Capita a volte di ascoltare qualche bello spirito che si chiede che senso abbia ancora leggere i classici. Cosa può servire rileggere l'Iliade, con i suoi estenuanti duelli tra cavalieri che combattono da soli, dopo aver tenuto lunghi discorsi, mentre i loro eserciti schierati li osservano? O rileggere le tragedie elisabettiane, dato che non ci sono più re sanguinari come Macbeth o congiure feroci come quelle descritte nell'Amleto? Ha senso perché, nonostante tutte le illusioni che noi ci facciamo, nonostante la modernità in cui crediamo di vivere, gli uomini - e le donne - sono ancora quelli raccontati da Omero, da Shakespeare, da Dante. Certo sono cambiate tante cose, combattiamo in maniera diversa, viaggiamo in maniera diversa, gestiamo la politica e l'economia in maniera diversa, conosciamo il mondo in maniera molto più precisa e approfondita di quanto lo conoscessero le generazioni passate, eppure per tanti versi siamo uguali ai nostri genitori, ai nostri nonni, ai nostri bisnonni e così via.
Ci pensavo mentre riflettevo sulla sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato il governo italiano per quello che è successo alla scuola Diaz nel 2001. In fondo, nonostante i proclami, gli impegni solenni, i giuramenti, il potere, quando vuole manifestare la propria forza, quando vuole far sentire la propria presenza, lo fa ancora in maniera brutale, attraverso la violenza, attraverso la tortura. E noi, come tutti gli uomini di tutti i tempi, abbiamo paura della violenza, temiamo la tortura, saremmo disposti a confessare qualunque cosa - anche quello che non abbiamo commesso - pur di far smettere l'aguzzino. Il potere conosce questa nostra debolezza e se ne approfitta, sempre. Ho ripensato al poliziotto senza nome interpretato da Gian Maria Volonté in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, un film del 1970, datato per il contesto che in cui fa muovere i personaggi, eppure attualissimo nel descriverne i meccanismi psicologici.
Quanti funzionari come quello raccontato da Volonté infestano ancora le questure, le caserme dei carabinieri, le carceri italiane, quanti di questi personaggi frustrati esercitano il loro potere in maniera arbitraria, certi di rimanere impuniti, quanto odio c'è ancora nelle forze dell'ordine verso chi non la pensa come loro, verso chi è diverso, verso chi rifiuta il loro ordine. Un po' di cose sono state fatte per rendere costituzionale una struttura che l'Italia repubblicana e democratica ha ereditato praticamente senza soluzione di continuità dal regime fascista, eppure fatti come quelli di Genova, e tanti altri che capitano ogni giorno, ci dicono che tanto è ancora da fare. Perché a questa forma di fascismo autoritario, più o meno consapevole, si è via via aggiunta e sostituita una sostanziale ignoranza dei valori costituzionali. Questa ignoranza colpisce evidentemente tanta parte del pubblico impiego - siamo sempre meno consapevoli di esercitare una funzione pubblica, siamo sempre meno consapevoli di lavorare per gli altri, e infatti tanti lavorano per sé, al massimo per la propria famiglia - ma diventa pericolosa in chi esercita un potere così grande, in chi ha la possibilità di usare lo strumento della forza. Il funzionario disonesto al massimo può rubare, ma il poliziotto inconsapevole del fatto che a lui lo stato delega l'uso della violenza può fare danni ben maggiori.
Nel luglio del 2001 alcune persone decisero che a Genova occorreva "dare una lezione" a quelli del movimento no global; loro devono essere condannati, insieme a quegli uomini che misero in pratica questi ordini, spesso eccedendo, anche per una forma malata di sadismo. Non sappiamo chi ordinò materialmente le torture, se il presidente del consiglio o il ministro degli interni o altri ancora - magari capaci di esercitare un potere ancora più forte su polizia e carabinieri rispetto allo stesso governo (in Italia purtroppo dobbiamo sempre dubitare che una parte delle forze dell'ordine siano eterodirette). Certo loro e gli altri membri del governo sapevano quello che sarebbe successo e non hanno fatto nulla per fermarlo. Volevano un poliziotto morto, volevano un altro Antonio Annarumma, per scatenare una reazione violenta contro un pezzo di paese. Alla fine morì solo Carlo Giuliani.
E con altrettanta decisione dobbiamo dire che sapevano l'allora capo della polizia e gli uomini che furono chiamati a gestire quell'operazione, tutti promossi negli anni successivi, tutti passati a carriere lucrose, tutti assolti da una giustizia complice della parte peggiore del paese, come è avvenuto troppe volte in Italia, dove l'indipendenza della magistratura dal potere è una chimera.
C'è però anche una responsabilità nostra, della sinistra di governo - chiamamola così, per capirci, anche se allora non eravamo al governo, ma c'eravamo stati prima e ci saremmo andati dopo, senza segnare su molti punti uno stacco netto e significativo con l'esperienza dei governi di destra. Io allora facevo politica e sinceramente non mi resi conto in maniera sufficiente della gravità di quello che era successo a Genova. Certo la discussione se andare o non andare - e se andare, come andare - fu accesa, ma credo non ci rendemmo conto di quanto quell'episodio sarebbe stato destinato a cambiare forse noi più degli altri. Alla luce di quello che è successo dopo, non esserci resi conto dell'attacco alla democrazia che era avvenuto a Genova, tra la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto, è stato il sintomo più evidente della fine, della morte della sinistra italiana, che infatti è arrivata poco più di dieci anni dopo, quando ci siamo consegnati a un leader di destra come renzi, che porta avanti un disegno neoautoritario e peronista. E l'aver fatto di tutto, negli anni successivi, quando eravamo al governo, per insabbiare quello era successo a Genova, anche attraverso le continue promozioni di De Gennaro e dei suoi uomini, di quelli che avevano le mani e le giacche sporche di sangue, è uno dei motivi che fa sì che ci meritiamo renzi e il pd.
C'è molto da fare in questo paese per recuperare alcune regole di convivenza civile e democratica. Forse non ne abbiamo neppure le forze.
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