lunedì 30 gennaio 2017

Verba volant (343): proporzione...

Proporzione, sost. f.

Disegnate un quadrato, poi calcolate dove si trova il centro di uno dei lati; mettete il compasso su questo punto e quindi tracciate una curva che congiunga il vertice non adiacente all'intersezione della linea che prolunga il lato del quadrato. Così, più o meno, lo descrive Euclide. Se non avete capito, guardate la figura: è più facile da fare che da spiegare. Questo è il rettangolo perfetto, perché la proporzione tra a e b è un numero irrazionale, conosciuto come numero aureo o costante di Fidia o proporzione divina. Ritroviamo questa proporzione nel Partenone, nella Mona Lisa leonrdesca e nei quadri di Mondrian, in Debussy e in Firth of Fifth dei Genesis. Nel rispetto rigoroso di questa proporzione per gli antichi - e anche per molti moderni - sta la bellezza.
Immagino che i severi giudici della Consulta non avessero in mente Fibonacci - o i Deep Purple, anche loro hanno usato la proporzione aurea - quando hanno emesso la sentenza che ha definitivamente affossato la legge "più bella del mondo", come era stata incautamente definita dall'ometto che l'aveva promossa. Con quella sentenza la Corte - dovendo comunque garantire che ci fosse una legge elettorale - ha reintrodotto il proporzionale. Anche se nessuno ormai immagina di associare la bellezza a questo sistema elettorale.
Per più di vent'anni ci hanno spiegato che il proporzionale era il male e che questo paese si sarebbe salvato solo introducendo il maggioritario, anzi sempre più maggioritario. Anch'io ci sono cascato a suo tempo, anch'io ho sostenuto che era necessario superare il proporzionale e aprirsi totalmente al maggioritario, perché bisognava garantire prima di tutto la governabilità. Si è trattato di un errore fatale, che alla lunga ci ha uccisi, perché il maggioritario è stato una sorta di cavallo di Troia, usando il quale i nemici della democrazia sono entrati dentro i bastioni e hanno distrutto la città.
Ci eravamo talmente convinti che ci siamo dimenticati di un punto fondamentale: un sistema elettorale non è mai più forte della politica. Pensiamo alla storia repubblica, a quegli anni che per convenzione chiamiamo "prima Repubblica": c'era il proporzionale, eppure il sistema politico era stabile, anzi era troppo stabile, tanto da sclerotizzarsi e quindi morire. Quando renzi tentava di venderci la sua paccottiglia elettorale, diceva che finalmente avremmo saputo la sera delle elezioni chi aveva vinto. Allora, al tempo del proporzionale puro, lo sapevamo benissimo: chiuse le urne, sapevamo che aveva vinto la Democrazia Cristiana. Era così perché quel partito aveva molti voti, la maggioranza dei voti, e molto consenso nel paese - su come otteneva quei voti e quel consenso non è il tema di questa riflessione, ma comunque li aveva, anche se ottenuti in maniera illegale - e c'era un quadro politico internazionale che impediva altri possibili esiti. Tanto è vero che quando parve che la situazione politica italiana potesse cambiare, in maniera blandamente radicale, ma troppo radicale per qualcuno, ci fu un pesante intervento esterno che riportò l'ordine, il "loro" ordine: la storia italiana dal 1969 al 1980 - la stagione delle stragi e del terrorismo - racconta in sostanza questo. Non era il sistema elettorale che garantiva quella stabilità, erano altri fattori, politici e storici. La legge elettorale serviva a fotografare, nella maniera più realistica possibile, quello che succedeva nella politica del nostro paese: questo deve fare una legge elettorale, non può sostituirsi alla politica.
In Italia invece è avvenuto proprio questo. Ci siamo convinti - ci hanno convinto - che bastasse cambiare la legge elettorale per trasformare il paese. E così abbiamo introdotto il maggioritario per eleggere i consigli degli enti locali e l'elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e di regione, e abbiamo sperimentato varie soluzioni per rendere sempre più maggioritaria la legge attraverso cui scegliamo i nostri rappresentanti in parlamento, accarezzando l'idea di eleggere direttamente anche il presidente della Repubblica o quello del consiglio. E man mano che facevamo questi cambiamenti la fotografia diventava sempre meno nitida, perché questi sistemi non erano in grado di fotografare la realtà e soprattutto perché quella realtà diventava giorno dopo giorno sempre più confusa. Più non capivamo cosa stava diventando la politica, più credevamo che una nuova legge elettorale ce lo avrebbe chiarito, invece introducevamo sempre nuovi elementi di confusione.
Perché l'obiettivo di quelli che allora ci spiegavano che il maggioritario ci avrebbe salvato era quello di diminuire gli ambiti della democrazia, di rendere meno forti le istituzioni, di screditare la politica. E' un disegno di cui ora, a vent'anni di distanza, possiamo riconoscere lo svolgimento con una certa precisione e che ci ha portati, in maniera quasi naturale, alla riforma costituzionale varata dal precedente governo, che avrebbe, se non completato, portato molto avanti quel progetto. Il passo successivo, e finale, sarebbe stata l'elezione diretta - e plebiscitaria - dell'esecutivo. Il nostro NO, più o meno consapevole, del 4 dicembre ha rappresentato un freno, quel cammino è stato solo interrotto, è stato rallentato, ma non siamo riusciti a invertire il senso di marcia, perché vent'anni di propaganda contro la politica sono lunghissimi e hanno lasciato il segno, perché quel che rimane della politica è per lo più screditata, perché le forze che allora cominciarono quel progetto sono ancora in campo, mentre noi, che teoricamente dovremmo opporci, siamo deboli, spauriti, divisi. Spesso inconsapevoli della sfida che abbiamo di fronte e dei pericoli che stanno correndo le istituzioni. E noi con loro, perché difendere la Costituzione, vuol dire difendere i più deboli, quelli che hanno bisogno di essere tutelati dalle regole.
Non mi fido molto dei giudici della Consulta, anche loro rispondono a poteri che esulano dalle dinamiche democratiche; se hanno introdotto questa specie di proporzionale è perché sanno che ormai neppure questa legge elettorale sarà in grado di ristabilire un minimo di decenza alla politica, anche se è quella voluta dai Costituenti, è quella che meglio si adatta all'impianto della nostra Costituzione, è quella che garantisce di più i cittadini. Troppo tempo è passato, troppe parole sono state spese, soprattutto troppo debole è diventata la politica in Italia, come nel resto del mondo. Per questo serve un'altra grammatica, serve un'altra geometria, rigorosamente non euclidea, servono altri canoni di bellezza, serve ribaltare il tavolo e ricominciare.

domenica 29 gennaio 2017

Verba volant (342): unità...

Unità, sost. f.

Chi legge con una qualche regolarità le cose che scrivo, sa che non ho difficoltà a definirmi antirenziano. Anzi, io sono contro renzi in maniera direi pre-politica, quasi antropologica. Ma ormai credo che il problema non sia nemmeno più renzi, la cui stella - un fuoco di paglia, meglio - ha cominciato ormai a spegnersi. E sapete anche che sono un fiero avversario del pd, di tutto il pd. Quindi sono contento quando leggo che quel partito si sta indebolendo, mi fa piacere sapere che qualcuno parla di scissione: questo paese starà meglio senza il pd. Voglio però dire con altrettanta chiarezza che non mi arruolerò in un generico e variegato carrozzone antirenziano. Che ovviamente nascerà comunque, anche senza di me; ma almeno vorrei mettervi in guardia, per quello che vale il mio consiglio.
Vorrei non commetteste l'errore che abbiamo fatto noi in questo ultimo ventennio, quando abbiamo usato l'antiberlusconismo come unico elemento valoriale. E in nome dell'antiberlusconismo è nato di tutto, compreso il renzismo.
In più di vent'anni in nome della guerra santa contro Berlusconi abbiamo ingoiato tutto. Vi ricordate: abbiamo perfino applaudito Montanelli, esponente del più bieco anticomunismo e servo fedele degli interessi del capitale. Abbiamo eletto Di Pietro. Abbiamo fatto un governo con Cossiga. E abbiamo fatto l'Ulivo e abbiamo stretto un'alleanza sempre più organica con i democristiani.
Prevengo le vostre critiche e la vostra maliziosa domanda: ma tu dov'eri? Ero tra quelli che applaudivano D'Alema, Veltroni e Fassino, ero tra quelli che hanno fatto nascere il Pds e poi i Ds, ero tra quelli che hanno lavorato per l'Ulivo; ho fatto campagna per Di Pietro, ho sostenuto tutti i governi del cosiddetto centrosinistra, solo su Montanelli, perché non riuscivo proprio a parlarne bene, sono stato zitto; soprattutto ho lavorato per costruire un'alleanza organica con quelli che erano diversi da noi. L'unica colpa che non mi potete imputare è quella di aver partecipato attivamente per far nascere il pd: mi sono fermato prima e quindi, almeno su questo, sono innocente. Anche se i germi del pd e di renzi li abbiamo iniettati noi nel corpo della sinistra. Ovviamente non ci furono solo questi errori tattici, ci fu una visione strategica sbagliata, l'idea che di fronte ai cambiamenti del mondo la sinistra dovesse cambiare per avere l'ambizione di governare certi processi, e per questo siamo diventati destra, dimenticando progressivamente quello che eravamo e quello che avremmo dovuto essere, specialmente di fronte a un capitalismo sempre più violento.
Ho l'impressione che adesso si stia ripetendo lo stesso schema, anche con molti di quei protagonisti. Leggo che sempre più frequentemente si fa riferimento a un "nuovo" Ulivo, vedo l'attivismo di certi personaggi di allora, ad esempio di un ex presidente del consiglio del nostro partito di allora, che si vantava di essere l'esponente italiano della "terza via", come Tony Blair in Gran Bretagna. Vedo un proliferare di personaggi nel campo della cosiddetta sinistra per costruirsi delle piccole carriere personali nel nome dell'antirenzismo. E vedo che questo lavorio si accompagna sempre al mantra della necessità di stare uniti. Tanti compagni e amici me lo ripetono in continuazione qui in rete: dobbiamo stare uniti, l'unità è importante, non dividiamoci. Balle. Sarà che io sono sempre meno paziente e sono stato già troppo unito a persone con cui francamente poco mi univa e che mi stavano anche antipatiche, ma non credo che questo sia un valore in sé. Il tema è cosa fare e cosa essere, non stare uniti.
Perché su questi anti- generici poco si costruisce. Per questo mi interessa poco essere antirenziano - anche se ovviamente continuerò ad esserlo. Continuerò a essere antifascista: una definizione in cui si ritrovano in tanti per fortuna, anche se poi bisogna esserlo veramente per tutto quello che significa. E voglio essere anticapitalista: questa è una categoria in cui immagino saremo in meno. renzi, come qualsiasi "pidino", credo si definisca ancora antifascista, anche se non capisce esattamente cosa voglia dire, ma non vorrebbe essere definito anticapitalista o comunista. Ecco smettiamola di ricercare questa fantomatica unità e proviamo invece a unirci su un'idea. Noi vecchi espieremo - forse - le colpe del passato, voi giovani non dovrete fare tra vent'anni questo stesso discorso.

lunedì 23 gennaio 2017

Verba volant (341): riffa...

Riffa, sost. f.

Ero incerto se scrivere questa definizione, perché ho letto che questa notizia è stata ampiamente commentata da diversi "indignati professionali"e da alcuni polemisti in servizio permanente effettivo, una compagnia di giro di cui non vorrei far parte, neppure per sbaglio.
Non ho motivi per dubitare sulla buona fede di quegli amministratori locali - che peraltro svolgono il loro incarico in condizioni davvero difficili - che hanno deciso di assegnare tramite un sorteggio le prime casette in legno, speriamo provvisorie, a quelle famiglie che hanno perso le proprie case a causa del terremoto che ha colpito a fine agosto diverse realtà dell'Italia centrale. Semmai dovremmo arrabbiarci per il fatto che queste assegnazioni vengano fatte solo ora, a cinque mesi dal sisma, e soprattutto che siano ancora così poche, troppo poche. Occorreva trovare un criterio e a quegli amministratori la sorte è parsa un criterio migliore di altri.
Non so, certo è uno dei modi che potevano scegliere, ma ho l'impressione che questa scelta sia significativa per capire cosa siamo diventati, ovviamente non solo in quelle città colpite dal terremoto. E' talmente radicata la sfiducia nelle istituzioni, è talmente normale considerare che ogni scelta pubblica sia dettata da criteri opachi, quando non apertamente truffaldini, da far preferire la sorte alla redazione di una graduatoria.
Molti anni fa, quando facevo un altro mestiere, mi è capitato di scrivere i criteri per una graduatoria: non è affatto semplice, perché ci sono cose che sono facilmente misurabili e ce ne sono altre, di più a dire il vero, che sono molto più difficile da confrontare. E poi ci sono elementi che non sono affatto misurabili: perché ci sono cose, anche uguali, che io posso valutare in un modo e tu in modo opposto. Tu ed io possiamo avere lo stesso identico stipendio: io posso considerarmi ricco e tu considerarti povero e ciascuno di noi ha soggettivamente ragione. Perfino la perdita della casa può essere vissuta da due persone in maniera diversa, perché quella casa non è solo un valore immobiliare, un dato catastale, ma anche un insieme di ricordi, di affetti, di sentimenti, che nessuno di noi può quantificare in maniera oggettiva, E inevitabilmente stabilire dei criteri, anche se poi non partecipi più alla definizione della graduatoria, ti impone di fare delle scelte e altrettanto inevitabilmente ti espone al giudizio - e ovviamente alla critica - di chi a quella graduatoria deve accedere. E' davvero più semplice affidarsi al caso.
E poi dobbiamo sempre ricordarci che abbiamo a che fare con noi italiani, molti dei quali sono naturalmente portati a imbrogliare la pubblica amministrazione. Io, ad esempio, per stabilire una graduatoria delle famiglie a cui assegnare una casa prefabbricata avrei voluto tener conto del reddito di quelle famiglie, ma in questo paese stabilire il reddito pare una missione impossibile, perché non ci sono dati confrontabili. Non voglio urtare la sensibilità dei miei lettori che fanno gli artigiani o i liberi professionisti e pagano tutte le tasse - ce ne sono davvero, non è uno scherzo - e quindi mi spiace di usare quello che ad alcuni di loro può sembrare un vieto luogo comune, eppure se il mio dentista non mi fa la fattura quando mi cura un dente, magari dandomi il contentino di farmi risparmiare in questo modo l'Iva, e se non la fa neppure a molti altri suoi clienti, può finire che, a leggere soltanto le carte, io guadagni di più del mio dentista e quindi che alla sua famiglia tocchi la casetta di legno - o il posto all'asilo nido o qualunque altro beneficio, per assegnare il quale si calcoli anche il reddito - che forse sarebbe stato più giusto toccasse a me o ad un altro. Credo potrei continuare a fare esempi, ma non voglio far arrabbiare i miei lettori che in questi anni hanno trovato sistemi sempre più fantasiosi per pagare meno tasse: i coniugi che dicono di abitare in case diverse per non pagare l'Imu, quelli che non si sposano per non cumulare i redditi e così via, per stare alle cose più semplici e comuni, quelle che richiedono meno sforzo e per cui troviamo sempre una qualche giustificazione autoassolutoria: le tasse sono troppo alte e i servizi sempre meno, rischio che la casa che ho ereditato da povera nonna mi costi di più di quello che posso guadagnarci e cose del genere. E poi la giustificazione delle giustificazioni: ma loro rubano più di me.
Riffa viene dallo spagnolo e significa propriamente violenza, lotta, e solo in un secondo momento ha cominciato a indicare un sorteggio, una decisione demandata al caso. Ecco io in questa scelta degli amministratori di Norcia e di altre città di affidarsi al caso per una decisione così importante sento una forma di violenza, subita da quegli stessi amministratori e dalle loro comunità. E anche una violenza contro tutto il nostro paese. Perché considero quella scelta - o meglio quella non scelta - una forma di resa; è come se quei sindaci ci abbiano voluto dire: non sappiamo come fare a trovare un criterio e quindi rinunciamo, meglio un sorteggio, una lotteria, così che i cittadini non se la prendano con noi. E perché in questo paese non si può fare altro. No, dobbiamo avere il coraggio e la capacità di fare altro.

giovedì 19 gennaio 2017

Verba volant (340): congiuntivo...

Congiuntivo, sost. m. 
«Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altre natura… Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».
«Perché aveva copiato da un autore più intelligente».
Il magistrato scoppiò a ridere. «L'italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto».
E' un brano celebre, tratto dal romanzo Una storia semplice di Leonardo Sciascia. Probabilmente ricorderete questo scambio di battute grazie alla magistrale interpretazione di Gian Maria Volonté nel film tratto dal libro.
E' vero: l'italiano è a volte difficile, ma per questo ci fa ragionare. Non è sempre facile usare il congiuntivo in maniera corretta, capita a volte di sbagliare, anche quando ci pensiamo, anzi a volte ci sbagliamo di più proprio quando ci pensiamo. Certo quando scriviamo possiamo fare più attenzione ai congiuntivi, abbiamo - teoricamente - più tempo, anche se questo "diabolico" strumento attraverso cui io ora scrivo e voi prima o poi mi leggerete, ci porta a scrivere in fretta, che - come si sa - è una cattiva consigliera. Quando parliamo i congiuntivi rischiano ancora di più e non è detto che sia poi questo gran male. La lingua è - per fortuna - una cosa viva, che cambia, anzi proprio questi mutamenti le assicurano di essere immortale; se parlando non sentiamo tutta questa necessità di usare il congiuntivo e riusciamo comunque a far capire alle persone con cui parliamo le nostre idee, i nostri stati d'animo, le nostre passioni, non è detto che questi congiuntivi siano così indispensabili.
Forse un giorno i nostri bisnipoti non useranno più il congiuntivo, ma la loro lingua sarà altrettanto bella, avranno poeti e scrittori che la sapranno usare con maestria, anche senza quelle complicate costruzioni verbali. Tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento la lingua che sarebbe diventata l'italiano - con tutti i suoi bravi congiuntivi - suonava malissimo ai dotti del tempo che parlavano latino e consideravano quell'idioma con superba noncuranza. Gli accademici di quel tempo, leggendo Dante, probabilmente dicevano, come in un vecchio carosello: L'italiano? Non dura, dura minga, non può durare. Eppure l'italiano è durato perché i poeti e - nel nostro piccolo - ciascuno di noi siamo riusciti a trasmettere attraverso questa lingua pensieri ed emozioni. 
Vedo che in questi giorni sui mezzi di informazione viene preso di mira un esponente politico per aver sbagliato tre congiuntivi di fila. A parte il fatto che spesso sui giornali leggiamo consecutio che ci fanno accapponare la pelle, il problema - come diceva il professor Franzò - non è l'italiano, ma è il ragionare. Effettivamente scrivere tre pensieri di fila sbagliando in ognuno di essi un congiuntivo è indice di scarso ragionamento e io non voglio affatto difendere questo "scrittore" così avventato, visto che peraltro sarebbero state c...te anche se scritte in corretto italiano, con tutti i congiuntivi a modino. Io peraltro ho avuto la fortuna di conoscere ottimi amministratori pubblici, il cui italiano era zoppicante, perché da bambini avevano avuto ben altro da fare che andare a scuola. E ho imparato a ragionare - per quel poco che ci sono riuscito - e ho imparato a fare politica ascoltando molte di queste persone, i cui congiuntivi mi facevano sorridere. Ho anche conosciuto persone che non sbagliavano un congiuntivo, ma non dicevano nulla, perché non sapevano nulla. O, ancora peggio, che usavano la loro capacità di parlare bene per ingannare gli altri. 
Adesso ovviamente provo a scrivere senza errori perché mi sembra rispettoso verso voi che leggete e perché spero in questo modo di essere più chiaro. Ma mi auguro che mi leggiate più per quello che scrivo che per come lo scrivo. E cerco di scrivere senza errori, perché mi serve per ragionare. Ma non voglio farne un dramma se mi capita di sbagliare un congiuntivo.

Allora, ragioniere, che fa? Leggi?
Ma... mi dà del tu?
No, no! Dicevo: leggi lei?
Ah, congiuntivo...

domenica 15 gennaio 2017

"Io ero, io sono, io sarò" di Rosa Luxemburg


"L'ordine regna a Berlino!" annunzia trionfante la stampa borghese, annunziano Ebert e Noske, annunziano gli ufficiali delle "truppe vittoriose", a cui la plebaglia piccolo-borghese di Berlino acclama e sventola i fazzoletti!
La gloria e l'onore delle armi tedesche sono salvi di fronte alla storia mondiale. I miserabili sconfitti delle Fiandre e delle Argonne hanno riabilitato il loro nome con una splendida vittoria sui trecento spartachisti del Vorwärts.
"L'ordine regna a Varsavia!", "L'ordine regna a Parigi!", "L'ordine regna a Berlino!". Così si rincorrono a distanza di mezzo secolo gli annunzi dei guardiani dell'ordine da un centro all'altro della lotta storico-mondiale. E i vincitori tripudianti non considerano che un ordine che ha bisogno di essere mantenuto con periodici sanguinosi massacri, va inevitabilmente incontro al suo destino storico, al suo tramonto. Che cosa è stata quest'ultima "settimana di Spartaco" di Berlino, che cosa ha portato, che cosa ci insegna? Ancora in mezzo alla battaglia, in mezzo agli ululi di vittoria della controrivoluzione, i proletari rivoluzionari devono rendersi ragione dell'accaduto, commisurare gli avvenimenti e i loro risultati alla grande scala della storia. Seguire con consapevolezza le sue direttrici, le sue vie, è i primo compito dei combattenti del socialismo internazionale. Era da attendersi da questa lotta una vittoria definitiva del proletariato rivoluzionario, la caduta degli Ebert-Scheidemann e l'istituzione della dittatura socialista? Certo no, se si prendono seriamente in considerazione tutti gli aspetti decisivi della questione. Il punto debole della posizione rivoluzionaria attuale: l'immaturità politica dei soldati, che si lasciano pur sempre adoperare dai loro ufficiali a fini antipopolari controrivoluzionari, è già una prova dell'impossibilità, in quest'urto, di una durevole vittoria rivoluzionaria. D'altra parte questa stessa immaturità dell'esercito è solo un sintomo della generale immaturità della rivoluzione tedesca. Il contado, da cui proviene una grande percentuale della truppa, ora come prima è stato appena toccato dalla rivoluzione! Berlino è ancora come isolata dal Reich.
Da questa contraddizione, in una fase iniziale dello sviluppo rivoluzionario, tra aggravamento dei compiti e insufficienti condizioni per la loro realizzazione, risulta la conclusione formalmente negativa delle singole battaglie rivoluzionarie. Ma la rivoluzione è l'unica forma di guerra - anche questa è una sua particolare legge di vita - in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di sconfitte!
Che cosa ci mostra tutta la storia delle rivoluzioni moderne e del socialismo? Il primo divampare della lotta di classe in Europa: l'insurrezione dei setaioli lionesi del 1831, è finita con una grave sconfitta. Il movimento cartista inglese con una disfatta. Il sollevamento del proletariato parigino nei giorni del giugno 1848 è terminato con una sconfitta schiacciante. La Comune di Parigi con una sconfitta paurosa. Tutta la strada del socialismo - per quel che riguarda le battaglie rivoluzionarie - è disseminata di patenti disfatte.
E pure irresistibilmente questa stessa storia passo passo porta alla vittoria finale! Dove saremmo oggi senza quelle sconfitte, dalle quali abbiamo attinto esperienza storica, scienza, forza, idealismo! Noi, che oggi siamo giunti immediatamente davanti alla battaglia finale della lotta di classe proletaria, poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza.
Avviene con le lotte rivoluzionarie l'esatto contrario che con le lotte parlamentari. Nello spazio di quattro decenni abbiamo avuto in Germania in sede parlamentare solo delle vittorie, siamo passati addirittura di vittoria in vittoria. E il risultato ne fu, al momento della grande prova storica del 4 agosto: una disfatta politica e morale catastrofica, un crollo inaudito, una bancarotta senza esempi. Le rivoluzioni ci hanno finora portato sonore sconfitte, ma esse nella loro inevitabilità sono altrettante garanzie della futura vittoria finale.
Le masse sono il fattore decisivo, sono la roccia sulla quale sarà edificata la vittoria finale della rivoluzione. Le masse sono state all'altezza della situazione, esse hanno fatto di questa sconfitta un anello di quella catena di sconfitte storiche, che sono l'orgoglio e la forza del socialismo internazionale. E perciò da questa sconfitta sboccerà la futura vittoria.
"L'ordine regna a Berlino!" Stupidi sbirri! Il vostro ordine è costruito sulla sabbia. Già domani la rivoluzione si ergerà nuovamente ed annuncerà con un suono di squilla: io ero, io sono, io sarò!

giovedì 12 gennaio 2017

Verba volant (339): ex...

Ex, prep lat.

Barack Obama sta per diventare l'ex presidente degli Stati Uniti; probabilmente sarà il migliore ex presidente della storia recente di quel paese. E' giovane, immagino riuscirà ad avere ancora un'influenza nella vita pubblica di quel paese, potrebbe perfino diventare il marito - o il padre - di una futura presidente.
E' ovviamente presto per tracciare un bilancio della sua presidenza, ma credo si possa dire che il suo mandato si chiude con una sconfitta molto pesante: il fatto che il suo successore sia una persona come Donald Trump è il fallimento più grande di Obama, qualcosa che lo consegnerà - non certo come avrebbe voluto - alla storia, insieme al fatto che è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti. I simboli contano in politica - Obama, che è persona intelligente, lo sa bene, e immagino che lo stesso Trump lo intuisca - spesso contano più delle cose che si fanno o non si fanno. Otto anni fa l'ingresso di Obama alla Casa bianca è stato un evento che ha segnato nel profondo quel paese, dove la questione razziale ha ancora un peso, un peso tanto rilevante che Trump è stato eletto anche in forza di una sorta di reazione alla presidenza di Obama. Trump ha vinto le elezioni anche perché è un maschio bianco, per quanto molti dei suoi elettori non siano disposti ad ammetterlo.
Obama ha detto nel suo discorso d'addio che lascia un'America migliore di quella che ha trovato otto anni fa. E' legittimo che lo pensi ed è naturale che lo dica, ma mi verrebbe da dire che proprio l'elezione di Trump è il segno che si tratta di una frase retorica, destinata a scaldare gli animi dei suoi molti sostenitori, ma poco aderente alla realtà. Proprio la questione razziale rimane come una ferita che attraversa quel grande paese: e si tratta di una ferita non solo metaforica perché in questi otto anni tanti giovani ragazzi di colore e ispanici sono rimasti uccisi in scontri con la polizia e, più spesso, solo a seguito di controlli o di fermi ingiustificati. Essere nero negli Stati Uniti non è facile oggi come non lo era otto anni fa. La vicenda personale e politica di Obama è una storia diversa, troppo diversa, da quella che si vive nelle periferie delle città americane, perché in fondo la presidenza Obama non ha inciso sulla divisione più profonda della società degli Stati Uniti, come della nostra, tra poveri e ricchi.
Puoi anche essere nero, ma se sei ricco, se sei famoso, se sei bello, allora vieni accettato, sei un idolo, sei uno che può diventare perfino presidente, ma se sei povero, anche se sei bianco, allora non hai nessuna possibilità. E su questo Trump ha giocato le sue carte con abilità. Ma se sei nero di possibilità ne hai, se possibile, ancora meno.
Otto anni fa ci siamo emozionati a vedere quel giovane uomo di colore giurare sulla Bibbia appartenuta ad Abramo Lincoln. Poi, come spesso ci succede, abbiamo fatto l'errore di credere che un passo avanti così importante nel campo dei diritti civili avesse un significato anche nel campo dei diritti sociali. Non è stato così, non poteva essere così, perché non ti fanno diventare presidente degli Stati Uniti se sei un vero progressista e soprattutto perché Obama era ed è un moderato, uno che pensa che il governo possa servire a tutelare almeno un po' le fasce più deboli della società e a controllare solo gli eccessi più macroscopici degli spiriti animali del capitalismo. Invece in questi otto anni, forse ancora di più che in quelli precedenti, il capitalismo ha rotto ogni freno, non solo in America, ma soprattutto in altre parti del mondo, a partire dalla Cina. E Trump è il rappresentante di questi appetiti sfrenati - basta guardare chi ha scelto nella sua amministrazione. Poi vedremo se i capitalisti delle due sponde del Pacifico decideranno di combattersi o - come è più probabile - di allearsi, ma per entrambe queste scelte non era adatto uno come Obama, serviva uno come Trump, uno che garantisse di più e meglio gli interessi del capitale. Mentre i poveri degli Stati Uniti, i bianchi e soprattutto i neri, continueranno a essere poveri, più poveri, e soprattutto continueranno a credersi responsabili a vicenda della propria povertà, nella lotta sempre più sanguinosa tra gli ultimi e i penultimi, in cui l'unico vincitore è sempre chi siede in alto.
Per risolvere questo nodo Obama non ha fatto nulla in questi otto anni. Magari ci rifletterà nella sua nuova vita da ex.

mercoledì 11 gennaio 2017

Considerazione libere (416): a proposito di due sì...

In questi giorni potremmo dedicare il nostro tempo a riflettere sui motivi, legittimamente giuridici o inconfessabilmente politici, che hanno spinto i giudici della Consulta a emettere questa sentenza oppure a discutere su come sono stati scritti i quesiti o ancora a pensare alle conseguenze politiche di questa sentenza, sull'opportunità che si voti prima possibile il referendum o che si vada a elezioni anticipate. O su come questo referendum ci servirà a ricostruire una sinistra in Italia. Francamente però oggi non abbiamo questo tempo. Ne abbiamo pochissimo. E abbiamo scarse energie. E il nostro poco tempo e le nostre scarse energie dobbiamo dedicarle a fare propaganda per il SI', a spiegare qual è il vero significato di questi referendum, di quelli su cui saremo chiamati ad esprimerci e anche di quello che per ora non è stato ammesso. Ed è qualcosa che non riguarda solo strettamente il tema dell'utilizzo dei voucher o quello degli appalti o finanche quello, seppur fondamentale, dell'art. 18. Sono temi che abbiamo affrontato e su cui torneremo. Ma la questione vera riguarda la dignità costituzionale del lavoro, che i costituenti vollero sancire in maniera solenne - e assolutamente inedita - in quell'art. 1 molto citato, ma poco applicato.
La battaglia in cui dobbiamo essere impegnati già da queste ore e su cui dovremo saper costruire un fronte il più ampio possibile - speriamo maggioritario - è simile a quella che ci ha impegnato nei mesi passati. Perché anche lo scorso 4 dicembre in gioco non era tanto la sopravvivenza del Senato o il meccanismo di formazione delle leggi, quanto l'idea stessa di democrazia rappresentativa. Oggi allo stesso modo questi referendum ci servono a ribadire la centralità costituzionale del lavoro, l'idea che i diritti delle persone che lavorano devono essere garantiti a partire dalla legge fondamentale del nostro ordinamento.
Perché il nostro lavoro, il lavoro di tutti, deve essere uno sforzo libero. Pare scontato, ma non lo è: lo sforzo di uno schiavo, di un uomo o di una donna costretti a cedere il proprio tempo e le proprie energie, non può essere considerato lavoro. Le meraviglie architettoniche dell'antichità furono costruite da schiavi e oggi sono schiavi quelli che producono le magliette che indossiamo o i telefonini con cui ci teniamo continuamente in contatto, e questo non è lavoro. E non serve andare in Asia o in Africa, basta fermarsi nelle campagne dove si raccolgono le arance e i pomodori o andare in qualche fabbrica o in un call center. Lo dobbiamo ricordare quando valutiamo la crescita di un paese: la schiavitù conviene dal punto di vista puramente economico, dal momento che garantisce bassi costi di produzione e crescita della ricchezza complessiva. Però quello non è lavoro e non realizza la prosperità comune. Perché il lavoro di ciascuno di noi realizza a un tempo noi stessi e la società. E’ abbastanza semplice capire che il lavoro libero di ciascuno di noi contribuisce al bene della comunità, è qualcosa di cui abbiamo immediata evidenza. Forse non abbiamo ancora capito quanto il lavoro sia importante per ciascuno di noi. A chi è successo - a me è successo intorno ai quarant’anni - di non avere un lavoro sa che si tratta di un momento che si ricorda con dolore e ansia. Chi non lavora non esprime la sua capacità di essere, in qualche modo non è. L'art. 1 dice questo e dice che la democrazia si realizza con il lavoro e che il lavoro si tutela con la democrazia.
Troppo spesso in questi anni ci hanno fatto credere che il lavoro sia solo un dovere o, ancora peggio, una concessione che ci viene fatta, qualcosa per cui dobbiamo ringraziarli. Invece il lavoro è un nostro diritto. In gioco nel prossimo referendum c'è semplicemente questo. La domanda che quei due quesiti rivolgono a tutti noi è questa: abbiamo diritto al lavoro, un lavoro sicuro, un lavoro retribuito in maniera proporzionale ed equa? SI'.

lunedì 9 gennaio 2017

"La bellezza è un sogno" di Zygmunt Bauman

Noi umani possediamo il linguaggio, strumento capace di operare meraviglie, che ci permette di dare un nome alle cose esistenti, ma anche, ancor più miracolosamente, alle cose che non esistono ancora: alle cose come sono e alle cose come potrebbero essere. Grazie al linguaggio possiamo fare scelte: possiamo respingere certe cose in nome di altre, e possiamo anche parlare e pensare a cose che devono o possono ancora venire. Siamo animali "trasgressivi" e "trascendenti" e non possiamo farne a meno. Viviamo in anticipo sul presente. Le nostre rappresentazioni anticipano le nostre percezioni. Il mondo che abitiamo è sempre un passo, o un chilometro, o un anno luce più avanti rispetto al mondo di cui facciamo esperienza. La parte di mondo che sopravanza la nostra esperienza vissuta viene definita "ideale": gli ideali ci devono guidare in territori per il momento inesplorati e per i quali non esistono mappe.
La "bellezza" è uno degli ideali che ci guidano al di là del mondo già esistente. Il suo valore risiede pienamente nel suo potere di guida. Se mai arrivassimo al punto segnato dall'ideale della bellezza, essa perderebbe il suo potere: il nostro viaggio giungerebbe al termine. Non ci sarebbe più nulla da trasgredire o da trascendere, e quindi nemmeno umana per come la conosciamo. Ma forse, grazie al linguaggio, e all'immaginazione che il linguaggio rende tanto possibile quanto inevitabile, quel punto non può mai venire raggiunto.
Definiamo "belle" molte cose, ma di nessuna cosa che definiamo in questo modo possiamo dire onestamente che non possa conoscere un progresso. La "perfezione" è sempre "non ancora". Uno stato di cose nel quale non sia desiderabile alcun progresso è il sogno solo di coloro che devono progredire molto. Forse il concetto di perfezione costituisce un elogio dell'immobilità, ma compito di tale concetto è impedirci di rimanere immobili L'immobilità si trova nei cimiteri, eppure, paradossalmente è il sogno dell'immobilità a tenerci in vita. Fin tanto che il sogno resta irrealizzato contiamo i giorni, e i giorni contano: abbiamo uno scopo e un lavoro da portare a termine...
Non che un compito sempre testardamente e clamorosamente incompiuto sia un bene incondizionato o rechi felicità incontaminata. La condizione del "lavoro incompiuto" possiede molte attrattive ma, come tutte le altre condizioni, è meno che perfetta.
La memorabile sentenza di Robert Louis Stevenson, secondo la quale «viaggiare con speranza è meglio che arrivare», non è mai suonata più vera che nel nostro mondo moderno, liquido e fluido. Quando le mete si spostano o perdono di fascino più rapidamente di quanto le gambe riescano a camminare, le auto a muoversi e gli aerei a volare, restare in movimento conta più della meta. «Come fare» sembra più importante e urgente rispetto a «cosa fare». Impedire che tutto quel che facciamo in quest'istante divenga un'abitudine, non farsi vincolare dall'eredità del proprio passato, indossare l'identità attuale come si indossano le magliette, sostituibili quando non servono più o sono fuori moda, respingere gli insegnamenti del passato e abbandonare le competenze del passato senza pudori o pentimenti, tutto ciò sta diventando l'elemento distintivo dell'attuale politica della vita e attributo della razionalità nella modernità liquida. La cultura della modernità liquida non è più una cultura dell'apprendimento e dell'accumulazione, come le culture che conosciamo in base alle descrizioni degli storici e degli etnografi. E' invece una cultura del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza.
In questo tipo di cultura, e nelle strategie di politica della vita che essa approva e promuove, non c'è molto spazio per gli ideali. Ancor meno spazio c'è per gli ideali che sollecitano uno sforzo sostenuto, di lungo periodo, fatto di piccoli passi compiuti verso obiettivi che, per ammissione di tutti, sono distanti. Né c'è spazio per un ideale di perfezione che derivi tutto il suo fascino dalla promessa di porre termine alla scelta, al cambiamento, al progresso. Per essere più precisi, tale ideale può ancora librarsi sul mondo vitale di uomini e donne della modernità liquida, ma solo come sogno, sogno il cui avveramento nessuno si attende più, sogno notturno che svanisce d'un tratto con la luce del giorno.
Ecco perché la bellezza, nel suo significato ortodosso di ideale per cui combattere e morire, sembra star passando un brutto periodo.
Il significato della "bellezza" subisce impercettibilmente un cambiamento fatale. Negli usi attuali del termine i filosofi stenterebbero a riconoscere i concetti da loro costruiti attraverso i secoli con tanta serietà e fatica. Soprattutto non troverebbero il legame tra bellezza ed eternità, tra valore estetico e durevolezza. Pur tra controversie furiose, tutti i filosofi hanno concordato che la bellezza si solleva al di sopra dei volubili e fragili capricci privati, e che, anche se potrebbe esistere una "bellezza a prima vista", sarebbe il corso del tempo a comprovarla. Non troverebbero nemmeno la «pretesa di validità universale» che a loro giudizio era attributo indispensabile di ogni giudizio propriamente estetico. La cultura dell'azzardo ha rimosso dal cartellone questi due aspetti, entrambi macroscopicamente assenti dagli attuali usi più comuni del termine "bellezza".
Il mercato dei consumi e i modelli di condotta che esso richiede e coltiva si adattano alla cultura dell'azzardo della modernità liquida, la quale, a sua volta, si adatta alle pressioni e alle seduzioni del mercato. Entrambi sono in perfetto accordo, si alimentano e si rafforzano a vicenda. Per non far perdere tempo ai clienti e per non pregiudicare le loro gioie future, quindi imprevedibili, il mercato dei consumi offre prodotti rivolti al consumo immediato, preferibilmente usa e getta, fatti in modo da non ingombrare la spazio vitale quando non saranno più di moda. I consumatori, confusi dal vorticare delle mode e dal ritmo sempre più accelerato dei loro cambiamenti, non possono più basarsi sulla propria capacità di apprendimento e memorizzazione: pertanto ascoltano di buon grado chi li rassicura che il prodotto attualmente offerto è "l'oggetto da avere", "l'ultimo grido", un must in o con cui farsi vedere.
Il valore estetico, eterno e "oggettivo", del prodotto è l'ultima cosa di cui preoccuparsi. Né la bellezza è "nell'occhio di chi guarda". Al contrario, il suo luogo è la moda attuale: pertanto essa è destinata a divenire bruttezza non appena la moda corrente verrà sostituita, il che avverrà di sicuro, e presto. Il mercato possiede la stupefacente capacità di imporre alle scelte dei consumatori, ostentatamente individualistiche e quindi potenzialmente casuali e sparse, un modello regolare, per quanto di breve durata, senza il quale essi si sentirebbero completamente disorientati e perduti. Il gusto non è più una guida sicura, l'apprendimento e la fiducia nella conoscenza già acquisita sono trappole invece che aiuti, e il comme il faut di ieri può trasformarsi senza preavviso in comme il ne faut pas.
Nella nostra società della modernità liquida la bellezza è andata incontro al medesimo destino subito da tutti-gli-altri ideali che in passato hanno alimentato l'irrequietezza e lo spirito di ribellione. La ricerca di armonia totale e di durata eterna è stata riscritta, puramente e semplicemente, nei termini di un impegno frutto di cattivi consigli. I valori sono tali fin tanto che si prestano al consumo istantaneo e sul posto. I valori sono attributi di esperienze momentanee. Così è la bellezza. E la vita? La vita è una successione di esperienze momentanee.

Verba volant (338): giravolta...

Giravolta, sost. f.

Gira, giravolta, gira un'altra volta... cantavamo da bambini. Qualcuno continua a canticchiarla.
Mi tocca ridirlo, perché anche i miei lettori hanno spesso poca memoria: io non sono un sostenitore del Movimento Cinque stelle e quindi mi interessa assai poco in quale gruppo sono stati, sono e saranno iscritti gli europarlamentari eletti da quel partito. Prendo atto che ora hanno deciso, nel giro di una notte - o poco più - di lasciare il gruppo che avevano formato con l'Ukip per entrare in quello dei liberali di Alde, una formazione di destra - infatti tra gli italiani ci sono stati i radicali e Monti e Rutelli e un bel po' di personaggi di questa risma - fortemente europeista: un passaggio piuttosto brusco dalle formazioni decisamente euroscettiche con cui fino ad ora si era accompagnato il partito guidato da Beppe Grillo. Sono rimasti a destra, ma sono passati dalla destra impresentabile a una decisamente più presentabile. Io, lo sapete, sono un vecchio comunista e non ho simpatia né per gli uni che per gli altri, anzi forse mi stanno perfino un po' più anticipatici quelli presentabili, perché comunque sono più pericolosi.
E' buffa una cosa però. I più "autorevoli" giornali italiani due anni fa hanno detto di tutto quando Grillo ha deciso di fare un gruppo con i camerati di Farage: se ne avete voglia, andate a prendere i giornali di quei giorni e leggerete decine di commenti, assolutamente sdegnati, per quella decisione. Anch'io, nel mio piccolissimo, non apprezzai quella scelta, perché mi parve un brutto segnale e contraddittorio con una parte delle persone che votano e militano in quel partito. Ora che quel vulnus è stato finalmente sanato gli stessi autorevoli commentatori dovrebbero essere contenti - io, che autorevole non sono mai stato, sono contento, perché comunque l'Ukip continua a essere una pessima compagnia - invece tuonano contro la scelta di Grillo. Compagni del Corriere, guardate che Grillo è venuto con voi, è venuto dove c'è già quell'agit-prop di Monti. Non sarebbe più onesto, cari autorevoli commentatori, che diceste, in maniera chiara, che i vostri padroni vi pagano per parlare male del Movimento Cinque stelle? Comunque io riesco a parlarne male, anche se nessuno mi paga.
Francamente mi preoccupa che il secondo partito italiano - o forse già il primo - possa decidere così facilmente, da un momento all'altro, di cambiare la propria collocazione all'interno del parlamento europeo, anche solo per ragioni puramente tecniche e regolamentari. Ma mi preoccupa anche il livello della discussione che non riesce a stare nel merito, ma immediatamente trascende, perché bisogna comunque dare addosso ai pentastellati. Peraltro è la tattica migliore per farli vincere, come ha dimostrato nei mesi scorsi Trump, che ha avuto un tale successo anche perché tutti i giornali "autorevoli" si sono schierati contro di lui. O forse qualcuno sta lavorando per far vincere Grillo e i grillini? Una brutta prospettiva per qual barlume di sinistra che ancora si arrabatta in questo paese. Come finiva quella canzoncina? Ah sì: tutti giù per terra...

sabato 7 gennaio 2017

Verba volant (337): neve...

Neve, sost. f.

Nevica: può succedere in inverno. Magari in alcune zone è più raro che in altre, ma sta nell'ordine delle cose. Poi noi viviamo in un mondo in cui esiste anche la neve artificiale, abbiamo in qualche modo "inventato" la neve, in bombolette da mettere sui presepi, per far finta che Gesù bambino sia nato al freddo e al gelo, e soprattutto con i cannoni, per allungare la stagione sciistica nelle località invernali. Lo so di essere in questo un vecchio conservatore, ma mi preoccupa molto di più quella neve finta, per produrre la quale occorrono grandi quantità di acqua e di energia, che la neve vera che pure in queste ore desta allarme sugli organi di informazione.
Certo non è ammissibile che delle persone muoiano a causa del freddo e della neve e una società in grado di fabbricare la neve a proprio piacimento deve - ed è, se lo vuole - essere in grado di impedire queste morti. Così come deve essere in grado di garantire che i mezzi di soccorso possano raggiungere che si trova in difficoltà. Ma è davvero necessario che tutti noi abbiamo la possibilità di spostarci da casa nei giorni in cui nevica? Magari per andare a sciare su piste innevate artificialmente?
Credo che la neve ci "disturbi" così tanto perché ci mette di fronte ai nostri limiti, ci ricorda che la natura è ancora, per fortuna, più forte della nostra specie, che pure ha l'ambizione di controllarla, sfruttarla, dominarla. La neve ci costringe a fermarci, e noi viviamo in un mondo in cui sembra impossibile fermarsi: abbiamo bisogno di essere sempre connessi, abbiamo bisogno di comunicare in ogni momento, abbiamo bisogno di sapere tutto quello che succede in ogni parte del mondo. E soprattutto abbiamo bisogno di muoverci in ogni momento per andare a comperare qualcosa. E' come se avessimo paura di fermarci, perché quella sosta forzata ci costringe a pensare, a riflettere, a stare con chi non vorremmo mai stare, ossia con noi stessi.
E forse dovremmo anche ricordare che il problema di quella famiglia di cui noi abbiamo in casa le statuette, magari in una capanna coperta di neve, non è il freddo, ma l'indifferenza degli uomini che non hanno loro offerto un posto in cui stare. E non è cambiato molto da allora, anzi sono molte di più le famiglie che vivono in condizioni precarie, che sono costrette a lasciare le loro case, magari perché qualcuno di noi ha bisogno delle neve artificiale.

giovedì 5 gennaio 2017

"Educare alla parola" di Tullio De Mauro

La fatica del dire e del capire
Chi di noi appartiene all'età adulta, ed è per giunta istruito, usa le parole in uno spazio che in genere gli appare puramente mentale: le ascolta e capisce, le progetta e con poca fatica le dice o scrive.
Ogni giorno, una persona adulta colta "processa", come dicono gli informatici, decine e decine di migliaia di parole. Vale la pena azzardare una stima. Sappiamo che, in un minuto, leggiamo o sentiamo leggere ad alta voce in modo comprensibile circa cento parole italiane o tedesche, centodieci francesi o inglesi, ma contemporaneamente, nello stesso minuto, ne pensiamo almeno altrettante senza troppa difficoltà.
Per essere cauti si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso. Nella lettura muta un buon lettore triplica queste cifre. E le parole pensate possono scorrere sullo schermo della mente ancora più veloci di quelle lette. Così l'adulto colto si fa l'idea che le parole e il parlare siano qualcosa di aereo: puro spirito.
Restano sepolte nella memoria perinatale e postnatale le fatiche del primo apprendimento delle prime parole, quando tutto il corpo, cervello compreso, dovette imparare a obbedire a un impulso primordiale: impegnarsi nella fatica di ascoltare voci, di isolare parole, di capirle, capirne l'importanza vitale, imparare a tenerle a mente, desiderare poi di balbettarle e, infine, riuscire a dirle.
Di solito resta sepolta nella memoria infantile anche quella che Antonio Gramsci chiamava "la fatica muscolare dello studio" - natiche dolenti per lo stare seduti a leggere, occhi stanchi a decifrare gruppi di lettere di alfabeti o ideogrammi, a imparare cifre e numeri - per quella parte del genere umano che ha potuto studiare e, di nuovo, ha dovuto fronteggiare il compito di imparare nuove parole di una qualche lingua, apparentemente lontane dall'immediata vita quotidiana, così come il bambino aveva imparata a vederla.

Appropriarsi della parola
L'adulto colto ha vissuto allora tutta la fatica di mobilitare corpo e cervello per trasformare l'impulso naturale primordiale al comunicare nel cammino che lo ha portato a farsi partecipe di una cultura determinata e a salire in uno spazio dove parole, cifre, formule aleggiano leggere e sono quasi sempre, quasi tutte, a portata di intelligenze che hanno imparato a muoversi sempre più speditamente.
Ma in generale l'adulto istruito quella fatica l'ha dimenticata: la sua mente scorre distratta, come su una cosa ovvia, quando legge che il parlare umano è qualcosa di naturale e però è anche qualcosa di culturale, di storico.
Se uno riesce a comunicarglielo, l'istruito apprende con stupore che è non è altrettanto ovvio mettere insieme le due affermazioni in modo concettualmente coerente, oltre che col trattino con cui scriviamo lingue storiconaturali.
La visione del parlare che qui vogliamo delineare ha la presunzione di togliere ovvietà a quel che appare ovvio, non per il gusto di complicare le cose ma perché l'adulto istruito avverta l'enormità del privilegio che la storia della specie e remote fatiche infantili gli hanno dato.
E questa è una condizione necessaria per trarne qualche conseguenza. E perché anche altri, non uno di meno se possibile, si affaccino nell'aereo mondo mirabile dove può muoversi la sua mente.

La parola e il linguaggio, tra natura e cultura
Il primo passo da fare è rendersi conto di quanto la cultura e l'intelligenza linguistica di chi è istruito devono all'animalità e al corpo. Naturalmente, anche un profano si rende conto che gli organi di cui ci serviamo per produrre o sentire la voce, oppure il cervello che guida produzione e percezione della voce e memorizza parola e regole, e anche l'attribuzione di valori sintattici e semantici alle sequenze foniche con cui parliamo sono eredità biologiche per ciascun individuo della specie umana.
Ma anche il profano capisce che, invece, non sono "natura", ma appartengono a certe epoche storiche e non ad altre certi significati e certi vocaboli, come le differenze dei significati possesso e proprietà, così come sono gravidi di una cultura e storicità determinata vocaboli come, per esempio, pólis, praetor, parlamento, aeroplano, computer, ma anche parole umili come scarpa, patata, pane, lampadina.
Del resto anche la morfologia e la sintassi delle lingue si presentano variabili nella storia e nello spazio. Così anche il profano intende che nel parlare umano naturalità e storicità si intrecciano. Il problema teorico è capire se è possibile individuare i confini tra i due domini. Se ciò è possibile, il problema diventa assegnare l'uno o l'altro aspetto della realtà linguistica al tempo della storia e delle culture umane o al più lento tempo dell'evoluzione naturale delle specie viventi nel cosmo, o almeno in questo nostro pianeta.

La parola "naturale"
Il problema, nella sua formulazione più generale e generica, non è nuovo. Già nel mondo greco antico, a partire dalle osservazioni di viaggiatori, medici e filosofi, si formò l'idea che sapere usare una lingua è un fatto naturale per gli esseri umani.
Nel Perì diaítes, attribuito a Ippocrate (Coo 469-Larissa 399 a.C), composto comunque intorno al 400 a.C., il parlare, la diálektos, viene considerato uno dei sette sensi (udito, vista, odorato, gusto, diálektos appunto, di cui è organo la bocca, tatto, inspirazione-espirazione) che mettono in contatto l'ánthropos, l'"essere umano", con il cosmo, e gli danno conoscenza e ignoranza (Reg. I, XXIII).
Già allora, e ancora più nel secolo immediatamente seguente, fu chiaro che, unico tra gli altri "sette sensi", il linguaggio si proietta in lingue differenziate a seconda delle póleis, dei popoli e dei tempi. Questa idea acquistò ancora più nettezza in seguito. Il nesso natura-molteplicità storica è centrale nella dottrina che Dante, riecheggiando sia Orazio (cioè, come oggi sappiamo, antiche fonti epicuree) sia gli scolastici di derivazione aristotelica, fa esporre al progenitore del genere umano, Adamo, nel canto XXVI del Paradiso (vv. 124-38), in particolare nella terzina famosa:
Opera naturale è ch'uom favella,
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v'abbella
In età moderna, e ancor più nel Novecento, le frontiere della ricerca intorno al linguaggio umano hanno conosciuto e stanno continuando a conoscere rapidi spostamenti. Le conoscenze consolidate si sono ampliate e si vanno ampliando enormemente. Sempre di più capiamo che, come ha scritto un linguista seguace di Noam Chomsky, l’americano Ray Jackendoff (Linguaggio e natura umana, p. 17), "l'abilità di parlare e capire una lingua umana è una complessa miscela di natura e cultura".
Oggi scorgiamo meglio il ruolo della fisicità, anzi - meglio - della animalità nel costituirsi della lingua. Ci rendiamo conto che elementi costitutivi e primari del linguaggio umano si riconducono a strati profondi della evoluzione dell’intera biomassa.
Due biologi, John Sepkopski e Jay Gould, hanno mostrato come ogni singola parte dell’organismo umano (muscoli, sangue, ossa, nervi, unghie, fino ai capelli) sia riconducibile a una particolare tappa della scala evolutiva in cui quella parte emerge. Ho cercato di mostrare altrove, più in dettaglio, che qualcosa del genere vale anche per ogni nostra lingua.
Una lingua, come fu insegnato tra fine Ottocento e inizio Novecento da Charles Peirce e Ferdinand de Saussure, è anzitutto un codice semiologico, un codice cioè che, come ogni altro codice semiologico, consente a chi lo usa la produzione e la comprensione di segnali realizzate associando ordinatamente sensi ed espressioni nei significati e significanti dei suoi segni (cioè, nel caso della lingua, parole, frasi, testi).

Una capacità condivisa da ogni vivente
L'uso di un qualunque codice semiologico, anche semplicissimo come quello di esseri elementari (perfino unicellulari) presuppone una serie di capacità che non sono solo umane ma appartengono agli strati più profondi della scala evolutiva. Tali sono la capacità di identificare/differenziare (segnali o altro), essenziale per l'omeostasi, la riproduzione ecc., dunque per l'intera biomassa; la capacità di raccogliere entità diverse in schemi e classi di similarità e di trattarle come simili; la capacità di sintonizzarsi con altri viventi, la capacità di interazione e imitazione sintonica nel ricevere e produrre entità e comportamenti che concretino gli schemi ora detti.
Senza queste capacità non si avrebbero segni e segnali. Se le condizioni per avere segni e segnali appartengono a strati profondi dell’insieme dei viventi, appartengono a tali strati anche il bisogno e la capacità di usare i segnali e i segni nelle funzioni che abbiamo imparato a conoscere inizialmente osservando il solo linguaggio umano: la funzione espressiva, che accompagna ogni segnale dichiarando (lo si voglia o no) l'identità di chi lo produce; la funzione di appello, con cui col segnale si richiama l'attenzione di altri; la funzione di menzogna e/o di gioco; la funzione di rappresentazione semantica di un contenuto.
Ma una lingua non è solo e semplicemente un codice semiologico qualunque. È un codice semiologico che appartiene a una sottoclasse della classe cui appartengono anche i calcoli e i linguaggi formali, cioè alla sottoclasse dei codici con segni che sono articolati in morfi (unità di per sé significative, come le singole cifre di un numero arabo o i numeri di un’addizione ecc.) e in sintagmi (gruppi di parole o gruppi di numeri ecc.).
Di nuovo ciò rimanda a capacità pre-umane, come la capacità di discriminare le parti di un segno e saperle riutilizzare e combinare correttamente, come sanno fare molte specie viventi dalle api a molti uccelli, ai mammiferi superiori. Su queste basi profonde gli Ominidi direttamente antenati dell'Homo sapiens, e l'Homo sapiens, hanno appreso attraverso molte centinaia di migliaia di anni a conferire alle lingue altre proprietà che, almeno per ora, non troviamo tutte insieme presenti e intrecciate fuori delle lingue umane e dei codici postlinguistici, come i calcoli matematici che gli umani hanno costruito a partire alle lingue.
Ma anche queste proprietà più specifiche si sono manifestate perché gli umani hanno fatto appello a capacità non unicamente umane, ma più largamente presenti una per una nel mondo vivente: le lingue si caratterizzano per il loro oscillare e variare nello spazio e nel tempo, oscillano e variano i significati delle parole, e ciò presuppone l’appello continuo alla capacità di innovare e di sfruttare le innovazioni in modo diverso da luogo a luogo, capacità che troviamo in molte di quelle specie viventi che l'etologo Dànilo Mainardi, seguito poi da altri, ha chiamato "animale culturale".

Le radici vitali della parola
La fatica dimenticata dei primi anni di vita di un essere umano condensa la fatica che, nelle centinaia di migliaia di anni, la specie umana ha compiuto per costruirsi forme sempre più astratte di cultura e lingue che possono essere rese idonee a ciò.
Il gioco delle analogie che sorregge una qualità tipica delle parole, la flessibilità dei loro significati, non è un arabesco intellettuale librantesi nel vuoto, ma è un gioco che continuamente rinvia a ciò che Galileo chiamava "sensate esperienze", alla base fisica e corporea della nostra vita e capacità di intelligenza.
Quel poter dire io e tu che aiuta a dire e capire ciò che noi o altri diciamo rinvia al nostro saper essere parte autonoma, autonomamente inventiva, di un gruppo, e al saper riconoscere ad altri tale autonomia.
Animalità, corporeità, comunanza sono altrettante radici delle nostre parole, anche le più rarefatte. Proprio per la enorme potenza intellettuale di ogni lingua, il locutore, se ne smarrisce le radici vitali, biologiche, animali, corporee, rischia di fingere di parlare, mentre in realtà fa girare a vuoto la lingua.
Il rischio di questo smarrire le radici animali, corporee, non riguarda solo il nostro parlare. Rinvio a due lavori recenti, forse ancora non ben noti (almeno ai linguisti). Uno psicoanalista brasiliano e teorico dell’analisi, Armando B. Ferrari, ha appena pubblicato un volume significativo per noi fin dal titolo: From the Eclypse of the Body to the Dawn of Thought (Free Association Books, Londra 2004) e un italiano, Massimo Negrotti, studia da molti anni ciò che, in gran parte, determina nelle nostre culture il rischio di eclissi del corpo, l'immenso sviluppo pervasivo dell'artificialità (La terza realtà. Introduzione alla teoria dell’artificiale, Dedalo, Bari 1997).

Parlare a vuoto
Eclissi del corpo e artificialità ci espongono al rischio del parlare a vuoto. Il parlare non gira a vuoto soltanto se i suoi contenuti si ancorano, prima o poi, a un esperire concreto. Specie nelle fasi di apprendimento, soltanto per tale via si formano i significati: a partire da sensi assai determinati e sperimentati nel vivo, operativamente, con intervento non solo dei canali percettivi "nobili" (vista, udito), ma anche dei più rudimentali (tatto, gusto, olfatto). Anche la comprensione si realizza attraverso processi di adattamento, di va e vieni, tra lo scorrere di sensi determinati e il bagaglio di potenzialità semantiche delle parole disponibili per il ricettore.
Senza circoscritte esperienze individuate da particolari sensi in cui si concretano i significati delle frasi di un locutore che non parli a vuoto, il ricettore rischia di accogliere queste frasi come formule vuote. E di diventare lui stesso poi un ripetitore di formule vuote, un rischio colto già tanti anni fa genialmente da Georges Orwell (Politics and English Language, 1946).
La prima conseguenza da trarre è cercare di non smarrire mai la coscienza del rapporto di continuità che lega, immediatamente o mediatamente, il più aereo e astratto dei significati al concreto e all'immediato esperire. La seconda conseguenza è poter capire quanto lunga è la strada che porta dalle esperienze più concrete e immediate alle elaborazioni più astratte e intessute di mediazioni e ciò ci aiuta anche a capire quanti sono quelli che non la percorrono tutta, ma si perdono lungo il cammino. Una lingua è fatta in modo che in qualche misura sia possibile comunicare con parole anche oltre la distanza culturale, ma ciò avviene solo in modo limitato.
Il gioco verbale più denso di significati complessi gira a vuoto per molti. Non bisogna disperare: utilizziamo solo una parte assai piccola delle potenzialità di comunicazione che ci offre una lingua.
Possiamo fare passi avanti sulla via antica della comprensione reciproca e della comprensione e intelligenza del mondo. Purché chi guarda in fondo al linguaggio vi scorga la necessità che esso, se non vuole limitare la sua stessa funzione, si faccia esso stesso educazione alla parola in tutte le sue potenzialità.

martedì 3 gennaio 2017

da "Tragedie in due battute" di Achille Campanile

Amleto in trattoria

Personaggi: 
Amleto
Il cameriere
Avventori, camerieri, sigaraio, ecc.

In una trattoria di Danimarca, all'ora del pranzo. 

Amleto
esaminando il microscopico pollo che gli è stato servito

Cameriere, che è questo che m'avete servito? 

Il cameriere
Oh, signore, era un pollo, ma ora e morto, pace all'anima sua, e non è più niente. 

(Sipario)

lunedì 2 gennaio 2017

Verba volant (336): banale...

Banale, agg. m. e f.

A leggere i giornali pare che il problema più grave della fine del 2016 e di questo, appena abbozzato, inizio del 2017 sia quello delle cosiddette bufale, ossia delle notizie false che si trovano in rete, così come si sono sempre trovate sugli altri mezzi di informazione, compresi gli autorevolissimi quotidiani che in questi giorni si sono scagliati contro questo fenomeno di costume. Permettetemi di non essere d'accordo. Il problema sono, sempre più, le parole banali. E di questo siamo responsabili tutti, noi che scriviamo, più o meno professionalmente, e voi che leggete e parlate. Ovviamente anche noi che scriviamo parliamo, ma in genere non ci ascoltiamo.
Se nei giorni scorsi scorrevate distrattamente la vostra bacheca di Facebook o andavate, altrettanto distrattamente, in giro per strada, avreste letto e sentito espressioni come queste: per fortuna che quest'anno sta per finire, lo voglio proprio dimenticare questo 2016, speriamo che il prossimo anno sia migliore di questo. Si tratta evidentemente di un esercizio retorico, perché sono le frasi che ripetiamo ogni anno e che accompagniamo ad auguri insiceri, rivolti a persone di cui non ci importa nulla: a te e famiglia, buona fine e miglior principio, tante care cose.
Ovviamente non voglio sindacare su quello che vi è successo nel 2016, immagino che per qualcuno di voi sia stato davvero un anno molto brutto; qualcuno di voi avrà perso, magari in circostanze drammatiche, una persona amata, qualcuno ha subito un terremoto, troppi quest'anno hanno perso il lavoro. In genere le persone per cui il 2016 è stato davvero drammatico hanno pudore di dirlo e comunque spesso cercano una speranza, un raggio di luce che rischiari il buio. Invece per la maggioranza di noi il 2016 è stato sostanzialmente come l'anno precedente e, azzardo una previsione degna del mago Otelma o di Rob Brezsny, il 2017 sarà uguale al 2016. E soprattutto noi "normali", noi che abbiamo avuto la ventura di nascere da questa parte del mondo in questa epoca, non abbiamo il diritto di lamentarci per l'anno appena trascorso.
Mi sarebbe piaciuto interrogare qualcuno di questi tristi figuri e chiedere loro perché il 2016 sarebbe stato così terribile. Forse perché è stato l'annus horribilis in cui sono morti tanti artisti e uomini illustri? Preparatevi perché ne moriranno anche quest'anno. D'altra parte Zsa Zsa Gàbor aveva 99 anni e Fidel Castro 90 e non stava molto bene. E' la stessa età di Elisabetta II: ovviamente God save the Queen, ma prima o poi... Forse il 2016 è stato orribile perché la tua ragazza ti ha lasciato? Questo dimostra semmai che lei ha più discernimento di te. O il dramma è che la tua squadra è retrocessa in serie C? O che hai perso il referendum? Comunque i tifosi di un'altra squadra hanno festeggiato la promozione e qualcuno è contento di averlo vinto quel benedetto referendum.
Banale deriva dal francese banal che significava anticamente appartenente al signore e poi ha assunto il senso di comune a tutto il villaggio, da cui il significato che ha oggi questo aggettivo. Comune al villaggio globale, in questa epoca social, in cui ci lamentiamo di tutto in rete. Credo dovremmo fare uno sforzo per non essere banali, per non dire sempre le stesse cose, le cose che gli altri si aspettano che vengano dette. Anche perché se noi riusciremo a non essere banali potremo pretendere che quelli che ci governano non dicano cose banali. Non ho ascoltato il messaggio di fine anno, ma ho l'impressione di non essermi perso molto. E non è neppure colpa di Mattarella, ma è che sapevamo cosa avrebbe detto, come sapevamo cosa avrebbero detto i due buontemponi che hanno fatto i loro contromessaggi quella stessa notte. Quante volte leggiamo articoli banali, e cento articoli banali fanno molti più danni di un articolo falso. Così come fanno danni le lezioni banali, gli spettacoli banali.
Non essere banali significa soprattutto pensare prima di parlare. Perché ci sono molti che sono banali, anche se dicono cose originali. Ad esempio ci sono alcuni intellettuali di sinistra che si peritano di dire sempre una cosa diversa da quella dettata dal senso comune, perché così sono convinti di essere intelligenti; questa forma di banalità, che prescinde appunto dal pensare a quello che si dice, tiene conto solo dell'effetto di quello che si dice. E' una banalità altrettanto pericolosa. Per questo vi auguro - e mi auguro, perché ovviamente tutti ci cadiamo - meno parole banali. E credo sia un buon proposito per l'anno che verrà.
E si può augurare buona fine e miglior principio anche senza essere banali: basta essere sinceri ed essere consapevoli di quello che si dice, perché come dice il poeta:
l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale.