati, poiché costoro sono quelli che si disperarono per il tanto sperare e si persero per il tanto cercare; saremo compatrioti e contemporanei di tutti coloro che possiedono desiderio di giustizia e desiderio di bellezza, non importa dove siano nati o quando abbiano vissuto, giacchè le frontiere del mondo e del tempo non conteranno più nulla; la perfezione continuerà ad essere il noioso privilegio degli dei; però, in questo mondo semplice e fottuto ogni notte sarà vissuta come se fosse l’ultima e ogni giorno come se fosse il primo.
Nel 1948 e nel 1976, le Nazioni Unite proclamarono le grandi liste dei diritti umani: tuttavia la stragrande maggioranza dell’umanità non ha altro che il diritto di vedere, udire e tacere. Che direste se cominciassimo a praticare il mai proclamato diritto di sognare? Che direste se delirassimo per un istante?
Puntiamo lo sguardo oltre l’infamia, per indovinare un altro mondo possibile: l’aria sarà pulita da tutto il veleno che non venga dalla paure umane e dalle umane passioni; nelle strade, le automobili saranno schiacciate dai cani; la gente non sarà guidata dalla automobile, non sarà programmata dai calcolatori, né sarà comprata dal supermercato, né osservata dalla televisione; la televisione cesserà d’essere il membro più importante della famiglia e sarà trattato come una lavatrice o un ferro da stiro; la gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare; ai codici penali si aggiungerà il delitto di stupidità che commettono coloro che vivono per avere e guadagnare, invece di vivere unicamente per vivere, come il passero che canta senza saper di cantare e come il bimbo che gioca senza saper di giocare; in nessun paese verranno arrestati i ragazzi che rifiutano di compiere il servizio militare; gli economisti non paragoneranno il livello di vita a quello di consumo, né paragoneranno la qualità della vita alla quantità delle cose; i cuochi non crederanno che alle aragoste piaccia essere cucinate vive; gli storici non crederanno che ai paesi piaccia essere invasi; i politici non crederanno che ai poveri piaccia mangiare promesse; la solennità non sarà più una virtù, e nessuno prenderà sul serio chiunque non sia capace di prendersi in giro; la morte e il denaro perderanno i loro magici poteri, e né per fortuna né per sfortuna, la canaglia si trasformerà in virtuoso cavaliere; nessuno sarà considerato eroe o tonto perché fa quel che crede giusto invece di fare ciò che più gli conviene; il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà, e l’industria militare sarà costretta a dichiararsi in fallimento; il cibo non sarà una mercanzia, né sarà la comunicazione un’affare, perché cibo e comunicazione sono diritti umani; nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà d’indigestione; i bambini di strada non saranno trattati come spazzatura, perché non ci saranno bambini di strada; i bambini ricchi non saranno trattati come fossero denaro, perché non ci saranno bambini ricchi; l’educazione non sarà il privilegio di chi può pagarla; la polizia non sarà la maledizione di chi non può comprarla; la giustizia e la libertà, gemelli siamesi condannati alla separazione, torneranno a congiungersi, ben aderenti, schiena contro schiena; una donna nera, sarà presidente del Brasile e un’altra donna nera, sarà presidente degli Stati Uniti d’America; una donna india governerà il Guatemala e un’altra il Perù; in Argentina, le pazze di Plaza de Mayo saranno un esempio di salute mentale, poiché rifiutarono di dimenticare nei tempi dell’amnesia obbligatoria; la Santa Chiesa correggerà gli errori delle tavole di Mosè, e il sesto comandamento ordinerà di festeggiare il corpo; la Chiesa stessa detterà un altro comandamento dimenticato da Dio: “Amerai la natura in ogni sua forma”; saranno riforestati i deserti del mondo e i deserti dell’anima; i disperati diverranno speranzosi e i perduti saranno incontrati, poiché costoro sono quelli che si disperarono per il tanto sperare e si persero per il tanto cercare; saremo compatrioti e contemporanei di tutti coloro che possiedono desiderio di giustizia e desiderio di bellezza, non importa dove siano nati o quando abbiano vissuto, giacchè le frontiere del mondo e del tempo non conteranno più nulla; la perfezione continuerà ad essere il noioso privilegio degli dei; però, in questo mondo semplice e fottuto ogni notte sarà vissuta come se fosse l’ultima e ogni giorno come se fosse il primo.
"Quello che deve essere detto" di Gunter Grass
Perché taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo
quanto è palese e si è praticato
in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,
noi siamo tutt'al più le note a margine.
E' l'affermato diritto al decisivo attacco preventivo
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo organizzato,
perché nella sfera di sua competenza si presume
la costruzione di un'atomica.
E allora perché mi proibisco
di chiamare per nome l'altro paese,
in cui da anni - anche se coperto da segreto -
si dispone di un crescente potenziale nucleare,
però fuori controllo, perché inaccessibile
a qualsiasi ispezione?
Il silenzio di tutti su questo stato di cose,
a cui si è assoggettato il mio silenzio,
lo sento come opprimente menzogna
e inibizione che prospetta punizioni
appena non se ne tenga conto;
il verdetto «antisemitismo» è d'uso corrente.
Ora però, poiché dal mio paese,
di volta in volta toccato da crimini esclusivi
che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,
di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se
con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,
dovrebbe essere consegnato a Israele
un altro sommergibile, la cui specialità
consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove
l´esistenza di un'unica bomba atomica non è provata
ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,
dico quello che deve essere detto.
Perché ho taciuto finora?
Perché pensavo che la mia origine,
gravata da una macchia incancellabile,
impedisse di aspettarsi questo dato di fatto
come verità dichiarata dallo Stato d'Israele
al quale sono e voglio restare legato
Perché dico solo adesso,
da vecchio e con l´ultimo inchiostro:
La potenza nucleare di Israele minaccia
la così fragile pace mondiale?
Perché deve essere detto
quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;
anche perché noi - come tedeschi con sufficienti colpe a carico -
potremmo diventare fornitori di un crimine
prevedibile, e nessuna delle solite scuse
cancellerebbe la nostra complicità.
E lo ammetto: non taccio più
perché dell'ipocrisia dell'Occidente
ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile
che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,
esortino alla rinuncia il promotore
del pericolo riconoscibile e
altrettanto insistano perché
un controllo libero e permanente
del potenziale atomico israeliano
e delle installazioni nucleari iraniane
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
tramite un'istanza internazionale.
Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,
e più ancora, per tutti gli uomini che vivono
ostilmente fianco a fianco in quella
regione occupata dalla follia ci sarà una via d'uscita,
e in fin dei conti anche per noi.
"Ignominia d'Europa" di Gunter Grass
Prossima al caos, perché non all'altezza dei mercati,
lontana sei dalla terra che a te prestò la culla.
Quello che, con l'anima hai cercato e consideravi tuo retaggio,
ora viene tolto di mezzo, alla stregua di un rottame.
Messo nudo alla gogna come debitore, soffre un Paese
al quale dover riconoscenza era per te luogo comune.
Paese condannato alla miseria, la cui ricchezza,
ben curata, orna i musei: preda che tu sorvegli.
Coloro che, in divisa, con la violenza delle armi funestarono il Paese
ebbro d'isole, tenevano Hölderlin nello zaino.
Paese a stento tollerato, di cui un tempo tollerasti
i colonnelli in veste di alleati.
Paese privo di diritti, al quale un potere che i diritti impone,
stringe sempre più la cintola.
Sfidandoti, veste di nero Antigone e dovunque lutto
ammanta il popolo di cui tu fosti ospite.
Eppure fuori dai confini il codazzo dei seguaci di Creso
ha ammassato tutto ciò che d'oro luccica nelle tue casseforti.
Trangugia infine, butta giù! gridano i claqueur dei Commissari,
ma Socrate ti restituisce irato il calice colmo fino all'orlo.
Malediranno in coro gli Dei ciò che possiedi,
quando il tuo volere esige di spossessare il loro Olimpo.
Priva di spirito deperirai senza il Paese
il cui spirito, Europa, ti ha inventata.
domenica 12 aprile 2015
"Noi insegniamo la vita, signore" di Rafeef Ziadah
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv.
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole.
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole,
colme a sufficienza di statistiche per replicare con risposte non sproporzionate.
E ho perfezionato il mio inglese e ho imparato le risoluzioni Onu.
Eppure, lui mi ha chiesto: "Signora Ziadah, non pensa che tutto si aggiusterebbe se solo voi la smetteste di insegnare tanto odio ai vostri figli?".
Pausa.
Cerco dentro di me la forza di essere paziente.
Ma la pazienza non è sulla punta della mia lingua mentre le bombe cadono su Gaza.
La pazienza mi ha appena abbandonata.
Pausa.
Sorriso.
Noi insegniamo la vita, signore.
Rafeef, ricorda di sorridere.
Pausa.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi palestinesi insegniamo la vita, dopo che loro ci hanno occupato anche l’ultimo cielo.
Noi insegniamo la vita, dopo che loro hanno costruito le loro colonie, i loro muri di separazione, dopo gli ultimi cieli.
Noi insegniamo la vita, signore.
Ma oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole.
E "Ci dia una storia, una storia umana.
Vede, questa non è politica.
Vogliamo solo raccontare alla gente di lei e del suo popolo, ci dia una storia umana.
Non nomini le parole apartheid e occupazione.
Questa non è politica.
Lei deve aiutarmi come giornalista ad aiutarla a raccontare la sua storia, che non è una storia politica."
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole.
"Che ne dice di raccontarci la storia di una donna di Gaza che ha bisogno di farmaci?
Che mi dice di lei?
Ha abbastanza ossa rotte da coprire il sole?
Mi parli dei vostri morti e mi dia la lista dei nomi in non più di 1200 parole."
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv che doveva stare dentro frasi ad effetto e limiti di parole e commuovere quelli insensibili al sangue del terrorismo.
Però loro erano dispiaciuti.
Erano dispiaciuti per le bestie di Gaza.
Così gli fornisco le risoluzioni Onu e le statistiche
e condanniamo
e deploriamo
e rifiutiamo.
E queste non sono due parti uguali: occupanti e occupati.
E cento morti,
duecento morti,
e mille morti.
E in mezzo crimini di guerra e massacri.
Dò libero sfogo alle parole e a un sorriso "non esotico",
a un sorriso "non terrorista".
E riconto, riconto cento morti, duecento morti, mille morti.
C’è qualcuno là fuori?
Qualcuno ascolterà mai?
Vorrei piangere sui loro corpi.
Vorrei solo correre a piedi nudi in ogni campo profughi
e abbracciare ogni bambino,
coprire loro le orecchie
in modo che non debbano sentire il suono dei bombardamenti
per il resto della vita, come accade a me.
Oggi, il mio corpo era un massacro in tv.
E lasciatemi dire,
non c’è nulla che le risoluzioni ONU abbiano mai fatto per questo.
E nessuna frase ad effetto, nessuna frase ad effetto mi viene in mente,
non importa quanto sia buono il mio inglese.
Nessuna frase ad effetto, nessuna frase ad effetto, nessuna frase ad effetto,
nessuna frase ad effetto li riporterà in vita.
Nessuna frase ad effetto sistemerà le cose.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi insegniamo la vita, signore.
Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare la vita al resto del mondo, signore.
ascoltiamo questa poesia dalla voce di Rafeef Ziadah
sabato 11 aprile 2015
Verba volant (175): torturare...
Capita a volte di ascoltare qualche bello spirito che si chiede che senso abbia ancora leggere i classici. Cosa può servire rileggere l'Iliade, con i suoi estenuanti duelli tra cavalieri che combattono da soli, dopo aver tenuto lunghi discorsi, mentre i loro eserciti schierati li osservano? O rileggere le tragedie elisabettiane, dato che non ci sono più re sanguinari come Macbeth o congiure feroci come quelle descritte nell'Amleto? Ha senso perché, nonostante tutte le illusioni che noi ci facciamo, nonostante la modernità in cui crediamo di vivere, gli uomini - e le donne - sono ancora quelli raccontati da Omero, da Shakespeare, da Dante. Certo sono cambiate tante cose, combattiamo in maniera diversa, viaggiamo in maniera diversa, gestiamo la politica e l'economia in maniera diversa, conosciamo il mondo in maniera molto più precisa e approfondita di quanto lo conoscessero le generazioni passate, eppure per tanti versi siamo uguali ai nostri genitori, ai nostri nonni, ai nostri bisnonni e così via.
Ci pensavo mentre riflettevo sulla sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato il governo italiano per quello che è successo alla scuola Diaz nel 2001. In fondo, nonostante i proclami, gli impegni solenni, i giuramenti, il potere, quando vuole manifestare la propria forza, quando vuole far sentire la propria presenza, lo fa ancora in maniera brutale, attraverso la violenza, attraverso la tortura. E noi, come tutti gli uomini di tutti i tempi, abbiamo paura della violenza, temiamo la tortura, saremmo disposti a confessare qualunque cosa - anche quello che non abbiamo commesso - pur di far smettere l'aguzzino. Il potere conosce questa nostra debolezza e se ne approfitta, sempre. Ho ripensato al poliziotto senza nome interpretato da Gian Maria Volonté in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, un film del 1970, datato per il contesto che in cui fa muovere i personaggi, eppure attualissimo nel descriverne i meccanismi psicologici.
Quanti funzionari come quello raccontato da Volonté infestano ancora le questure, le caserme dei carabinieri, le carceri italiane, quanti di questi personaggi frustrati esercitano il loro potere in maniera arbitraria, certi di rimanere impuniti, quanto odio c'è ancora nelle forze dell'ordine verso chi non la pensa come loro, verso chi è diverso, verso chi rifiuta il loro ordine. Un po' di cose sono state fatte per rendere costituzionale una struttura che l'Italia repubblicana e democratica ha ereditato praticamente senza soluzione di continuità dal regime fascista, eppure fatti come quelli di Genova, e tanti altri che capitano ogni giorno, ci dicono che tanto è ancora da fare. Perché a questa forma di fascismo autoritario, più o meno consapevole, si è via via aggiunta e sostituita una sostanziale ignoranza dei valori costituzionali. Questa ignoranza colpisce evidentemente tanta parte del pubblico impiego - siamo sempre meno consapevoli di esercitare una funzione pubblica, siamo sempre meno consapevoli di lavorare per gli altri, e infatti tanti lavorano per sé, al massimo per la propria famiglia - ma diventa pericolosa in chi esercita un potere così grande, in chi ha la possibilità di usare lo strumento della forza. Il funzionario disonesto al massimo può rubare, ma il poliziotto inconsapevole del fatto che a lui lo stato delega l'uso della violenza può fare danni ben maggiori.
Nel luglio del 2001 alcune persone decisero che a Genova occorreva "dare una lezione" a quelli del movimento no global; loro devono essere condannati, insieme a quegli uomini che misero in pratica questi ordini, spesso eccedendo, anche per una forma malata di sadismo. Non sappiamo chi ordinò materialmente le torture, se il presidente del consiglio o il ministro degli interni o altri ancora - magari capaci di esercitare un potere ancora più forte su polizia e carabinieri rispetto allo stesso governo (in Italia purtroppo dobbiamo sempre dubitare che una parte delle forze dell'ordine siano eterodirette). Certo loro e gli altri membri del governo sapevano quello che sarebbe successo e non hanno fatto nulla per fermarlo. Volevano un poliziotto morto, volevano un altro Antonio Annarumma, per scatenare una reazione violenta contro un pezzo di paese. Alla fine morì solo Carlo Giuliani.
E con altrettanta decisione dobbiamo dire che sapevano l'allora capo della polizia e gli uomini che furono chiamati a gestire quell'operazione, tutti promossi negli anni successivi, tutti passati a carriere lucrose, tutti assolti da una giustizia complice della parte peggiore del paese, come è avvenuto troppe volte in Italia, dove l'indipendenza della magistratura dal potere è una chimera.
C'è però anche una responsabilità nostra, della sinistra di governo - chiamamola così, per capirci, anche se allora non eravamo al governo, ma c'eravamo stati prima e ci saremmo andati dopo, senza segnare su molti punti uno stacco netto e significativo con l'esperienza dei governi di destra. Io allora facevo politica e sinceramente non mi resi conto in maniera sufficiente della gravità di quello che era successo a Genova. Certo la discussione se andare o non andare - e se andare, come andare - fu accesa, ma credo non ci rendemmo conto di quanto quell'episodio sarebbe stato destinato a cambiare forse noi più degli altri. Alla luce di quello che è successo dopo, non esserci resi conto dell'attacco alla democrazia che era avvenuto a Genova, tra la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto, è stato il sintomo più evidente della fine, della morte della sinistra italiana, che infatti è arrivata poco più di dieci anni dopo, quando ci siamo consegnati a un leader di destra come renzi, che porta avanti un disegno neoautoritario e peronista. E l'aver fatto di tutto, negli anni successivi, quando eravamo al governo, per insabbiare quello era successo a Genova, anche attraverso le continue promozioni di De Gennaro e dei suoi uomini, di quelli che avevano le mani e le giacche sporche di sangue, è uno dei motivi che fa sì che ci meritiamo renzi e il pd.
C'è molto da fare in questo paese per recuperare alcune regole di convivenza civile e democratica. Forse non ne abbiamo neppure le forze.
domenica 5 aprile 2015
Verba volant (174): coerente...
Coerente, agg. m. e f.
Cosimo Mele è un notabile democristiano dell'Italia meridionale. Uno come tanti: un cattolico integerrimo che tutte le domeniche va a messa, un buon marito e un ottimo padre, uno strenuo difensore della famiglia tradizionale, un nemico dichiarato della droga. Di Cosimo Mele avrebbero parlato solo le pagine locali dei gionali pugliesi, se una notte di otto fa non fosse avvenuto un "incidente" in una camera di un hotel di Roma, dove l'onorevole stava sniffando cocaina insieme a due puttane.
Oggi Cosimo Mele è il candidato del pd per le elezioni comunali a Carovigno. Sapete che giudizio io abbia di quel partito e sinceramente non mi serviva questo episodio di provincia a scandalizzarmi. C'è però qualcos'altro su cui vorrei attirare la vostra attenzione. Il pd di Carovigno ha cercato il buon Cosimo perché con lui "si vince": il problema quindi non è tanto che quel partito è riuscito - evidentemente prima degli altri - ad assicurarsi un tal candidato, quanto il fatto che uno come Mele può, con grande probabilità, vincere le elezioni. Per anni ci siamo cullati nell'illusione che ci fosse una classe politica corrotta che, per qualche misterioso motivo, era riuscita a tenere in ostaggio una società civile sana. Balle: la vicenda di Carovigno - e tante altre simili in giro per l'Italia - dimostra che non è la classe politica ad essere marcia, ma è proprio la società, che infatti, quando deve scegliere da chi farsi rappresentare, sceglie uno come Mele.
Gianluigi Cernusco è un imprenditore dell'Italia settentrionale. Uno come tanti: buon padre di famiglia, ecc. ecc.; come tanti altri ha cominciato a far politica nella Lega nord, stanco di un'immigrazione fuori controllo. Forse Cernusco esagerava un po' con i toni - per le elezioni comunali a Settimo Torinese aveva formato una lista che si chiamava Prima gli italiani. No privilegi a zingari e immigrati - e aveva messo in imbarazzo il centrodestra piemontese, ma era uno che diceva chiaro e forte quello che pensano in tanti nel "profondo" nord. Anche di Gianluigi Cernusco si sarebbero occupate solo le cronache locali, se non fosse che è stato indagato per favoreggiamento della prostituzione. Infatti è proprietario di un albergo dove giovani puttane, per lo più straniere e clandestine, incontravano i loro clienti, tutti padri di famiglia italiani, se non elettori, almeno simpatizzanti, di Cernusco.
Tra qualche anno immagino ci ritroveremo l'esponente leghista di nuovo candidato, con toni sempre più roboanti contro gli immigrati che tolgono il lavoro agli italiani; magari farà una campagna per difendere le puttane italiane contro le straniere. Per inciso Cernusco, da operatore del settore, criticava la prefettura perché aveva messo dei profughi arrivati a Lampedusa in un albergo della zona. Probabilmente anche quell'albergatore vota Lega, ma intanto intasca i soldi di Roma "ladrona" per tenere i profughi in un albergo talmente malmesso che viene evitato dai clienti "perbene". Succede, anche in altre parti d'Italia.
C'è una morale in queste due storie di provincia? Immagino di sì.
Intanto dimostrano che su un punto l'Italia è davvero unita, da nord a sud: i clienti delle puttane sono gli stessi, dall'hinterland torinese al Salento: i bravi padri di famiglia, i difensori dei valori e della tradizione. E insegna anche che la coerenza non paga.
Cosimo Mele è un notabile democristiano dell'Italia meridionale. Uno come tanti: un cattolico integerrimo che tutte le domeniche va a messa, un buon marito e un ottimo padre, uno strenuo difensore della famiglia tradizionale, un nemico dichiarato della droga. Di Cosimo Mele avrebbero parlato solo le pagine locali dei gionali pugliesi, se una notte di otto fa non fosse avvenuto un "incidente" in una camera di un hotel di Roma, dove l'onorevole stava sniffando cocaina insieme a due puttane.
Oggi Cosimo Mele è il candidato del pd per le elezioni comunali a Carovigno. Sapete che giudizio io abbia di quel partito e sinceramente non mi serviva questo episodio di provincia a scandalizzarmi. C'è però qualcos'altro su cui vorrei attirare la vostra attenzione. Il pd di Carovigno ha cercato il buon Cosimo perché con lui "si vince": il problema quindi non è tanto che quel partito è riuscito - evidentemente prima degli altri - ad assicurarsi un tal candidato, quanto il fatto che uno come Mele può, con grande probabilità, vincere le elezioni. Per anni ci siamo cullati nell'illusione che ci fosse una classe politica corrotta che, per qualche misterioso motivo, era riuscita a tenere in ostaggio una società civile sana. Balle: la vicenda di Carovigno - e tante altre simili in giro per l'Italia - dimostra che non è la classe politica ad essere marcia, ma è proprio la società, che infatti, quando deve scegliere da chi farsi rappresentare, sceglie uno come Mele.
Gianluigi Cernusco è un imprenditore dell'Italia settentrionale. Uno come tanti: buon padre di famiglia, ecc. ecc.; come tanti altri ha cominciato a far politica nella Lega nord, stanco di un'immigrazione fuori controllo. Forse Cernusco esagerava un po' con i toni - per le elezioni comunali a Settimo Torinese aveva formato una lista che si chiamava Prima gli italiani. No privilegi a zingari e immigrati - e aveva messo in imbarazzo il centrodestra piemontese, ma era uno che diceva chiaro e forte quello che pensano in tanti nel "profondo" nord. Anche di Gianluigi Cernusco si sarebbero occupate solo le cronache locali, se non fosse che è stato indagato per favoreggiamento della prostituzione. Infatti è proprietario di un albergo dove giovani puttane, per lo più straniere e clandestine, incontravano i loro clienti, tutti padri di famiglia italiani, se non elettori, almeno simpatizzanti, di Cernusco.
Tra qualche anno immagino ci ritroveremo l'esponente leghista di nuovo candidato, con toni sempre più roboanti contro gli immigrati che tolgono il lavoro agli italiani; magari farà una campagna per difendere le puttane italiane contro le straniere. Per inciso Cernusco, da operatore del settore, criticava la prefettura perché aveva messo dei profughi arrivati a Lampedusa in un albergo della zona. Probabilmente anche quell'albergatore vota Lega, ma intanto intasca i soldi di Roma "ladrona" per tenere i profughi in un albergo talmente malmesso che viene evitato dai clienti "perbene". Succede, anche in altre parti d'Italia.
C'è una morale in queste due storie di provincia? Immagino di sì.
Intanto dimostrano che su un punto l'Italia è davvero unita, da nord a sud: i clienti delle puttane sono gli stessi, dall'hinterland torinese al Salento: i bravi padri di famiglia, i difensori dei valori e della tradizione. E insegna anche che la coerenza non paga.
sabato 4 aprile 2015
Verba volant (173): assumere...
Assumere, v. tr.
In questo verbo, la cui etimologia risale - come per gran parte della nostra lingua - al latino, si riconosce un'antica radice am- che ha il significato di prendere e di comperare.
Nei giorni scorsi un'agenzia di lavoro interinale ha diffuso un volantino per pubblicizzare i propri servizi. Al di là della retorica commerciale, credo sia utile riportare alcuni degli slogan utilizzati.
Uscita la notizia, i corifei del renzismo - compreso il sedicente professor taddei, responsabile economico del partito mal nato - hanno detto che si tratta di comportamenti illegali e che, come tali, dovranno essere perseguiti. Naturalmente queste prese di posizione - per quanto in malafede - mi fanno piacere - evidentemente qualcuno in quel partito ha ancora il senso della vergogna - ma mi pare che la questione non possa essere liquidata in questo modo.
Il problema è che tutti questi predatori sentono ormai l'odore del sangue, vedono che le loro vittime sono braccate, indifese e ferite, sanno che non ci sono più limiti alla loro ferocia. E quindi attaccano. Qualcuno, come l'estensore di questo volantino, lo fa in maniera scomposta e probabilmente rimarrà a bocca asciutta. Ma tutti gli altri lo stanno facendo in silenzio, senza gridare, senza vantarsi, ma con la stessa cinica indifferenza per gli altri.
Vuoi continuare a lavorare? Va bene, sei brava. Ma intanto ti riduco l'orario di lavoro da 40 a 35 ore, anche se naturalmente continuerai a lavorare 40 ore, senza essere pagata per quelle cinque ore in più. Lei si può rifiutare? Teoricamente sì, ma praticamente no, perché il suo stipendio è l'unico che arriva in casa - e ovviamente il suo padrone lo sa - e ci sono altre venti ragazze che potrebbero sostituirla. Naturalmente questo non lo troverete scritto in nessun volantino, ma succede, è successo. E deve anche ringraziare di avere ancora un lavoro.
Al di là della retorica, questo è il renzismo. Al di là dei provvedimenti legislativi, che sono molto negativi e che hanno riportato il nostro paese agli anni Cinquanta, è il clima politico e sociale ad essere cambiato. I padroni sanno che questo governo è apertamente schierato al loro fianco, perché ogni giorno dice che deve essere più facile licenziare, perché non fa nulla per impedire che padroni disonesti si comportino in questo modo, perché non fa nulla di concreto per alleviare la crisi e la crisi è la migliore alleata dei padroni che vogliono sfruttare i lavoratori. Perché i padroni, questi padroni, con la crisi ci guadagnano: il lavoro costa meno - solo undici mensilità, come recita il volantino - ma loro continuano a venderci le cose prodotte da quel lavoratore meno "pretenzioso" allo stesso prezzo, e quindi la differenza, che è cresciuta, va tutta in tasca a loro. Alla faccia della crisi.
E quindi, benvenuti nel paese dove i lavoratori non si assumono, si comprano.
In questo verbo, la cui etimologia risale - come per gran parte della nostra lingua - al latino, si riconosce un'antica radice am- che ha il significato di prendere e di comperare.
Nei giorni scorsi un'agenzia di lavoro interinale ha diffuso un volantino per pubblicizzare i propri servizi. Al di là della retorica commerciale, credo sia utile riportare alcuni degli slogan utilizzati.
Vinci la crisi, cosa stai ancora aspettando: chi utilizza un lavoratore interinale rumeno risparmia. Beneficia del massimo della flessibilità ed in più: niente Inail, niente tredicesima, niente Inps, niente quattordicesima. Niente malattia, niente Tfr, niente infortuni, no problems, niente consulenti paghe. Alla tua azienda non rimane che pagare undici mensilità e non più 14 più Tfr, come stai facendo, ed in più senza nemmeno dover anticipare l'Iva essendo le nostre fatture intracomunitarie.C'è un po' di inglese, che fa sempre "moderno", come insegna il presidente del consiglio. Ma soprattutto è un inno alla libertà: nessun vincolo, nessun controllo, nessuna complicazione. Finalmente un lavoratore che non dà problemi.
Uscita la notizia, i corifei del renzismo - compreso il sedicente professor taddei, responsabile economico del partito mal nato - hanno detto che si tratta di comportamenti illegali e che, come tali, dovranno essere perseguiti. Naturalmente queste prese di posizione - per quanto in malafede - mi fanno piacere - evidentemente qualcuno in quel partito ha ancora il senso della vergogna - ma mi pare che la questione non possa essere liquidata in questo modo.
Il problema è che tutti questi predatori sentono ormai l'odore del sangue, vedono che le loro vittime sono braccate, indifese e ferite, sanno che non ci sono più limiti alla loro ferocia. E quindi attaccano. Qualcuno, come l'estensore di questo volantino, lo fa in maniera scomposta e probabilmente rimarrà a bocca asciutta. Ma tutti gli altri lo stanno facendo in silenzio, senza gridare, senza vantarsi, ma con la stessa cinica indifferenza per gli altri.
Vuoi continuare a lavorare? Va bene, sei brava. Ma intanto ti riduco l'orario di lavoro da 40 a 35 ore, anche se naturalmente continuerai a lavorare 40 ore, senza essere pagata per quelle cinque ore in più. Lei si può rifiutare? Teoricamente sì, ma praticamente no, perché il suo stipendio è l'unico che arriva in casa - e ovviamente il suo padrone lo sa - e ci sono altre venti ragazze che potrebbero sostituirla. Naturalmente questo non lo troverete scritto in nessun volantino, ma succede, è successo. E deve anche ringraziare di avere ancora un lavoro.
Al di là della retorica, questo è il renzismo. Al di là dei provvedimenti legislativi, che sono molto negativi e che hanno riportato il nostro paese agli anni Cinquanta, è il clima politico e sociale ad essere cambiato. I padroni sanno che questo governo è apertamente schierato al loro fianco, perché ogni giorno dice che deve essere più facile licenziare, perché non fa nulla per impedire che padroni disonesti si comportino in questo modo, perché non fa nulla di concreto per alleviare la crisi e la crisi è la migliore alleata dei padroni che vogliono sfruttare i lavoratori. Perché i padroni, questi padroni, con la crisi ci guadagnano: il lavoro costa meno - solo undici mensilità, come recita il volantino - ma loro continuano a venderci le cose prodotte da quel lavoratore meno "pretenzioso" allo stesso prezzo, e quindi la differenza, che è cresciuta, va tutta in tasca a loro. Alla faccia della crisi.
E quindi, benvenuti nel paese dove i lavoratori non si assumono, si comprano.
mercoledì 1 aprile 2015
Considerazioni libere (399): a proposito di sfide...
Maurizio Landini ha molti pregi, ma uno dei più importanti è la capacità di esprimersi in maniera chiara. Lo ha fatto sabato a Roma, nella bella e riuscita manifestazione della Fiom - in cui eravamo in migliaia - e lo ha fatto domenica, in un appuntamento dello Spi a Medicina - in provincia di Bologna - a cui Zaira ed io abbiamo avuto l'opportunità di partecipare. Proprio perché parla chiaro, solo un interprete fazioso e molto "disinvolto" può fargli dire cose che in queste settimane non ha mai detto. Landini non ha mai detto di volere fare un nuovo partito, l'ennesimo nuovo partito di sinistra destinato a racimolare l'1 o il 2%, né ha detto di voler fare il federatore della sinistra che c'è, come ha fatto - con un prevedibile insuccesso - Antonio Ingroia. Landini ha forse un'ambizione politica - del tutto legittima - ma adesso credo occorra stare sul merito delle cose che dice, che sono importanti.
Landini è partito, come molti di noi, da una constatazione. Al di là di quello che dice di essere, il governo renzi è il primo esecutivo che ha deciso di attuare in maniera integrale - anzi accentuandone i caratteri regressivi - il programma scritto da Confindustria. Questo governo non si propone di mediare tra interessi sociali contrapposti, ma ha semplicemente deciso di schierarsi con un unico blocco sociale, quello dei padroni. Noi chiamiamo questa cosa destra, renzi e i renziani la chiamano sinistra, ma è poco importante la disquisizione sui nomi, quello che conta sono le cose e questo governo è quello che ha abolito i punti fondanti dello Statuto dei lavoratori, cosa che non aveva fatto neppure un esecutivo dichiaratamente di destra, come quello guidato da Silvio Berlusconi. E' il governo che attua, con pedissequa puntualità, tutti i punti indicati nella lettera della Bce dell'agosto 2011, che neppure Monti - che pure era stato messo lì a quello scopo - era riuscito a completare. Infine è il governo che propone una serie di riforme istituzionali che stravolgono l'impianto della Costituzione, prevedendo un'inedita concentrazione di potere nelle mani di chi guida il governo, a scapito delle assemblee legislative, degli enti locali e degli organi di garanzia. So che ai miei amici piddini fa male sentirselo ripetere, ma si tratta, né più né meno, di quanto auspicato da Licio Gelli nel Piano di rinascita nazionale, un testo che voleva essere eversivo.
Partendo da qui, Landini lancia delle sfide.
Sfida prima di tutto il sindacato, il suo sindacato, la Cgil. Se siamo arrivati a questo punto non possiamo dire che la colpa è tutta degli altri, che la colpa è di renzi o di Berlusconi o della "casta". In Italia non c'è stato un colpo di stato, non ci siamo ritrovati un governo così pericolo all'improvviso. C'è stata una transizione lunga che ha coinvolto il nostro paese come tutto il resto dell'Europa. In questa transizione è mancata una riflessione critica a sinistra, anzi noi di sinistra abbiamo teorizzato - e agito di conseguenza - l'adesione ai valori del liberismo, abbiamo pensato che dal governo, da raggiungere in qualunque modo, potessimo cambiare un sistema economico - che intanto diventava sempre più potente e spietato - e che invece ha cambiato noi, ci ha fagocitato.
Pensate a cosa è successo al sistema cooperativo, a come si è trasformato, a come è diventato permeabile alla criminalità, perdendo progressivamente tutti gli anticorpi. Ovviamente sapete cosa è diventato il pd, anche per colpa nostra, che pure in quel partito non ci siamo mai entrati, ma abbiamo contribuito a metterne le basi, attraverso l'ultima fase dei Ds.
E la Cgil non poteva rimanere immune da questa deriva. Troppi di noi, nei posti di lavoro, ci siamo scontrati con una Cgil che si è limitata a difendere qualche rendita di posizione, se non qualche vero e proprio privilegio, che non ha avuto la capacità di farsi interprete di bisogni nuovi. E abbiamo visto, nel paese, un sindacato incapace di difendere i "nuovi" lavoratori - le partire Iva, gli atipici, i precari - un sindacato che preferiva resistere nel proprio ridotto, mentre i diritti venivano via via erosi. Naturalmente so che la Cgil è molto altro e io sono fiero di essere iscritto a questo sindacato. Ma proprio perché credo nel valore di questo strumento, perché vedo quello che fanno ogni giorno sul territorio, penso che siamo stati deboli e adesso questa debolezza la stiamo scontando, e con gli interessi, visto che i padroni - e il governo loro complice - ci vogliono semplicemente distruggere. Landini parla di un sindacato diverso, in cui gli iscritti abbiano più ruolo, in cui i delegati possano scegliere i dirigenti e definire le scelte di fondo di quella organizzazione. Capisco che qualche collega di Landini storca il naso di fronte a queste proposte - lo ha fatto domenica Carla Cantone - ma adesso è il momento di mettersi in gioco. Perché altrimenti ne saremo travolti.
Poi Landini sfida la politica. Quando dice che il pd di renzi ha deciso di scegliere come proprio interlocutore l'altra parte, dice anche che c'è un vuoto, perché nessuno è rimasto a presidiare questa parte dello schieramento. In piazza a Roma c'erano persone che, se domani dovessero votare, non saprebbero per chi farlo. Domenica a Medicina ho incontrato vecchi compagni - che non vedevo da tempo e con cui ho condiviso splendidi anni di militanza - confessare con tristezza che si sono ritirati dalla politica: sono risorse che la sinistra non può perdere. Sempre domenica Cantone non è riuscita ad uscire dallo schema pernicioso - e per noi alla lunga mortale - del "meno peggio": ha detto in sostanza che visto che di là c'è Salvini, c'è il populismo lepenista, c'è il fascismo di Casa Pound, dobbiamo lavorare affinché il pd cambi. E' un'illusione naturalmente: il pd non cambierà, perché - al netto del malaffare che ormai permea tanta parte di quel partito - è ormai renziano nelle viscere, perché renzi non è una malattia da cui si può guarire, non è un tumore che può essere estirpato, renzi è l'evoluzione a cui ci hanno condotto questi trent'anni e non è più possibile tornare indietro.
Landini in sostanza dice: c'è un vuoto e quel vuoto dobbiamo essere capaci di riempirlo. La sfida che lancia alla politica è tutta qui, e non è un caso che in fondo, al di là di alcuni atteggiamenti un po' di maniera, pochi nella sinistra politica abbiano davvero sposato l'idea della coalizione sociale. Su questo punto sono d'accordo con Landini: la sinistra deve avere una rappresentanza politica. Ci vorrà tempo per farla nascere, ma dovrà nascere.
E qui veniamo all'ultima sfida, che in qualche modo Landini lancia a tutti noi, a chi crede in certi valori, a chi si sente, nonostante tutto, di sinistra. Non possiamo stare qui ad aspettare la prossima manifestazione, le prossime elezioni, perché intanto "loro" di là lavorano e ci tolgono sempre più spazio, ci stringono la corda intorno al collo. Intanto dobbiamo dire che ci siamo, che ci siamo accorti del loro gioco, che non ci possono più abbindolare con il trucco del "meno peggio", perché loro sono a tutti gli effetti il "peggio". Dobbiamo far crescere idee, dobbiamo contarci e raccontarci, dobbiamo manifestare anche per piccole cose, perché devono sapere che non ci arrenderemo facilmente. Devono avere paura di noi, della nostra reazione, della nostra capacità di mobilitarci, devono sapere che qualunque cosa facciano noi siamo pronti a criticarli, anche a sfotterli, a lanciare contro di loro una pernacchia, magari quando fanno la ruota e si fanno applaudire dalle loro claque organizzate e prezzolate.
Ma al di là di questa resistenza, soprattutto dobbiamo fare in modo che le persone non si sentano sole. E' la riflessione di Landini che domenica mi ha colpito di più. Le persone si sentono sole, perché vengono lasciate sole nei loro bisogni, nelle loro povertà, nelle loro difficoltà, perché "loro" hanno bisogno che noi siamo così deboli. Uno dei sensi della coalizione sociale è proprio questo: l'impegno a non lasciare solo nessuno.
Come sapete il 30 marzo abbiamo festeggiato i cent'anni di un grande protagonista della sinistra italiana: Pietro Ingrao. Io ho cercato di ricordarlo pubblicando su questo blog parte di una sua riflessione, di un discorso che fece nel novembre del 1975 per l'apertura di una sessione della "scuola di partito" delle Frattocchie. Ingrao parlava allora di "socializzazione della politica", per dire che la politica deve entrare nelle cose, nella concretezza della vita delle persone. Forse, dopo quarant'anni, è necessario ripartire da qui, da questa idea di trasformazione radicale della società, per dare concretezza alla democrazia.
Landini è partito, come molti di noi, da una constatazione. Al di là di quello che dice di essere, il governo renzi è il primo esecutivo che ha deciso di attuare in maniera integrale - anzi accentuandone i caratteri regressivi - il programma scritto da Confindustria. Questo governo non si propone di mediare tra interessi sociali contrapposti, ma ha semplicemente deciso di schierarsi con un unico blocco sociale, quello dei padroni. Noi chiamiamo questa cosa destra, renzi e i renziani la chiamano sinistra, ma è poco importante la disquisizione sui nomi, quello che conta sono le cose e questo governo è quello che ha abolito i punti fondanti dello Statuto dei lavoratori, cosa che non aveva fatto neppure un esecutivo dichiaratamente di destra, come quello guidato da Silvio Berlusconi. E' il governo che attua, con pedissequa puntualità, tutti i punti indicati nella lettera della Bce dell'agosto 2011, che neppure Monti - che pure era stato messo lì a quello scopo - era riuscito a completare. Infine è il governo che propone una serie di riforme istituzionali che stravolgono l'impianto della Costituzione, prevedendo un'inedita concentrazione di potere nelle mani di chi guida il governo, a scapito delle assemblee legislative, degli enti locali e degli organi di garanzia. So che ai miei amici piddini fa male sentirselo ripetere, ma si tratta, né più né meno, di quanto auspicato da Licio Gelli nel Piano di rinascita nazionale, un testo che voleva essere eversivo.
Partendo da qui, Landini lancia delle sfide.
Sfida prima di tutto il sindacato, il suo sindacato, la Cgil. Se siamo arrivati a questo punto non possiamo dire che la colpa è tutta degli altri, che la colpa è di renzi o di Berlusconi o della "casta". In Italia non c'è stato un colpo di stato, non ci siamo ritrovati un governo così pericolo all'improvviso. C'è stata una transizione lunga che ha coinvolto il nostro paese come tutto il resto dell'Europa. In questa transizione è mancata una riflessione critica a sinistra, anzi noi di sinistra abbiamo teorizzato - e agito di conseguenza - l'adesione ai valori del liberismo, abbiamo pensato che dal governo, da raggiungere in qualunque modo, potessimo cambiare un sistema economico - che intanto diventava sempre più potente e spietato - e che invece ha cambiato noi, ci ha fagocitato.
Pensate a cosa è successo al sistema cooperativo, a come si è trasformato, a come è diventato permeabile alla criminalità, perdendo progressivamente tutti gli anticorpi. Ovviamente sapete cosa è diventato il pd, anche per colpa nostra, che pure in quel partito non ci siamo mai entrati, ma abbiamo contribuito a metterne le basi, attraverso l'ultima fase dei Ds.
E la Cgil non poteva rimanere immune da questa deriva. Troppi di noi, nei posti di lavoro, ci siamo scontrati con una Cgil che si è limitata a difendere qualche rendita di posizione, se non qualche vero e proprio privilegio, che non ha avuto la capacità di farsi interprete di bisogni nuovi. E abbiamo visto, nel paese, un sindacato incapace di difendere i "nuovi" lavoratori - le partire Iva, gli atipici, i precari - un sindacato che preferiva resistere nel proprio ridotto, mentre i diritti venivano via via erosi. Naturalmente so che la Cgil è molto altro e io sono fiero di essere iscritto a questo sindacato. Ma proprio perché credo nel valore di questo strumento, perché vedo quello che fanno ogni giorno sul territorio, penso che siamo stati deboli e adesso questa debolezza la stiamo scontando, e con gli interessi, visto che i padroni - e il governo loro complice - ci vogliono semplicemente distruggere. Landini parla di un sindacato diverso, in cui gli iscritti abbiano più ruolo, in cui i delegati possano scegliere i dirigenti e definire le scelte di fondo di quella organizzazione. Capisco che qualche collega di Landini storca il naso di fronte a queste proposte - lo ha fatto domenica Carla Cantone - ma adesso è il momento di mettersi in gioco. Perché altrimenti ne saremo travolti.
Poi Landini sfida la politica. Quando dice che il pd di renzi ha deciso di scegliere come proprio interlocutore l'altra parte, dice anche che c'è un vuoto, perché nessuno è rimasto a presidiare questa parte dello schieramento. In piazza a Roma c'erano persone che, se domani dovessero votare, non saprebbero per chi farlo. Domenica a Medicina ho incontrato vecchi compagni - che non vedevo da tempo e con cui ho condiviso splendidi anni di militanza - confessare con tristezza che si sono ritirati dalla politica: sono risorse che la sinistra non può perdere. Sempre domenica Cantone non è riuscita ad uscire dallo schema pernicioso - e per noi alla lunga mortale - del "meno peggio": ha detto in sostanza che visto che di là c'è Salvini, c'è il populismo lepenista, c'è il fascismo di Casa Pound, dobbiamo lavorare affinché il pd cambi. E' un'illusione naturalmente: il pd non cambierà, perché - al netto del malaffare che ormai permea tanta parte di quel partito - è ormai renziano nelle viscere, perché renzi non è una malattia da cui si può guarire, non è un tumore che può essere estirpato, renzi è l'evoluzione a cui ci hanno condotto questi trent'anni e non è più possibile tornare indietro.
Landini in sostanza dice: c'è un vuoto e quel vuoto dobbiamo essere capaci di riempirlo. La sfida che lancia alla politica è tutta qui, e non è un caso che in fondo, al di là di alcuni atteggiamenti un po' di maniera, pochi nella sinistra politica abbiano davvero sposato l'idea della coalizione sociale. Su questo punto sono d'accordo con Landini: la sinistra deve avere una rappresentanza politica. Ci vorrà tempo per farla nascere, ma dovrà nascere.
E qui veniamo all'ultima sfida, che in qualche modo Landini lancia a tutti noi, a chi crede in certi valori, a chi si sente, nonostante tutto, di sinistra. Non possiamo stare qui ad aspettare la prossima manifestazione, le prossime elezioni, perché intanto "loro" di là lavorano e ci tolgono sempre più spazio, ci stringono la corda intorno al collo. Intanto dobbiamo dire che ci siamo, che ci siamo accorti del loro gioco, che non ci possono più abbindolare con il trucco del "meno peggio", perché loro sono a tutti gli effetti il "peggio". Dobbiamo far crescere idee, dobbiamo contarci e raccontarci, dobbiamo manifestare anche per piccole cose, perché devono sapere che non ci arrenderemo facilmente. Devono avere paura di noi, della nostra reazione, della nostra capacità di mobilitarci, devono sapere che qualunque cosa facciano noi siamo pronti a criticarli, anche a sfotterli, a lanciare contro di loro una pernacchia, magari quando fanno la ruota e si fanno applaudire dalle loro claque organizzate e prezzolate.
Ma al di là di questa resistenza, soprattutto dobbiamo fare in modo che le persone non si sentano sole. E' la riflessione di Landini che domenica mi ha colpito di più. Le persone si sentono sole, perché vengono lasciate sole nei loro bisogni, nelle loro povertà, nelle loro difficoltà, perché "loro" hanno bisogno che noi siamo così deboli. Uno dei sensi della coalizione sociale è proprio questo: l'impegno a non lasciare solo nessuno.
Come sapete il 30 marzo abbiamo festeggiato i cent'anni di un grande protagonista della sinistra italiana: Pietro Ingrao. Io ho cercato di ricordarlo pubblicando su questo blog parte di una sua riflessione, di un discorso che fece nel novembre del 1975 per l'apertura di una sessione della "scuola di partito" delle Frattocchie. Ingrao parlava allora di "socializzazione della politica", per dire che la politica deve entrare nelle cose, nella concretezza della vita delle persone. Forse, dopo quarant'anni, è necessario ripartire da qui, da questa idea di trasformazione radicale della società, per dare concretezza alla democrazia.
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