domenica 30 settembre 2012

Considerazioni libere (309): a proposito dell'ora di religione...

Alcuni giorni fa il ministro dell'istruzione del governo italiano si è lasciato scappare una frase, di cui credo non avesse ben colto e immaginato le conseguenze. "Credo che il paese sia cambiato - ha detto Profumo - nelle scuole ci sono studenti che vengono da culture, religioni e paesi diversi. Credo che debba cambiare il modo di fare scuola, che deve essere più aperto. E credo che non solo per la religione, ma anche, ad esempio, per la geografia ci voglia una revisione dei nostri programmi in questa direzione. Oggi la scuola deve essere più aperta, multietnica e capace di correlarsi al mondo attuale". In sé queste parole sono sagge e neppure troppo rivoluzionarie, ma l'inesperto ministro - troppo "tecnico" evidentemente - è stato subito richiamato all'ordine da uno degli "azionisti di riferimento" dell'esecutivo: in questo paese si può pure riformare la geografia - la storia è già riformata da tempo - ma non certo l'ora di religione. Dalle Mura leonine è subito arrivata la versione "ufficiale" delle parole del ministro; il cardinal Ravasi ha pazientemente spiegato: "è importante il rinnovamento della didattica nel metodo: il messaggio evangelico e i grandi insegnamenti cristiani vanno sempre insegnati, ma c'è spazio anche per un aggancio con il mutare della società e lo sviluppo dei tempi e della cultura", quindi l'ora di religione non si discute, si possono cambiare i metodi, ma questo comunque è "affar nostro". Naturalmente altri prelati, meno curiali e meno intelligenti di Ravasi, sono intervenuti in modo più aspro e subito si sono schierati contro il ministro i baciapile e gli atei devoti del centrodestra, ma evidentemente dal Vaticano è arrivato l'ordine perentorio di chiudere la discussione: del tema non bisogna neppure parlare. Così il dibattito è stato rapidamente chiuso, molte articolesse sono state gettate nei cestini e infatti di ora di religione non si parla più: come noto, sono "ben altri" i problemi di questo paese, come si sono affrettati a dire anche gli immarcescibili cattolici del Pd.
Nonostante tutto quello che succede nel nostro disgraziato paese, penso che le parole "dal sen fuggite" del ministro meritino qualche riflessione in più. Il tema dell'ora di religione a scuola è in questo paese un argomento taboo, come tutti quelli che riguardano l'etica e la religione. In ambito laico sono state affrontate proposte diverse, dall'abolizione tout court dell'ora di religione alla sua sostituzione con un'ora di storia delle religioni o di etica; naturalmente ogni proposta ha visto il rifiuto a confrontarsi delle gerarchie cattoliche e l'unico risultato possibile, per quanto modesto, è stata la possibilità di esenzione dall'ora di religione. E raramente le scuole, nella loro autonomia così povera di mezzi, hanno saputo offrire un'offerta alternativa agli "esentati".
Il problema si è naturalmente complicato con il passare degli anni, perché nella nostra società - e di conseguenza nella scuola - non c'è solo una minoranza laica o laicista o dichiaratamente atea con cui la maggioranza, più o meno convintamente cattolica, deve fare i conti, ma è cresciuta, per effetto di un fenomeno migratorio di cui non avevamo capito la portata, una minoranza che professa altre religioni e segnatamente la religione musulmana, che sempre più è la religione degli "altri", di quelli diversi da "noi", di quelli con cui è aperto un conflitto, più o meno latente. Parallelamente, nonostante le gerarchie lamentino il crescere del secolarismo nella nostra società, ne denuncino il relativismo - uno dei cavalli di battaglia dell'attuale pontefice - è aumentata la deferenza pubblica e politica verso la chiesa cattolica, le cui posizioni dottrinali sono finite per diventare gli unici criteri dell'etica civile repubblicana, anche al di là dell'effettiva adesione a questi valori di coloro che si dicono credenti - anche tra le nostre classi dirigenti - che nei loro comportamenti si dimostrano ben poco cristiani.
Da non credente, penso che l'ora di religione da problema - o da questione insignificante, come è considerata dalla maggior parte degli italiani - potrebbe diventare un'opportunità per la nostra scuola e per la nostra società, naturalmente a patto che tutti facciamo un passo indietro rispetto a posizioni radicate negli anni. Proviamo a partire dall'idea che abbiamo della scuola e da quale dovrebbe essere il suo ruolo: secondo me la scuola, a tutti i suoi livelli, dall'asilo all'università, dovrebbe essere un'agenzia educativa, che contribuisce, con la famiglia e le altre agenzie educative, a far crescere donne e uomini. La scuola ha naturalmente un ruolo primario nell'insegnare alle giovani persone le nozioni fondamentali, come il leggere, lo scrivere e il far di conto - come si diceva una volta - ma se si fermasse qui il suo ruolo sarebbe davvero poco significativo e forse anche sostituibile con altri strumenti, in questo nostro tempo in cui la tecnologia ha ormai cambiato le nostre vite. Credo che ciascuno di noi possa ricordare le "altre" cose che abbiamo imparato a scuola, al di là di quello che era scritto sui libri o ci hanno spiegato i professori: il rispetto delle regole, lo stare insieme ad altre persone, la solidarietà con gli altri studenti, il saperci rapportare - anche in modo conflittuale - con l'autorità e così via. Gli insegnanti, con il loro lavoro, hanno contribuito, nel bene e nel male, a fare di noi quello che siamo, al di là di quelle nozioni che abbiamo imparato nel nostro percorso scolastico. Temo che questa consapevolezza del ruolo della scuola e degli insegnanti si sia perso, nel tentativo - figlio di una certa ideologia - di aumentare le competenze "tecniche". E anche su questo risultato - ricordate ad esempio le tre I propagandate da un recente governo? - credo ci sarebbe comunque da discutere; ho l'impressione che la nostra scuola sia carente sia come agenzia educativa nel senso più ampio che ho provato a descrivere sia come agenzia specializzata nel trasmettere nozioni, al di là della buona volontà di molti insegnanti che vivono ancora il loro ruolo come un impegno sociale ed etico prima ancora di un lavoro come un altro.
Proprio in questa ottica un ragionamento diverso sull'ora di religione - o meglio sulla cultura religiosa - potrebbe essere utile. Mi pare che in Italia cresca l'incultura religiosa, così come in questi anni è cresciuta l'incultura politica e quella civile. Questo non è solo legato al diffondersi del laicismo e del relativismo, come sembrano credere - in maniera per me semplicistica - molti uomini di chiesa. Faccio sempre fatica a occuparmi di campi che non sono miei - e la religione è uno di questi - ma penso che la chiesa dovrebbe interrogarsi sul suo insegnamento - quello che loro chiamano propriamente magistero - che è sempre meno teologico, perché tutto avvitato sui temi "eticamente sensibili", e tra questi soprattutto quelli legati alla sessualità delle persone. L'insistenza delle gerarchie cattoliche su alcuni temi, e solo su questi - ad esempio la difesa della "famiglia naturale" - paiono ossessivi, anche a chi, come me, guarda quel mondo dal di fuori, con il rispetto che è necessario per una parte non irrilevante della cultura del nostro paese.
Il tema non è se fare o non fare catechismo a scuola, come spesso si è banalizzato il dibattito intorno all'ora di religione. La lezione di religione dovrebbe provare a spiegare cosa significa avere una fede. E di conseguenza quali sono i fondamenti di questa religione, qual è la sua storia, quali sono state e quali sono le sue contraddizioni e i suoi conflitti, e naturalmente quali sono le differenze rispetto alle altre religioni, ma anche cosa può scaturire dal loro confronto. In questa ottica l'insegnamento della religione potrebbe essere utile nella formazione di una società in cui dovranno convivere religioni diverse, insieme a persone che non credono e che vogliono conoscere e rispettare le religioni degli altri. Pensate soltanto che contributo potrebbe dare un insegnamento così strutturato alla conoscenza della nostra società e della nostra cultura per quelle persone che sono venute a vivere qui da altri paesi, con storie e culture diverse; anche a loro sarebbe utile questa ora di religione, perché la nostra cultura non può fare a meno della storia, della cultura e della tradizione del cattolicesimo. Con questi obiettivi l'ora di religione non dovrebbe più essere "appaltata" ad altri né essere considerata un'ora in più, in qualche modo slegata al percorso scolastico - avviene qualcosa del genere purtroppo e per altre ragioni anche all'educazione civica - ma dovrebbe diventare una parte di un curriculum scolastico riformato, in cui si rapporta con l'insegnamento della filosofia, della storia, della letteratura, dell'arte, della cultura generalmente intesa. E potrebbe cooperare, appunto con un'educazione civica anch'essa "riformata", alla crescita e alla formazione delle giovani persone, nel senso più ampio che io intendo. L'insegnamento della religione dovrebbe diventare - anche mantenendo un rapporto proficuo con la chiesa cattolica - a tutti gli effetti una materia della scuola pubblica.

venerdì 28 settembre 2012

Considerazioni libere (308): a proposito di una decisione cambiata...

Lo ammetto: non so cosa fare.
Oggi c'è lo sciopero generale del pubblico impiego, contro la manovra proposta dal governo Monti, che - per essere sempre più europei - hanno deciso di chiamare spending review. Si tratta invece di un'operazione finalizzata soltanto a ridurre in maniera drammatica la spesa pubblica nel nostro paese, senza tener conto di chi dovrà subire questi tagli. La mia indecisione sta tutta nel metodo di questa lotta.
Due necessarie premesse. Primo: sono iscritto alla Cgil e sono fiero di esserlo, perché penso che, al punto in cui siamo arrivati in questo paese, sia l'unica organizzazione che difende i lavoratori e tutti quelli - e sono tanti - che hanno meno diritti. Secondo: sull'attuale governo ho un pessimo giudizio; al di là dello stile, penso che questo esecutivo sia, nelle scelte concrete in campo politico ed economico, perfino peggiore di quello che l'ha preceduto, che pure era quello che era. Detto questo, pur condividendo punto per punto gli obiettivi dello sciopero, avevo deciso di andare a lavorare; poi, per solidarietà con i compagni e i colleghi in sciopero, avrei devoluto quella giornata di lavoro a una campagna promossa dalla Cgil.
Avevo preso questa decisione, anche sofferta, perché pensavo - e penso tuttora - che per noi dipendenti pubblici lo sciopero sia un'arma ormai spuntata; rimane, come per tutti gli altri lavoratori, un sacrificio personale, perché perdiamo una giornata di stipendio, ma non arrechiamo un danno al nostro "padrone". Se i metalmeccanici scioperano i loro padroni ci rimettono e questa è un arma che hanno i lavoratori, ma se noi scioperiamo, il commissario straordinario che regge in queste settimane il Comune in cui lavoro, così come il commissario straordinario messo da Draghi e dall'Unione europea al governo dell'Italia, non ne ricevono alcun danno; sono i cittadini, sono gli altri lavoratori, i soli a subire le conseguenze del nostro sciopero e per questo dobbiamo essere molto responsabili nel farlo.
La cosa peggiore che hanno fatto in questi anni i nostri governanti è stata quella di togliere ogni residuo valore al nostro lavoro di dipendenti pubblici; io sono orgoglioso di esserlo e non mi sento un privilegiato; e non mi considero neppure un fannullone. Eppure per molti altri lavoratori e per tanti che purtroppo il lavoro non l'hanno o sono da anni precari, noi siamo quelli che hanno un lavoro garantito, che lavoriamo poco e male. Sinceramente credo che proclamare uno sciopero così, di venerdì, con modalità che sono francamente un po' burocratiche, senza un vero coinvolgimento di noi dipendenti e senza spiegarlo in maniera approfondita ai cittadini, non possa in nulla giovare all'idea - in gran parte sbagliata - che gli altri lavoratori hanno di noi. Noi dipendenti pubblici dobbiamo spiegare agli altri lavoratori, a tutti i cittadini, che il nostro lavoro è fondamentale, è importante per loro e per le loro famiglie. Lo sciopero in queste forme non ci serve a farlo; andiamo in piazza, facciamo altre cose e inventiamo forme inedite di protesta, lavoriamo di più - se serve - impegniamoci per ricostruire una solidarietà tra lavoratori che purtroppo, per un disegno preciso, in questo paese si è persa. Facciamo capire agli altri quanto è importante il nostro lavoro, se combattiamo da soli temo che saremo sconfitti, se la nostra lotta diventerà la lotta dei cittadini per cui lavoriamo, allora cominceremo a vincere.
Ho cercato di dire queste cose in un'assemblea sindacale, che avrei sperato più partecipata, proprio in vista dello sciopero. Chi la presiedeva ha cercato di spiegarci, con molta buona volontà, che questo sciopero è comunque importante e che sbagliavo a vederlo solo come un danno ai cittadini. Su questo punto non mi ha convinto. Spero di essere riuscito a spiegare a lui, e soprattutto ai miei colleghi, che per me prima di ogni altra cosa è fondamentale ridare dignità alla funzione pubblica del nostro lavoro.
Io rimango convinto della mia posizione e delle cose che ho detto in assemblea, ma c'è un dubbio che in queste ore si fa sempre più forte. Se non riesce la Cgil a spiegare in maniera efficace agli altri cittadini il motivo dello sciopero, come posso fare io, da solo, a spiegare a quegli stessi cittadini sia le ragioni - buone - che ci hanno portato a questa forma di lotta sia le mie ragioni - che a me sembrano altrettanto buone -sull'inopportunità di questo sciopero? Il cittadino che viene a fare la carta d'identità e riesce a farla nonostante lo sciopero non capirà né perché l'ufficio è semivuoto né perché io sono lì; forse penserà che sono un crumiro o che sono uno a cui non interessa nulla o che sono uno a cui va bene questo stato di cose. Però nessuna di queste tre opzioni è vera. Se viceversa trovasse l'ufficio chiuso, temo che il suo unico pensiero sarebbe "ecco i soliti dipendenti pubblici fannulloni". E neppure questo è vero.
Con questi dubbi aderisco anch'io allo sciopero, perché vale comunque il principio di appartenenza a un'organizzazione e l'idea che si decide a maggioranza. Spero però che la necessità di un modo diverso di lottare entri di più nella nostra consapevolezza di lavoratori, altrimenti sarà sempre più difficile portare a casa dei risultati per noi e per i cittadini.

domenica 23 settembre 2012

da "Napoli milionaria" di Eduardo De Filippo

Gennaro
(chiude il telaio a vetri e lentamente si avvicina alla donna. Non sa di dove cominciare; guarda la camera della bimba ammalata e si decide
Ama', nun saccio pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penza' 'o paese nuosto. Io so' turnato e me credevo 'e truva' 'a famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente. Ma pecché?... pecché io turnavo d' 'a guerra... Invece, ccà nisciuno ne vo' sentere parla'. Quann'io turnaie 'a ll'ata guerra, chi me chiammava 'a ccà, chi me chiammava 'a llà. Pe' sape', pe' sentere 'e fattarielle, gli atti eroici... Tant'è vero ca, quann'io nun tenevo cchiù che dicere, me ricordo ca, pe' m' 'e lleva' 'a tuorno, dicevo buscìe, cuntavo pure cose ca nun erano succiese, o ca erano succiese all'ati surdate... pecché era troppa 'a folla, 'a gente ca vuleva sèntere... 'e guagliune... 'O surdato! 'Assance sèntere, conta! Fatelo bere! Il soldato italiano! Ma mo pecché nun ne vonno sèntere parla'? Primma 'e tutto pecché nun è colpa toia, 'a guerra nun l'he' vuluta tu, e po' pecché 'e ccarte 'e mille lire fanno perdere 'a capa... Tu ll'he' accuminciate a vede' a poco 'a vota, po' cchiù assale, po' cientomila, po' nu milione... E nun he' capito niente cchiù... 
(apre un tiretto del comò e prende due, tre pacchi di bi­glietti da mille di occupazione. Li mostra ad Amalia
Guarda ccà. A te t'hanno fatto impressione pecché ll'he' viste a ppoco 'a vota e nun he' avuto 'o riempo 'e capi' chello ca capisco io ca so' turnato e ll'aggio viste tutte nzieme... A me, vedenno tutta sta quantità 'e carte 'e mille lire me pare nu scherzo, me pare na pazzia... 
(ora alla rinfusa fa scivolare i biglietti di banca sul tavolo sotto gli occhi della moglie
Tiene mente, Ama' : io 'e ttocco e nun me sbatte 'o core... E 'o core ha da sbattere quanno se toccano 'e ccarte 'e mille lire... Che t'aggi' 'a di'? Si stevo cca, forse perdevo 'a capa pur'io... A mia figlia, ca aieres-sera, vicino 'o lietto d' 'a sora, me cunfessaie tutte cosa, che aggi' 'a fa'? 'A piglio pe' nu vraccio, 'a metto mmiez' 'a strada e le dico: - Va fa' 'a pro­stituta? - E quanta pate n'avesser' 'a caccia 'e figlie? E no sulo a Napule. Ma dint' 'a tutte 'e paise d' 'o munno. A te ca nun he' saputo fa' 'a mamma, che faccio, Ama', t'accido? Faccio 'a tra­gedia? E nun abbasta 'a tragedia ca sta scialanno pe' tutt' 'o munno, nun abbasta 'o llutto ca purtammo nfaccia tutte quante... E Amedeo? Amedeo che va facenno 'o mariuolo? Amedeo fa 'o mariuolo. Figlieto arrobba. E... forse sulo a isso nun ce aggia penza', pecché ce sta chi ce penza... Tu mo he' capito. E io aggio capito che aggi' 'a sta' ccà. Cchiù 'a famiglia se sta perdenno e cchiu 'o pate 'e famiglia ha da piglia' 'a respon­sabilità. E se ognuno putesse guarda' 'a dint' 'a chella porta... (mostra la prima a sinistra) ogneduno se passaria 'a mano p' 'a cuscienza... Mo avimm'aspetta', Ama'... S'ha da aspetta'. Comme ha ditto 'o dottore? Deve passare la nottata. 
(e lentamente si avvia verso il fondo per riaprire il telaio a vetri come per rinnovare l'aria).

venerdì 21 settembre 2012

"Manifesto del doposviluppo" di Serge Latouche

La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale. Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova rappresentata in numerosi campi di ricerca e d'azione nel mondo.
Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da una riflessione critica sui presupposti dell'economia e sul fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si sono intrecciati dei legami spesso informali tra le sue diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s'inscrive dunque nel più ampio movimento dell'International Network for Cultural Alternatives to Development e si riconosce pienamente nella dichiarazione del 4 maggio 1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro così cominciato. Il movimento mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le evoluzioni formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in seno al movimento di critica al capitalismo e della globalizzazione. Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire dallo sviluppo e dall'economicismo e, dall'altro, quelli che militano per un problematico "altro" sviluppo (o una non meno problematica "altra" globalizzazione). A partire da questa critica, la corrente procede a una vera e propria "decostruzione" del pensiero economico. Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita, povertà, bisogno, aiuto ecc. Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo reale e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste analisi possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla costruzione di una società veramente alternativa alla società di mercato. Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione cognitiva, e questa è la condizione preliminare del sovvertimento politico, sociale e culturale. Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità dove siamo stati relegati finora e il grande successo del colloquio di La ligne d'horizon, "Défaire le développement, refaire le monde", che si è tenuto presso l'Unesco dal 28 febbraio al 3 marzo 2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze. 

Rompere l'immaginario dello sviluppo e decolonizzare le menti 
Di fronte alla globalizzazione, che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla Terra, ma anche e soprattutto per fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il vedere le cose in altro modo perché possano diventare altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro della vita umana altri significati e altre ragioni d'essere che l'espansione della produzione e del consumo. La parola d'ordine della rete è dunque "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa, ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione alternativa. Ciò significa anche il rifiuto della complicità e della collaborazione con quella impresa dissennata e distruttiva che costituisce l'ideologia dello sviluppo. 

Illusioni e rovine dello sviluppo
L'attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa è lo stadio supremo dello sviluppo realmente esistente e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica. Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la nuova mondializzazione, a sua volta, non è altro che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo come realtà storica.
Si può definire lo sviluppo realmente esistente come una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è - come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione che la segue - un'opera al tempo stesso economica e militare di dominazione e di conquista. È lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione, sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc. Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo contrario, in particolare l'insieme delle esperienze storiche e culturali dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero degli Inca. In questo caso non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, ed è meglio sbarazzarsene. Dall'altra parte, esso ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente ciò che possiede in comune con l'avventura occidentale del decollo dell'economia così come si è organizzata dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In questo caso, quale che sia l'aggettivo che gli si affianca, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli sviluppi hanno in comune con tale esperienza, è legato a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo di produzione capitalistico. Gli antagonisti di "classe" sono ampiamente occultati dalla pregnanza di "valori" comuni ampiamente condivisi: il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificante. Questi valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde. Sono legati alla storia dell'Occidente e trovano scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti che la fondano, l'idea di sviluppo è totalmente sprovvista di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché impensabili e proibite. Oggi questi valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l'economia mondiale ci trascina. Il doposviluppo è al contempo postcapitalismo e postmodernità.

I nuovi aspetti dello sviluppo
Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dello sviluppo, siamo entrati nell'era dello sviluppo aggettivato. Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici, autonomi e popolari, equi… senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell'endosviluppo, dell'etnosviluppo! Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si tratta veramente di rimettere in discussione l'accumulazione capitalistica; tutt'al più si pensa di aggiungere un risvolto sociale o una componente ecologica alla crescita economica come un tempo si è potuto aggiungerle una dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno la cultura, la natura e la giustizia sociale. In tutto ciò si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Per l'occasione è stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo. Questo mostro è solo una chimera, poiché il male non può colpire lo sviluppo per la buona ragione che lo sviluppo immaginario è per definizione l'incarnazione stessa del bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo perché lo sviluppo significa buona crescita, perché anche la crescita è un bene contro il quale nessuna forza del male può prevalere. È l'eccesso stesso delle prove del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.
Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello sviluppo aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo del Nord e del Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole è il più bel successo di quest'arte di ringiovanimento di vecchie cose. Esso illustra perfettamente il procedimento di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta alla Conferenza di Rio del giugno 1992, è un tale "fai da te" concettuale, che cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, attesta la dominazione della ideologia dello sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.
Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata dell'espertocrazia volontarista non ha più successo, il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente resta intatto. L'ideologia dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo reclamato dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come un miraggio.

Oltre lo sviluppo
Parlare di doposviluppo non è soltanto lasciar correre l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso di implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. È parlare della situazione di coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque, per i quali il progresso è un'ingiuria e una ingiustizia, e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della Terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi e si annuncia nella diversità. Il doposviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modalità di espansione collettiva nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere materiale distruttore dell'ambiente e del legame sociale. L'obiettivo della buona vita si declina in molti modi a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire nuove culture. L'importante è esprimere la rottura con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, può trattarsi soltanto di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si possono trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un doposviluppo. Bisogna al tempo stesso pensare e agire globalmente e localmente. È solo nella mutua fecondazione dei due approcci che si può tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Il doposviluppo e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili attualmente e mettere in opera alternative concrete localmente sono prospettive complementari.

Decrescere e abbellire
La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell'umanità.
La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali. Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita. In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di crescita negativa! Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto in una "società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare. Ispirandosi alla carta su "consumi e stili di vita" proposta al Forum delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il tutto in un programma di sei "R": rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi sono i sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile. Rivalutare significa rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono essere cambiati. Ristrutturare significa adattare la produzione e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori. Per ridistribuire s'intende la ridistribuzione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Per fare ciò bisogna riutilizzare gli oggetti e i beni d'uso invece di gettarli e sicuramente riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo.Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare di un'altra crescita in vista del bene comune, se il termine non fosse troppo alternativo.
Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente, di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del pil. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C'è ancora molta strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità, senza parlare dei progressi da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante dell'ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un "diritto di inventario" sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l'esercizio della cittadinanza.
Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d'altra parte), quanto di riannodare il filo della loro storia rotto dalla colonizzazione, dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale. La riappropriazione delle loro identità è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di certe colture destinate all'esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone ecc., ma anche fiori recisi, gamberi di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come può risultare necessario aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare inoltre a rinunciare all'agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale senso può assumere per loro la costruzione del doposviluppo. In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo può ne deve apparire come una impresa paternalista e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitaria…). Il rischio è tanto più forte in quanto gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario economico, e in particolare l'immaginario dello sviluppo, è senza dubbio ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Penano che l'economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio lei che la genera. Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema.Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa o addirittura dionisiaca.

Sopravvivere localmente
Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, local exchange trading system (lets) e systèmes d'échanges locaux (sel), autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo sostenere o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto come forme di resistenza e di dissidenza al processo di aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare di proporre un modello unico, noi ci sforziamo di realizzare in teoria e in pratica una coerenza globale dell'insieme di queste iniziative. Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno trovato all'inizio invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di un insieme più vasto. L'impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è e dev'essere diverso dal mercato mondializzato. È questo ambiente dissidente che bisogna definire, proteggere, conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la propria nicchia nell'ambito del mercato mondiale, bisogna militare per allargare e approfondire una vera società autonoma ai margini dell'economia dominante. Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita e spesso sleale non è l'universo dove di muove e deve muoversi l'organizzazione alternativa. Essa deve cercare una vera democrazia associativa per sfociare in una società autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte le parti. Come nell'informale africano, nutrire la rete dei "collegati" è la base del successo. L'allargamento e l'approfondimento del tessuto di base è il segreto del successo e deve essere il primo pensiero delle sue iniziative. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema. Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere in atto qualcos'altro, di vivere altrimenti: di lavorare o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi della moneta anche per servirsene per un uso diverso, secondo una logica altra rispetto a quella dell'accumulazione illimitata e dell'esclusione massiccia dei perdenti. Al Sud, dove l'economia mondiale, con l'aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha cacciato dalle campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e stiparli nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l'alternativa è spesso una condizione di sopravvivenza. I "naufraghi dello sviluppo", abbandonati a loro stessi, condannati nella logica dominante a scomparire, non hanno scelta per restare a galla che organizzarsi secondo un'altra logica. Devono inventare, e almeno alcuni inventano effettivamente, un altro sistema, un'altra vita.
Questa seconda forma dell'altra società non è totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni. Innanzitutto, perché l'autorganizzazione spontanea degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea. Ci sono aspirazioni, progetti, modelli, o anche utopie che informano più o meno questi "fai da te" della sopravvivenza informale. Poi, perché, simmetricamente, gli "alternativi" del Nord non sempre hanno possibilità di scegliere. Anch'essi sono spesso degli esclusi, degli abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla disoccupazione, o semplicemente degli esclusi per disgusto… Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente. Questa coerenza d'insieme realizza un certo modo, certi aspetti che François Partant attribuiva alla sua proposta centrale: dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti coloro che lo desiderano la possibilità di vivere del loro lavoro, producendo, al di fuori dell'economia di mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò di cui ritengono di aver bisogno. Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili passa per la presa di coscienza del significato storico di queste iniziative. Numerose sono già state le riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese alternative isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare le capacità di recupero del sistema. Per contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello permanente a cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra essenziale per condurre la battaglia del buon senso.

mercoledì 19 settembre 2012

da "Laborintus" di Edoardo Sanguineti


s.d. ma 1951 (unruhig) καί κρίνουσϊν e socchiudo gli occhi
οί πολλοί e mi domanda (L): fai il giuoco delle luci?
καί τά τής μουσικής έργα ah quale continuità! andante K. 467
qui è bella la regione (lago di Sompunt) e tu sei l’inverno Laszo veramente
et j’y mis du raisonnement e non basta et du pathétique e non basta
ancora καί τά τών ποιητών and CAPITAL LETTERS
et ce mélange de comique ah sono avvilito adesso et de pathétique
una tristezza ah in me contengo qui devoit plaire
sono dimesso et devoit même sono dimesso, non umile
surprendre! ma distratto da futilità ma immerso in qualche cosa
and CREATURES gli amori OF THE MIND di spiacevole realmente
très-intéressant mi è accaduto dans le pathétique un incidente
che dans le comique mi autorizza très-agréable
a soffrire!
                                        e qui convien ricordarsi che Aristotile
sí c’è la tristezza mi dice c’è anche questo ma non questo
soltanto, io ho capito and REPRESENTATIONS non si vale mai
OF THE THINGS delle parole passioni o patetico per significar
le perturbazioni and SEMINAL PRINCIPLES dell’animo; et πάθη
tragicam scaenam fecit πάθημα e L ma leggi lambda: in quel momento π αθητικόν
ho capito καί κρίνουσιν άμεινον egli intende
sempre di significar le fisiche and ALPHABETICAL NOTIONS affezioni
del corpo: come sono i colpi
i tormenti è come se io mi spogliassi le ferite le morti
di fronte a te
                                      et de ea commentarium reliquit
(de λ) ecc. de morte ho capito
che non avevo (coloro che non sono trascurati!) mai
RADICAL IRRADIATIONS ecco: avuto niente
e ho trovato (in quel momento); che cosa può trovare
chi non ha mai avuto niente?
                                                                            TUTTO; and ARCHETYPAL IDEAS!
this immensely varied subject-matter is expressed!
et j’avois satisfait le goût baroque de mes compatriotes!

"Bisogna restaurare l'odio di classe" di Edoardo Sanguineti

Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare. Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del mondo d’oggi: non più gli operai di Marx o i contadini di Mao, ma “tutti coloro che lavorano per un capitalista, chi in qualche modo sta dove c’è un capitalista che sfrutta il suo lavoro”. A me sta a cuore un punto. Vedo che oggi si rinuncia a parlare di proletariato. Credo invece che non c’è nulla da vergognarsi a riproporre la questione.
E’ il segreto di pulcinella: il proletariato esiste. E’ un male che la coscienza di classe sia lasciata alla destra mentre la sinistra via via si sproletarizza. Bisogna invece restaurare l’odio di classe, perché loro ci odiano e noi dobbiamo ricambiare. Loro fanno la lotta di classe, perché chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce dell’uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto? Recuperare la coscienza di una classe del proletariato di oggi, è essenziale. E importante riaffermare l’esistenza del proletariato. Oggi i proletari sono pure gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari, i pensionati. Poi c’è il sottoproletariato, che ha problemi di sopravvivenza e al quale la destra propone con successo un libro dei sogni.

martedì 18 settembre 2012

"500 anni bastano! Ora cambiamo rotta!" di Alexander Langer

Sarebbe concepibile nella Parigi del 2312 una celebrazione dei 500 anni della conquista ed unificazione napoleonica dell'Europa? O addirittura, nella Berlino del 2442, una celebrazione dei 500 anni dalla "conferenza di Wannsee", dove venne progettata l'unificazione e la risistemazione dell'Europa - soprattutto centro-orientale - sotto egemonia tedesca, con gli slavi rimessi al posto che loro spetta, ripulita da ebrei, zingari ed altre razze inferiori?
No, chiaramente non sarebbe immaginabile. Le truppe napoleoniche e le armate naziste fortunatamente hanno perso, e ciò ha aiutato la nostra coscienza a capire ed affermare che quella strada era sbagliata. In quei casi gli invasi hanno fatto abbastanza presto ad espellere gli invasori, addirittura ad invadere a loro volta... E così niente cinquecentenario, niente celebrazioni.
La "scoperta" e successiva conquista delle Americhe da parte dell'Europa, soprattutto latina, invece, senz'altro non pianificata in partenza, ha vinto, e così è diventata luogo comune delle coscienze del Nord, viene celebrata (con qualche pudore e reticenza, con qualche concessione ad una marginale cattiva coscienza, è vero, ma sostanzialmente senza presa di distanza).
Anzi, lo stesso modo di celebrarsi - con ulteriori grandi opere, enfasi di cemento... - e attraverso la perpetuazione di relazioni Nord-Sud che si muovono ancor oggi in quella continuità, e assai rivelatore e chiede che si levino forti le voci contrarie.
La conquista e la sottomissione del Sud è stata legittimata in tutti questi secoli da varie sedicenti "ragioni di superiorità" che si sono succedute nel tempo: da quella religiosa, che giustificava la cristianizzazione forzata, a quella economica e commerciale che giustificava la spoliazione di interi continenti, a quella scientifica e tecnica che doveva giustificare la loro annessione violenta al "progresso", sino alle più moderne ideologie dello "sviluppo" che con le industrializzazioni ed i più recenti "aggiustamenti strutturali" hanno guidato i processi di modernizzazione imposta. E non è detto che l'ultima e la più moderna delle ragioni per ergersi a precettori del Sud non diventi l'ambientalismo, anche quello "made by the North"!
Con qualche pudore, qualche attenuazione culturale (qualche esposizione o servizio sugli indios, in Brasile ora telenovelas...), qualche mediazione, ma nella sostanza senza alcun "pentimento", alcuna volontà di mettere in discussione questi 500 anni, i nostri governi, le nostre imprese, i nostri media ed apparati culturali si accingono a "festeggiare". Non si è avuta nemmeno la forza per un bel gesto come quello della Svizzera, che in occasione dei suoi 700 anni ha preso due limitati, ma significativi provvedimenti: una parziale remissione del debito estero (700 milioni di franchi) ed un vincolo naturalistico di alcuni suoi territori per i posteri.
E noi? ci limitiamo a fare il contro-canto o le contro-celebrazioni?
Il rischio è che anche noi, i movimenti ecologisti, di solidarietà, di cooperazione solidale, facciamo parte del copione: qualcuno deve protestare, prendersi cura degli esclusi, dare voci agli sconfitti, ai conquistati, ai sopravvissuti al genocidio ed etnocidio. Magari opporre le proprie "controcelebrazioni" a quelle ufficiali.
Lo sappiamo bene, ed è per questo che non possiamo fermarci alla critica alle celebrazioni Colombiane, nè alla semplice auto-critica storica o riscrittura della storia (magari altrettanto schematica quanto le celebrazioni, ed in tal caso non veritiera), nè ad una pura operazione culturale, affermare cioè un altro punto di vista che rimane una pietruzza decorativa ed inefficace nel pluralismo di opinioni. Dare altri e più veri nomi alle cose e cercando di generare altre consapevolezze è necessario, ma non sufficiente.
Vogliamo sviluppare - a partire da una diversa e più verace analisi - altre conseguenze (efficaci, possibilmente) ed altre alleanze. In Italia, in Europa, nel mondo. Convinti che il Cinquecentenario - e gli eventi che si situeranno in quest'anno - sia una buona occasione per "cambiare rotta", soprattutto da noi, più che da loro, e che di questo entrambi, Sud e Nord, abbiamo urgente bisogno.
Quando parliamo di "altro 1992", ci situiamo nel bel mezzo di alcune grandi scadenze mondiali dell'anno prossimo, che ci pare si intreccino direttamente con i "500 anni": la conferenza mondiale delle Nazioni Unite su "ambiente e sviluppo" (Unced, Rio de Janeiro, giugno 1992), la possibile conclusione del negoziato Gatt (su prezzi e condizioni del commercio mondiale) ed il completamento del mercato unico interno della Comunità Europea che dovrebbe avvenire alla fine dell'anno prossimo ed aprire le porte non già all'unificazione politica dell'Europa, bensì all'unificazione economica e monetaria dei 12 attuali partners della Comunità europea.
Ed è con l'occhio a questi tre eventi che vogliamo riflettere sulle relazioni Nord-Sud, come si sono consolidate in queste 500 anni, e come noi vogliamo contribuire a cambiarle.
Il superamento delle colonne d'Ercole non è più un mito positivo
L'audace superamento dei confini (dell'immaginazione prima che della navigazione..) simboleggiato da Cristoforo Colombo, in altri tempi poteva suscitare maggiori entusiasmi che oggi, nella nostra epoca che comincia ad essere segnata dalla consapevolezza della radicale crisi dell'equilibrio ecologico planetario. Superare le colonne d'Ercole del proprio mondo in altri tempi poteva far dimenticare o apparire irrilevante la violazione dei confini e l'invasione dei mondi altrui. Nell'entusiasmo per i navigatori - gli inventori, gli ingegneri, i cosmonauti... - si concentrava l'adorazione del progresso, del superamento dei limiti, dell'espansione dell'universo conosciuto e dominato attraverso i propri viaggi, commerci, guerre, tecnologie, leggi. Oggi che siamo di fronte alle conseguenze della sistematica violazione di tutti i confini, persino quelli del codice genetico della vita umana, ed alla generalizzata invasione sterminatrice dei residui mondi pre-moderni, facciamo fatica a guardare con beato ottimismo al viaggio di Cristoforo Colombo come quintessenza di progresso, di cambiamento positivo, di scoperta di "nuovi mondi". Ed in questo possiamo incontrarci, non solo per senso di solidarietà ma con piena partecipazione propria ed in nome nostro, con chi è stato "scoperto", invaso, conquistato, cristianizzato, schiavizzato, assimilato e sterminato. "Dare voce ai conquistati" e "dare voce agli obiettori di coscienza e disertori nelle file dei conquistatori" diventa un impegno comune, una voce comune.
Il Sud, nostro creditore; la questione del risarcimento
La "Campagna Nord-Sud", che insieme a diversi altri organismi ha contribuito a dare vita a questo incontro, ha da tempo capovolto l'approccio al tema classico del terzo mondo, quello del suo debito estero, con due scoperte copernicane: "pagare il debito finanziario fa male al terzo mondo e produrrebbe guasti che si ripercuotono anche sul Nord (distruggere ambiente per ricavare denaro danneggia anche noi), invece va ripianato con urgenza il comune debito ecologico, e sotto questo profilo il Nord ha debiti molto maggiori del Sud", e "il Sud è creditore del Nord" da molti punti di vista (persino finanziario, ma anche ambientale, sociale, culturale, lavorativo, sanitario, ecc.).
Di fronte alle celebrazioni oggi in vista, ed ai grandi eventi politici ed economici prima accennati, si pone con urgenza la questione dell'arresto di una politica, falsamente detta di cooperazione, e dell'esigenza di un sostanziale risarcimento che il Nord deve al Sud.
Come si può pensare che la Conferenza mondiale su "ambiente e sviluppo" non debba mettere al centro dei suoi lavori questo interrogativo? Quale negoziato, quale nuovo ordine mondiale può venir fuori tra forti e deboli, tra inquinatori ed inquinati, tra conquistatori e conquistati se non si parte dal riconoscimento della situazione reale - di debito e di credito, di torti e di ragioni - e non si decide di porvi rimedio? Che senso avrebbe la conferenza di Rio se, a 500 anni dallo sbarco degli europei in America, non sapesse gettare le basi di un nuovo ed assai diverso patto tra Sud e Nord?
Quando diciamo che il Sud è nostro creditore, non lo diciamo solo in termini morali (firmando così una modesta cambiale pagabile con qualche aggiustamento culturale verbale), ma anche in termini economici, monetari, finanziari, e diciamo da tempo che è nell'interesse anche delle popolazioni del Nord del mondo che il nostro debito venga pagato, per non spingere il Sud sulla via del massimo sfruttamento rapace delle sue risorse ed il Nord sulla via dell'ulteriore corsa al riarmo economico, tecnologico e finanziario. Non è solo questione umanitaria o ecologica o di giustizia, ma anche di salute e di benessere nostro. Aumentare i prezzi dei prodotti agricoli, soprattutto del Sud, pagare più care le risorse energetiche e le materie prime, interdire rigorosamente l'esportazione di rifiuti tossici e di prodotti chimici pericolosi, bloccare il traffico di armi, limitare la predazione dei mari, dei suoli e delle foreste del Sud da parte delle nostre industrie, far pagare caro l'inquinamento dell'atmosfera che viene dalle nostre industrie, dai nostri veicoli a motore e dai nostri riscaldamenti non significare regalare qualcosa al Sud, ma obbligare noi stessi a cercare vie più sostenibili per continuare a produrre, a scambiare, a trasportare, ad alimentarci, ad avere il necessario approvvigionamento energetico.
Questo anno 1991 si è aperto con la punizione esemplare di Saddam Hussein, la parte del Sud diventata più simile al Nord, e quindi più pericolosa. E' stato ribadito che è vietato minacciare ed invadere altri, che è vietato sterminare interi popoli (come i kurdi), che è vietato accumulare arsenali pericolosi a tutti: sacrosanti principi di un nuovo ordine mondiale.
Sappiamo come i movimenti terzomondisti fossero esitanti e divisi: nel Sud qualcuno faceva il tifo per Saddam Hussein (che era così poco convincente come campione del Sud), altri si mostravano indifferenti ed estranei, salvo forme grottesche di interventismo subalterno, di cui è simbolo l'aereo carico di soldati senegalesi pro-occidentali, precipitato durante il viaggio di rientro; nel Nord era diffuso l'imbarazzo tra due solidarietà altrettanto impossibili e la richiesta di un nuovo ordine mondiale post-blocchi, che si è dovuto constatare non ancora capace di affermarsi in modo pacifico e garantire la pace. Sui kurdi poi abbiamo sperimentato e spesso ci siamo associati ad invocazioni di eserciti di protezione, zone di sicurezza garantite dall'Ovest, di fronte alle migliaia e migliaia di morti "Sud-Sud". Come si vede, il nuovo ordine mondiale, invocato per ragioni diverse e talora contrastanti da molte parti, solo assai lentamente e contraddittoriamente riesce a farsi strada. E noi che qui parliamo della necessità di un nuovo patto Nord-Sud, a Rio de Janeiro, siamo consapevoli del rischio che questo nuovo ordine sia di nuovo autoritario e tecnocratico, anche se ammantato di ecologia: magari con le sue eco-tasse ed eco-compensazioni, e con i suoi diritti di polluzione, di prelievo, di crescita della popolazione, di pesca, di deforestazione, di stoccaggio rifiuti.... una sorta di borsa mondiale, dove tutto ha un prezzo (versione pacifica) o di poker politico-militare, dove vince il più forte ed impone le sue regole.
Perchè a Rio de Janeiro non si ripeta lo stesso copione, dobbiamo esprimere oggi un chiaro messaggio e fare del nostro meglio perchè si traduca in realtà: pagare il comune debito ecologico, a partire dal maggior debitore che è il Nord, e concordare le opportune politiche per risarcire i popoli e la natura del Sud dovrà essere, secondo noi, l'obiettivo primario della conferenza di Rio, ed è ciò che chiediamo alla Comunità europea ed ai nostri governi di portare avanti in quella sede. Ecco perché attribuiamo grande importanza alla presenza di voci non governative, dal Sud e dal Nord, in quella sede, ed ecco perchè pensiamo che - al di là di quel che la conferenza Unced sancirà, magari con un'operazione puramente cosmetica - oggi le relazioni Nord-Sud debbano essere impregnate da questi concetti. Ciò significa cambiare rotta perchè davvero "500 anni - di relazioni di dipendenza, di invasione, di omologazione, di spoliazione - bastano".
Parliamo di unificazione dell'Europa, ci si esorta a non dimenticare il Sud: guerra dei poveri tra Est e Sud? fortezza assediata? sviluppo "blindato"?
Oggi molti al Sud, soprattutto tra i governi e gli organismi di cooperazione, appaiono preoccupati che l'Europa occidentale e forse anche gli Stati Uniti d'America "dimentichino il Sud, perché si concentrano sui problemi dell'Europa dell'Est che esce dal periodo comunista. Ed in effetti: ancor prima che veniamo efficacemente chiamati in causa dal Sud, l'altra metà di noi europei - obbligata per anni ad una sorta di solidarietà coercitiva e parolaia verso il Sud, ed ora pericolosamente stufa di sentir parlare di terzo mondo - ci interpella: sembra prevalere, al momento, il tentativo di diventare rapidamente come noi, e addirittura la Corea del Sud, Singapore, Formosa vengono visti come possibili modelli!
E' difficile prospettare a questi altri europei la via classica della cooperazione, o anche quella da decenni predicata al Sud: sforzatevi, tirate la cinghia, lavorate, risparmiate, tagliate le spese inutili (cioè sociali), procedete sulla via degli aggiustamenti strutturali, entrate nel fondo monetario e presto sarete come noi. La maggior domanda di democrazia, di sviluppo, di un livello di vita "europeo" è ancor meno comprimibile che al Sud, ed al tempo stesso l'esplicita chiamata in causa della "casa comune europea" non permette all'Europa occidentale di liquidare la sua altra metà negli stessi termini che sono stati riservati al Sud del mondo. Gli immigrati che in numero via via crescente premono dal Sud e dall'est verso i paesi ricchi, sono - del resto - un pezzo di Est ed un pezzo di Sud direttamente in casa nostra. Si profila con chiarezza, anzi, è già iniziata, una "guerra tra poveri" che l'Est europeo ed il Sud del mondo (ed i loro rispettivi emigrati nei paesi occidentali) combattono e combatteranno per ingraziarsi maggiormente il Nord occidentale. Una politica delle briciole, dell'elemosina, dell'aumento dallo 0,40 allo 0,70% degli "aiuti allo sviluppo" è manifestamente improponibile.
L'unificazione repentina del mondo, dopo la caduta del muro Est/Ovest, ha immesso l'intera umanità in un sistema di vasi comunicanti. Generalizzare ed estendere a tutti gli stessi livelli di vita, di consumi, di sprechi, di inquinamento del Nord occidentale è palesemente impossibile - per ragioni ambientali molto prima che economiche o sociali.
Così ci troviamo di fronte ad una realtà nuova, ad un bivio molto chiaro:
a) o lo "sviluppo ineguale e blindato" del Nord, con marginali concessioni - magari differenziate - all'Est ed al Sud;
b) o un radicale "cambio di rotta" verso scelte di condivisione e di equità.
Oggi appare senz'altro più probabile il primo dei due scenari: il Nord continuerà a voler crescere e svilupparsi, facendo debiti sempre maggiori a carico del Sud, e della natura, e delle future generazioni, rimandano più in là possibile il pareggio dei conti o, meglio, la bancarotta. Più in là si rimanda il pagamento dei conti, più disastrosamente impagabili risulteranno.
Tale scelta, che oggi - ripeto - appare prevalente, non solo è insana dal punto di vista ecologico, e quindi del benessere della gente nel Nord, ed ingiustificabile dal punto di vista della giustizia; per essere attuata chiede anche un alto livello di militarizzazione e di isolamento rispetto al resto del mondo, chiede - sostanzialmente - nuovi e più forti muri, eretti dalle isole occidentali di sviluppo: pensiamo al rapporto (speriamo ora sull'orlo del cambiamento) tra Israele ed i suoi vicini interni ed esterni, pensiamo al confine tra Usa e Messico, o al "muro" che l'Italia ha eretto verso gli albanesi, per non dover sempre pensare solo al Sudafrica.
Ma dall'interno stesso del Nord si levano voci e movimenti sempre più consistenti per chiedere e proporre cambiamenti di rotta: vivere in una fortezza assediata, magari privilegiata, non è bello per nessuno e comporta grande precarietà; ad assediati ed assedianti conviene di più un'altra scelta, quella del risanamento, del riequilibrio, del risarcimento, della giustizia.
Noi vogliamo fare dell'"altro 1992" un'occasione per rivedere radicalmente il rapporto tra assediati ed assedianti, in una prospettiva di soluzione durevole ed equa, che non può basarsi semplicemente sugli odierni rapporti di forza, con un elevato rischio per entrambi. E sarà in questa direzione che anche i movimenti Nord-Sud hanno da dire la loro sull'unificazione europea, e sul nuovo ordine mondiale. Quale sia la nostra scelta, è ormai chiaro a tutti.
Con chi possiamo fare che cosa?
Visto che noi qui non rappresentiamo i governi e le istituzioni, ma siamo parte di variegati movimenti, dobbiamo individuare strumenti di intervento che non siano solo petizioni ai governanti o raccomandazioni alla Conferenze internazionali, ma anche attivabili direttamente dai cittadini.
Tra questi vorrei ricordarne solo alcuni, in conclusione, ed a titolo puramente di esempio, visto che i diversi gruppi di lavoro vi si dedicheranno con attenzione e competenza:
a) importanza crescente potranno assumere le nostre scelte sul piano dei consumi, e dell'uso dei risparmi: i modi in cui noi ci trasportiamo, edifichiamo, ci alimentiamo, ci vestiamo, ci arrediamo la casa, imballiamo le nostre merci, curiamo le nostre malattie... e affidiamo i nostri risparmi, ha un'incidenza immediata verso gli equilibri sociali e naturali tra Nord e Sud. Qui si apre un vasto campo per "cambiare rotta";
b) la nostra accresciuta attenzione, conoscenza e solidarietà verso i popoli indigeni del Sud, che appaiono oggi più visibili sulla nostra scena, ci può portare a valutare assai più positivamente - e quindi forse vedere come "aiuto al (nostro) sviluppo" - stili di vita, ritmi temporali, economie "di vita" (non di profitto), diversità culturali, patrimoni di sapienza, ecc., e rendere le nostre vite individuali e comunitarie più esposte ad una sorta di "penetrazione dal Sud";
c) crescente rilevanza possono avere dei "patti diretti", delle alleanze Nord-Sud, come per esempio l'"alleanza per il clima" o analoghi rapporti di cooperazione (sostenibile) diretta, tra comunità locali del Nord e del Sud, e con implicazioni dirette verso i nostri modelli di sviluppo e di vita: impegnarci a promuovere dei cambiamenti al Nord, in un rapporto diretto e reciproco tra Nord e Sud, è una strada che vale la pena esplorare e praticare di più. E perchè non praticarla a tre, tra interlocutori rispettivamente del Nord, del Sud e dell'Est?
d) gli immigrati che rappresentano la diretta sporgenza ed ingerenza del Sud (e dell'Est) nel nostro mondo, sono oggi anche il primo banco di prova di tutti i nostri discorsi sulla cooperazione equa e solidale e sul risarcimento, e possono diventare un importante "ponte" tra le nostre società e le loro comunità di provenienza. Perchè non spingerci coraggiosamente avanti in quella direzione? Sarebbe un contributo assai concreto ad un "altro 1992".
In chiusura: da 500 anni conduciamo, con intensità via via crescente, una "scoperta" che poi si trasforma in conquista e addirittura in sterminio verso i popoli indigeni del Sud. Da 200 anni circa conduciamo, con intensità via via crescente, un'analoga campagna di scoperta, di conquista e di sterminio verso la natura di cui siamo parte.
Per poter avere un futuro vivibile, è essenziale che noi diciamo "basta" - o che perdiamo queste nostre guerre: vincerle sarebbe esiziale anche per noi del Nord.

lunedì 17 settembre 2012

"Acquistando un'enciclopedia" di Jorge Luis Borges


Qui la vasta enciclopedia di Brockhaus,
qui i molti e fitti volumi e il volume dell'atlante,
qui la devozione della Germania,
qui i neoplatonici e gli gnostici,
qui il primo Adamo e Adamo di Brema,
qui la tigre e il tartaro,
qui la scrupolosa tipografia e l'azzurro dei mari,
qui la memoria del tempo e i labirinti del tempo,
qui l'errore e la verità,
qui l'immensa miscellanea che sa più di qualsiasi uomo,
qui la somma della lunga veglia.
Qui anche gli occhi che non servono, le mani che non trovano,
le illeggibili pagine,
la dubbiosa penombra della cecità i muri che si allontanano.
Però qui anche un'abitudine nuova
in questa abitudine antica, la casa,
una gravitazione e una presenza,
il misterioso amore delle cose
che ci ignorano e si ignorano.

sabato 15 settembre 2012

"Ulisse coperto di sale" di Roberto Roversi e Lucio Dalla

Vedo le stanze imbiancate
tutte le finestre spalancate
neve non c'è, il sole c'è,
nebbia non c'è, il cielo c'è!

Tutto scomparso, tutto cambiato
mentre ritorno da un mio passato
tutto è uguale, irreale
sono Ulisse coperto di sale!

E' vero la vita è sempre un lungo, lungo ritorno
ascolta io non ho paura dei sentimenti
e allora guarda, io sono qui,
ho aperto adagio adagio con la chiave
come un tempo
ho lasciato la valigia sulla porta
ho lasciato la valigia sulla porta.

Ho guardato intorno prima di chiamare, chiamare
non ho paura, ti dico
che sono tornato per trovare, trovare
come una volta
dentro a questa casa
la mia forza
come Ulisse che torna dal mare
come Ulisse che torna dal mare.

Una mano di calce bianca
sulle pareti della mia stanza
cielo giallo di garbino,
occhio caldo di bambino!

Tiro il sole fin dentro la stanza
carro di fuoco che corre sul cuore
perchè ogni giorno è sabbia e furore
e sempre uguali non sono le ore!

Voglio dirti
non rovesciare gli anni come un cassetto vuoto,
ascolta
anche i giovani non hanno paura di un amore
e mai, mai, mai strappano dal cuore i sentimenti
io ti guardo
la tua forza è un'ombra di luce
la tua forza è un'ombra di luce.

La mano affondata nel vento del vento...
aria calda, urlano quelle nostre ore
strette in un pugno
urlano come gli uccelli,
i sassi si consumano, non si consuma la vita
la giornata è uguale a una mano che è ferita
io sono Ulisse al ritorno
Ulisse coperto di sale!
Ulisse al principio del giorno!

Considerazioni libere (307): a proposito di una guerra che potrebbe scoppiare...

Nel 1914, almeno secondo il mio libro di testo delle scuole medie, l'omicidio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo fu la miccia che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Non fu così: francamente alla corte di Vienna non importava molto di quel principe che si era fissato di sposare la donna che aveva scelto lui e non quella che era stata scelta per lui e che quindi non poteva garantire la discendenza della dinastia asburgica. Vi consiglio di leggere Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, un'opera teatrale praticamente non rappresentabile - tentò l'impresa molti anni fa Ronconi a Torino - per la sua epica lunghezza: viene descritto come la società austriaca fosse ormai pronta per la guerra e che l'episodio di Sarajevo fu il pretesto da tempo atteso. L'opera di Kraus è interessante perché ci fa vedere, con la vivacità della testimonianza diretta, che la guerra era un avvenimento atteso, auspicato, quasi agognato, non solo - e comprensibilmente - dalle élite politiche, militari ed economiche del paese, ossia da coloro che avevano solo da guadagnarci, ma da larghissimi strati della popolazione, ossia quelli che la guerra l'avrebbero fatta davvero e che invece avevano tutto da perderci. E lo stesso avvenne in tutti gli altri paesi europei; come hanno sottolineato gli storici più attenti di quel periodo - a partire da Benedetto Croce - la guerra finì per essere inevitabile perché l'idea della guerra si era ormai diffusa, quasi in maniera endemica, tra i popoli europei. In Italia ad esempio l'adesione all'idea intervista fu animata da un fermento culturale e artistico che ha lasciato un'eredità importante e da un forte idealismo: la bandiera del ritorno all'Italia di Trento e Trieste non fu soltanto un felice espediente retorico, di stampo patriottardo, sfruttato dalle classe dirigenti, ma fu un sentimento diffuso e sinceramente sentito da tanti italiani.
Scusate se l'ho presa un po' alla lontana, ma ciclicamente negli ultimi anni, almeno a partire dal 2001, un clima favorevole alla guerra, simile a quello vissuto dall'Europa all'inizio del secolo scorso, si è affermato anche nel nostro mondo. Dopo l'attentato alle Torri gemelle fu facile per le classi dirigenti degli Stati Uniti portare quel paese - in cui storicamente tende a prevalere, nel profondo, uno spirito isolazionista - verso la catastrofe dell'Afghanistan prima e dell'Iraq dopo. Sinceramente temo che qualcosa di simile stia succedendo anche adesso. Quello che è successo in questi ultimi giorni tra l'Egitto e la Libia, che è successo in questo venerdì in praticamente tutti i paesi dell'Africa settentrionale e del Medio oriente e quello che succederà - temo - nei prossimi giorni non è il frutto di una ribellione spontanea, ma il risultato di una pianificazione molto astuta. I giorni non sono scelti a caso: è l'anniversario dell'11 settembre, c'è la visita di Benedetto XVI in Libano, tra pochi giorni sarà il trentesimo anniversario del massacro di Sabra e Chatila, tra poche settimane si voterà per il presidente degli Stati Uniti e la storia di Carter è ben nota, non solo ai media occidentali: evidentemente ce n'è abbastanza per dar fuoco alle polveri. Non so se chi ha pianificato tutto questo ha pensato anche di uccidere l'ambasciatore Stevens, forse no, perché non credo sia facile immaginare che un diplomatico così importante sia praticamente indifeso il giorno dopo l'11 settembre: temo sia stato, dal loro punto di vista, un incredibile colpo di fortuna.
Le anime peggiori dell'integralismo sono in movimento, alcune probabilmente - di parte islamista - sapevano che qualcosa sarebbe successo ed erano pronte, molte altre - occidentali e islamiche - erano semplicemente in sonno e l'attentato di Bengasi è stata la scintilla che le ha messe in moto. Era prevedibile la reazione di Romney, che spera di incassare i dividendi dell'operazione pianificata dall'altra parte del mondo - come successe a Reagan nell'autunno del '74 - così come era prevedibile la reazione della destra conservatrice di tutto il mondo, che ha fatto della paura dei musulmani uno dei propri punti di forza e uno dei più efficaci spunti ideologici. Per l'Italia basta dare un 'occhiata ai giornali "lepenisti" o ai titoli degli editoriali di Magdi Allam. Francamente non mi aspettavo nulla di meno da tutti costoro.
Poi ci sono persone insospettabili schierate a favore della guerra: nella mia bacheca di Facebook mi è capitato di leggere il commento di una persona - che si definisce atea e socialista - in cui sostiene la superiorità della nostra Civiltà (naturalmente la maiuscola è sua), rispetto alla loro; quando ho provato a spiegargli che quell'idea, oltre a essere sbagliata, è pericolosa, è arrivato a citare come prove della sua teoria Aristofane e Plauto, capaci di ironizzare e di prendersi gioco di qualunque cosa, mentre nell'islam non ci sarebbe questa capacità ironica e umoristica. Al di là di queste idiozie, che pure vengono da una persona con cui condividevo molte idee - e che quindi mi preoccupano perché sono il segno che l'idea della distinzione tra "noi" e "loro" ha fatto grandi passi in avanti - la cosa che mi ha lasciato più perplesso e che mi ha fatto molto temere è la timidezza con cui noi abbiamo difeso le ragioni del dialogo. Prendo sempre come riferimento il gruppo dei miei "amici" su Facebook, che naturalmente - a parte alcuni casi sporadici - è fatto per lo più da persone che la pensano in maniera simile a me. L'11 settembre in tanti - e anch'io l'ho fatto - hanno ricordato il colpo di stato in Cile e l'uccisione di Salvador Allende, alcuni hanno perfino ricordato solo quello e non l'"altro" 11 settembre; in questi giorni questo pubblico, che pure non ha problemi a schierarsi su fatti accaduti quasi quarant'anni fa, è stato in gran parte zitto sui fatti successi a Bengasi e su quello che sta succedendo in Medio oriente. Non pretendo che la mia bacheca sia lo specchio sociologico di una parte del popolo della sinistra, ma questo fatto mi è sembrato comunque significativo. La stessa timidezza ho colto in molti esponenti politici e in tanti intellettuali, i cui discorsi di questi giorni sono generici e di maniera. Per non parlare del dibattito a sinistra tutto imperniato sul fondamentale tema delle primarie.
Al di là degli estremisti schierati lancia in resta, mi fa paura questa timidezza e mi fa paura il prevalere della realpolitik, che ho sentito emergere in troppi commenti. Qualcuno dice che in fondo quando c'erano Mubarak, Ben Alì, perfino Gheddafi, nessun ambasciatore occidentale è mai stato ucciso e il primo corollario di questa tesi è che, a questo punto, è meglio evitare inutili rischi in Siria e tenersi l'"usato sicuro" Assad. Io su questo punto non riesco proprio a convincermi, in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Yemen prima della "primavera araba" c'erano delle dittature e io continuo a pensare, parafrasando un generale statunitense, che "l'unico dittatore buono è il dittatore morto" o almeno imprigionato, per non turbare troppo i maniaci del politically correct. Personalmente ho sempre considerato una pericolosa illusione l'idea che la fine di quei regimi avrebbe significato il sorgere di società democratiche perfettamente funzionanti: non è avvenuto neppure in Europa, quando sono nate le democrazie parlamentari. Alla guerra si può arrivare per il prevalere dell'estremismo fanatico - da noi e da loro, non ci sono troppe differenze - ma anche per un eccessivo realismo. Io temo che qualcuno pensi che dalla crisi si potrebbe uscire definitivamente soltanto con una guerra; è già successo, negli Stati Uniti, al di là dell'indubbio valore politico e sociale che ebbe il new deal per ricostruire un paese logorato dalla crisi del '29, fu la seconda guerra mondiale a far uscire quel paese dal periodo più tragico della loro storia. Adesso non sarebbe così, ma temo che qualcuno pensi che l'esperimento potrebbe essere tentato.
Tanto più la situazione è difficile quanto più abbiamo bisogno di parlare ai timidi e ai realisti - con i fanatici è inutile parlare, non sono abituati ad ascoltare. Non diamo per persa la carica rivoluzionaria che c'è stata e c'è ancora in quel fenomeno complesso che ci siamo abituati a chiamare "primavera araba". Io pensavo allora - e lo penso tanto più ora - che noi non abbiamo capito del tutto cosa c'era dietro quel movimento: non c'era un "terzo stato", una classe media che non si accontenta più delle proprie ricchezze e aspira ad assumere un ruolo nella vita politica del proprio paese; la "primavera araba" non è la rivoluzione francese. La "primavera araba" è la rivolta di una plebe, di un sottoproletariato - trovate voi il termine che più si addice alle vostre categorie politiche - di persone povere che non ce la fanno più e che trovano insopportabili le differenze di ricchezza tra loro e i pochissimi ricchi dei loro paesi e i tanti "ricchi" - a loro appariamo così anche noi che non ci riteniamo tali - che vedono nell'occidente. Le folle arabe che hanno riempito le piazze delle loro città chiedevano prima di tutto pane e poi anche democrazia, anche perché avevano visto che le dittature avevano peggiorato le loro condizioni economiche, in balia di una classe sempre più ristretta di privilegiati. Noi siamo intervenuti per assicurare loro la democrazia - e abbiamo fatto bene, lo ripeto - ma non abbiamo fatto nulla per assicurare a quelle masse di giovani la possibilità di un futuro diverso.

venerdì 14 settembre 2012

da "Ventuno variazioni sul tema «la posta»" di Reiner Kunze


(alla morte)

Una mattina
suonerà alla porta
con l'uniforme di postino.

Io la
smaschererò.

Le dirò: aspetta finché
non sarà passato il postino.

giovedì 13 settembre 2012

Considerazioni libere (306): a proposito di alcuni rischi molto concreti...

Se non ci fosse stato l'attacco di un commando terrorista contro il consolato degli Stati Uniti a Bengasi, con la morte dell'ambasciatore Stevens, i telegiornali di ieri avrebbero potuto annunciare con maggior enfasi che l'Europa si avvia ormai verso la fine della crisi. A proposito non eravamo noi quelli del "sol dell'avvenir"? "Monsignore, qui si bara, i comunisti siamo noi", come disse Peppone, mentre don Camillo spiegava che Gesù aveva scelto di nascere come un "proletario". Ad ogni modo, la Corte costituzionale tedesca ha finalmente deciso che la Germania può finanziare il fondo salva-stati; oggi la Spagna, e domani l'Italia, potranno chiedere che il fondo acquisti i loro titoli di stato, in cambio del commissariamento da parte dei funzionari mandati da Draghi. Per l'Italia, a dire la verità, non ci sarebbe un gran cambiamento, visto che Monti assolve già, con lodevole precisione, a questo compito.
Nessuno parla ormai più della Grecia. Delle due l'una: o in quello sfortunato paese ormai hanno risolto tutto, la crisi che è cominciata prima è già finita, i greci sono già fuori dal tunnel, dove tra poco li raggiungeremo anche noi italiani, oppure i soloni di Francoforte hanno già dato per perso quel paese, che è abbastanza debole per fallire. Comprensibilmente, visto che che è sempre spiacevole turbare l'ordine costituito, quasi nessuno ha dato rilevanza a questa notizia. Il Global Financial Integrity, che è un'organizzazione non governativa molto autorevole e indipendente, ha presentato uno studio in cui si spiega che negli ultimi due anni sono arrivati in Grecia 200 miliardi di dollari di denaro "sporco", per alimentare l'economia sommersa del paese, tra cui naturalmente anche la criminalità organizzata. Nello stesso rapporto si dice che dal 2003 a oggi 509 miliardi di dollari sono entrati e usciti in maniera illecita da quel paese, spesso avendo come punto di partenza o come destinazione i tanti paradisi fiscali che ci sono nel mondo. La cifra è significativa, basti considerare che il pil annuo della Grecia è di circa 300 miliardi di dollari e naturalmente tutti questi soldi non sono passati per il fisco. La cosa più significativa è che fino al 2009 i soldi "sporchi" uscivano dalla Grecia, mentre da quando c'è la crisi tendono a entrarci: c'è una relazione diretta, anche se non causa-effetto, tra l'aggravarsi della crisi e la crescita dell'economia illegale.
Questi dati segnalano un rischio molto elevato: negli stati più deboli e periferici dell'Europa la liquidità sarà essenzialmente legata ai traffici dell'economia illegale. Già nel 2009 l'unità dell'Onu contro la criminalità organizzata aveva lanciato alcuni chiari segnali di allarme: istituti di credito in crisi di liquidità potrebbero decidere di finanziarsi con denaro di dubbia provenienza e frutto di attività di riciclaggio. Pensate cosa può succedere in Italia dove già una parte significativa del paese è controllata da grandi organizzazioni criminali e dove queste rappresentano per molte aziende l'unico modo di accedere al credito; un paese sempre più avvitato nella crisi diventerebbe preda di strutture illegali che sono già ben inserite nella vita economica e che non aspettano altro di completare i loro acquisti. Di questo passo rischiamo che la mafia della lupara diventi un fenomeno quasi irrilevante, perché la partita vera si giocherà su altri tavoli. Anche il dibattito sulla trattativa tra lo stato e la mafia rischia di diventare preistorico, perché a quel punto la mafia non avrà nemmeno più bisogno di trattare.
C'è a questo punto un ulteriore rischio: che garanzie ci sono che i soldi che arriveranno da Francoforte per salvare le banche europee e gli stati sempre più indebitati non vadano a finire nelle mani di chi controlla questa economia parallela? Purtroppo le vicende italiane ancora una volta non possono che farci temere il peggio: quanti soldi destinati alla ripresa del Mezzogiorno sono finiti nelle casse di mafia, camorra e 'ndrangheta? Qui alla periferia dell'impero rischiamo concretamente di essere strozzati tra le ricette ultraliberiste dei funzionari della troika e le attività illegali dei nuovi capi della criminalità organizzata, l'unica ad avere i capitali necessari per operare in tempo di crisi.
Mi sembrerebbe un bel tema di campagna elettorale.

mercoledì 12 settembre 2012

la "nuvola" della mia tesi...

Ho scoperto di poter fare la cloud della mia tesi "Il filosofo della polis. Il pensiero politico di Protagora"...

Considerazioni libere (305): a proposito di non-primarie...

Da alcuni giorni è ufficialmente cominciata la "campagna elettorale" per le primarie del centrosinistra. Ci sono ancora punti - non irrilevanti - che devono essere chiariti, ma certamente i due candidati più forti, Bersani e Renzi, hanno cominciato a girare l'Italia, partendo dalle fu feste dell'Unità per presentare le proprie proposte ai potenziali elettori del centrosinistra. Mi pare partecipi anche Vendola e, se non ho capito male, ci sarebbe anche Tabacci: questi due comunque sono destinati a essere figure di contorno, come altri che immagino si candideranno, "un po' per celia, un po' per non morire".
Visto che queste primarie, nel bene e nel male, saranno l'evento più significativo nel campo del centrosinistra per i prossimi mesi, temo che dovrò tornare a parlarne. Fin da ora però voglio mettere in luce una contraddizione profonda, che - almeno a mio parere - rende di fatto inutili queste primarie. Vediamo cosa è successo nei mesi scorsi in Francia, dove le primarie ci sono state e sono state un successo, per il Partito socialista e per il candidato che le ha vinte. Gli elettori di sinistra francesi sapevano che partecipando alle primarie avrebbero scelto il candidato del centrosinistra alle successive elezioni presidenziali, non c'erano dubbi che il candidato socialista, chiunque fosse, sarebbe arrivato al secondo turno; il candidato della gauche più radicale, quello dei verdi e quelli delle altre forze di sinistra hanno partecipato alle presidenziali per influenzare con il loro risultato quello che sarebbe stato il vincitore annunciato del loro schieramento. Nelle prossime settimane in Italia sceglieremo il candidato del centrosinistra; realisticamente questo schieramento molto difficilmente avrà i voti per governare da solo, ma sarà necessario allearsi con una parte del centrodestra, che più pudicamente continuiamo a chiamare centro moderato, ossia Casini (e Cuffaro, ma questo è un problema che pare indelicato porre). Non è fantapolitica, è quello che ha detto, con molta chiarezza, Bersani in tutte le occasioni ufficiali, dalla presentazione della carta d'intenti - di cui ho già parlato in un'altra "considerazione" - al discorso di chiusura della festa di Reggio. E' quello che dice anche Casini, con comprensibile minor chiarezza. Con tutta evidenza a quel punto il prossimo presidente del consiglio non sarà né il candidato del centrosinistra - vincitore delle primarie - né il candidato del centrodestra moderato, ma sarà un terzo che non ha partecipato alle elezioni, che sia Monti o che sia Passera in questo momento poco importa.
Allora a che cavolo servono le primarie? A eleggere il "super-segretario" del centrosinistra? E' un ruolo che non esiste e che non esisterà neppure in futuro. A rifare il congresso del Pd? Se avete questa esigenza, rifatelo pure il congresso, ma non chiamatelo primarie. A me che non sono del Pd non interessa partecipare a un loro congresso e francamente non capisco perché il leader di un partito lo dovrebbero scegliere persone che non aderiscono a quel partito. Serve a dare maggior visibilità nazionale a Renzi? E' un problema suo, non di tutto il centrosinistra.
Io se il mio voto fosse servito a designare il candidato vero della coalizione di centrosinistra probabilmente alle primarie ci sarei anche andato, probabilmente avrei votato per un candidato minore, magari uno di sinistra, se ci sarà, uno di quelli che non vincerà, perché vanno di moda i candidati non di sinistra. Ma così non vedo davvero perché dovrei andarci. Ma, al di là di quello che farò o non farò io - che è giustamente irrilevante per Bersani e per Renzi - mi preoccupano un po' queste non-primarie. Cosa succederebbe se vincesse Renzi - come peraltro sperano tutti quelli della destra lepenista - o se questi avesse un risultato molto significativo? Il Pd sarebbe in ginocchio e con il Pd il centrosinistra, non riuscirebbero a riprendersi prima delle elezioni, favorendo ulteriormente il centrodestra, moderato e lepenista. A pensarci, un bel capolavoro.

martedì 11 settembre 2012

"9/11" di Agneta Falk


I
Dal nulla due uccelli d’argento.
le Torri Gemelle collassano,
ora Ground Zero, un grande buco niente.
Dopo, lui dice: "sei con noi o contro di noi".

II
Era un brav’uomo, era una brava donna.
Lei voleva il meglio per tutti, lui voleva
il meglio. Lui amava i suoi bambini. Lui mi telefonava due volte al giorno,
lei mi telefonava quattro volte al giorno. Era un così bravo figliolo,
lei era una brava figlia. Lui viveva per la sua famiglia,
lei viveva in ufficio. Lui mi preparava sempre la colazione.
Lei aveva un futuro così luminoso. Lui aveva solo venticinque anni.
Lui non ha mai parlato male di qualcuno, lei parlava poco.
Lei viveva in questo paese soltanto da cinque anni
Lui era un buon americano. Lei era una buona cristiana.
Lui era un buon musulmano. Lui era un buon ebreo. Lei era
una buona cattolica. Lei aveva appena avuto un bambino. Lui si era appena sposato.
Lei viveva con la sua famiglia. Lui era sempre il primo ad arrivare in ufficio.
Lei era sempre l’ultima ad uscire. Lui era il migliore amico, padre, figlio del mondo.
Lei era la migliore madre, figlia, amica del mondo. Lei era la sola figlia che avevo.
Lui era il solo figlio che avevo. Lei era buona. Lui era buono.
Lei era buona. Lui era buono. Lei era buona. Lui era buono.

III
Ahmed è appena uscito di casa quando una bomba cade
con erronea precisione e spazza via tutta la sua famiglia.
"Questa terra moribonda mi è testimone, non avevo fatto nulla",
dimena le braccia, il suo cuore pieno buchi.
Domani nessuno riderà.
Zargi ha venduto sua figlia per un sacco di farina
a qualcuno che è passato bramando i suoi occhi verdi.
Ora mangiano in silenzio, mentre uccelli di metallo sopra la testa
spalancano i loro becchi e vomitano i loro lucenti, sputi perforanti
ancora e ancora, trasformando tutto il territorio afgano Ground Zero
Qui non ci sono ricompense quando muori, neppure un udibile
"Mi dispiace". Ed ora entro io stessa nella poesia perché voglio
penetrare l’occhi cieco del mondo, scoprire il velo che ci
separa da loro e dare un nome ad ogni uomo, donna e bambino,
che contro ogni pronostico continuano a costruire e vivere sulla sporcizia e sulla speranza.

lunedì 10 settembre 2012

Considerazioni libere (304): a proposito di un uomo in un'ambasciata...

Faccio un passo indietro. A cavallo del ferragosto, le impigrite redazioni dei giornali e delle televisioni di tutto il mondo si sono trovate di colpo a commentare la minaccia del governo inglese di prendere d'assalto l'ambasciata dell'Ecuador a Londra per arrestare Julian Assange, che si era rifugiato lì già dal mese di giugno.  Forse lo avrebbero fatto anche prima, ma avevano dovuto aspettare la fine della pax olimpica per intervenire con tale ferma decisione. Qualche reporter di assalto pregustava già lo scoppio di una breve e intensa guerra sudamericana - con annessa vacanza in qualche resort di lusso per seguire le truppe britanniche - ma naturalmente Cameron e il suo ministro degli esteri Hague, che ha gestito direttamente il caso, hanno dovuto prontamente rinfoderare la spada che avevano estratto per scimmiottare zia Margaret: qualche paziente funzionario del Foreign office ha loro spiegato che le ambasciate godono di speciali privilegi e che attaccarne una, tanto più di un piccolo paese dell'America del sud, sarebbe stato giudicato sconveniente - e antisportivo - perfino nei circoli più aristocratici di Londra. Al di là della brutta figura fatta dal governo inglese la vicenda di Assange merita una qualche riflessione in più, almeno per due aspetti molto diversi tra di loro.
Come è noto Assange è stato il cofondatore ed è la figura mediaticamente più rappresentativa di Wikileaks. Mi è già capitato di scrivere una breve "considerazione" sul tema - la nr. 184 - nel dicembre del 2010, quando è scoppiato il caso. Naturalmente mi fa piacere se andrete a leggerla - o rileggerla - ma sostanzialmente dicevo che ho un'opinione favorevole nei riguardi di Wikileaks e credo sia importante il lavoro fatto dalle persone che hanno costruito e alimentato quel sito; la penso ancora così e penso anche che, per quanto siano preziose le prove fornite dal sito, molti dei cosiddetti segreti non lo siano affatto: si tratta semplicemente di fatti già raccontati dai mezzi di informazione e dagli intellettuali non aprioristicamente schierati con i potenti di turno.
E' altrettanto noto che il governo della Gran Bretagna dice che vuole arrestare Assange soltanto perché questi è accusato di violenza sessuale in Svezia. Anch'io sono di quelli che pensano che una volta che Assange sia stato arrestato, in Svezia o in Gran Bretagna o in qualunque altro paese del mondo per un reato qualsiasi, compreso il furto di caramelle, esista il pericolo reale e concreto che venga immediatamente estradato negli Stati Uniti, al cui establishment politico e militare non importa nulla delle caramelle - figurarsi dei diritti delle donne violentate - ma che accusa Assange di cospirazione e di tradimento e probabilmente immagina di riuscire a sapere quali siano le vere fonti di Wikileaks, visto che è piuttosto incredibile che il soldato Bradley Manning sia riuscito da solo a fare un tale lavoro. Ma visto che la giustizia degli Stati Uniti ha mostrato qualche "difetto" quando i capi di imputazione sono il terrorismo e la cospirazione, ad esempio considerando legittimo l'uso della tortura, è naturale che noi democratici protestiamo affinché Assange non venga lasciato nelle mani, non proprio amichevoli, dei giudici statunitensi. Non sono più d'accordo invece quando sento dire - ed è capitato spesso in questi giorni, soprattutto dalla stessa parte "democratica" - che le donne che hanno accusato Assange stanno mentendo, oppure che sono state ingannate o ancora che le loro accuse sono state usate - in Italia ormai diciamo così - "a loro insaputa"; la cosa più stupida sentita è che forse la loro definizione di stupro era imprecisa. Chi decide la definizione di stupro? Troppo spesso la decidono gli uomini che in genere sono piuttosto autoassolutorii su questo argomento. Purtroppo quando si parla di violenze alle donne troppo spesso si dice che le vittime mentono; non è vero: la percentuale di menzogne in caso di stupro è uguale a qualunque altra accusa di natura penale e sta intorno al 3%. E come ci dimentichiamo troppo spesso, gli uomini che violentano le donne solo in una minima percentuale sono gli psicotici, quelli che colpiscono alla cieca, senza conoscere le loro vittime; nella stragrande maggioranza dei casi i violentatori sono persone "normali" e sono persone che conoscono le loro vittime, sono i mariti, i fidanzati, i padri, gli uomini della loro famiglia o sono persone che le donne conoscono e ammirano; sono "brave persone" per la mentalità comune e per l'opinione pubblica. Io temo che anche per colpa di quello che sta avvenendo attorno alla vicenda di Julian Assange si tenti di fare un passo indietro, al tempo in cui il consenso della donna non era poi così importante e la valutazione sull'uso o meno del preservativo non era influente per definire cos'è o cosa non è stupro. La cosa che mi indigna è che questo possa succedere nel nome della giustizia, nel nome della difesa della libertà di parola.
La seconda riflessione è di natura più strettamente politica e riguarda il motivo per cui Assange ha scelto di rifugiarsi nell'ambasciata dell'Ecuador e perché questo piccolo stato ha deciso di sfidare il "potere costituito" concedendo asilo al nemico pubblico nr. 1 dei "bravi" stati occidentali. Dal momento che non crediamo più alle favole e neppure alle dichiarazioni ufficiali degli uomini politici, certamente ha pesato sulla decisione del presidente Correa, al di là delle posizioni di principio, la volontà di presentarsi a testa alta davanti ai suoi concittadini, visto che tra poco si voterà in Ecuador: Correa rivendicherà il fatto di essere quello che ha tenuto testa alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. E giocherà questa carta anche con gli altri capi di stato dell'America del sud, di cui aspira a diventare se non il leader, almeno un punto di riferimento. C'è però qualcosa di più, che noi facciamo fatica a capire perché di quel continente abbiamo notizie molto frammentate e soprattutto mediate da organi di informazione che, per pigrizia o per malafede, sono rigorosamente "atlanticocentrici". Nell'America del sud sta avvenendo qualcosa che sfugge al controllo delle autorità finanziarie internazionali che per molti decenni hanno considerato quei paesi come cavie per sperimentare quelle ricette ultraliberiste, che prima hanno portato al fallimento l'intero continente e che adesso, riprodotte ancora una volta in maniera pedissequa, stanno facendo fallire la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l'Italia e così via.
Quei paesi, a partire dal Brasile e dall'Argentina, hanno deciso - ed è significativo che in questa scelta abbiano avuto un ruolo importante capi di stato donne, come Cristina Fernández de Kirchner, Dilma Rousseff e, ancor prima la cilena Michelle Bachelet - di provare a fare le cose in maniera diversa da come è stato predicato per anni dai soloni di Washington. L'Ecuador è il primo paese ad aver applicato il concetto di "debito illegittimo", rifiutandosi di pagare alla comunità internazionale i debiti contratti dai precedenti governi, perché ottenuti attraverso la corruzione, la violazione dei diritti umani e delle norme costituzionali. Nel dicembre del 2008 il presidente Correa ha annunciato di non riconoscere il debito di 11 miliardi di euro contratto dai suoi predecessori con una serie di banche degli Stati Uniti e in seguito rinegoziati attraverso il cosiddetto "piano Brady", dal nome del Segretario al tesoro di Reagan e di Bush padre. Il piano Brady, che riguardò gran parte dei paesi latino americani, permetteva loro di pagare il proprio debito contraendone un altro, sul quale sarebbero maturati nuovi interessi; tra il 1992 e il '93 molte delle compagnie statali vennero privatizzate, perché si stabilì che sarebbero state le risorse di metano e di petrolio a dover garantire il debito. Per inciso leggo che già qualcuno ha teorizzato un piano Brady per "salvare" la Grecia.
Quando l'Ecuador decise di non riconoscere più gli accordi del piano Brady, il Fondo monetario internazionale, allora guidato dal "progressista" Strauss Kahn decise di far fallire quel paese, secondo la nota massima "colpirne uno per educarne cento". L'Ecuador riuscì a sopravvivere perché Venezuela, Brasile e Argentina garantirono a quel paese forniture rispettivamente di petrolio, di grano e riso, di carne. Quella decisione dell'Ecuador e la reazione degli altri paesi ha segnato di fatto un passaggio storico per la storia recente dell'intero continente. La scelta di Assange forse non è casuale, certo non sarà priva di implicazioni politiche quella del governo dell'Ecuador di concedergli asilo. Al di là della questione in sé, ossia del diritto all'informazione - che comunque è fondamentale per ogni moderna democrazia - si gioca lì una partita che avrà conseguenze, se avremo la capacità di vederle.