Pianoforte, sost. m.
Come succede spesso alle grandi storie americane, anche quella che vi sto per raccontare comincia nella vecchia Europa, esattamente in un’imprecisata città del Regno di Sassonia, al tempo di Federico Augusto II, il re costretto alla fuga nell’effimera “rivoluzione di maggio”, sulle cui barricate hanno combattuto fianco a fianco Wagner e Bakunin. Ma non divaghiamo.
Non sappiamo di preciso né dove né quando sia nato Julius Weiss. Né perché, intorno ai trent’anni, abbia deciso di andare negli Stati Uniti. Certo non era facile la condizione degli ebrei nell’Europa centrale alla metà dell’Ottocento, a meno che non fossero molto ricchi, ma immaginiamo che nel caso di Julius ci siano state anche altre ragioni per abbandonare il più in fretta possibile il suo paese, lasciandosi alle spalle un oceano.
Julius ha trent’anni quando arriva ad Ellis Island, ma preferisce non rimanere in quella grande città. Si trasferisce nella piccola Port Jarvis, nello Stato di New York, diventata un fiorente centro commerciale grazie all’apertura, nel 1828, del canale Delaware e Hudson, che serviva a trasportare il carbone estratto nella Pennsylvania nord-orientale fino al porto di New York. Julius a Dresda è andato all’università e quindi in America fa l’insegnante, poi conosce la musica e quindi dirige il coro della piccola comunità tedesca della città. Nel 1877 deve lasciare velocemente anche Port Jarvis a causa di diversi debiti che non riesce a pagare. Si trasferisce allora in una cittadina di cinquemila abitanti nel Texas, Texarkana. Si tratta di una città fondata nel 1874 dai proprietari della ferrovia che collega il Texas e l’Arkansas, esattamente dove c'è il lungo e diritto confine che separa i due stati: a ovest c’è la Texarkana del Texas e a est la Texarkana dell’Arkansas.
Julius si stabilisce nella prima, confidando che i suoi creditori non arrivino fino a lì. Un ricco proprietario terriero, attivo nell’industria del legname, Robert W. Rodgers, assume Weiss per insegnare ai propri figli il tedesco, la matematica, le materie scientifiche e a suonare il violino. Il precettore arrivato dalla Germania si fa presto un nome e altre ricche famiglie della cittadina mandano i figli a studiare musica da lui, tanto che all’archivio comunale si fa registrare come “professore di musica”.
Ma c’è un’altra cosa che divide gli abitanti di Texarkana, ben più drammatica del confine, lungo e diritto, tra Texas e Arkansas. Bianchi e neri devono vivere in due mondi rigorosamente separati. Naturalmente i neri possono andare a servizio nelle case dei bianchi, ma devono rimanere al loro posto. Julius è un bianco che ama frequentare i locali dove i neri passano il loro tempo libero. Certo è guardato male, ma è il professore di musica, un’artista, e quindi viene in qualche modo tollerato. Gli uomini di colore che osservano quel bianco con sospetto non immaginano che Julius ha già dovuto sopportare quegli sguardi pieni di odio, nella sua patria.
In una di queste serate Julius ascolta un ragazzino che suona il piano dimostrando un incredibile talento. Finita l’esibizione, gli chiede quanti anni abbia e dove abbia imparato a suonare così. Gli risponde che ha dodici anni, che suo padre suona il violino e sua madre il banjo e che loro gli hanno insegnato quello che sanno. Poi sua madre lo porta nelle case dei signori dove fa le pulizie e, se non c’è nessuno, gli permette di suonare il piano. Julius scopre che quel ragazzo ha imparato da solo, praticamente da autodidatta. Si offre di dargli lezioni private, ma Florence deve rifiutare: il marito se n’è andato con un’altra donna, lasciandola sola con sei figli. Non può certo spendere soldi per lezioni private di pianoforte. Julius però le dice che quelle lezioni saranno gratuite. Per cinque anni Julius insegna musica a quel ragazzo nero, lo fa esercitare al pianoforte, gli fa ascoltare la musica dei grandi compositori europei, gli spiega cos’è l’opera. Dà anche a Florence i soldi per acquistare un vecchio pianoforte, in modo che il suo allievo possa esercitarsi anche a casa. Il ragazzo vuole bene a quello strano professore che sa tutte quelle storie sulla musica, che gli insegna a suonarla e ad amarla.
È grazie alle lezioni di Julius Weiss che quel ragazzino diventa Scott Joplin.
Sono passati venticinque anni. Scott Joplin vive da qualche mese a New York, insieme alla sua terza moglie, Lotti Stokes. Maple Leaf Rag e i molti altri brani che ha composto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli hanno procurato fama a livello nazionale e una certa sicurezza economica. Sono lontani gli anni in cui Scott suonava il piano nei bordelli tra Sedalia e Saint Louis, sviluppando quel suo stile così caratteristico. Ormai ha fatto conoscere il ragtime, la nuova musica dei neri, a tutta l’America, grazie soprattutto all’Esposizione Universale di Chicago del 1893. Gli organizzatori di quello storico evento non hanno coinvolto gli artisti afroamericani, ma i ventisette milioni di visitatori che hanno accalcato la fiera nella “città del vento” non si limitano a frequentare le manifestazioni ufficiali. Riempiono i saloon, i caffè e le case di appuntamento della città e in tutti questi posti si suona questa musica, nuova, sincopata, la musica che annuncia il nuovo secolo e così Scott Joplin diventa l’indiscusso “Re del Ragtime”.
Però a Scott non basta. Ricorda bene cosa gli ha insegnato il professor Weiss, ossia che con la musica si possono raccontare delle storie. Anche lui vuole scrivere un’opera, come hanno fatto Mozart, Rossini, Verdi e Wagner.
Scott ci ha già provato. Nel 1903 ha scritto musica e libretto di A Guest of Honor, un’opera in due atti, in cui ha raccontato gli eventi che hanno preceduto la cena che il presidente Theodore Roosevelt ha organizzato per l’educatore e leader dei diritti civili Booker T. Washington, la prima volta che un leader afroamericano viene invitato alla Casa Bianca. Scott, grazie ai proventi dei suoi pezzi di ragtime, ha anche messo in piedi la compagnia per rappresentarla e organizzato una tournée nella principali città americane. In una di queste, a Springfield o a Pittsburg, qualcuno ruba a Scott gli incassi dei biglietti e lui non riesce più a pagare né i salari degli artisti né i conti degli alberghi dove alloggiano. È un fallimento: gli viene perfino confiscato lo spartito dell’opera, che oggi è ormai perduto.
Nonostante questa drammatica battuta d’arresto il musicista non si dà per vinto: il suo obiettivo è scrivere la prima opera della musica nera americana. Per questo si trasferisce a New York, perché pensa che in quella città troverà un ambiente più favorevole per produrre il suo nuovo lavoro, intitolato Treemonisha. Ma rimane, ancora una volta, deluso: nessun produttore vuole metterla in scena, nonostante l’ottima recensione apparsa nel numero di giugno del 1911 dell’American Musician and Art Journal, a cui Scott ha inviato la partitura per canto e pianoforte.
Treemonisha rappresenta una novità sia per la musica che per il libretto. Anche se viene talvolta definita come la prima “opera ragtime”, Joplin usa questo stile musicale solo in alcune scene di ballo. La struttura è piuttosto classica, ci sono un’ouverture e un preludio, si alternano arie e recitativi, con brani d’insieme e cori. Ma la musica è quella della tradizione nera che Scott ha conosciuto così bene nel corso della sua giovinezza. Ci sono echi degli spirituals e dei canti eseguiti nelle congregazioni. C’è quello che sarà il blues e il jazz. Treemonisha racconta con la sua vitalità e la sua forza la musica che sta per nascere in quel paese.
La protagonista dell’opera è Treemonisha, una giovane ex-schiava che ha avuto l’opportunità di imparare a leggere e scrivere grazie a una donna bianca che l’ha accolta nella sua casa e le ha insegnato il valore della cultura. E per questo è facile immaginare che Scott abbia pensato a Julius Weiss e a quanto quell’uomo abbia rappresentato per lui. Per questo la ragazza si batte contro gli evocatori di spiriti, che, sfruttando l’ignoranza e la superstizione, riescono a tenere soggiogata la sua comunità. I “cattivi” nell’opera di Joplin sono anch’essi neri che, rendendosi conto del pericolo rappresentato da Treemonisha, la rapiscono e cercano di ucciderla. Alla fine lei si salva e la sua comunità, che prima l’ha trattata con sufficienza, si rende conto del valore dell’educazione e sceglie Treemonisha come insegnante e propria leader. Con questa opera Scott Joplin vuole dire ai neri americani che solo attraverso lo studio saranno davvero liberi.
L’impossibilità di mettere in scena Treemonisha getta nello sconforto Scott. Nel 1915 lui stesso organizza un’esibizione in forma di concerto dell’opera al Lincoln Theatre di Harlem, la prima sala che accoglie spettacoli dei neri in un quartiere in cui la popolazione è ancora prevalentemente bianca, anche se la composizione sociale sta rapidamente cambiando. Paga di tasca sua la compagnia di canto, che lui accompagna al pianoforte al posto dell’orchestra. Le reazioni a questa esibizione non sono particolarmente lusinghiere. La delusione aggrava le sue condizioni di salute. Il suo fisico è minato da una grave forma di neurosifilide. All’inizio di febbraio del 1917 viene ricoverato in un istituto psichiatrico, il Manhattan State Hospital, dove muore il 1 aprile per demenza sifilitica, all’età di 48 anni. Il “Re del ragtime” viene sepolto in una tomba anonima destinata ai poveri nel cimitero di St. Micheal a East Elmhurst nel Queens. Solo nel 1974 la tomba viene ritrovata e vi viene posta una lapide. È l’anno in cui la sua musica ottiene un Oscar per la colonna sonora del film La stangata, che fa conoscere a una nuova generazione quel ritmo incredibile.
Sono gli anni in cui finalmente viene ritrovata la partitura di Treemonisha che si credeva perduta e che nessuno, dopo quella sfortunata esibizione del 1915 ha potuto ascoltare. Il 22 ottobre 1971 estratti dell’opera vengono eseguiti in forma di concerto alla New York Public Library for the Performing Arts da William Bolcon, Joshua Rifkin e Mary Lou Williams. Finalmente il 27 gennaio 1972 va in scena ad Atlanta con la regia della ballerina e coreografa afroamericana Katherine Dunham e la direzione di Robert Shaw, uno dei primi grandi direttori d’orchestra a volere sia bianchi che neri nelle proprie compagini. È finalmente un successo e per quest’opera a Scott Joplin nel 1976 viene assegnato il Premio Pulitzer.
E che ne è stato di Julius Weiss? Le notizie sull’ultima parte della sua vita sono frammentarie. Sappiamo che a Texarkana, dopo aver finito la sua attività di precettore, Weiss gestisce una gioielleria e un banco di pegni. Un’attività redditizia, tanto che diventa presidente della Texarkana Savings Bank e azionista di rilievo di un’importante azienda di legname. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Nel 1889 fugge dalla città con trentamila dollari. Lo ritroviamo a Houston dove apre un banco di pegni e riprende la sua attività di insegnante di musica. Senza troppo fortuna. Vive quegli ultimi anni della vita malato e in miseria. Nessuno sa quanto sia stato importante per la musica americana. Scott non si dimentica di lui e, pur tra le sue difficoltà, gli invia ogni tanto del denaro. Non sappiamo nulla della sua morte.
sabato 20 maggio 2023
sabato 13 maggio 2023
Verba volant (835): attrice...
L’Europa in cui irrompe il dramma di Ibsen è apparentemente stabile, i grandi imperi sembrano aver trovato un loro equilibrio, almeno sul continente, anche perché le tensioni tra le cancellerie vengono scaricate sulle colonie. Ma ci vorrà poco perché si arrivi alla prima guerra mondiale. E anche la società sembra solida, retta intorno alla sana famiglia borghese. Ma sotto la cenere covano forze che il perbenismo vittoriano e il rigore guglielmino non riescono più a trattenere. Nuove forze politiche stanno crescendo, pronte a deflagrare tutta la loro carica rivoluzionaria all’inizio del secolo. Nuove correnti artistiche sentono che il classicismo non è più in grado di raccontare il mondo. A Vienna c’è un medico che sta per cambiare tutto quello che si sa su come funziona la mente degli uomini. E poi si profila all’orizzonte un soggetto “nuovo”, che non è più disposto ad accettare le regole imposte da una morale maschile sempre più asfissiante e sclerotizzata: sta per cominciare il secolo delle donne.
Casa di bambola è il testo che annuncia tutto questo con la forza eversiva del teatro. Nora, diventata finalmente consapevole di se stessa, quando dice al marito che non sarà più la sua bambola e lascia la casa per un avvenire tanto incerto quanto libero, è la donna del secolo nuovo, che vuole per sé un futuro diverso da quello che gli altri hanno costruito per lei.
Betty Hennings è la prima attrice a portare questo personaggio sul palco.
Nasce a Copenaghen nel 1850. Entra giovanissima nella scuola di danza del Teatro Reale Danese: è molto brava e il suo futuro sembra quello di una stella della danza. Nel 1869 diventa ballerina solista, ma il direttore della scuola di recitazione del teatro la esorta a provare anche un’altra strada. L’anno dopo è Agnès ne La scuola delle mogli di Molière e Betty capisce che recitare è quello che vuole fare davvero, anche se corre il rischio di deludere le aspettative dei suoi genitori. Diventa la più importante interprete dei drammi di Ibsen: dopo Casa di bambola, è la protagonista di L’anitra selvatica, La donna del mare, Hedda Gabler. Ed eccelle nel repertorio shakespeariano: da giovane è una celebre Ofelia, ma è altrettanto famosa nella maturità per il ruolo di Gertrude. Nel 1922, quando si ritira, la regina del teatro danese ha interpretato centosettanta parti in più di tremila spettacoli.
La fama di Ibsen e la curiosità per quel dramma dalla trama così nuova fa sì che in pochi giorni vengano allestite altre produzioni. A gennaio del 1880 Casa di bambola viene rappresentato al Teatro Reale di Stoccolma. E poi a Christiana, come si chiama allora la capitale norvegese.
La grande attrice tedesca Hedwig Niemann-Rabee viene scritturata per il debutto in Germania.
Nata a Magdeburgo nel 1844, è da diversi anni la stella del teatro tedesco. Dopo i primi anni ad Amburgo, ha lavorato al Teatro Tedesco di San Pietroburgo, per poi tornare definitivamente in patria. Il pubblico la adora. Il giovane Nietzsche le scrive nel 1866 una lettera appassionata, confessandole tutto il suo amore. A questa lettera, come alle altre dei suoi ammiratori, l’attrice non risponde. Hedwig ha già recitato nelle opere di Ibsen ed è naturale che sia lei a interpretare Nora, ma si rifiuta: non vuole portare in scena una donna che abbandona i propri figli.
Ibsen, sollecitato dai suoi editori che temono la censura e la reazione del pubblico, accetta di riscrivere il finale: non ci sono leggi a tutelare il diritto d’autore e non vuole che sia qualcun altro a mettere mano alla sua opera. Il drammaturgo considera un “barbaro oltraggio” quel secondo finale, in cui Nora non lascia il marito, ma accetta di rimanere al suo posto, sperando che l’uomo abbia capito quello che lei sente davvero. Così nel febbraio 1880 Casa di bambola può debuttare a Flensburg e cominciare una tournée nelle principali città della Germania: Amburgo, Dresda, Hannover e Berlino. Mercoledì 3 marzo un’altra compagnia mette in scena il dramma al Teatro della Residenza di Monaco, ma nella versione originale, e Ibsen partecipa ad alcune delle prove per dare le sue indicazioni di regia agli interpreti. Si tratta di una compagnia senza nomi di richiamo, rimane in cartellone pochi giorni e non si riescono a programmare repliche in altre città. Ma nemmeno la produzione “ufficiale”, con il secondo finale, nonostante la fama della protagonista, ottiene il successo sperato. Hedwig, da consumata donna di teatro, capisce che le sue convinzioni non possono prevalere sulla forza drammatica del personaggio e nelle repliche della capitale introduce il finale originale. Così finalmente il dramma ha successo. Il secondo finale viene dimenticato: verrà ripreso, significativamente, durante il regime nazista, quando Casa di bambola potrà essere messo in scena solo in questa versione.
Nel 1883 Casa di bambola viene rappresentato per la prima volta negli Stati Uniti, a Louisville, nel Kentucky. È l’attrice di origini polacche Helena Modjeska che vuole fortemente produrre quello spettacolo, la prima volta di un dramma di Ibsen al di là dell’Atlantico.
Helena nasce a Cracovia nel 1840. Non sappiamo molto della sua infanzia e della sua giovinezza, su cui lei stessa, nella sua autobiografia, è reticente. A ventun’anni debutta a teatro e in breve tempo diventa la più acclamata attrice polacca della sua epoca e, forse involontariamente, un simbolo del nazionalismo del suo paese. Quando un gruppo di studenti, nel 1868, al termine di uno spettacolo le regala un mazzo di fiori legato con un nastro bianco e rosso, le autorità imperiali russe ordinano la chiusura del teatro e l’espulsione dei ragazzi da ogni scuola del paese. Dieci anni dopo Helena, suo marito - editore di un giornale nazionalista liberale - e un gruppo di letterati e intellettuali polacchi decidono di fondare una comunità rurale in California e acquistano un ranch vicino ad Anaheim. Nessuno di loro ha una qualche vera esperienza e non parlano neppure l’inglese: in pochi mesi la fattoria fallisce e il gruppo si sfalda. Lei decide di tornare al teatro e debutta nel 1877 nel ruolo della protagonista in Adriana Lecouvrer. Studia con impegno l’inglese, ma non perderà mai il suo marcato accento polacco. Eppure ottiene un grande successo: è un’attrice di grande carisma e in poco tempo diventa la più famosa interprete dei drammi di Shakespeare. Nel 1883 diventa finalmente cittadina americana e quell’anno vuole produrre per il teatro di Louisville il dramma di Ibsen, che debutta venerdì 7 dicembre, senza incontrare l’entusiasmo del pubblico del Sud, che fatica a immedesimarsi in quella storia sulla buona borghesia europea. Helena continua a recitare fino al 1905, pochi anni prima della morte. La polizia zarista, a causa delle sue idee politiche e delle sue ascoltate denunce sulla condizione delle donne nella Polonia occupata, le vieta l’ingresso in Russia.
In Gran Bretagna la censura che il Lord Ciambellano impone sugli spettacoli teatrali impedisce che il dramma di Ibsen venga rappresentato. Nel 1884 debutta al Princess Theatre Breaking a Butterfly, un adattamento scritto da Henry Arthur Jones e Henry Herman. Non solo ai due commediografi viene data una brutta traduzione della versione con il secondo finale, ma viene chiesto di ricavarne una commedia. In questa versione un vecchio impiegato sottrae la cambiale dalla scrivania di Krogstad e la vicenda si chiude con un improbabile lieto fine. L’opera di Ibsen però comincia a circolare a stampa. In alcune ricche case aristocratiche il dramma viene messo in scena per un pubblico selezionato. In una di queste è impegnato anche George Bernard Shaw, nel ruolo di Krogstad. Finalmente venerdì 7 giugno 1889, al Novelty Theatre, viene messa in scena una fedele traduzione del dramma, con il primo finale. Nora è l’attrice Janet Achurch.
Nata vicino a Manchester nel 1863, Janet è una figura singolare del teatro inglese tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, perché è l’unica donna che produce spettacoli e che, proprio dal 1889, dirige un teatro, il Novelty, la grande sala aperta su Great Queen Street solo cinque anni prima. E non smette di recitare: eccelle in molti ruoli shakespeariani, ma è soprattutto celebre per portare in scena opere contemporanee, come appunto Casa di bambola. Pensando a lei George Bernard Shaw scrive Candida e non ne autorizza la messa in scena se non sarà Janet la protagonista. Candida è un’altra delle donne del secolo nuovo, che dimostra la sua forza e la sua intelligenza di fronte ai due deboli uomini che la amano, e che hanno così bisogno di lei. L’attrice porta il dramma di Ibsen in Australia, in una lunga tournée che la vede impegnata, insieme al marito Charles Charrington, in molte colonie. Durante la permanenza al Cairo, dà alla luce un bambino nato morto, rischiando lei stessa di morire. Per superare il dolore diventa dipendente della morfina, cosa che la porterà alla morte pochi anni dopo.
Sabato 21 dicembre 1889 Casa di bambola debutta finalmente a Broadway, al Palmer’s Theatre sulla 30esima Strada: in questa nuova produzione Nora è Beatrice Cameron. Neppure il pubblico di New York riserva una grande attenzione al dramma di Ibsen.
Beatrice, nata nello Stato di New York nel 1868, nonostante sia una delle più apprezzate attrici della fine dell’Ottocento, smette presto di recitare. E dedica la sua vita all’impegno sociale e politico. In patria è attiva nella League of Women Voters e si batte per il suffragio femminile. Poi, una volta ottenuto questo risultato, alla fine del 1920 è con la Croce Rossa sul fronte della guerra turco-armena. Poi presta soccorso in Siria e in Cecoslovacchia. In patria è attiva nella League of Women Voters e si batte per il suffragio femminile.
La prima italiana di Casa di bambola è lunedì 9 febbraio 1891, nella storica sala del Teatro dei Filodrammatici a Milano. Lo scrittore verista Luigi Capuana, che nei suoi lavori ha sempre indagato con sensibilità la psicologia delle donne, traduce per Eleonora Duse il testo di Ibsen.
Non può che essere la “Divina” la prima interprete di Nora nel nostro paese. Nata nel 1858 a Vigevano da una famiglia di attori originari di Chioggia, figlia d’arte che calca il palcoscenico fin dall’infanzia - a quattro anni è la piccola Cosetta ne I miserabili - Eleonora è la più grande attrice italiana e rivaleggia con Sarah Bernhardt per essere la più famosa attrice del mondo. Ha una propria compagnia e ha ormai la forza di imporre le proprie scelte artistiche. Nessuna donna ha il suo potere nel mondo dello spettacolo. E poi rivoluziona il modo di recitare. Getta le parrucche, i trucchi pesanti e rifiuta i toni enfatici dello stile ottocentesco. Crea uno stile nuovo di recitazione, più fisico, più istintivo, più naturale, in cui tutto il corpo partecipa all’azione: anche nelle sue fortunate tournée all’estero vuole recitare solo in italiano e questo non è sentito dal pubblico come un limite, perché è tale la sua forza in scena da superare le barriere linguistiche. Come dice Cechov: “Non conosco l’italiano, ma ella ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola”.
Nora è il personaggio che Eleonora aspetta. Nella sua carriera riscrive i grandi drammi ottocenteschi, perché con il suo lavoro teatrale cerca di trasmettere al pubblico un messaggio preciso. La società borghese è ipocrita, si fonda su valori falsi, è tutta incentrata sul denaro, e per questo si perdono emozioni e sentimenti. E le donne sono le prime vittime di questa falsa esteriorità, perché la società non ne vuole far esprimere il talento, l’intelligenza, la forza.
Devono passare tre anni prima che anche la Francia della Terza Repubblica, agitata dall’affare Dreyfus, abbia la propria Nora. Il direttore dell’Odéon ottiene i diritti per mettere in scena il dramma di Ibsen già nel 1889, ma la prima c’è solo venerdì 20 aprile 1894 al Théâtre de Vaudeville, sul boulevard des Capucines. È Réjane a interpretare Nora. Il pubblico parigino fa la fila per assistere allo spettacolo. Ibsen tiene molto a questo debutto e all’indomani della prima invia all’attrice un telegramma entusiasta: “Il mio sogno si è avverato, Réjane ha creato Nora in Paris”. E serve appunto questa edizione di Casa di bambola affinché il suo teatro sia finalmente apprezzato anche nella capitale francese.
Gabrielle-Charlotte Reju, conosciuta con il nome d’arte Réjane, nata nel 1856 nella capitale francese, durante la sua carriera deve accettare di essere la seconda dopo la grande Sarah Bernhardt. Anche se Marcel Proust non è affatto d’accordo: infatti secondo lui Sarah può interpretare solo alcune parti, “Réjane, invece, può interpretare qualunque ruolo, dalla tragedia al boulevard. Lei supera l’attrice; lei ha la qualità dell’artista”. Ed effettivamente la grande capacità di Réjane è quella di passare dalla tragedia alla commedia, dai drammi di Ibsen al varietà. Il ruolo che l’ha resa celebre è quello di Catherine, la schietta lavandaia che diventa una duchessa nella commedia Madame Sans-Gêne di Victorien Sardou ed Èmile Moreau, un personaggio che ha interpretato al debutto nel 1893 e replicato in anni successivi, anche al cinema. È amatissima. Quando muore, nel 1920, Le Figaro scrive: “Silenzio. Noi perdiamo l’anima di Parigi”.
Negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del nuovo secolo Casa di bambola diventa finalmente un titolo apprezzato non solo dagli estimatori di Ibsen. Venerdì 30 maggio 1902 al Manhattan Theatre - che oggi non esiste più - va in scena una nuova edizione del dramma. E questa volta il pubblico di Broadway è entusiasta, grazia anche all’interpretazione di Minnie Maddern Fiske.
Anche lei, nata nel 1865 a New Orleans, è figlia di una famiglia di artisti e comincia a calcare le scene da bambina: a tre anni è il Duca di York nel Riccardo III. In pochi anni diventa una delle attrici più importanti della scena americana. È un’ottima interprete shakespeariana, anche se predilige le opere moderne: ottiene un grande successo alla fine del secolo come protagonista nella produzione originale di Becky Sharp, una commedia tratta da La fiera delle vanità. Minnie, conosciuta anche solo come Mrs. Fiske non si limita a recitare, ha una propria compagnia, scrive opere teatrali e le dirige. Porta negli Stati Uniti uno stile nuovo nella recitazione, che ha visto in Europa, e riesce a far amare al pubblico i drammi di Ibsen, che diventa in breve il suo autore preferito. In un intervista al New York Times dice: “Ibsen interessa l’attore perché per capire bene un ruolo bisogna studiare il personaggio fin dalla prima infanzia. La maggior parte degli uomini e delle donne d Ibsen ha vissuto la propria vita prima che si alzi il sipario”. Negli anni Dieci si dedica con grande energia a combattere contro il Theatrical Syndacate, che, controllando i maggiori teatri del paese e le agenzie di vendita dei biglietti, impone la scelta sia delle opere da rappresentare sia di chi le deve interpretare. Minnie si batte per la libertà artistica e per questo il trust fa in modo che non possa più recitare nei grandi teatri di Broadway. Ma lei non si perde d’animo, allestisce i suoi spettacoli in chiese, piste da pattinaggio, locali da ballo, porta il teatro in luoghi insoliti. Nonostante sia la più famosa attrice americana del suo tempo, muore in miseria, proprio per avere sostenuto questa battaglia.
Ormai la fama dell’opera di Ibsen non conosce confini. Venerdì 22 settembre 1911 Casa di bambola viene rappresentato per la prima volta in Giappone. Nora è Sumako Matsui.
È nata a Nagano nel 1886, la sua famiglia le impone un matrimonio combinato, ma lei, dopo un anno, divorzia e si dedica al teatro. Fonda una propria compagnia insieme al regista Hōgetsu Shimamura, con cui vive un’intensa storia d’amore. Diventa una celebrità in pochi anni, grazie anche alla sua interpretazione dei dramma di Ibsen e alla sua splendida voce - la sua incisione di La canzone di Katyusha vende più di ventimila copie nella prima metà degli anni Dieci. Il compagno muore a causa della spagnola nel 1918 e lei, disperata, si uccide, chiedendo nel suo testamento di essere sepolta insieme a lui. Non sono sposati e quindi le regole della società giapponese vietano che sia rispettato questo suo ultimo desiderio.
Purtroppo è andato perduto Casa di bambola, il film muto uscito nella sale domenica 12 febbraio 1922, diretto da Charles Bryant, prodotto, sceneggiato e interpretato da Alla Nazimova.
Per la giovane Alla, nata a Yalta nel 1879, il teatro è una fuga da un’infanzia infelice in cui passa da un collegio all’altro, dopo il divorzio dei suoi genitori. All’inizio del secolo è già una stella nei teatri di Mosca e San Pietroburgo, fa tournée nelle grandi capitali europee e nel 1905 si trasferisce a New York, dove fonda un teatro in lingua russa nel Lower East Side. In cinque mesi impara l’inglese e l’anno successivo debutta a Broadway in Hedda Gabler. Per Dorothy Parker nessuna come lei ha saputo interpretare questo personaggio. In pochi anni diventa una star, tanto che le viene intitolato un teatro. Nel 1916 debutta al cinema, ma non le basta essere una delle attrici più pagate di Hollywood. Crea la Nazimova Productions, dirige, si occupa del montaggio, disegna costumi e scenografie. I suoi film segnano una svolta per l’industria cinematografica americana. Casa di bambola - in cui vuole per il ruolo del marito il giovane Alan Hale, di cui abbiamo raccontato qui la storia - è un successo, ma Salomé dell’anno successivo si rivela un disastro dal punto di vista finanziario. Il pubblico non riesce ad apprezzare la spregiudicatezza delle sue scelte artistiche e naturalmente pesano su di lei i pregiudizi a causa della sua omosessualità. I racconti su quello che avviene nella sua villa sul Sunset Boulevard, “The Garden of Alla”, accendono la morbosità delle cronache mondane degli anni Venti. L’attrice ospita e fa recitare colleghe la cui fama di essere omossessuali le rende difficile lavorare e Hollywood non le perdona di essere una donna, forte e indipendente, di essere una donna che vuole fare cinema in un mondo di maschi.
Naturalmente ci sarebbero stati tanti modi per raccontarvi Casa di bambola. Però mi è sembrato giusto farlo attraverso le storie di queste dieci grandi attrici, di queste donne che, anche grazie al personaggio di Nora, hanno fatto la storia del teatro e della cultura tra le fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Naturalmente tante altre hanno interpretato negli anni successivi questo splendido personaggio, perché Casa di bambola è un classico e, come succede ai veri classici, riesce a raccontare sempre qualcosa del tempo in cui viene rappresentato. Emma Gramatica - qui un suo ritratto - Julie Harris, Claire Bloom, Jane Fonda, Ottavia Piccolo, Niki Karimi, Gillian Anderson sono state grandi interpreti di Nora. E non credo che sia un caso che siano donne che si sono affermate non solo per la loro bravura a recitare, ma anche per il loro impegno, per la loro passione civile.
Come Jessica Chastain, attiva nel movimento che chiede sostegno per le donne vittime di abusi e molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Proprio in questi giorni è Nora all’Hudson Theatre, sulla 44esima Strada. E naturalmente non sarà l’ultima, perché Nora accompagnerà sempre il cammino delle donne e, se vogliamo, anche di noi uomini, che possiamo cambiare grazie a lei.
Perché Nora ci accompagnerà sempre.
Non può che essere la “Divina” la prima interprete di Nora nel nostro paese. Nata nel 1858 a Vigevano da una famiglia di attori originari di Chioggia, figlia d’arte che calca il palcoscenico fin dall’infanzia - a quattro anni è la piccola Cosetta ne I miserabili - Eleonora è la più grande attrice italiana e rivaleggia con Sarah Bernhardt per essere la più famosa attrice del mondo. Ha una propria compagnia e ha ormai la forza di imporre le proprie scelte artistiche. Nessuna donna ha il suo potere nel mondo dello spettacolo. E poi rivoluziona il modo di recitare. Getta le parrucche, i trucchi pesanti e rifiuta i toni enfatici dello stile ottocentesco. Crea uno stile nuovo di recitazione, più fisico, più istintivo, più naturale, in cui tutto il corpo partecipa all’azione: anche nelle sue fortunate tournée all’estero vuole recitare solo in italiano e questo non è sentito dal pubblico come un limite, perché è tale la sua forza in scena da superare le barriere linguistiche. Come dice Cechov: “Non conosco l’italiano, ma ella ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola”.
Nora è il personaggio che Eleonora aspetta. Nella sua carriera riscrive i grandi drammi ottocenteschi, perché con il suo lavoro teatrale cerca di trasmettere al pubblico un messaggio preciso. La società borghese è ipocrita, si fonda su valori falsi, è tutta incentrata sul denaro, e per questo si perdono emozioni e sentimenti. E le donne sono le prime vittime di questa falsa esteriorità, perché la società non ne vuole far esprimere il talento, l’intelligenza, la forza.
Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato - o se nacquero perverse - perché io sento che hanno pianto - hanno sofferto per sentire o per tradire o per amare… Io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini.Quando scopre questo personaggio Eleonora si rende conto di aver trovato una sorella, una compagna, una donna che combatte la sua stessa lotta. E, come fa con gli altri personaggi che ama, indossa i costumi di scena anche fuori del palcoscenico. Eleonora vuole essere Nora.
Le donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre m’ingegno di farle capire a quelli che m’ascoltano, sono esse che hanno finito per confortare me.
Gabrielle-Charlotte Reju, conosciuta con il nome d’arte Réjane, nata nel 1856 nella capitale francese, durante la sua carriera deve accettare di essere la seconda dopo la grande Sarah Bernhardt. Anche se Marcel Proust non è affatto d’accordo: infatti secondo lui Sarah può interpretare solo alcune parti, “Réjane, invece, può interpretare qualunque ruolo, dalla tragedia al boulevard. Lei supera l’attrice; lei ha la qualità dell’artista”. Ed effettivamente la grande capacità di Réjane è quella di passare dalla tragedia alla commedia, dai drammi di Ibsen al varietà. Il ruolo che l’ha resa celebre è quello di Catherine, la schietta lavandaia che diventa una duchessa nella commedia Madame Sans-Gêne di Victorien Sardou ed Èmile Moreau, un personaggio che ha interpretato al debutto nel 1893 e replicato in anni successivi, anche al cinema. È amatissima. Quando muore, nel 1920, Le Figaro scrive: “Silenzio. Noi perdiamo l’anima di Parigi”.
Negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del nuovo secolo Casa di bambola diventa finalmente un titolo apprezzato non solo dagli estimatori di Ibsen. Venerdì 30 maggio 1902 al Manhattan Theatre - che oggi non esiste più - va in scena una nuova edizione del dramma. E questa volta il pubblico di Broadway è entusiasta, grazia anche all’interpretazione di Minnie Maddern Fiske.
Anche lei, nata nel 1865 a New Orleans, è figlia di una famiglia di artisti e comincia a calcare le scene da bambina: a tre anni è il Duca di York nel Riccardo III. In pochi anni diventa una delle attrici più importanti della scena americana. È un’ottima interprete shakespeariana, anche se predilige le opere moderne: ottiene un grande successo alla fine del secolo come protagonista nella produzione originale di Becky Sharp, una commedia tratta da La fiera delle vanità. Minnie, conosciuta anche solo come Mrs. Fiske non si limita a recitare, ha una propria compagnia, scrive opere teatrali e le dirige. Porta negli Stati Uniti uno stile nuovo nella recitazione, che ha visto in Europa, e riesce a far amare al pubblico i drammi di Ibsen, che diventa in breve il suo autore preferito. In un intervista al New York Times dice: “Ibsen interessa l’attore perché per capire bene un ruolo bisogna studiare il personaggio fin dalla prima infanzia. La maggior parte degli uomini e delle donne d Ibsen ha vissuto la propria vita prima che si alzi il sipario”. Negli anni Dieci si dedica con grande energia a combattere contro il Theatrical Syndacate, che, controllando i maggiori teatri del paese e le agenzie di vendita dei biglietti, impone la scelta sia delle opere da rappresentare sia di chi le deve interpretare. Minnie si batte per la libertà artistica e per questo il trust fa in modo che non possa più recitare nei grandi teatri di Broadway. Ma lei non si perde d’animo, allestisce i suoi spettacoli in chiese, piste da pattinaggio, locali da ballo, porta il teatro in luoghi insoliti. Nonostante sia la più famosa attrice americana del suo tempo, muore in miseria, proprio per avere sostenuto questa battaglia.
Ormai la fama dell’opera di Ibsen non conosce confini. Venerdì 22 settembre 1911 Casa di bambola viene rappresentato per la prima volta in Giappone. Nora è Sumako Matsui.
È nata a Nagano nel 1886, la sua famiglia le impone un matrimonio combinato, ma lei, dopo un anno, divorzia e si dedica al teatro. Fonda una propria compagnia insieme al regista Hōgetsu Shimamura, con cui vive un’intensa storia d’amore. Diventa una celebrità in pochi anni, grazie anche alla sua interpretazione dei dramma di Ibsen e alla sua splendida voce - la sua incisione di La canzone di Katyusha vende più di ventimila copie nella prima metà degli anni Dieci. Il compagno muore a causa della spagnola nel 1918 e lei, disperata, si uccide, chiedendo nel suo testamento di essere sepolta insieme a lui. Non sono sposati e quindi le regole della società giapponese vietano che sia rispettato questo suo ultimo desiderio.
Purtroppo è andato perduto Casa di bambola, il film muto uscito nella sale domenica 12 febbraio 1922, diretto da Charles Bryant, prodotto, sceneggiato e interpretato da Alla Nazimova.
Per la giovane Alla, nata a Yalta nel 1879, il teatro è una fuga da un’infanzia infelice in cui passa da un collegio all’altro, dopo il divorzio dei suoi genitori. All’inizio del secolo è già una stella nei teatri di Mosca e San Pietroburgo, fa tournée nelle grandi capitali europee e nel 1905 si trasferisce a New York, dove fonda un teatro in lingua russa nel Lower East Side. In cinque mesi impara l’inglese e l’anno successivo debutta a Broadway in Hedda Gabler. Per Dorothy Parker nessuna come lei ha saputo interpretare questo personaggio. In pochi anni diventa una star, tanto che le viene intitolato un teatro. Nel 1916 debutta al cinema, ma non le basta essere una delle attrici più pagate di Hollywood. Crea la Nazimova Productions, dirige, si occupa del montaggio, disegna costumi e scenografie. I suoi film segnano una svolta per l’industria cinematografica americana. Casa di bambola - in cui vuole per il ruolo del marito il giovane Alan Hale, di cui abbiamo raccontato qui la storia - è un successo, ma Salomé dell’anno successivo si rivela un disastro dal punto di vista finanziario. Il pubblico non riesce ad apprezzare la spregiudicatezza delle sue scelte artistiche e naturalmente pesano su di lei i pregiudizi a causa della sua omosessualità. I racconti su quello che avviene nella sua villa sul Sunset Boulevard, “The Garden of Alla”, accendono la morbosità delle cronache mondane degli anni Venti. L’attrice ospita e fa recitare colleghe la cui fama di essere omossessuali le rende difficile lavorare e Hollywood non le perdona di essere una donna, forte e indipendente, di essere una donna che vuole fare cinema in un mondo di maschi.
Naturalmente ci sarebbero stati tanti modi per raccontarvi Casa di bambola. Però mi è sembrato giusto farlo attraverso le storie di queste dieci grandi attrici, di queste donne che, anche grazie al personaggio di Nora, hanno fatto la storia del teatro e della cultura tra le fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Naturalmente tante altre hanno interpretato negli anni successivi questo splendido personaggio, perché Casa di bambola è un classico e, come succede ai veri classici, riesce a raccontare sempre qualcosa del tempo in cui viene rappresentato. Emma Gramatica - qui un suo ritratto - Julie Harris, Claire Bloom, Jane Fonda, Ottavia Piccolo, Niki Karimi, Gillian Anderson sono state grandi interpreti di Nora. E non credo che sia un caso che siano donne che si sono affermate non solo per la loro bravura a recitare, ma anche per il loro impegno, per la loro passione civile.
Come Jessica Chastain, attiva nel movimento che chiede sostegno per le donne vittime di abusi e molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Proprio in questi giorni è Nora all’Hudson Theatre, sulla 44esima Strada. E naturalmente non sarà l’ultima, perché Nora accompagnerà sempre il cammino delle donne e, se vogliamo, anche di noi uomini, che possiamo cambiare grazie a lei.
Perché Nora ci accompagnerà sempre.
Credo di essere prima di tutto una creatura umana, come te… o meglio, voglio diventarlo. So che il mondo darà ragione a te, Torvald, e che anche sui libri sta scritto qualcosa di simile. Ma quel che dice il mondo e qual che c’è scritto sui libri non può essermi di norma. Debbo riflettere col mio cervello per rendermi chiaramente conto di tutte le cose.
mercoledì 3 maggio 2023
Verba volant (834): insegna...
Insegna, sost. f.
Cosa hanno in comune Alice Cooper e Andy Williams? Il rocker che gioca con il macabro e l’horror e il crooner amato dalle mamme, star della televisione degli anni Sessanta? Quasi nulla, a parte la professione. Neppure le idee politiche, visto che il primo è un convinto repubblicano, mentre il secondo è un democratico, amico dei Kennedy. Eppure è grazie anche a loro due se ancora oggi noi turisti di tutto il mondo possiamo ammirare il “monumento” più famoso di Los Angeles, immancabile sfondo per ogni nostro selfie nella città degli angeli.
Ma questa storia bisogna cominciarla dall’inizio, ossia dal 1923. Nei primi anni Venti Los Angeles non era ancora la megalopoli che è oggi e soprattutto non era ancora la città del cinema. I film si facevano a Chicago, a New York, anche a Los Angeles ovviamente, ma non esisteva ancora quella che pochi anni dopo avremmo cominciato a chiamare Hollywood. In quegli anni era solo un quartiere di Los Angeles, certo un quartiere in espansione, ma non ancora la metonimia più celebre del Novecento. Proprio nel 1923 i costruttori Woodruff e Shoults acquistano una grande area edificabile a ridosso delle colline, nell’area del Beachwood Canyon, e ne vogliono fare un quartiere residenziale modello, chiamato Hollywoodland. Anche altri sono interessati a quella zona di Griffith Park. Il regista e produttore Mack Sennett, “The King of Comedy” del cinema muto, diventato ricco grazie ai brevi cortometraggi delle Bathing Beauties, che con i loro costumi da bagno sono il “sogno proibito” del pubblico americano degli anni Dieci, vuole costruire la sua grande villa in cima a quella collina. Iniziano anche i lavori per spianare quella piccola vetta, ma alla fine non se ne fa nulla.
La pubblicità è l’anima del commercio e Woodruff e Shoults decidono di realizzare sul lato meridionale della collina una grande scritta per invogliare i nuovi cittadini di Los Angeles a investire in quel progetto. La realizzazione viene affidata alla Crescent Sign Company. Thomas Fisk Goff progetta la grande insegna: tredici lettere in legno, in stampatello bianco, alte più di quindici metri. Sulle lettere sono montate quattromila lampadine che devono illuminare la scritta in tre segmenti successivi: “HOLLY”, “WOOD” e “LAND”. E sotto la scritta c’è un grande riflettore per renderla ancora più evidente. I pali devono essere portati lassù a dorso di mulo. L’insegna costa più di ventimila dollari dell’epoca, una somma ingente, ma Woodruff e Shoults sono soddisfatti: quella scritta si vede da tutta la città.
Hollywood però non è destinata a diventare un quartiere di villette per la nuova borghesia di Los Angeles, ma il centro dell’industria cinematografica americana. Uno dopo l’altro nascono i grandi studi, poi arrivano tutte le attività che ruotano intorno al cinema. A metà degli anni Trenta Don Lee, un tempo proprietario di un negozio di biciclette diventato un pioniere della televisione, costruisce nelle vicinanze dell’insegna la sede degli studi e del trasmettitore della prima stazione televisiva di Los Angeles, la W6XAO. Don si trasferisce nel 1951 su una vetta più alta, ma quella collina sopra Hollywood, fino a quel momento senza nome, dal 1939 viene chiamata Mount Lee e la torre è ancora lì, visibile in tutte le foto dei turisti: è l’impianto di trasmissione utilizzato dalle radio della polizia e dei vigili del fuoco di tutta Los Angeles.
La speculazione di Woodruff e Shoults si rivela fallimentare. L’insegna però rimane al suo posto, anche se i nuovi proprietari, dieci anni dopo l’inaugurazione, decidono di spegnere l’illuminazione, che è davvero troppo costosa, e non fanno più lavori di manutenzione.
Nel frattempo, nel 1940, Howard Hughes acquista il terreno tutto intorno alla scritta: vuole costruire una villa in cima alla collina per il suo amore di quei giorni, la splendida Ginger Rogers, in quel momento all’apice del successo, dopo i film con Fred Astaire e vincitrice dell’Oscar per il suo ruolo drammatico in Kitty Foyle. L’attrice rompe presto il fidanzamento, Hughes abbandona il progetto e il terreno rimane vuoto. Non è l’unica pazzia per amore dell’eccentrico produttore e aviatore. Paga a un produttore suo concorrente una penale di un milione di dollari per portare via Katharine Hepburn, con il suo aereo direttamente dal set. Dopo un furioso litigio con Ava Gardner, compra tutti i biglietti aerei diretti all’estero, per impedire che l’attrice esca dagli Stati Uniti. Tra i suoi amori ci sono anche Bette Davis e Olivia de Havilland, Hedy Lamarr e Rita Hayworth, ma probabilmente ha ragione Gene Tierney - peraltro una che ha resistito alle sue avances - quando dice: “Non credo che Howard possa amare qualsiasi cosa che non abbia un motore”.
Nel 1944 la H crolla a causa di una tempesta di vento e nessuno, durante la guerra, pensa di sistemarla. Alla fine degli anni Quaranta un comitato di cittadini chiede la rimozione di quell’obbrobrio che deturpa la collina. A questo punto la Camera di commercio di Hollywood, in cui sono rappresentati gli interessi delle case di produzione, decide che quella scritta deve rimanere, ma non sarà più la réclame di un’impresa immobiliare fallita, ma il simbolo dell’industria culturale più potente del mondo. Viene stipulato un contratto con il Dipartimento dei parchi della città di Los Angeles, vengono rimosse le ultime quattro lettere, vengono restaurate le altre e costruita una nuova H. Così nel settembre 1949 viene inaugurata la nuova scritta HOLLYWOOD.
Cosa hanno in comune Alice Cooper e Andy Williams? Il rocker che gioca con il macabro e l’horror e il crooner amato dalle mamme, star della televisione degli anni Sessanta? Quasi nulla, a parte la professione. Neppure le idee politiche, visto che il primo è un convinto repubblicano, mentre il secondo è un democratico, amico dei Kennedy. Eppure è grazie anche a loro due se ancora oggi noi turisti di tutto il mondo possiamo ammirare il “monumento” più famoso di Los Angeles, immancabile sfondo per ogni nostro selfie nella città degli angeli.
Ma questa storia bisogna cominciarla dall’inizio, ossia dal 1923. Nei primi anni Venti Los Angeles non era ancora la megalopoli che è oggi e soprattutto non era ancora la città del cinema. I film si facevano a Chicago, a New York, anche a Los Angeles ovviamente, ma non esisteva ancora quella che pochi anni dopo avremmo cominciato a chiamare Hollywood. In quegli anni era solo un quartiere di Los Angeles, certo un quartiere in espansione, ma non ancora la metonimia più celebre del Novecento. Proprio nel 1923 i costruttori Woodruff e Shoults acquistano una grande area edificabile a ridosso delle colline, nell’area del Beachwood Canyon, e ne vogliono fare un quartiere residenziale modello, chiamato Hollywoodland. Anche altri sono interessati a quella zona di Griffith Park. Il regista e produttore Mack Sennett, “The King of Comedy” del cinema muto, diventato ricco grazie ai brevi cortometraggi delle Bathing Beauties, che con i loro costumi da bagno sono il “sogno proibito” del pubblico americano degli anni Dieci, vuole costruire la sua grande villa in cima a quella collina. Iniziano anche i lavori per spianare quella piccola vetta, ma alla fine non se ne fa nulla.
La pubblicità è l’anima del commercio e Woodruff e Shoults decidono di realizzare sul lato meridionale della collina una grande scritta per invogliare i nuovi cittadini di Los Angeles a investire in quel progetto. La realizzazione viene affidata alla Crescent Sign Company. Thomas Fisk Goff progetta la grande insegna: tredici lettere in legno, in stampatello bianco, alte più di quindici metri. Sulle lettere sono montate quattromila lampadine che devono illuminare la scritta in tre segmenti successivi: “HOLLY”, “WOOD” e “LAND”. E sotto la scritta c’è un grande riflettore per renderla ancora più evidente. I pali devono essere portati lassù a dorso di mulo. L’insegna costa più di ventimila dollari dell’epoca, una somma ingente, ma Woodruff e Shoults sono soddisfatti: quella scritta si vede da tutta la città.
Hollywood però non è destinata a diventare un quartiere di villette per la nuova borghesia di Los Angeles, ma il centro dell’industria cinematografica americana. Uno dopo l’altro nascono i grandi studi, poi arrivano tutte le attività che ruotano intorno al cinema. A metà degli anni Trenta Don Lee, un tempo proprietario di un negozio di biciclette diventato un pioniere della televisione, costruisce nelle vicinanze dell’insegna la sede degli studi e del trasmettitore della prima stazione televisiva di Los Angeles, la W6XAO. Don si trasferisce nel 1951 su una vetta più alta, ma quella collina sopra Hollywood, fino a quel momento senza nome, dal 1939 viene chiamata Mount Lee e la torre è ancora lì, visibile in tutte le foto dei turisti: è l’impianto di trasmissione utilizzato dalle radio della polizia e dei vigili del fuoco di tutta Los Angeles.
La speculazione di Woodruff e Shoults si rivela fallimentare. L’insegna però rimane al suo posto, anche se i nuovi proprietari, dieci anni dopo l’inaugurazione, decidono di spegnere l’illuminazione, che è davvero troppo costosa, e non fanno più lavori di manutenzione.
Nel frattempo, nel 1940, Howard Hughes acquista il terreno tutto intorno alla scritta: vuole costruire una villa in cima alla collina per il suo amore di quei giorni, la splendida Ginger Rogers, in quel momento all’apice del successo, dopo i film con Fred Astaire e vincitrice dell’Oscar per il suo ruolo drammatico in Kitty Foyle. L’attrice rompe presto il fidanzamento, Hughes abbandona il progetto e il terreno rimane vuoto. Non è l’unica pazzia per amore dell’eccentrico produttore e aviatore. Paga a un produttore suo concorrente una penale di un milione di dollari per portare via Katharine Hepburn, con il suo aereo direttamente dal set. Dopo un furioso litigio con Ava Gardner, compra tutti i biglietti aerei diretti all’estero, per impedire che l’attrice esca dagli Stati Uniti. Tra i suoi amori ci sono anche Bette Davis e Olivia de Havilland, Hedy Lamarr e Rita Hayworth, ma probabilmente ha ragione Gene Tierney - peraltro una che ha resistito alle sue avances - quando dice: “Non credo che Howard possa amare qualsiasi cosa che non abbia un motore”.
Nel 1944 la H crolla a causa di una tempesta di vento e nessuno, durante la guerra, pensa di sistemarla. Alla fine degli anni Quaranta un comitato di cittadini chiede la rimozione di quell’obbrobrio che deturpa la collina. A questo punto la Camera di commercio di Hollywood, in cui sono rappresentati gli interessi delle case di produzione, decide che quella scritta deve rimanere, ma non sarà più la réclame di un’impresa immobiliare fallita, ma il simbolo dell’industria culturale più potente del mondo. Viene stipulato un contratto con il Dipartimento dei parchi della città di Los Angeles, vengono rimosse le ultime quattro lettere, vengono restaurate le altre e costruita una nuova H. Così nel settembre 1949 viene inaugurata la nuova scritta HOLLYWOOD.
Si tratta comunque di una struttura realizzata prevalentemente in legno e la tempesta di vento del 10 febbraio 1978 distrugge la parte superiore della prima O, facendola diventare una sorta di u minuscola, e abbatte l’ultima O. HuLLYWO D: nella primavera appare più o meno così la grande scritta che domina Mount Lee. Non è certo il miglior biglietto da visita per la città degli angeli.
Hugh Hefner, dalle pagine di Playboy, organizza una campagna di stampa per restaurare la scritta, convince la Camera di commercio a costruirne una nuova, più resistente, e soprattutto trova i nove donatori disposti a spendere ciascuno 27.778 dollari necessari per completare i lavori. L’11 novembre 1978 viene trasmessa dalla CBS la cerimonia di inaugurazione della nuova scritta, alta più di tredici metri, con le lettere in acciaio sostenute da pali conficcati in un basamento di cemento armato. I camion hanno sostituito i muli.
I soldi per la H vengono donati da Terence Donnelly, l’editore dell’Hollywood Independent Newspaper, un giornale popolare diffuso in quella parte della città. Alice Cooper paga per costruire la O, dedicandola alla memoria del suo idolo Groucho Marx, morto il 19 agosto 1977. Le due L vengono pagate rispettivamente da Les Kelley e Gene Autry. Les è l’editore di Kelley Blue Book, la più importante rivista americana di valutazione delle automobili. Les ha cominciato negli anni Venti come venditore di automobili, è stato suo fratello minore Buster, qualche anno dopo, a pensare di pubblicare la guida per le valutazioni, utilizzando per la prima volta il chilometraggio per definirne il valore. Gene, il cowboy cantante con il fiuto per gli affari, è una leggenda di Hollywood, su cui è necessario raccontare qualcosa.
Magari il suo nome non vi dice nulla, ma Gene Autry è l’unico ad avere cinque stelle sulla Hollywood Walk of Fames, una per ciascuna delle cinque categorie istituite dalla Camera di commercio di Hollywood: cinema, radio, televisione, dischi e spettacolo dal vivo. Gene, nato nel 1907 in Texas, cresce in Oklahoma. Fa il telegrafista sulla linea ferroviaria St. Louis-San Francisco e nei lunghi turni notturni passa il tempo suonando la chitarra e cantando. E per questo viene licenziato. Prova a cantare e in pochi anni quel suo stile semplice, da cui nascerà il country, ottiene un grande successo: nella sua carriera incide più di seicento canzoni, di cui la metà scritte da lui, e vende più di cento milioni di dischi, grazie anche alle sue canzoni natalizie: Santa Claus Is Comin’ to Town, Frosty the Snowman e, il suo successo più grande, Rudolph, the Red-Nosed Reindeer. Hollywood si accorge presto di questo talento. Il personaggio del cowboy, che in sella al suo cavallo Champion canta le sue canzoni, diventa popolarissimo. Gira novantatré film, il suo show radiofonico va in onda dal 1940 al 1956 - anche il cavallo Champion ha un proprio show alla radio, seguissimo dai bambini - poi debutta anche in televisione. Nel 1942 apre ad Ardmore in Oklahoma uno spazio dove si svolgono grandi rodei. Per trent’anni Gene Autry è per i ragazzini americani il simbolo del cowboy onesto e coraggioso: attraverso i suoi programmi diffonde il Cowboy Code, il decalogo del cowboy, il cui primo “comandamento” è: “Il Cowboy non deve mai sparare per primo, colpire un uomo più basso o trarne un vantaggio sleale”. Gene Autry si ritira dal mondo dello spettacolo nel 1964 e si dedica esclusivamente a gestire i propri affari. Negli anni ha accumulato una fortuna e l’ha fatta ben fruttare. Ha una propria casa di produzione, gestisce i diritti della sua immagine che viene usata nei fumetti, nei giocattoli e ovviamente nella pubblicità, è proprietario di una squadra di baseball, i California Angels. Ed è anche molto attivo nelle speculazioni immobiliari, dove dimostra una notevole abilità. Ha degli interessi intorno al Griffith Park, dove costruisce il suo Museum of Western Heritage. La scritta HOLLYWOOD è dietro casa sua e per lui ventisettemila dollari sono una bazzecola.
Hugh Hefner mette i soldi per la Y, mentre Andy Williams quelli per la W. C’è anche un po’ d’Italia nel restauro della scritta, visto che il produttore italiano Giovanni Mazza paga per restaurare la seconda O. La Warner Brothers si fa carico della terza O, è l’unico dei cinque grandi studi a partecipare al restauro della scritta. Harry, Albert, Sam e Jack, originari dalla Polonia, sono stati tra i primi a arrivare a Hollywood, fondando un piccolo studio sul Sunset Boulevard. Prima avevano un cinema a Newcastle, in Pennsylvavia: un’agenzia di pompe funebri prestava le sedie ai fratelli Warner, ma se c’era un servizio funebre il pubblico doveva stare in piedi. Il vecchio Jack Warner muore due mesi prima dell’inaugurazione della “nuova” scritta. Dennis Lidtke, proprietario della Gribbitt Ltd, un’agenzia grafica con sede al 5419 di Sunset Boulevard, paga il restauro della D.
Anche su Giovanni Mazza bisogna raccontare una storia.
Francesco Alliata, Quintino di Napoli, Pietro Moncada, Renzo Avanzo, Fosco Maraini e Giovanni Mazza sono un gruppo di giovani amici appassionati di immersioni subacquee e di cinema. Decidono di unire queste due passioni e nel 1947 fondano la Panaria Film. Con vecchie attrezzature americane rese impermeabili, cominciano a realizzare dei cortometraggi in 35mm nei fondali delle Eolie. Giovanni è un ottimo palombaro e grazie a lui sono possibili le riprese anche più pericolose, come quelle effettuate nella cosiddetta “camera della morte” per documentare la cattura dei tonni. Tra i titoli più noti ci sono Cacciatori sottomarini, Tonnara, Bianche Eolie, Isole di Cenere, Tra Scilla e Cariddi; alcuni di questi brevi documentari vengono presentati al Festival di Venezia dove ottengono anche dei riconoscimenti. Renzo Rosellini firma la musica e così suo fratello Roberto conosce quel gruppo di entusiasti cineasti e li esorta a passare ai lungometraggi.
Ed è così che nel 1949 la Panaria Film - e Giovanni Mazza - si ritrovano nel bel mezzo della “guerra dei vulcani”, come scrivono i giornali dell’epoca. Roberto Rossellini, dopo aver ricevuto una lettera di Ingrid Bergman che gli chiede di poter lavorare con lui, decide di girare Stromboli (Terra di Dio), con lei come protagonista, al posto di Anna Magnani, con cui ha una relazione. In breve nasce una storia d’amore tra il regista italiano e l’attrice svedese, e così Anna Magnani, per vendicarsi del doppio rifiuto, decide di girare nelle stesse settimane un film sull’isola di Salina, Vulcano, con la regia di William Dieterle. I due cast si fronteggiano sulle coste dell’arcipelago delle Eolie, che si trovano a godere di un’inattesa popolarità. La produzione è proprio della Panaria Film, a cui si associa l’United Artists. Nonostante il clamore della vicenda, nessuno dei due film ottiene al botteghino il successo sperato. Per la Panaria Film si tratta comunque di un grande successo. Due anni dopo produce, ancora con Anna Magnani come protagonista, La carrozza d’oro con la regia di Jean Renoir, il primo film europeo in Technicolor. Panaria Film non ha comunque le forze per competere sul mercato internazionale e dopo alcuni altri film, nel 1956 cessa le proprie attività. Ma Giovanni, vent’anni dopo, si toglie la soddisfazione di partecipare al restauro della scritta Hollywood.
Cosa ne è stato della vecchia scritta? Viene distrutta. Figurarsi la sorpresa quando nel 2005 il produttore Dan Bliss mette in vendita su eBay la lettera H. Ma non si tratta di quella tolta nel 1978, ma di quella originale e caduta nella tempesta del 1944 e considerata ormai perduta, proprio a causa di quel vento. Non sappiamo chi si è preso la briga di portare via quel cimelio, l’unico rimasto della scritta HOLLYWOODLAND. Ma immagino che prima o poi qualcuno ci farà un film.
Proprio da quella H il 16 settembre 1932 la ventiquattrenne attrice inglese Peg Entwistle decide di togliersi la vita. Ha trovato lassù una scala utilizzata per le manutenzioni, è salita sul braccio più alto della lettera e si è gettata nel burrone. I motivi di quel gesto rimangono un mistero. Il biglietto dice soltanto: “Ho paura, sono una codarda. Mi dispiace per tutto. Se l’avessi fatto molto tempo fa, avrei risparmiato molto dolore”. Hollywood, dopo Peg, distruggerà la vita di altre giovani falene.
Hugh Hefner, dalle pagine di Playboy, organizza una campagna di stampa per restaurare la scritta, convince la Camera di commercio a costruirne una nuova, più resistente, e soprattutto trova i nove donatori disposti a spendere ciascuno 27.778 dollari necessari per completare i lavori. L’11 novembre 1978 viene trasmessa dalla CBS la cerimonia di inaugurazione della nuova scritta, alta più di tredici metri, con le lettere in acciaio sostenute da pali conficcati in un basamento di cemento armato. I camion hanno sostituito i muli.
I soldi per la H vengono donati da Terence Donnelly, l’editore dell’Hollywood Independent Newspaper, un giornale popolare diffuso in quella parte della città. Alice Cooper paga per costruire la O, dedicandola alla memoria del suo idolo Groucho Marx, morto il 19 agosto 1977. Le due L vengono pagate rispettivamente da Les Kelley e Gene Autry. Les è l’editore di Kelley Blue Book, la più importante rivista americana di valutazione delle automobili. Les ha cominciato negli anni Venti come venditore di automobili, è stato suo fratello minore Buster, qualche anno dopo, a pensare di pubblicare la guida per le valutazioni, utilizzando per la prima volta il chilometraggio per definirne il valore. Gene, il cowboy cantante con il fiuto per gli affari, è una leggenda di Hollywood, su cui è necessario raccontare qualcosa.
Magari il suo nome non vi dice nulla, ma Gene Autry è l’unico ad avere cinque stelle sulla Hollywood Walk of Fames, una per ciascuna delle cinque categorie istituite dalla Camera di commercio di Hollywood: cinema, radio, televisione, dischi e spettacolo dal vivo. Gene, nato nel 1907 in Texas, cresce in Oklahoma. Fa il telegrafista sulla linea ferroviaria St. Louis-San Francisco e nei lunghi turni notturni passa il tempo suonando la chitarra e cantando. E per questo viene licenziato. Prova a cantare e in pochi anni quel suo stile semplice, da cui nascerà il country, ottiene un grande successo: nella sua carriera incide più di seicento canzoni, di cui la metà scritte da lui, e vende più di cento milioni di dischi, grazie anche alle sue canzoni natalizie: Santa Claus Is Comin’ to Town, Frosty the Snowman e, il suo successo più grande, Rudolph, the Red-Nosed Reindeer. Hollywood si accorge presto di questo talento. Il personaggio del cowboy, che in sella al suo cavallo Champion canta le sue canzoni, diventa popolarissimo. Gira novantatré film, il suo show radiofonico va in onda dal 1940 al 1956 - anche il cavallo Champion ha un proprio show alla radio, seguissimo dai bambini - poi debutta anche in televisione. Nel 1942 apre ad Ardmore in Oklahoma uno spazio dove si svolgono grandi rodei. Per trent’anni Gene Autry è per i ragazzini americani il simbolo del cowboy onesto e coraggioso: attraverso i suoi programmi diffonde il Cowboy Code, il decalogo del cowboy, il cui primo “comandamento” è: “Il Cowboy non deve mai sparare per primo, colpire un uomo più basso o trarne un vantaggio sleale”. Gene Autry si ritira dal mondo dello spettacolo nel 1964 e si dedica esclusivamente a gestire i propri affari. Negli anni ha accumulato una fortuna e l’ha fatta ben fruttare. Ha una propria casa di produzione, gestisce i diritti della sua immagine che viene usata nei fumetti, nei giocattoli e ovviamente nella pubblicità, è proprietario di una squadra di baseball, i California Angels. Ed è anche molto attivo nelle speculazioni immobiliari, dove dimostra una notevole abilità. Ha degli interessi intorno al Griffith Park, dove costruisce il suo Museum of Western Heritage. La scritta HOLLYWOOD è dietro casa sua e per lui ventisettemila dollari sono una bazzecola.
Hugh Hefner mette i soldi per la Y, mentre Andy Williams quelli per la W. C’è anche un po’ d’Italia nel restauro della scritta, visto che il produttore italiano Giovanni Mazza paga per restaurare la seconda O. La Warner Brothers si fa carico della terza O, è l’unico dei cinque grandi studi a partecipare al restauro della scritta. Harry, Albert, Sam e Jack, originari dalla Polonia, sono stati tra i primi a arrivare a Hollywood, fondando un piccolo studio sul Sunset Boulevard. Prima avevano un cinema a Newcastle, in Pennsylvavia: un’agenzia di pompe funebri prestava le sedie ai fratelli Warner, ma se c’era un servizio funebre il pubblico doveva stare in piedi. Il vecchio Jack Warner muore due mesi prima dell’inaugurazione della “nuova” scritta. Dennis Lidtke, proprietario della Gribbitt Ltd, un’agenzia grafica con sede al 5419 di Sunset Boulevard, paga il restauro della D.
Anche su Giovanni Mazza bisogna raccontare una storia.
Francesco Alliata, Quintino di Napoli, Pietro Moncada, Renzo Avanzo, Fosco Maraini e Giovanni Mazza sono un gruppo di giovani amici appassionati di immersioni subacquee e di cinema. Decidono di unire queste due passioni e nel 1947 fondano la Panaria Film. Con vecchie attrezzature americane rese impermeabili, cominciano a realizzare dei cortometraggi in 35mm nei fondali delle Eolie. Giovanni è un ottimo palombaro e grazie a lui sono possibili le riprese anche più pericolose, come quelle effettuate nella cosiddetta “camera della morte” per documentare la cattura dei tonni. Tra i titoli più noti ci sono Cacciatori sottomarini, Tonnara, Bianche Eolie, Isole di Cenere, Tra Scilla e Cariddi; alcuni di questi brevi documentari vengono presentati al Festival di Venezia dove ottengono anche dei riconoscimenti. Renzo Rosellini firma la musica e così suo fratello Roberto conosce quel gruppo di entusiasti cineasti e li esorta a passare ai lungometraggi.
Ed è così che nel 1949 la Panaria Film - e Giovanni Mazza - si ritrovano nel bel mezzo della “guerra dei vulcani”, come scrivono i giornali dell’epoca. Roberto Rossellini, dopo aver ricevuto una lettera di Ingrid Bergman che gli chiede di poter lavorare con lui, decide di girare Stromboli (Terra di Dio), con lei come protagonista, al posto di Anna Magnani, con cui ha una relazione. In breve nasce una storia d’amore tra il regista italiano e l’attrice svedese, e così Anna Magnani, per vendicarsi del doppio rifiuto, decide di girare nelle stesse settimane un film sull’isola di Salina, Vulcano, con la regia di William Dieterle. I due cast si fronteggiano sulle coste dell’arcipelago delle Eolie, che si trovano a godere di un’inattesa popolarità. La produzione è proprio della Panaria Film, a cui si associa l’United Artists. Nonostante il clamore della vicenda, nessuno dei due film ottiene al botteghino il successo sperato. Per la Panaria Film si tratta comunque di un grande successo. Due anni dopo produce, ancora con Anna Magnani come protagonista, La carrozza d’oro con la regia di Jean Renoir, il primo film europeo in Technicolor. Panaria Film non ha comunque le forze per competere sul mercato internazionale e dopo alcuni altri film, nel 1956 cessa le proprie attività. Ma Giovanni, vent’anni dopo, si toglie la soddisfazione di partecipare al restauro della scritta Hollywood.
Cosa ne è stato della vecchia scritta? Viene distrutta. Figurarsi la sorpresa quando nel 2005 il produttore Dan Bliss mette in vendita su eBay la lettera H. Ma non si tratta di quella tolta nel 1978, ma di quella originale e caduta nella tempesta del 1944 e considerata ormai perduta, proprio a causa di quel vento. Non sappiamo chi si è preso la briga di portare via quel cimelio, l’unico rimasto della scritta HOLLYWOODLAND. Ma immagino che prima o poi qualcuno ci farà un film.
Proprio da quella H il 16 settembre 1932 la ventiquattrenne attrice inglese Peg Entwistle decide di togliersi la vita. Ha trovato lassù una scala utilizzata per le manutenzioni, è salita sul braccio più alto della lettera e si è gettata nel burrone. I motivi di quel gesto rimangono un mistero. Il biglietto dice soltanto: “Ho paura, sono una codarda. Mi dispiace per tutto. Se l’avessi fatto molto tempo fa, avrei risparmiato molto dolore”. Hollywood, dopo Peg, distruggerà la vita di altre giovani falene.
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