venerdì 31 ottobre 2014

Eduardo De Filippo interviene al Senato il 23 marzo 1982

Presidente
L'ordine del giorno reca lo svolgimento di una interpellanza concernente l'istituto "Filangieri" di Napoli. Se ne dia lettura.

Vignola
Interpellanza del Senatore De Filippo al Ministro di grazia e giustizia. Per conoscere: quale sia il giudizio del Governo, nel quadro dei drammatici problemi del Meridione e dell'area napoletana in particolare, sull'attuale ruolo e sul modo di funzionare dell'istituto "Filangieri" per la rieducazione dei minori, specchio e contemporaneamente causa dei molti problemi sociali di quella realtà così duramente colpita da eventi di carattere non solo naturale; quali provvedimenti e iniziative il Governo intenda prendere perché gli oltre mille ragazzi che annualmente passano attraverso il "Filangieri", lungi dal trovarvi incentivi e sollecitazioni ad entrare nella delinquenza abituale, vi trovino invece le condizioni per mettere il meglio di loro al servizio delle loro famiglie e della comunità nazionale.

De Filippo
Domando di parlare.

Presidente
Nel dare la parola al senatore De Filippo, che per la prima volta interviene in quest'Aula, gli rinnovo i rallegramenti per la recente nomina a senatore a vita e gli rivolgo i migliori auguri per il prosieguo della sua attività parlamentare. Il senatore De Filippo ha facoltà di parlare.

De Filippo
Onorevole Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi, avrei voluto incontrarmi prima con voi, molto prima di oggi, ma non mi è stato possibile a causa di impegni assunti prima ancora di ricevere la nomina a senatore a vita dal nostro presidente Sandro Pertini, al quale da quest'Aula sento il bisogno di rivolgere un caloroso e affettuoso saluto. Non che io consideri questa nomina puramente onorifica, anzi, a me piacciono le responsabilità e non le ho mai rifiutate quando mi è sembrato giusto prendermele. In questo periodo ho lavorato moltissimo. Del resto la stampa ha sempre dato notizie sulla mia attività. Con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell'istituto "Gaetano Filangieri" di Napoli e dei ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via; e nei prossimi mesi intendo dedicare a loro più tempo di prima. E su questo vorrei soffermarmi. Avrò bisogno del vostro aiuto e spero che quando ve lo chiederò mi darete una mano. Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro. È essenziale che un'assemblea come il Senato prenda a cuore... (scusatemi perché questo forse avrei dovuto precisarlo prima: io sono stato operato da poco ad un occhio e devo leggere un po' piano, scusatemi tanto). Dunque si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro ed è essenziale che un'assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l'intero territorio dal Sud al Nord dell'Italia. Mi sono sempre domandato quale potrebbe essere il mio contributo affinché la barca di questi ragazzi che sta facendo acqua da tutte le parti possa finalmente imboccare la strada giusta. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può ottenere da loro. Ne ho pensate di cose nei mesi scorsi e c'è da fare, si può fare, ne sono certo. Di questi miei propositi vi farò per il momento solamente un cenno; in seguito, quando saranno meglio assestati, più completi nei particolari, chissà che non venga fuori un progetto da prendere sul serio in considerazione. Senza vanità, ve lo assicuro, vorrei parlarvi ora di quel poco che ho già fatto nelle mie commedie, le quali, anche se non sono dei capolavori, anche se forse non mi sopravviveranno come hanno sostenuto e sostengono tuttora alcuni critici, hanno però il merito di aver sempre trattato i problemi della società in cui ho vissuto e vivo proponendoli dal palcoscenico all'attenzione delle autorità e del pubblico. Lasciando da parte i testi scritti durante il fascismo, quando le allusioni alle malefatte sociali e politiche erano, a dir poco, mal viste e quindi i granelli di satira bisognava nasconderli tra lazzi, risate e trovate comiche, a partire dal 1945 in poi non c'è stata commedia scritta da me che non abbia riflettuto aspetti della realtà sociale italiana. Prendiamo la prima: Napoli milionaria, poi riprenderemo il discorso del "Filangieri". In questa Napoli milionaria ho trattato vari problemi del nostro paese, molti dei quali ancora oggi irrisolti, primo fra tutti la questione morale, poiché solo su una base morale l'uomo attraverso i secoli ha edificato società e civiltà. Tenendo conto delle proprie necessità economiche e delle fonti di ricchezza dalle quali dipende il proprio benessere, l'uomo si è sempre creato regole di comportamento etico che ha dovuto poi proteggere con le leggi. È ovvio che queste norme col passare del tempo e con l'accrescersi delle conoscenze scientifiche dell'uomo diventano anacronistiche e vanno cambiate e assieme ad esse le leggi. Il guaio succede quando si è costretti a vivere nel vortice sfrenato del consumismo di oggi obbedendo a leggi vecchie e superate. E in questo, a mio parere, consiste la presente ingovernabilità del nostro paese; insomma ogni santo giorno noi italiani ci troviamo di fronte al solito dilemma: o vivere fuori del nostro tempo o fuori delle nostre leggi. Ma torniamo a Napoli, a Napoli milionaria e alle questioni che con quella commedia ponevo sul tappeto e che sul tappeto sono rimaste. Nel 1945, finito il fascismo, finita la guerra si doveva iniziare la ricostruzione del nostro paese mezzo distrutto e messo in ginocchio dalla sconfitta. Dice Gennaro Iovine, il protagonista della commedia: "la guerra non è finita, non è finito niente" e al finale "adda passà a' nuttata". Attraverso queste semplici parole, semplici ma niente affatto sciocche, il reduce voleva significare che c'era ancora da combattere nemici potenti e agguerriti quali il disordine, la borsa nera, la corruzione, la prepotenza, la disonestà, se si pensava di costruire tutti insieme, governo e popolo, una società nuova, giusta dove il potere svolgesse le sue funzioni. Avevamo perduto la guerra e sentivamo che ci sarebbe stato bisogno di sacrifici per conquistare la libertà e il benessere sociale. In quel periodo, subito dopo la Liberazione, il popolo era pronto a farli i sacrifici; ci si sentiva come affratellati dalla speranza che valeva bene qualche privazione per essere pure noi artefici della nostra vita e di quella dei nostri figli. Ma ecco invece che cominciano ad arrivare gli aiuti e non in maniera morale, normale, accettabile e benefica, bensì in quantità esagerata che ha falsato tutto lo sviluppo delle nostre sacrosante aspirazioni. Insomma siamo entrati nella storia del dopoguerra come protagonisti non paganti, come entrano in teatro i portoghesi, che lo spettacolo se lo godono meno di tutti perché non hanno pagato il biglietto. Così noi, non avendo pagato, non abbiamo avuto la soddisfazione di chi si conquista il benessere col proprio lavoro sentendosi soddisfatto di avere collaborato con il governo. Quale è stata la conseguenza? La spaccatura che si è prodotta tra il popolo e la classe dirigente. Mi sembra che in questa Napoli milionaria siano stati profeticamente indicati problemi importanti, da prendere in considerazione ancora oggi: il rapporto cittadino-Stato; la necessità di responsabilizzare l'individuo facendolo partecipare attivamente alla ricostruzione della società, che poi di individui è fatta. Tutto questo che ho detto non è estraneo all'argomento che ho scelto per la mia interpellanza in quanto gli avvenimenti che si sono verificati dalla fine della guerra ad oggi hanno influito in maniera pesante sulle sorti dell'istituto "Gaetano Filangieri" e di tanti altri istituti di rieducazione dei minori. Alla fine del 1981, invitato dai ragazzi e dal loro direttore, dottor Luciano Sommella, ho visitato il "Filangieri" e come l'ho trovato ve lo posso dire in due parole. Camere da letto tutte con docce e servizi igienici per due o tre ragazzi; cucina enorme e pulitissima; ogni gruppo di 15 ragazzi ha un televisore e un accogliente ambiente per il tempo libero; per l'aria, un cortile molto vasto e un piccolo gruppo di ragazzi sotto controllo della magistratura va a lavorare fuori presso artigiani. In genere sono 60 ragazzi, ma durante l'anno ne passano oltre 1.500 che poi vanno smistati in altri istituti. C'è perfino un teatrino che io stesso inaugurai in occasione di quella visita! Un complesso veramente degno, dove i ragazzi vengono curati, assistiti secondo princìpi umani e civili, non solo, ma vengono istruiti e perfezionati ognuno nel mestiere da lui scelto. Naturalmente - c'è da aspettarselo - le finanze non sono adeguate alle necessità di un istituto del genere. Ma non è questo il punto nevralgico della situazione. I ragazzi di 11-12-13 anni, che sono poi le vere vittime di una società carente come la nostra nei riguardi della gioventù, entrano nell'istituto in attesa di giudizio e vi restano spesso per anni e anni in quanto, o per la mole di lavoro o per l'asmatico meccanismo burocratico, i processi subiscono sempre lunghissimi ritardi e rinvii. Compiuti i diciotto anni, poi, ancora in attesa di giudizio, i ragazzi vengono trasferiti nelle carceri di Poggioreale. Finalmente, celebrato il processo, mettiamo che l'imputato venga assolto, dove si presenta una volta messo in libertà? Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera? Questa non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il "Filangieri". È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell'istituto che, durante la mia visita di quel giorno, chiesi (e mi fu accordato dal dottor Luciano Sommella) di avvicinare da solo a solo. I ragazzi mi dissero: "Non usciamo da qui con il cuore sereno, in pace e pieno di gioia, perché se quando siamo fuori non troviamo lavoro né un minimo di fiducia per forza dobbiamo finire di nuovo in mezzo alla strada! La solita vita sbandata, gli stessi mezzi illeciti, illegali per mantenere la famiglia: scippi, furti, la rivoltella, la ribellione alla forza pubblica. Insomma siamo sempre punto e daccapo". Ora bisogna tener conto del fatto che i napoletani, e in specie quelli di 18 anni, sono pieni di fantasia, pieni di spontanee iniziative in caso di emergenza, sempre vogliosi e mai appagati di un minimo di riconoscimento sincero per la loro vera identità. Ci voleva una guerra perché gli spaghetti, la pizza con la pommarola, le canzoni, le chitarre e i mandolini invadessero l'Europa e l'America, e mettessero fine finalmente ai luoghi comuni: mandolinisti mangia maccheroni, sfaticati, terroni eccetera. Adesso le canzoni le cantano pure loro, su al Nord. Illustri senatori e amici, ho girato il mondo e ho constatato con questi occhi qual è il rendimento del lavoratore italiano e qual è il suo vivere civile quando si trova all'estero. Ne ho conosciuti a centinaia, sia in America che a Londra, specialmente a Londra dove non c'è differenza, nessuna differenza, tra una tazza di tè e un bicchiere di vino del Vesuvio, dove l'emigrante, per dirla alla Troisi, trova quel riconoscimento che nel proprio paese di origine gli viene negato. Ecco che il napoletano, quello appartenente alla categoria di cui ci stiamo occupando, se vuole vivere e trovare lavoro nella città che gli ha dato i natali, come sarebbe poi suo diritto, deve ricorrere a trovate pulcinellesche o a mezzi equivoci e illegali che gli possono dare la certezza di tornare la sera a casa sua, solo che riesca a non farsi beccare dalla polizia. E sarebbe una vita questa? È necessario ora, prima di chiudere il mio intervento, che vi parli brevemente della celebre nave Caracciolo. Sono certo che molti di voi, illustri colleghi, ricordino lucidamente quale compito fu affidato a questa enorme corazzata, a questa imbarcazione. Il progetto fu ideato nel 1917 da un ammiraglio, le sue richieste furono ben viste e in breve tempo accettate dal governo di quel tempo. Fu così che il fortunato ammiraglio poté realizzare il suo sogno: ebbe in dotazione dallo Stato una vecchia corazzata su cui vennero ospitati i figli dei marinai, quelli dei pescatori e gran parte dell'infanzia abbandonata. L'intero equipaggio della provvidenziale corazzata, tutti diciottenni, si rendeva conto della disciplina di bordo: lavoro sodo, rigoroso, adatto allo sviluppo fisico, imparava a leggere, a scrivere, attraversava i mari, veniva a contatto con altri popoli e altre civiltà, aria sana, sole e volontà di vivere. Da mozzi diciottenni, diventati marinai venticinquenni, se ne tornavano alle loro case, presso le loro famiglie, orgogliosi, felici e schizzanti salute dagli occhi. L'iniziativa ebbe un successo trionfale, arrivò persino sulle tavole dei caffè chantans. Viviani - allora faceva solamente il varietà, non aveva ancora la compagnia di prosa - mise in giro una canzone. Vi dico i versi: "Addio botte co' pere, capriole pe' a città, pezzulle 'e marciapiedi non me siente chiu' ronfa'. Io tengo chi m'ha dato vitto, alloggio e civiltà. 'A folla dei scugnizzi mo' so' a meglio gioventù, fotografa 'sti pizzi che addo' vai non trovi chiu', e quanno torni in patria sviluppa e fà vede': tenimmo sempre roba megli' e te". L'ammiraglio Caracciolo dovette pensare: forse riesco a riunire i ragazzi dell'istituto "Le cappuccinelle" (così si chiamava allora l'istituto "Gaetano Filangieri" di oggi); la marina italiana ha bisogno di marinai. Dopo la guerra '14-18, la nave Caracciolo durò altri dieci anni. Non mi sono note le ragioni della sua scomparsa, ma, avendo vissuto l'epoca cui mi riferisco, posso solo ipotizzare che i fermenti fascisti, dopo quella guerra, erano agli albori. Giorno dopo giorno Mussolini guadagnava quota. Non starò qui a raccontarvi la storia di come nacque il fascismo ma, in riferimento alla nave Caracciolo, si trattava di una vecchia corazzata. Chissà, forse quell'iniziativa del vecchio lupo di mare, l'ammiraglio, fu accolta da Mussolini. Lui visse quei tempi e ci possiamo spiegare la nascita del balilla: per i diciottenni, il premilitare. E ancora, le giovani italiane, le colonie marine, i treni popolari, il dopolavoro: tutte istituzioni che hanno qualcosa in comune con la vecchia corazzata. L'Italia, diceva l'ammiraglio, ha bisogno di marinai. In sostanza, il progetto del vecchio ammiraglio, secondo le idee e abitudini mussoliniane, diventò macroscopico. Illustre signor presidente Amintore Fanfani, egregio signor Ministro di grazia e giustizia, onorevoli senatori di ogni partito e tendenza, non desidero una seconda nave Caracciolo. Propongo invece di sollecitare il Governo affinché dia il via all'assegnazione al "Filangieri" di uno spazio in una località ridente su cui costruire un villaggio con abitazioni e botteghe dove i giovani, già avviati a mestieri e all'artigianato antico, possano abitare e lavorare ognuno per conto proprio, assaggiando in tal modo il sapore del frutto sulla loro sacrosanta fatica, recuperando la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità cui hanno diritto e che giustamente reclamano. Le infinite specializzazioni di arti e mestieri (pellettieri, fabbri, restauratori, ebanisti, pittori, sarti, cuochi, pasticcieri eccetera) renderebbero il villaggio un centro operoso di qualificati prodotti artigianali, di cui tanto si auspica il ritorno, e ciò sarebbe non solo un richiamo di ordine turistico su scala internazionale ma anche e insieme fonte di guadagno e di indipendenza economica per questi giovani del villaggio che mi augurerei potesse assumere il suo vecchio nome "Le cappuccinelle". Quel grandissimo poeta napoletano, Giuseppe Marotta, definì i napoletani in genere «gli alunni del sole».
(Applausi dall'estrema sinistra, dalla sinistra, dal centro-sinistra e dal centro. Congratulazioni).

Verba volant (139): violenza...

Violenza, sost. f.

L'aggettivo latino violentus ha la stessa radice del sostantivo vis, che significa forza, vigore, a cui è stata aggiunta la terminazione -ulentus, che indica eccesso. Quindi la violenza è un uso eccessivo della forza.
Shoshana B. Roberts è una giovane donna che, indossando un paio di jeans e una t-shirt nera, cammina tranquillamente per le strade di New York. Nulla di particolare, se non che si è trattato di un esperimento: Shoshana ha camminato per circa dieci ore e davanti a lei c'era un amico che la riprendeva con una telecamera nascosta. In quelle dieci ore, diventate un video, Shosana ha ricevuto centootto commenti, apprezzamenti, sguardi ammiccanti, da persone che non conosceva; uno di questi sconosciuti l'ha seguita per cinque minuti, senza dire nulla, ma comunque imponendo alla ragazza la sua presenza.
Purtroppo questa notizia è stata sottovalutata - anche perché nello stesso giorno qui in Italia abbiamo assistito ad altri episodi di violenza, tanto più gravi perché compiuti dallo stato contro i lavoratori - o è stata trattata con sufficienza, facendone magari l'occasione di qualche battuta - come è capitato in una trasmissione radiofonica che seguo regolarmente, CaterpillarAm, che pure di solito è attenta a certi temi e mostra una sensibilità che altri non hanno. Anche questa sottovalutazione è il segno che un problema culturale esiste. Ed è molto grave.
In quelle dieci ore nessuno ha picchiato Shoshana, eppure lei ha subito violenza.
Questo esperimento - che credo possa essere confermato da qualsiasi donna che conosciamo - ci dice che in una qualunque città una donna non è libera di camminare tranquillamente, per andare al lavoro o a scuola, o semplicemente per farsi gli affari suoi. Limitare la libertà personale di una persona, costringerla a fare una cosa diversa da quella che vorrebbe fare - anche solo farle cambiare strada o farle preferire di stare a casa piuttosto che uscire - è una forma di violenza. La stessa esperienza l'ha fatta qualche tempo fa la giovane araba america Colette Ghunim per le strade de Il Cairo e l'esito è stato lo stesso; perché la stupidità maschile è ormai globalizzata.
Probabilmente una parte dei centootto maschi che in quelle dieci ore hanno importunato Shoshana è fatta di brave persone, di uomini che non alzerebbero un dito contro una donna, che sono pronti anche a condannare la violenza contro le donne, in maniera sincera e non ipocrita; eppure quegli stessi uomini, quelle brave persone, non hanno capito che anche quel loro atteggiamento, quei loro complimenti non richiesti, quelle loro occhiate, sono una forma di violenza, non meno grave di quella fisica. Quei centootto non sono maniaci, non sono criminali, siamo noi, noi maschi "normali".
Siamo noi maschi "normali" che dobbiamo interrogarci guardando questo video, anche perché praticamente tutti i commenti lasciati dagli uomini tendono a minimizzare, a dire che in fondo non è successo niente, perché nessuno ha picchiato la ragazza. Invece qualcosa è successo ed è stata una forma di violenza, martellante, continua; dobbiamo ammirare il coraggio di Shoshana, come delle altre ragazze che in altre città hanno accettato di sottoporsi a questa prova. E Shoshana, dopo la pubblicazione del video su Youtube, ha subito delle minacce, così come le altre persone impegnate nel progetto, a testimonanianza che è stato toccato un nervo scoperto.
La violenza, in tutte le sue forme, è un problema per chi la subisce, ma si risolve soltanto se si affrontano i problemi e l'ignoranza di chi la compie. Il tema non è quello di chiedere alle donne di cambiare le proprie abitudini o di consigliare loro quali vestiti scegliere, ma quello di far capire agli uomini, in particolare ai giovani uomini, che le donne non sono di loro proprietà o preda di caccia. E infatti molti degli uomini ripresi nel video si sono arrabbiati perché Shoshana non ha risposto ai loro complimenti, la criticano per non essere stata "gentile" con loro. Bisogna far capire agli uomini che fermare una donna sconosciuta per strada solo perché ci piace non è un segno di virilità, ma solo di stupidità.
Questa esperienza rende evidente la mancanza di educazione sentimentale di molti maschi, ma anche le colpe di quelle madri che hanno allevato dei figli che non riescono a comunicare in modo naturale con l'altro sesso. Questa esperienza mette in luce ancora una volta quanto sia malata la nostra società che ha un rapporto morboso con la sessualità e in particolare con il corpo delle donne. Questa esperienza ci fa capire quanto ci sia ancora da lottare per una società giusta, di eguali, senza distinzione di genere.
Per questo dobbiamo ringraziare Shoshana e Colette, e dobbiamo ringraziare le donne che tutti i giorni, nonostante le violenze che noi maschi causiamo loro, hanno la forza di vivere la loro vita con coraggio, con serenità, con intelligenza. Per queste donne non possiamo far finta di nulla.

domenica 26 ottobre 2014

Considerazioni libere (392): a proposito di una grande manifestazione...

E' stato bello essere in piazza ieri. Come lo era stato il 23 marzo 2002.
Per chi - come me - ha avuto l'opportunità di partecipare a entrambe queste manifestazioni - le più grandi della sinistra in Italia dopo il funerale di Enrico Berlinguer - credo sia inevitabile cercare le analogie e le differenze.
Le prime sono molte ed evidenti. Entrambe sono state scatenate dalla proposta del governo - Berlusconi ieri e Renzi oggi - di abolire l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Tutte e due sono state numericamente imponenti e molto gioiose. Ovviamente eravamo di più in quella bella giornata di primavera del 2002, ma francamente credo che i numeri debbano essere letti anche nel contesto della situazione e quindi penso che in proporzione questa ultima manifestazione abbia rappresentato un successo ancora più grande. Dodici anni sono tanti, hanno cambiato nel profondo questo paese; soprattutto in questi dodici anni abbiamo assistito - quasi sempre impotenti, alcune volte purtroppo complici - alla delegittimazione delle forme di partecipazione democratica. E' calata la partecipazione al voto, sono di fatto spariti i partiti politici, hanno ristretto gli ambiti della democrazia, hanno costantemente attaccato il sindacato, presentandolo come una delle "caste" che ha danneggiato il paese. In questo clima riuscire a portare tantissime persone a Roma non è stato semplice e dobbiamo ringraziare il gruppo dirigente della Cgil per aver accettato questa sfida.
Ho avuto l'impressione anche che, nonostante tutto, la piazza fosse più gioiosa. In quella manifestazione ad esempio c'erano i toni lividi dell'antiberlusconismo, peraltro aizzati dallo stesso Berlusconi, c'era una cattiveria che ieri non visto. In questa piazza erano più i toni allegri, come quando ci si ritrova dopo uno scampato pericolo.
La grande manifestazione del 2002 - come certo ricorderete - ebbe un risultato politico immediato. Il governo ritirò sommessamente la proposta di abolire l'art. 18 e questo tema non è più stato nell'agenda politica italiana, almeno fino a quando il nostro paese non è stato commissariato dalla Troika e la riforma dello Statuto dei lavoratori è stata una delle condizioni imposte dalle autorità monetarie sovranazionali che, dall'autunno del 2011, governano di fatto il nostro paese, attraverso i loro prestanome al Quirinale e a Palazzo Chigi. E' stato anche per merito di quella manifestazione lontana se il governo Monti non ha avuto il coraggio di abolire del tutto l'art. 18, cosa che adesso è richiesta all'esecutivo guidato da Renzi.
Vista da un altro punto di vista e analizzando le vicende della sinistra italiana con un maggior respiro temporale, quella piazza ha rappresentato un insuccesso. Con quella grande manifestazione Cofferati dimostrò che era possibile una sinistra diversa da quella che stavamo costruendo, sempre più vicina al modello della cosiddetta "terza via", sempre più simile al Labour di Tony Blair, in sostanza sempre meno sinistra e sempre più piegata ai valori del liberismo e del capitalismo. Quella manifestazione fu rappresentata da una parte del gruppo dirigente dei Ds come il tentativo di Cofferati di "scalare" il partito, come il segno della sua ambizione politica - e non escludo che questa ambizione ci fu. Tanto che negli anni successivi ci fu un lavoro sistematico per depotenziare l'ex-segretario della Cgil fino ad arrivare al forzato "esilio" bolognese; e peraltro Cofferati non ebbe mai il coraggio di rompere questo assedio, accettò la candidatura a Bologna e poi si rifugiò a Bruxelles.
Ma al di là di queste vicende personali - che comunque servono a capire cosa è successo - tutte le scelte successive sono state fatte per "smontare" il potenziale di quella piazza. Cominciammo a virare sempre più destra, fino a quando la nave non è andata fuori controllo. Siamo stati sconfitti perché allora non scegliemmo il potenziale che c'era in quella piazza e preferimmo invece il dialogo con il mondo delle imprese e delle banche. Nella scelta che facemmo allora di far finta che quella manifestazione non ci fosse stata, perché "vecchia", perché non in linea con la modernità, ci sono le ragioni che ci hanno portato al suicidio della sinistra, alla nascita del Pd e infine alla degenerazione rappresentata da Renzi.
Veniamo adesso alla piazza di ieri. Certamente il fatto di essere andati in piazza e di essere stati così tanti non comporterà nessun effetto immediato. Chi ci governa - chi ci governa veramente - non si spaventerà per questa manifestazione e finalmente abolirà l'art. 18. Anzi probabilmente avranno una maggiore soddisfazione, perché - nel loro sadismo - sentiranno di incidere sulla carne viva del paese e non avranno la sensazione di fare un intervento necroscopico. Hanno bisogno di togliere l'art. 18, perché hanno bisogno di avere le mani libere, perché hanno bisogno di licenziare, come dimostra la vicenda delle acciaierie di Terni. Quindi non illudiamoci, il nostro viaggio a Roma non avrà un effetto immediato, almeno non quello da noi sperato. Sarà ininfluente nella decisione della minoranza Pd che voterà comunque la fiducia e non distoglierà un partito come Sel a continuare a fiancheggiare i renziani nelle elezioni locali. Sono lontani gli anni in cui in Italia c'era un governo eletto che - perfino quando era di destra - doveva fare i conti con gli elettori. A chi ci governa adesso, visto che nessuno li ha eletti, non importa nulla di cosa dice la piazza. In questo è stato un insuccesso. Ma lo sapevamo, temo.
Non credo invece sia stato un insuccesso per le prospettive che questa manifestazione disegna. Ieri ho visto in piazza tantissime persone che avevano bisogno di esserci, di trovarsi, di riconoscersi. In tantissimi ci siamo persi, ognuno dietro alle sue idee, qualcuno è perfino rimasto ostinatamente nel Pd, in molti è prevalsa l'idea di lasciare andare. Anche perché non avevamo più un "posto" in cui stare tutti.
Nonostante la retorica inclusiva di Renzi e dei renziadi, la Leopolda è un luogo che esclude: o con me o contro di me. La Leopolda è il luogo dove si ritrovano questi nuovi teorici del potere per il potere, purtroppo spesso molto giovani, che vivono la politica unicamente per il potere che ne possono ricavare. E quindi contano poco i valori e la storia, conta nulla il definirsi di destra o di sinistra, conta l'attualità, conta l'essere lì. Mi rendo conto che questa è probabilmente una generalizzazione che - come sempre le generalizzazioni - si scontra con una realtà che è anche più complessa, più articolata, che è stata capace anche di raccogliere entusiasmo sincero, voglia di fare, passione. Ma mi pare che queste pulsioni siano state messe velocemente in minoranza ed espunte come un corpo estraneo.
Noi in piazza ieri cercavamo un'identità, che evidentemente non riusciamo più a trovare in quel partito, che è impossibile trovare in quel partito - anche nonostante la buona volontà di qualcuno che ci rimane e di cui conosciamo la storia e le buone intenzioni - e che quindi abbiamo riversato nel sindacato che si è fatto partito, è diventato il luogo "caldo" della partecipazione della sinistra. La giornata di ieri credo rappresentarà qualcosa di importante per la sinistra italiana perché ha mostrato che in campo ci sono davvero due visioni alternative e chiaramente distinte di vedere il futuro di questo paese, a partire da come uscire dalla più grave crisi economica che abbia mai subito.
Poi, per un paradosso che è difficile da spiegare, entrambe queste visioni si dicono di sinistra, ma - come ho scritto da un'altra parte - non possiamo perdere tempo adesso a litigare sulla primogenitura o su chi ce l'ha più lungo. Io credo sia una prospettiva socialista, ma se questa parola fa paura o crea troppe discussioni, possiamo non usarla. L'unica cosa che non possiamo eliminare sono le idee, a quelle non possiamo proprio rinunciare: la difesa della democrazia rappresentativa, il considerare il lavoro come l'elemento fondante dell'economia, la difesa della funzione pubblica dello stato.
Questo è il compito che ieri oltre un milione di persone ha affidato alla Cgil e credo sia una responsabilità pesante per quell'organizzazione che deve considerare il 25 ottobre uno spartiacque della propria storia lunghissima e che ora è arrivata ad una svolta.
Ovviamente non possiamo delegare tutto all'organizzazione, noi abbiamo da fare il nostro dovere, ma credo sia più facile farlo, sapendo che non siamo da soli e che la nostra lotta si inserisce in una prospettiva più grande.

giovedì 23 ottobre 2014

"Noi vogliamo una società socialista..." di Enrico Berlinguer


"Noi vogliamo una società socialista che corrisponda alle condizioni del nostro paese, che rispetti tutte le libertà sancite dalla Costituzione, che sia fondata su una pluralità di partiti, sul concorso di diverse forze sociali.
Una società che rispetti tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani, perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane."

mercoledì 22 ottobre 2014

Verba volant (138): costare...

Costare, v. intr.

Questo verbo viene dal latino constare, il cui primo significato è quello di essere fermo e quindi certo, stabilito, da cui il senso - oggi ormai prevalente - di avere un prezzo determinato. Spiega con la solita precisione il Pianigiani:
Valere, detto di cosa che si venda, ma con relazione al prezzo attribuitole.
Affronto oggi questa definizione perché questa mattina davanti all'ufficio in cui lavoro, l'anagrafe del Comune di Salsomaggiore, si è concluso il corteo dei lavoratori in sciopero del settore termale, ossia la "fabbrica" più grande della nostra città. Il motivo scatenante di questa protesta è stata la decisione dell'azienda - pubblica - di licenziare entro la fine di quest'anno ottantuno persone, circa un terzo di tutti quelli che ci lavorano. Non entro nel merito della vicenda complessa delle Terme di Salsomaggiore e Tabiano, che sono in crisi da molto tempo - e su cui ci sono molte e gravi responsabilità - ma su un aspetto che mi ha fatto riflettere. Il presidente di Terme ha detto che la decisione di licenziare queste ottantuno persone è frutto della volontà di far ripartire l'azienda, eliminando un costo gravoso che pesa su quei bilanci. Da un punto di vista puramente contabile posso capire la logica di questa scelta: meno persone che lavorano sono meno persone da pagare, però Terme è un'azienda che produce essenzialmente servizi e se non ci sono le persone che lavorano quei servizi non potranno più essere prodotti. Capisco che i lavoratori costino, ma in questo caso specifico sono anche l'unica fonte di reddito, perché la nostra acqua non si può semplicemente bere - nel caso basterebbe una persona a controllare i rubinetti - ma deve essere in qualche modo applicata e, senza questo lavoro, non può essere venduta e quindi non può produrre nuova ricchezza. Al di là del fatto che io - per antica e "sinistra" testardaggine - continuo a pensare che i lavoratori siano persone e non costi, in questo caso particolare la decisione di licenziare non riesce a convincermi neppure da un punto di vista strettamente economico.
Ovviamente il caso delle Terme di Salsomaggiore non è isolato. L'altra sera ho ascoltato l'intervista all'amministratore delegato di Meridiana che spiegava che per il rilancio di quell'azienda in crisi era necessario ridurre il numero delle persone che vi sono impiegate. Anche in questo caso si tratta di un curioso paradosso: senza piloti come volano gli aerei? E per far crescere gli affari di una compagnia aerea non sarebbe necessario far volare più aerei, coprire più rotte? E quindi non sarebbero necessarie più persone?
A me preoccupa molto che passi come una cosa naturale il fatto che i lavoratori siano il principale costo di un'azienda e quindi che per renderla più competitiva sia necessario ridurre i costi e quindi licenziare. Io non sono certo un esperto di politiche industriali, ma mi hanno insegnato che senza lavoro - manuale e intellettuale - non si produce ricchezza. Poi ovviamente servono altre cose, che certamente sono costi: servono le materie prime e l'energia; e bisognerebbe che queste cose costassero meno, ma non si può fare lo stesso ragionamento per il lavoro. Adesso invece sembra che lo svilippo passi necessariamente per la riduzione del costo del lavoro, e quindi meno salari e sempre più bassi. La storia, anche recente, del nostro continente - ce lo insegna quel comunista di Eric Hobsbawm - mostra il contrario: alla fine della seconda guerra mondiale l'economia europea e statunitense è cresciuta perché i salari si sono alzati e perché l'occupazione è molto aumentata.
Ogni tanto ci capita di guardare un programma che negli Stati Uniti si chiama  The high low project e in Italia Sabrina: Design accessibili. Il programma si svolge sempre così: una designer, Sabrina appunto, fa vedere a una famiglia una stanza arredata secondo tutti i loro desideri, e questo arredamento costa naturalmente molti soldi. Quando la famiglia si rende conto che non può spendere quella cifra iperbolica, Sabrina rifà un arredamento molto simile all'originale, spendendo anche dieci volte meno. In ogni puntata c'è un suo collaboratore che costruisce, con pochi soldi, un oggetto che sarebbe costato migliaia di dollari. Io mi arrabbio tutte le volte, perché quell'oggetto non costa soltanto il materiale che è servito a costruirlo, ma bisogna calcolare il valore del lavoro dell'aiutante di Sabrina che ci mette tempo, ma soprattutto fantasia e bravura nel fare quel tavolino o quella scansia o quel mobiletto. Si tratta solo di un un programma televisivo ovviamente, ma mi sembra sempre più una metafora dei nostri tempi. Se il lavoro è solo un costo, basta ridurlo, fino a portarlo a zero.
Come avrete capito, a me non piace affatto l'espressione costo del lavoro e vorrei che, almeno noi a sinistra, smettessimo di usarla; possiamo lasciarla a quelli di là, a Confindustria e al "suo" governo. Anche perché ormai non siamo più noi a stabilire il prezzo con cui "vendiamo" il nostro lavoro, sono sempre loro, quelli che lo "comprano", a definirlo e ad imporcelo, sempre più basso.
Diceva invece John Maynard Keynes.
Sono quindi vicino alla dottrina pre-classica, che ogni cosa è prodotta dal lavoro, coadiuvato da ciò che allora usava chiamarsi arte e che ora si chiama tecnica, dalle risorse naturali che sono gratuite o costano una rendita a seconda della loro abbondanza o scarsità, e dai risultati del lavoro del passato [...] È preferibile considerare il lavoro, compresi naturalmente i servizi personali dell'imprenditore e dei suoi collaboratori, come l'unico fattore di produzione, operante in un dato ambiente di tecnica, di risorse naturali, di beni capitali e di domanda effettiva.
Ecco a me il lavoro piace più considerarlo così, e mi piace considerare i lavoratori una voce di attivo invece che di passivo.

lunedì 20 ottobre 2014

Verba volant (137): socialista...

Socialista, agg. m. e f.

Io sono socialista.
Per molti anni - specialmente nell'ultimo decennio, ossia da quando non ho più avuto un partito in cui militare - mi sono definito "di sinistra" e questa formula mi è sempre parsa soddisfacente per me e comprensibile per i miei interlocutori; ad esempio mi sono definito così nella breve presentazione di questo blog, aggiungendo "da sempre (e per sempre)". Da qualche tempo sento che non mi basta più, non perché io non sia più di sinistra - anzi, invecchiando lo sono diventato anche di più, o almeno sono più radicale - ma perché questa espressione ha perso molto del suo significato.
Quando sento Renzi e i renziadi proclamarsi di sinistra sento che qualcosa non funziona, che questa parola è andata in cortocircuito. Naturalmente non posso avere la presunzione di dire a qualcuno: tu non sei di sinistra, tu non puoi chiamarti così, visto che io - come nessun altro - non ho il copyright di questa parola. E non posso neppure mettermi qui a dire: io sono più di sinistra di te. Mi pare una di quelle gare stupide da bambini riservate a noi maschietti; il livello di Taddei è quello, ma francamente non vorrei scendere così in basso.
Il problema è che non ci sono soltanto Renzi e i renziadi che usano questa parola in malafede, come un passepartout elettorale, ma c'è una generazione che sinceramente pensa di essere di sinistra, anche perché non ha mai visto altro. Io conosco qualche "nativo democratico" che è convinto di essere di sinistra. Sono bravi ragazzi, magari di famiglia democristiana, genericamente progressisti, che credono nel valore della pace, che hanno ammirato Mandela, che pensano che gli omosessuali abbiano il diritto di sposarsi e che per tutto questo credono di essere di sinistra. Sono persone che sono cresciute politicamente nell'era berlusconiana e che sono diventate di sinistra perché a destra c'era Berlusconi, che a loro non piaceva; e non gli piace neppure ora, nonostante sia un fedele alleato di Renzi. In quegli stessi anni a sinistra hanno visto quello che c'era da vedere, ossia molto poco. E quindi credono che possa nascere una sinistra diversa, anche e soprattutto più onesta di quella che loro hanno conosciuto. E questo è stato un punto dolente, qualcosa su cui non siamo riusciti a marcare una "diversità", come si diceva una volta.
Da quando c'è Renzi che dice di essere di sinistra come faccio a dire che anch'io sono di sinistra? Era successa la stessa cosa diversi anni fa quando Berlusconi si era impossessato del termine riforme. Se uno di destra definiva se stesso riformista, come potevo io continuare a considerarmi tale?
Però io ho bisogno di definirmi e non posso dire solo che sono antirenziano, come prima ero antiberlusconiano. E non mi basta neppure definirmi anticapitalista. E così mi sono reso conto che c'è un aggettivo che posso usare, anche se non è nuovo, anche se è stato usato così male, specialmente nel nostro paese, ma non solo. Sono socialista, perché, al di là della storia recente di questo termine, questo aggettivo indica un orizzonte storico verso cui tendere e un'ambizione collettiva e si pone immediatamente in contrapposizione con la realtà triste dei nostri tempi.
Sono socialista perché sono convinto che dobbiamo ottenere un'uguaglianza sostanziale, che è in antitesi alla concezione prettamente individualistica così in auge in questa fase di sfrenato capitalismo. Sono socialista perché penso che esistano dei beni comuni da sottrarre al mercato, perché penso che la ricchezza debba essere redistribuita, perché penso che l'utilità sociale, la piena occupazione, la dignità del lavoro possano porre dei limiti all'iniziativa privata, perché penso che il welfare debba essere universalistico, perché penso che lo stato abbia il primato della programmazione economica, fino ad arrivare all'intervento pubblico e alla socializzazione dei mezzi di produzione, perché penso che ci siano valori, come l'ambiente e la cultura, più importanti dello sviluppo economico e che sia possibile limitare il profitto se entra in contrasto con questi valori. Perché in sostanza penso che una società socialista con queste caretteristiche sia l'obiettivo dell'umanità, la futura umanità, come cantavano i nostri nonni e i nostri padri, intonando L'Internazionale.
Questo uso dell'aggettivo infatti non è particolarmente nuovo. Anzi è proprio antico e mi piace anche perché ha una storia lunga e, per quanto travagliata, gloriosa.
Quando Renzi dice che "gli imprenditori hanno il diritto di licenziare" forse può pensare di dire una cosa di sinistra e magari può convincere qualcuno che effettivamente sia così, perché in fondo la libertà è un valore della sinistra. E perché sono riusciti a convincere che la sinistra è cambiamento, senza specificare per far cosa; pensano di essere di sinistra solo perché cambiano, ad esempio perché aboliscono lo Statuto dei lavoratori, che è lì da quarant'anni.
Difficile però che tutti loro, sia quelli in malafede che quelli in buona fede, accettino di dire che si tratta di operazioni socialiste. Ecco credo che Renzi - a meno di un certo sprezzo del ridicolo - non possa definire se stesso come socialista, dovrà trovare qualche perifrasi, usare qualche formula più elaborata, ma socialista no. Anzi è il Pd che non vuole definire se stesso come socialista. E quindi a noi rimane un campo d'azione. Socialisti siamo noi, questo nome non potete rubarcelo, non potete usarlo voi. Perché anche quando tentano di usarlo, come hanno fatto a livello europeo, dove Renzi si presenta come un capofila del Pse, le loro idee, così legate al modello capitalistico dominante, sono - e saranno sempre - in antitesi con l'idea di costruire una società socialista.
Ecco a me piacerebbe che ripartissimo da lì, dicendo che ci batteremo per far nascere una società socialista. Poi torneremo a prenderci anche la parola sinistra e perfino riforme. Per questo non dobbiamo avere paura delle parole e soprattutto non dobbiamo avere paura delle idee.
Per questo io sono socialista.

venerdì 17 ottobre 2014

Verba volant (136): tovaglia...

Tovaglia, sost. f.

Questa parola arriva in italiano dal franco, attraverso il provenzale toalha: evidentemente i barbari erano meno barbari di quanto i Romani fossero disposti a riconoscere. Forse questo dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi, nel rapporto quotidiano con i nostri "barbari".
Oggi però affronto questa definizione non per dilungarmi su una riflessione socio-antropologica, ma per raccontare un piccolo episodio di ordinaria amministrazione. Nei giorni scorsi un dirigente del Comune di Bologna ha scritto agli asili nido della città che, dopo una fase di sperimentazione, "non verrà più prevista la fornitura di tovaglie"; quindi i bambini faranno pranzo e merenda direttamente sui tavolini, "sanificati nel rispetto delle procedure".
In pratica, per rispettare i vincoli europei e i paletti imposti dal fiscal compact, occorre fare delle economie e quindi, scendendo per li rami, si arriva fino agli infanti bolognesi, finora abituati a mangiare sulle loro candide tovagliette. Pare che questa decisione anticipi quella di togliere dai nidi bolognesi le lavatrici, attrezzature costose - anche per quello che riguarda la manutenzione - con cui si lavano, oltre alle tovaglie, i bavaglini, gli asciugamani, le lenzuola dei lettini. Di alcune cose si può fare a meno - come le tovaglie appunto - di altre evidentemente no e quindi suppongo che questi necessari, per quanto residui, lavaggi andranno a carico delle famiglie, che quindi si troveranno un aumento mascherato della retta. A meno di non utilizzare in maniera massiccia prodotti usa e getta: non proprio il massimo, né dal punto di vista ambientale né da quello economico.
Al di là di alcuni aspetti pratici sollevati in questi giorni dalle insegnanti - ad esempio con la tovaglia il piatto corre meno il rischio di scivolare - credo però che sia importante l'aspetto educativo. Anche attraverso un piccolo gesto come mettere la tovaglia si spiega alle bambine e ai bambini che siamo in un momento diverso della giornata, che merita un'attenzione particolare. Avranno tempo, quando cresceranno, di mangiare sul tavolo dell'ufficio - rigorosamente senza tovaglia - o addirittura alla catena di montaggio, perché "lorsignori" avranno finalmente perfezionato la macchina per far mangiare l'operaio, rotta da Chaplin in Tempi moderni.
Chi ha qualche esperienza dell'asilo nido sa che il pasto è un momento importante della giornata dei bambini, che ha valenze sociali e cognitive; non si smette di imparare, nemmeno quando si sta a tavola. Se vogliamo che gli asili nido continuinino a essere quelle belle strutture che in questa regione abbiamo imparato ad apprezzare - e su cui alcuni di noi hanno anche lavorato affinché diventassero così - e su cui abbiamo investito, forse bisognerebbe provare a risparmiare in altri settori, senza togliere qualcosa ai bambini.
Probabilmente non è un gran problema e, passata l'incazzatura delle insegnanti e assorbita la rassegnazione delle famiglie, di queste tovaglie non parleremo più. Come dicono i professionisti della protesta: ben altri sono i problemi. E curiosamente dicono la stessa cosa anche i responsabili di queste piccole mancanze, proprio per sottolineare che si tratta di problemi da poco, di bagatelle, di fronte ai mali del mondo.
Io credo invece che dobbiamo cominciare ad arrabbiarci anche per le piccole cose, per queste piccole cose. Devono sapere che non gliene faremo passare nessuna, che non ci saranno sconti. In questi anni abbiamo lasciato passare troppe piccole cose e alla fine loro se ne sono approfittati. E' un errore che non ci possiamo più permettere.

mercoledì 15 ottobre 2014

Verba volant (135): stabilità...

Stabilità, sost. f.

Raramente le parole vengono scelte a caso, anche se spesso il caso influisce nella storia delle parole.
L'aggettivo stabile deriva dal latino stabilem, che a sua volta viene dal verbo stare, che significa rimaner fermo, a cui si aggiunge la terminazione bilem che indica la possibilità.
Questa è una parola che è da sempre nel linguaggio politico italiano. Nella cosiddetta prima Repubblica molti invocavano la stabilità di governo, in genere poco prima di far cadere l'esecutivo in carica. Nella seconda Repubblica ci siamo inventati il maggioritario proprio per garantire la stabilità di governo, con risultati non sempre soddisfacenti, tanto che nella prossima imminente terza Repubblica aboliranno le elezioni, proprio per soddisfare questo bisogno di durata ed efficienza. La stabilità sarà così finalmente garantita. Costi quel che costi.
In questi giorni però questa parola si usa in un'altra espressione, entrata solo dal 2010 nel nostro lessico, ossia legge di stabilità. mentre scrivo aspettiamo che il governo vari la legge di stabilità, già presentata in un'assemblea di Confindustria - giusto per capire da che parte sta questa maggioranza - e di cui i giornali propongono ampi stralci. Al di là delle notizie di giornata, che saranno comunque disattese nei prossimi giorni, perché questo governo si è specializzato in questa tecnica di alternare annunci roboanti e silenziose inerzie, è più interessante capire perché abbiamo cambiato nome alla legge di bilancio.
Dal 2010 infatti abbiamo cominciato a chiamare così la legge finanziaria, uno degli atti più importanti dell'amministrazione pubblica. E ovviamente non si tratta di un caso. Come noto, con la legge di stabilità il nostro paese ha perso un bel po' della propria autonomia, perché il bilancio, al di là di chi governi, deve rispettare alcuni vincoli imposti dall'esterno: il rapporto tra il disavanzo pubblico e il pil non deve superare il 3%; il rapporto tra debito pubblico e pil deve essere inferiore al 60%; il tasso di inflazione non può superare di oltre 1,5% quello dei tre stati membri che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi; il tasso d'interesse nominale a lungo termine non deve eccedere del 2% quello degli stessi tre stati, i primi della classe. In sostanza il nostro paese deve stare fermo, per rendere giustizia al valore etimologico del termine.
E da questa adesione acritica alle direttive europee deriva il cosiddetto patto di stabilità che di fatto impedisce alle amministrazioni locali di spendere i soldi, magari già in cassa: anche in questo caso il fine ultimo è quello di stare fermi, di non fare nulla. Se non ci fosse stata il patto di stabilità magari oggi avremmo la cassa di espansione del Baganza e ci sarebbero stati molti meno danni a Parma, a causa dell'alluvione; ma volete mettere l'ebbrezza di stare fermi, di non fare nulla, immobili.
Nei prossimi giorni Renzi ci sommergerà di tabelle, slide, grafici per dirci quanto è bravo e ci spiegherà quanta è vicina la ripresa e altre analoghe prese per il culo.
Non ci dirà invece le uniche cose che conterrà davvero questa legge di bilancio. Infatti quest'anno è entrato in vigore il nuovo art. 81 della Costituzione - imposto dalla Troika, auspicato da Napolitano e da Monti, e votato da tutti i partiti, compreso il Pd - che impone il vincolo del pareggio di bilancio e l'impossibilità di contrarre debiti. Inoltre quel parlamento ha ratificato il cosiddetto trattato sulla stabilità fiscale, imposto al nostro paese dalle autorità finanziarie internazionali e in particolare dalla Bce di Mario Draghi, in cambio dell'acquisto dei nostri titoli di stato e quindi della messa sotto controllo del debito pubblico. L'art. 4 del trattato prescrive che "quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore del 60% [...] tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all'anno". Vediamo cosa significa - anche perché dal 2015 comincerà a far sentire i suoi effetti. Il pil è circa 1.650 miliardi, per cui il 60% è intorno a 1.000 miliardi. Il nostro debito è poco più del doppio di questa cifra, miliardo più, miliardo meno. Quindi per far scendere il debito all'obiettivo del 60% del pil lo si dovrebbe ridurre di 50 miliardi l'anno per venti anni. L'obiettivo è forse raggiungibile, a patto di spingere nella miseria tre quarti della popolazione italiana e di assicurare la povertà ad almeno due generazioni. Cosa che Renzi deve fare per continuare a pavoneggiarsi in televisione.
Come è evidente a ciascuno di noi che tiene i conti della propria famiglia e magari ha un mutuo, per ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è necessaria una condizione: il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, ogni anno - e per tutti gli anni previsti dal contratto di mutuo - deve avere delle entrate sufficienti per coprire ciascuna delle rate del debito. Nel caso dell'Italia questa condizione essenziale non esiste. Anche perché il debito non smette di crescere: al tasso medio del 4% gli interessi aumentano di circa 80 miliardi l'anno, in una spirale di cui è difficile vedere la fine. Una famiglia in cui le uscite sono sistematicamente maggiori delle entrate è destinata a non sopravvivere, un'azienda nelle stesse condizioni fallisce, uno stato deve trovare una soluzione diversa. Bisognerebbe partire da una tesi alternativamente opposta: smettere di stare fermi e cominciare a muoversi.
Ad esempio cambiando un po' le carte in tavola. La Bce ha prestato, in tempi diversi migliaia di miliardi alle banche a un tasso favorevolissimo dell'1%. E queste ultime hanno usato questi soldi per comprare i titoli del debito dagli stati, con interessi tripli o quadrupli. Questo è un meccanismo che deve essere interrotto: occorre abrogare l'art. 123 del trattato che vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli stati. Se la Bce prestasse i 1.000 miliardi che ci mancano a un interesse dell'1% si potrebbe cominciare a rimettere in sesto i conti pubblici; questo naturalmente provocherebbe una forte diminuzione di guadagni per le banche, ma probabilmente questo non dovrebbe essere una priorità per il governo di un paese sull'orlo del fallimento.
Naturalmente se fai questa proposta ti diranno che devi essere curato. O che sei un terrorista. O peggio che sei comunista. Può essere, però è da quando ho conosciuto don Chisciotte che mi piacciono i personaggi instabili. 

Verba volant (134): sicurezza...

Sicurezza, sost. f.

Le parole - l'ho raccontato molte volte qui a Verba volant - spesso fanno giri strani e alcune volte cambiano significato nel corso del tempo. Oppure, anche quando non cambiano significato, possono assumere un senso diverso, a seconda di chi parla e di chi ascolta; proprio come è successo alla parola sicurezza.
Questa è una parola che negli ultimi anni è diventata ricorrente nel vocabolario dei politici di destra - e di quei politici di sinistra che cercano di scimmiottare quelli di destra, per vincere le elezioni. Ci hanno detto che la nostra società è sempre meno sicura, dando per lo più la colpa di questa situazione alle persone che in questi anni sono venute a vivere nelle nostre città, arrivando da paesi molto lontani. Negli Stati Uniti, in nome della sicurezza, hanno limitato alcuni diritti umani fondamentali e hanno giustificato l'uso - peraltro ingiustificabile - della tortura. E così sicurezza è diventata una parola che è cominciata a piacermi poco, a diventarmi in qualche modo indigesta; il suo uso è diventato un segnale - quasi inconscio - che quello che sta parlando è qualcuno di cui non posso fidarmi.
Eppure sicurezza è una bella parola che noi di sinistra dovremmo "riscoprire", anzi è una parola che ci dobbiamo riprendere.
Mi è venuta in mente questa considerazione guardando le immagini di Genova. E' una città in cui sono stato poche volte, ma amo la Liguria - di cui conosco meglio i due punti estremi, a levante e a ponente - e so, come voi, che si tratta di una terra fragile, che richiede da parte degli uomini una cura particolare. Quello è un territorio che dobbiamo mettere in sicurezza. Lo so che oggi lo dicono tutti - anzi lo dicono tutti ogni volta che capita una disgrazia di questo tipo - però noi non possiamo stancarci, dobbiamo continuare a dirlo e soprattutto dobbiamo denunciare quelli che lo dicono e poi non lo fanno.
Come sapete io sono pessimista, molto pessimista, sul futuro di questo paese, che credo ormai destinato a erodersi sotto la pioggia - proprio come sta succedendo alla Liguria - eppure, se vogliamo davvero pensare che un'Italia diversa sia possibile, bisogna partire da lì, dalla ricostruzione paziente del territorio, dalla sistemazione degli argini, dal consolidamento delle frane, dalla cura delle coste, dalla tutela dell'ambiente, con tutto quello che questo comporta, in termini di scelte strategiche per lo sviluppo. Questa è il modo giusto di declinare la sicurezza.
E non possiamo stancarci, perché dobbiamo mettere in sicurezza il nostro patrimonio culturale, le opere d'arte, i reperti archeologi, perché dobbiamo mettere in sicurezza i libri, la musica, la bellezza. Per tutti.
L'aggettivo latino securus, da cui deriva quello italiano e quindi il sostantivo sicurezza è il composto di se-, che indica separazione o privazione e del termine cura, che significa preoccupazione; quindi questo termine significa propriamente senza preoccupazione. Ecco un altro senso di questa parola per cui dobbiamo tornare ad alzare la bandiera della sicurezza, perché noi dobbiamo lavorare per offrire ai giovani - e non solo a loro - un lavoro sicuro, ossia che garantisca alle persone un reddito equo e soprattutto che abbia una prospettiva di continuità - anche per questo io sarò in piazza a Roma il 25 ottobre. Sappiamo bene che non c'è sicurezza sul lavoro, perché non cala il numero degli incidenti, ma la precarietà e la flessibilità hanno tolto alla quasi totalità dei giovani la possibilità di pensare al loro futuro senza preoccupazioni, perché sanno che il loro lavoro potrebbe finire domani o dopodomani, perché sanno che il loro contratto è in scadenza e sanno che potrà non essere rinnovato. Una persona che subisce ogni giorno questo ricatto non può essere sicura, e quindi non può essere realizzata e felice.
I paladini della sicurezza ci raccontano un mondo che non ci piace, fatto di muri, divieti, controlli, un mondo in cui si ha paura e di cui si ha paura. Un mondo sicuro invece è un mondo felice, in cui si sta bene, in cui si ha anche la forza e la capacità di affrontare i rischi che inevitabilmente succedono.
I bambini di oggi corrono certamente meno rischi di quanti ne abbiamo corsi noi alla loro età e molti di meno di quanti ne hanno corsi i nostri genitori prima di noi. Sono oggetto di una sicurezza che a volte ci pare maniacale, anche se ovviamente è spesso giustificata, perché non è un bel mondo questo per crescere. Fatico però a pensare che questa sicurezza, questo controllo ossessivo - al di là del fatto che non è poi efficace, perché non ci si può difendere da tutto e da tutti - li faccia vivere meglio.
Allora forse dobbiamo imparare a essere sicuri nelle cose importanti. Importanti davvero.

lunedì 13 ottobre 2014

da "Norme per la redazione di un testo radiofonico" di Carlo Emilio Gadda

Dal 1950 Gadda fece il funzionario alla Rai e, in questa veste, scrisse questo testo, che chi lavora nel mondo dell'informazione ora evidentemente non legge più.

[...] Ciò avvertito, ecco le regole generali assolute per la stesura di ogni testo radiofonico, generali cioè valide per qualunque tipo di testo radiofonico:

1) Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo.

2) Procedere per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per figurazioni ipotattiche, cioè per subordinate (causali, ipotetiche, temporali, concessive). All'affermazione: "Cesare, avendo accolto gli esploratori i quali gli riferirono circa i movimenti di Ariovisto, decise di affrontarlo", sostituire: "Cesare accolse gli esploratori. Seppe dei movimenti di Ariovisto e decise di affrontarlo".

3) Il tono gnomico e saccadé che può risultare da un siffatto incanalamento e governo della piena (di idee) non dovrà sgomentare preventivamente il radiocollaboratore. Una dopo l'altra le idee avranno esito ordinato e distintamente percepibile al radioapparecchio: una fila di persone che porgono il biglietto, l'una dopo l'altra, al controllo del guardiasala. La consecuzione delle idee si distende nel tempo radiofonico e deve avere il carattere di un écoulement, di una caduta dal contagocce. Ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al "vuoto radiofonico".

4) Sono perciò da evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche. La regìa si riserva di espungere dal testo parentesi e incisi e di tradurli in una successione di frasi coordinate. Una parentesi di più che sei parole è indicibile al microfono. L'occhio e la mente di chi legge arrivano a superare una parentesi, mentre la voce di chi parla e l'orecchio di chi ascolta non reggono alla impreveduta sospensione. Nel comune discorso, nel parlato abituale, nella conversazione familiare non si aprono parentesi. Il microfono e il radioapparecchio con lui, è parola, è discorso. Non è pagina stampata. La parentesi è un espediente grafico e soltanto grafico. Seguendo nel parlato un'idea, non è opportuno abbandonarla a un tratto per correr dietro a un'altra in parentesi. E meglio liquidare la prima, indi provvedere alla seconda; così il cane da pastore azzanna l'una dopo l'altra le pecore per ricondurle al gregge: non può azzannarle a tre per volta. Congiunzioni temporali e modali e gentilmente avversative (dunque, pertanto, in tal caso, per tal modo, per altro, ma, tuttavia) permetteranno di agire in ogni evenienza con risultati apprezzabili, senza ricorrere a incisi, a parentesi.

5) Curare i passaggi di pensiero e i conseguenti passaggi di tono mediante energica scelta di congiunzioni o particelle appropriate, o con opportuna transizione, o con esplicito avviso (omettere l'avviso, la frase di transizione, unicamente allorché il passaggio possa venir affidato alla voce). L'ascoltatore non è profeta e non può prevedere "quando" il discorso muterà, "quando" il dicitore lascerà un'idea, o un seguito d'idee e d'argomenti, per venire ad altro.

6) Evitare le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice - negare il contrario di quel che si intende affermare - è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l'asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio proferito. "Questa lirica non è malvagia". "La prosa del Barbetti non è delle più consolanti". Ferale risulta invece all'ascolto la catena di litòti. Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell'ascoltatore si smarrisce nella giungla dei "non". Ogni "non" della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litòte è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: "Non v'ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo". Più radiofonico: "Tutte le persone di buon senso vorranno ammettere che la sistemazione onorevole proposta dalla Magnifica Comunità di Ampezzo è senz'altro accettabile".

7) Evitare ogni infelice ricorso a poco aggiudicabili pronomi determinativi o disgiuntivi o numerali o indefiniti, a modi qualificanti o indicanti comunque derivati o desunti dal pronome o dal numero: quello-questo, l'uno-l'altro, il primo-il secondo, esso, quegli, chi, ognuno, il quale, qualsivoglia d'essi, egli, ella, quest'ultimo. Deve apparir chiaro in su le prime a quali termini di una serie enunciata i detti pronomi si riferiscono. In caso contrario è meglio ripetere il termine, cioè il nome. Dopo aver elaborato una struttura sintattica risplendente di quattordici sostantivi singolari maschili uno via l'altro, il riattaccarsi con un "quello" o un "esso" all'uno dei quattordici (a quale?) induce l'ascoltatore in uno stato di tragica perplessità circa l'attribuzione del disperso trovatello (esso, quello) all'uno piuttosto che all'altro dei nomi proferiti. Evitare, possibilmente, di mettere in cantiere una frase come questa: "Il veleno del dubbio e per contro il timore del peggio si erano insinuati fin dal vecchio tempo, e in ogni modo dopo il recente conflitto, non forse nell'insicuro pensiero ma certo nel tremante cuore del popolano di borgo e del valvassore di castello in tutto il territorio (tanto nel fertile piano che sul colle amenissimo) del piccolo ducato e del congiunto priorato, protetti entrambi contro il tentato sopruso dell'esercito di Conestabile e contro il sistematico assedio del reggimento di Catalogna dall'impeto stagionale dell'affluente del Rodano, e sovrastati a tergo dal nero massiccio del Courtadet, già ricetto di un antico raduno conventuale ed ora di un pauroso brigantaggio: quello non meno sciagurato di questo". Dove "quello" può riferirsi a: veleno del dubbio, vecchio tempo, insicuro pensiero, popolano di borgo, fertile piano, piccolo ducato, sopruso dell'esercito del Conestabile, impeto dell'affluente del Rodano, antico raduno conventuale.

8) Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l'affermazione più pregna di senso, il proposito più grave. La regìa si riserva la facoltà di emendare dal vezzo d'una rima il testo che ne andasse eventualmente adorno.

9) Evitare le allitterazioni involontarie, sia le vocaliche sia le consonantiche, o comunque la ripetizione continuata di un medesimo suono. Le allitterazioni sgradevoli costituiscono inciampo a chi parla, moltiplicano la fatica e la probabilità di errore (pàpera). Ciò che è peggio interrompono l'ascolto con dei tratti non comprensibili, e non compresi di fatto. All'udire, talvolta, certe frasi di romanza, non si percepisce il significato dei vocaboli, che escono frantumati dalla gola di chi canta: il motivo musicale, ossia l'aria, appoggiato sugli "are" e sugli "ore" di un poetico nonsense, ci avvince con la sua mélode, esaudisce da solo la nostra sete di bellezza. Ma il parlato radiofonico non è pretesto o supporto a una frase musicale; deve essere compreso per se stesso; il suo valore deriva unicamente dal contenuto logico. Un esempio di allitterazione vocalica: i versi danteschi:

Suso in Itàlia bella, giàce un làco
e quella a cui il Sàvio bàgna il fiànco
orchestrati in a sulle sedi toniche, risultano difficilmente comprensibili all'apparecchio: si risolvono in una irruzione di a nella tromba timpanica dell'ascoltatore frastornato; irruzione a cui non corrisponde, per cause meramente fisiche, un adeguato fissaggio di immagini.

10) Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un léssico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti.

11) Evitare le forme poco usate e però "meravigliose" della flessione, anche se provengono da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi, modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto) alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita.

sabato 11 ottobre 2014

Verba volant (133): acciaio...

Acciaio, sost. m.

I Romani chiamavano aciarium il ferro indurito per cementazione con il quale si facevano le punte - in latino acies - delle armi bianche. Da sempre quindi acciaio e guerra sono andati di pari passo.
Adesso con questa parola definiamo, con significato più ristretto e preciso, una lega di ferro e carbonio, che non deve superare la percentuale del 2,06%. L'acciaio è utilizzato in moltissime produzioni e gli storici della tecnologia ci spiegano che senza la disponibilità di acciaio in quantità e a basso costo, la rivoluzione industriale non sarebbe stata possibile.
Ricordo che all'esame di maturità, per spiegare la crescita dell'Italia nell'età giolittiana, citai i dati, imparati a memoria, su quanto fosse cresciuta in quegli anni la produzione di carbone e di acciaio nel nostro paese. E crebbero tanto, in tutta Europa, che fu necessaria la prima guerra mondiale per smaltirne le scorte. Poi ci fu la grande crisi del '29 e uno dei fattori che permise di uscirne - almeno dal punto di vista economico - fu la seconda guerra mondiale, che richiese appunto una grande produzione di acciaio. E proprio per impedire che scoppiasse una nuova guerra in Europa nacque nel 1951 la Comunità europea del carbone e dell'acciaio. I motivi di questa scelta erano evidenti a quella generazione di lungimiranti uomini politici: i principali giacimenti di queste risorse si trovano in un'ampia zona di confine tra la Francia e la Germania - il bacino della Ruhr, l'Alsazia e la Lorena - terre oggetto di sanguinosi conflitti e di lunghe contese. Questo accordo, mettendo in comune le produzioni degli elementi essenziali per la realizzazione di materiale bellico, impediva di fatto un riarmo segreto.
Vedete quindi come la storia della nostra civiltà sia strettamente legata a quella dell'acciaio e naturalmente come la sinistra sia legata alle lotte dei lavoratori delle acciaierie.
Ci sono alcuni sciocchi che pensano che un paese possa fare a meno dell'acciaio perché la sua produzione crea seri problemi ambientali. E ci sono altri sciocchi che sostengono che l'acciaio sia un materiale "vecchio" e di conseguenza un'acciaieria sia il residuato di un sistema di produzione finito con la fine del secolo. Per capire che non è così basterebbe vedere quali sono i beni su cui il mercato mondiale si scatena: la terra, l'acqua, il legname, tutti elementi della old economy. E ovviamente anche l'acciaio.
Credo immaginiate perché oggi ho deciso di scegliere questa parola. Anche perché questo è l'unico modo che io ho di essere solidale con quei lavoratori e perché la loro vicenda non può essere dimenticata. La multinazionale ThyssenKrupp - erede dell'azienda che dalla seconda metà dell'Ottocento ha fornito i cannoni alla Germania, ma spesso anche ai suoi nemici - proprietaria delle storiche acciaierie di Terni, ha lasciato il tavolo delle trattative, a cui partecipava insieme ai sindacati e al governo. Contestualmente ha fatto partire la procedura di messa in mobilità di 550 lavoratori, ossia un quinto di coloro che adesso sono impiegati nell'azienda - e quindi tra 75 giorni queste persone saranno licenziate. Inoltre ha disdetto gli accordi contruattuali aziendali: in tal modo tutti i lavoratori avranno una diminuzione del 20% in busta paga. Quel che è peggio - e queste sono condizioni già drammatiche - è il fatto che la ThyssenKrupp non ha dato alcuna prospettiva per il futuro dell'azienda e quindi della città umbra, la cui economia è da molto tempo indissolubilmente legata a quella delle acciaierie.
A parte il fatto che Renzi si era formalmente impegnato a salvare l'azienda, ma le sue - si sa - sono parole al vento, evidentemente questo è uno dei primissimi effetti, seppur indiretti, del jobs act. La multinazionale tedesca ha pensato di poter fare quello che vuole, anche perché, viste le posizioni di questo governo, immagina che non avrà nessuna opposizione politica. E non ne avrà, perché, come dicono autorevolissimi esponenti di questo governo, bisogna tutelare i "diritti delle imprese", sempre e comunque. Ovviamente anche quando licenziano i lavoratori.
Questo paese avrebbe bisogno di un governo che, invece di studiare il modo di rendere più facili i licenziamenti, cercasse di capire come è possibile aumentare la produzione di acciaio; perché dalla crisi non si uscirà con l'abolizione dell'art. 18, ma proprio con politiche industriali che favoriscano la produzione, nei settori fondamentali.
Natiralmente le tragedie del secolo scorso ci hanno insegnato che lo sviluppo di un paese non si misura soltanto con i parametri della ricchezza, anche se in questi ultimi anni hanno fatto di tutto per farcelo dimenticare. C'è la quantità, ma c'è anche la qualità. Non è un valore positivo produrre ancora più automobili, occorre invece produrre nuove automobili, in grado di diminuire, fino ad annullare, l'emissione di gas inquinanti; non è un valore positivo continuare a costruire case - come è evidente anche nel dramma che ha colpito nuovamente la Liguria - occorre invece costruire case ecologicamente compatibili e ristrutturare con questi criteri le case esistenti; non è un valore positivo produrre più acciaio, sempre di più, per superare ogni record di produzione - aspettiamo un'altra guerra per smaltire le scorte? - occorre invece produrre quello che serve e produrlo in modo che non ci siano danni irreparabili alla salute delle persone e all'ambiente. Come ci chiedono i cittadini e i lavoratori di Taranto che vogliono continuare a produrre acciaio e allo stesso tempo vogliono far crescere i propri figli in un ambiente più sano di quello in cui sono cresciuti loro.
Trovo naturale che i padroni delle fabbriche e i governi che sono espressione della classe di cui fanno parte i padroni delle fabbriche continuino a pensare in termini di quantità, dal momento che loro in questo modo guadagnano di più. I lavoratori e quelli che difendono i loro diritti devono pensare alla qualità, perché sono i lavoratori - che sono anche cittadini - che in questo modo ci guadagnano.
Terni, Taranto, Piombino hanno bisogno di continuare a produrre acciaio, ne ha bisogno l'Italia. Perché abbiamo bisogno di lavoro, un lavoro sicuro e un lavoro retribuito in maniera proporzionale ed equa. I lavoratori di Terni non stanno chiedendo la luna, ma solo quello che a loro spetta.

mercoledì 8 ottobre 2014

Verba volant (132): ditta...

Ditta, sost. f.

La lingua, evolvendosi, cerca spesso delle economie, ossia cerca il modo di dire più brevemente, possibilmente con un solo vocabolo, quello che prima esprimeva con molte parole. Il termine di cui voglio occuparmi oggi è proprio uno di questi. Propriamente si tratta della variante in dialetto veneziano di detta, ossia il participio passato femminile del verbo dire: questo verbo era usato nell'antica espressione "casa commerciale ditta" a cui seguiva il cognome del proprietario. Poi la formula "casa commerciale" - o "compagnia" - è stata elisa ed è rimasta solo la parola ditta per indicare la denominazione di un'impresa commerciale o di un'azienda e quindi, per estensione, l'impresa stessa.
Come noto adesso questa parola è entrata nel lessico politico, da quando Bersani ha cominciato a usarla per indicare il suo partito o almeno il partito che egli vorrebbe, fatto di iscritti, sezioni e organizzazione, in contrapposizione al cosiddetto partito liquido, teorizzato da Veltroni e realizzato da Renzi. E per questo spesso capita di leggere sui giornali la parola Ditta, con l'iniziale maiuscola, proprio per riferirsi al Pd bersaniano, oggi in drammatica - e colpevole - minoranza.
Devo dire che questa non è una delle metafore bersaniane dal gusto emiliano che mi piacciono di più, anche se ne capisco il senso. Peraltro non dovrei fare troppo lo schizzinoso, visto che molti anni fa ho aderito alla Cosa di occhettiana memoria. E ovviamente sono stato anche nella Ditta, anche se non la chiamavamo ancora così; anzi per diversi anni - dal giugno 1999 al dicembre 2005 - sono stato addirittura a libro paga della Ditta. Quindi potete immaginare che l'argomento mi coinvolga molto, anche se da quando è nato il Pd io faccio altro e sono molto lontano da quel partito, che non voto e non sostengo. Anzi ne sono fiero avversario.
Proprio perché io c'ero, seppur in una posizione defilata - diciamo più o meno in quarta fila - ma comunque con un ruolo tale da non potermi dirmi irresponsabile - spesso mi chiedo dove abbiamo sbagliato, perché è chiaro che è colpa nostra se un corpo estraneo - e ostile - alla sinistra italiana è riuscito a diventare il segretario del maggior partito del centrosinistra, trasformandolo radicalmente in quella cosa informe che è oggi. Non è merito di Renzi, non può essere stato lui l'artefice di tutto questo - su, guardatelo in faccia e ve ne renderete conto anche voi - siamo stati noi ad arrenderci, prima ancora di aver combattuto, siamo stati noi a consegnare al ladro le chiavi di casa. Noi abbiamo dichiarato fallimento e il furbo fiorentino non ha dovuto far altro che intestarsi la Ditta.
In questi venticinque anni che sono trascorsi dalla Bolognina a Renzi, noi abbiamo fatto molti errori politici, che adesso stiamo pagando con gli interessi; abbiamo creduto che la sinistra dovesse cambiare, accettando molti dei principi e dei valori del capitalismo e del liberismo, abbiamo pensato che le elezioni si vincessero solo se ci spostavamo progressivamente al centro, in sostanza ci siamo convinti che la sinistra non fosse più in grado di interpretare la modernità e abbiamo cominciato a inventarci altre soluzioni, finendo fatalmente per accettare tutte quelle proposte dalla destra. Per fare un esempio di attualità: se adesso Renzi maramaldeggia contro lo Statuto dei lavoratori e abolisce l'art. 18 è anche perché noi abbiamo reso più precario il lavoro con le leggi votate dai "nostri" governi; in pratica abbiamo cominciato quello che adesso il Pd, su ordine del finanzcapitalismo, finisce.
Abbiamo però fatto un altro errore che considero davvero fatale. Anzi più passa il tempo più lo considero il peggiore che abbiamo fatto. Abbiamo smantellato il partito, anzi peggio: non lo abbiamo voluto cambiare, abbiamo voluto conservarlo così come lo avevamo ereditato; e facendo in questo modo lo abbiamo distrutto. Proprio la nostra ostinazione a non voler cambiare, magari per preservare piccole o grandi rendite di posizione - o anche per rispetto a una storia gloriosa - ci ha reso così deboli.
A dire il vero che il tema dovesse essere affrontato lo dicemmo più volte, subito dopo la Bolognina. Ricordo che in quella stagione di congressi, per molti versi drammatica, ma anche ricca di opportunità e di entusiasmo, più volte venne fuori il tema della necessità di riformare la cosiddetta forma partito; abbiamo dedicato a questo tema incontri, seminari, approfondimenti, ma sostanzialmente non abbiamo fatto nulla, se non cercare di far funzionare il partito che c'era. Questo lavoro di manutenzione era proprio una delle cose che io dovevo fare e che ho cercato di fare nel miglior modo possibile.
I segnali che qualcosa non andava c'erano già allora: gli iscritti calavano - anche se non così vertiginosamente come succede adesso - l'età media dei militanti cresceva, le Feste cominciavano a perdere la propria anima, il partito progressivamente diventava sempre meno il luogo della selezione dei gruppi dirigenti e dell'elaborazione politica. E' in quegli anni lì che il potere ha cominciato a spostarsi nelle istituzioni o meglio si è ridotto alle istituzioni, grazie anche all'introduzione del maggioritario e all'elezione diretta dei sindaci, e soprattutto che la cooptazione è diventata lo strumento normale per la selezione dei quadri del partito, secondo logiche troppo spesso opache. E a volte assolutamente casuali. In quegli anni ho avuto la ventura di vedere come sono entrate in Ditta alcune persone che hanno poi fatto una fulgida carriera - ora sono in parlamento, ad esempio - e francamente spesso si tratta di percorsi assolutamente imponderabili e imperscrutabili. Poi ho conosciuto anche persone come Giacomo Venturi - che da pochi giorni è stato strappato in maniera drammatica dalla sua famiglia e dalla sua città - che invece nel partito e nelle istituzioni era cresciuto, rappresentando il meglio di quella bella idea di politica in cui noi siamo cresciuti. E lui sì avrebbe meritato di fare il deputato o il ministro, perché conosceva bene la sua comunità, ne interpretava i bisogni e le aspirazioni.
Come ho detto, io ho cominciato a lavorare per la Ditta nel giugno del '99, una settimana dopo che avevamo perso le elezioni amministrative e Guazzaloca era diventato sindaco di Bologna. Il fatto di trovarci in una situazione di emergenza ha fatto sì che ci appoggiassimo all'organizzazione che c'era, al partito che c'era - e per fortuna che c'era perché altrimenti non saremmo neppure riusciti a fare le Feste in quell'estate difficile - e sempre quell'organizzazione, ancora capace, per quanto indebolita, è stata fondamentale per permettere di riprenderci e di tornare a vincere. Senza la Ditta, pur con tutti i suoi limiti, non ce l'avremmo mai fatta. E comunque quei compagni e quelle compagne meritano rispetto, per il lavoro che hanno fatto, per il tempo e le energie che hanno dedicato al partito, per i sacrifici. Chi ha lavorato alle Feste sa di cosa sto parlando e purtroppo molti di quelli che adesso guidano il Pd non conoscono questo mondo e lo guardano con sufficienza.
Comunque sia questo nostro arroccarci nella difesa del partito che c'era è stata fatale perché oggettivamente quel tipo di partito non era più in grado di esprimere la guida di una comunità. Non è più quel tipo di partito a rappresentare l'articolazione delle classi o dei blocchi sociali, non è più quel partito che può farsi interprete di interessi diffusi, a meno di non trovare persone molto brave come Giacomo. Adesso però siamo caduti nell'errore opposto: dicendo che quel modello doveva essere superato, hanno eliminato tout court il partito.
Eppure modelli diversi erano possibili. Forse adesso non lo sono più, perché troppa acqua è passata sotto i ponti, la stessa idea di partito è ormai troppo screditata. Questi "moderni" dicono di ispirarsi al Democratic party degli Stati Uniti, ovviamente senza sapere cosa sia quel partito. Certamente non si tratta di un partito tradizionale di tipo europeo, ma nemmeno la caricatura che raccontano i renziani. I democratici americani hanno una struttura organizzata centrale e articolata nei territori e conducono le loro campagne elettorali anche attraverso la rete, ma non principalmente con questa. Le campagne che hanno permesso l'elezione di Obama alla Casa bianca sono state fatte con gli strumenti più tradizionali, i volantinaggi casa per casa, gli incontri, la rete dei volontari, ossia con tutto il "vecchio" così esecrato dagli homines novi.
Immagino come altri di voi, nel 2008 ho mandato una mail per sostenere la candidatura di Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Da allora praticamente ogni giorno vengo informato di quello che fa il Presidente, ricevo i video dei suoi interventi più significativi, mi vengono spiegate le diverse proposte di legge. Mi è stato chiesto di telefonare o scrivere ai deputati più ostili alla riforma sanitaria e di continuare a tenermi in contatto con i volontari della campagna. Faccio parte del partito, vengo considerato un militante e mi sento di contare, almeno un po'. Continuano a chiedermi, alla fine di ogni mail, un contributo economico; anzi da qualche settimana, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, le richieste diventano sempre più insistenti, con un certo tono di rimprovero, tanto che diverse mail hanno come oggetto Missing: Luca Billi, perché appunto non ho ancora scucito un dollaro. Mi dicono in sostanza che sono un "cattivo compagno". E' un modello di partito? Sì. E' un modello che funziona? In quel paese sicuramente sì. E' un modello esportabile? Non so, ma è interessante e soprattutto è una cosa molto diversa - al netto del giudizio degli sciocchi - dal partito che sta costruendo Renzi, che non può neppure essere considerato un partito.
Forse allora avremmo potuto usare questo modello, magari mettendoci qualcuna delle nostre peculiarità. Capisco che forse il mio giudizio è viziato dalla mia esperienza, ma credo ad esempio che il sistema delle feste avrebbe potuto rappresentare un qualcosa in più, perché alle persone piace stare insieme, piace lavorare insieme, altrimenti non si spiega come farebbero a vivere migliaia di manifestazioni in giro per il nostro paese, organizzati da associazioni, gruppi, società sportive e così via, che sono nulla di più che piccole Feste dell'Unità, che hanno quello spirito autentico e solidale che si respirava in quegli appuntamenti. Adesso, come ho detto, credo sia tardi. Renzi ha vinto, ma soprattutto ha vinto chi è riuscito a distruggere questa idea di rappresentanza politica e sociale, a distruggere anche questa idea di volontariato politico, di voglia di far qualcosa per gli altri, per la propria comunità.
Sono riusciti a far prevalere uno spirito sostanzialmente egoistico, dove ognuno pensa a sé, tanto offre la ditta.

lunedì 6 ottobre 2014

Verba volant (131): testa...

Testa, sost. f.

Sabato scorso gli organi di informazione ci hanno raccontato che un altro occidentale è stato decapitato, il volontario inglese Alan Henning - è il quarto da quando è iniziata questa strana e irrituale guerra tra noi e il cosiddetto Califfato - e che la sua testa, come è avvenuto nei casi precedenti, è stata esibita come un trofeo dal suo boia incappucciato.
Quella testa mozzata, non con l'igienica ghigliottina - invenzione occidentale e progressista di noi "moderni" - ma con un vecchio coltello, simbolo di antica macelleria, come fosse un'esecuzione rituale descritta nella Bibbia o un'efferata uccisione tratta dai versi di Omero, ci racconta molto di noi uomini, delle forme più ancestrali del nostro modo di pensare, di come siamo davvero, e ci dice che in fondo siamo più semplici di quanto sogni la nostra filosofia.
Ed è anche per questa ragione che noi possiamo continuare a leggere l'Iliade o le tragedie di Sofocle o i drammi di Shakespeare e sentire quelle storie così incredibilmente attuali e i loro personaggi, con le loro passioni, i loro desideri, le loro paure, come nostri contemporanei. Perché ci sono cose degli uomini che non cambiano mai: i classici ci raccontano proprio questo.
Una di queste cose che non cambia è il nostro rapporto con la violenza. Da animali ne abbiamo paura, la fuggiamo quando rischiamo di subirla, magari ci opponiamo ad essa quando le vittime sono le persone a cui vogliamo bene: l'istinto di sopravvivenza è qualcosa di potente, così come quello di difendere i nostri figli. Come tutti gli altri animali siamo disposti a morire per difendere la nostra discendenza. Ma in qualche modo ammiriamo la violenza, ne rimaniamo affascinati, anche se non vogliamo ammetterlo. Altrimenti non capiremmo perché lady Anna accetti la corte di Riccardo di Gloucester, che le ha ucciso da poco tempo il marito, o perché il popolo di Londra chieda a quell'uomo sanguinario di diventare re.
Il boia dell'Isis che esibisce la testa della sua vittima appena dopo averla tagliata sa, più o meno inconsciamente, che quel gesto, quella macabra ostensione, spaventerà i suoi nemici e rassicurerà i suoi amici. C'è naturalmente un calcolo politico, c'è una razionalità "moderna" in queste esecuzioni, nelle parole di sfida contro il presidente degli Stati Uniti, nella capacità di catalizzare contro il nemico occidentale l'odio di migliaia di persone; c'è l'uso spregiudicato della religione, c'è una conoscenza raffinata degli strumenti di comunicazione di massa e dei meccanismi della diffusione delle notizie, c'è tutta una modernità di cui pure quelli dell'Isis dicono di essere nemici o almeno alternativi. Con quelle teste mozzate i terroristi fanno politica. E a questo livello sappiamo che dobbiamo reagire: alla sfida dell'Isis si risponde con la politica, anche se poi ciascuno di noi ha in mente un tipo di risposta diversa.
Eppure c'è anche qualcosa di antico, che ci interroga a un livello più profondo, che ci mette di fronte a qualcosa che facciamo fatica ad accettare e che ci spaventa. Quella testa mozzata è una sfida al mondo occidentale, perché noi crediamo di aver bandito la violenza, almeno quel tipo di violenza, brutale, sommaria, senza regole, ma non è vero, perché quella violenza è in noi e nella nostra società, anche se noi ipocritamente non vogliamo riconoscerlo. E contemporaneamente è un segnale a quel mondo che che non vuole cambiare, che ha paura del mondo che si evolve e che quindi, dicendo di non accettare la nostra ipocrisia, finisce per rifiutare anche le regole della democrazia e dei diritti umani che hanno posto un freno a questo uso della violenza.
Quella testa ci dice che in fondo gli uomini sono ancora animali che vivono in un contesto sociale in cui quella violenza li, sfrenata ed animale, esiste ancora. Homo homini lupus dicevano gli antichi, riconoscendo che in noi è innato l'istinto di sopraffazione, che in qualche modo riusciamo a contenere attraverso le leggi e le diverse forme di convenzione sociale; lo nascondiamo, ma non lo possiamo annullare.
E la morbosa curiosità con cui abbiamo cercato di vedere quell'esecuzione, anche in questo caso senza volerlo ammettere, non è stata creata dalla rete, come qualche sciocco ha detto in questi giorni, è stata soltanto amplificata, resa planetaria da questi nuovi strumenti, ma è la stesso sentimento che spingeva il popolo di Parigi a lasciare le proprie occupazioni per andare a vedere lo spettacolo delle teste che rotolavano nei cesti sotto le ghigliottine. Non essendoci ancora internet quella possibilità era un privilegio riservato a chi abitava nella capitale, mentre ora è diventato "democratico", alla portata di tutti.
Per queste ragioni dobbiamo imparare a fare i conti con la violenza. Il paradosso di questa strana guerra è che non viene combattuta in campo aperto, attraverso battaglie campali o attraverso il logoramento delle trincee - come è avvenuto nei conflitti della prima metà del Novecento - e neppure con le forme della guerriglia che hanno caratterizzato quelli della seconda metà; in tutti i casi si confrontavano comunque due eserciti, che in qualche modo riconoscevano e accettavano le stesse regole, anche quando le piegavano alle proprie esigenze tattiche. Le nuove tecnologie ci hanno permesso di condurre guerre completamente diverse. Da una parte abbiamo soldati che uccidono i nemici, uno alla volta, segando loro la testa - con tutta la fisicità che questo comporta: il sangue che schizza, le urla di chi muore, i cadaveri da rimuovere - e dall'altra parte tecnici che, seduti davanti a un computer, guidano i loro aerei contro i loro nemici, cercando di ucciderli - anche in questo caso uno alla volta. Questi nuovi soldati i loro nemici non li vedono mai in faccia, non ne sentono le voci, non li guardano negli occhi: sono luci accese su uno schermo, luci che, terminata con successo la missione, si spengono. Sono duelli - bellum e duellum sono la stessa parola in latino- combattuti con mezzi non confrontabili, ma - temo - con la stessa carica di violenza. Anche in questo caso senza rendercene conto, perché noi non vogliamo ragionare sulla violenza, privata e pubblica, non vogliamo accettarla come un dato insito nel nostro essere animali della specie Homo sapiens. Ma credo saremo costretti a farlo, almeno fino a quando continueranno a rotolare tra i nostri piedi le teste mozzate dei nostri simili.
Diceva Albert Einstein
Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta sì: con bastoni e pietre.
Adesso che sappiamo anche come stiamo combattendo la terza, forse sarebbe il caso di ragionarci.