giovedì 27 febbraio 2020

Verba volant (757): impressione...

Impressione, sost. f.

A Parigi, nel cimitero di Passy, vicino alla tomba di Édouard Manet c'è quella di Berthe Morisot: la lapide recita, accanto al nome e alle date di nascita e di morte della donna, l'epigrafe "vedova di Eugène Manet". Nessun accenno alla sua carriera artistica: d'altra parte sul certificato di morte è scritto "senza professione".
Per molto tempo la fama di Berthe Morisot è stata legata in maniera quasi esclusiva al fatto di essere stata la modella preferita di Édouard. Il pittore ha dedicato alla donna che sarebbe poi diventata sua cognata ben undici tele, alcune delle sue più significative.
Eppure, quando incontra Manet, Berthe non è soltanto
una ragazza riservata e che parlava a voce bassa, sottile come un giunco, occhi neri e profondi, che amava vestirsi di nero e all'ultima moda e leggere romanzi in voga.
Berthe è una giovane donna che vuole diventare pittrice. Però è una donna e non può iscriversi all'Accademia e anche l'École des beaux-arts aprirà i battenti alle ragazze solo nel 1897, due anni dopo che Berthe è morta. Però i suoi genitori assecondano la sua passione e le permettono di studiare prima con il neoclassicista Geoffrey-Alphonse Chócarne, e poi con Joseph Guichard, un pittore romantico seguace di Delacroix. Guichard la porta al Louvre dove Berthe affina la sua tecnica copiando le tele dei grandi del passato. Ma il maestro si accorge presto che Berthe è uno spirito ribelle, che quello stile accademico non fa per lei e così la manda a bottega da Jean-Baptiste Camille Corot, che la spinge a dipingere en plein air, a contatto con la natura. 
Sta nascendo un'arte nuova e Berthe Morisot ne è una delle protagoniste. Insieme a Claude Monet, Camille Pissarro, Alfred Sisley, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cezanne e alcuni altri fonda la "Società anonima degli artisti, pittori, scultori, incisori". Il 15 aprile 1874 la Società anonima, al numero 35 di Boulevard des Capucines, nello studio del fotografo Nadar, che presta gratuitamente quel locale, mette in mostra le proprie opere. Monet espone tra le altre la tela Impressione: levar del sole, il dipinto che darà il nome a quel nuovo movimento, destinato a cambiare per sempre il mondo dell'arte. Berthe, come Claude, espone nove opere. Il vecchio Guichard critica aspramente il lavoro di quella che un tempo è stata sua allieva: ma è l'arte nuova e lui è rimasto al passato.
Tra quelle nove opere quella che diventerà più celebre è La culla. Berthe tratteggia con grazia un ritratto della sorella Edna che siede accanto al lettino dove dorme la figlia Blanche. Il soggetto è domestico e probabilmente non molto originale, eppure quella madre rimane incredibilmente impressa nella memoria di noi che osserviamo quel quadro. Certo Edna sta vegliando sulla propria figlia, la sta proteggendo, quasi istintivamente, con quella mano che sembra stringere la culla, eppure è anche persa in qualche suo pensiero. È una madre preoccupata, che guarda la propria figlia con ansia, sembra temere per il suo futuro. Blanche per fortuna dorme, anche lei, come la madre, ha gli occhi chiusi: si può permettere di essere senza paura, perché la madre è lì con lei, perché non ha ancora l'età per avere paura. Edna invece - e Berthe insieme a lei - hanno perso ormai quell'innocenza, sanno in che mondo quella bambina crescerà, un mondo che sembra aprirsi a ogni possibilità, in cui sembra che il progresso sia senza limiti. E che invece si schianterà in maniera drammatica.  
Ed è la stessa preoccupazione che vediamo negli occhi della Giovane donna in tenuta da ballo, un altro dei capolavori di Berthe Morisot, questa volta del 1879. Non sappiamo chi sia quella ragazza, probabilmente non è un ritratto. Berthe vede questa giovane donna che osserva alla sua destra qualcosa che noi non vediamo. Aspetta, forse il cavaliere che la condurrà nel prossimo giro di valzer. Ma c'è in quello sguardo qualcosa di più. C'è una tensione evidente. C'è un desiderio di cambiamento, di infrangere le regole.
In quello stesso anno va in scena Casa di bambola di Henrik Ibsen. E quella ragazza sembra proprio Nora, che all'improvviso capisce cosa sta succedendo intorno a lei. E proprio come fa Nora, noi speriamo che quella giovane si stia per alzare e dire
devo riflettere col mio cervello e rendermi chiaramente conto di tutte le cose.

martedì 25 febbraio 2020

da "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni

Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
- In rerum natura, - diceva, - non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l'uno né l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi, d'antraci...?
- Tutte corbellerie, - scappò fuori una volta un tale.
- No, no, - riprese don Ferrante: - non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
- La c'è pur troppo la vera cagione, - diceva; - e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de' corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli.

lunedì 24 febbraio 2020

Verba volant (756): cinese...

Cinese, agg. m. e f.

Sinceramente non mi ricordo a che età ho visto e ho parlato per la prima volta con un cinese. Immagino alla fine degli anni Ottanta, quando avevo già raggiunto la maggiore età, quella volta che sono andato, con alcuni amici dell'università, a mangiare in un ristorante cinese.
Non ci crederete, ma c'è stato un tempo in cui se vivevi in provincia potevano passare anni senza che  incontrassi mai un cinese, perché allora non facevano né i baristi né i parrucchieri né i sarti e se ti mancava qualcosa in casa non potevi andare dai cinesi. C'è stato un tempo che se la domenica ti accorgevi che ti mancava una pila o un mestolo o un rotolo di carta igienica dovevi aspettare il lunedì, quando aprivano i negozi "normali". Come sapete, io ho nostalgia di quei tempi lì, ma ovviamente non è colpa dei cinesi. Semplicemente loro fanno quello che noi chiediamo loro di fare. Abbiamo un disperato bisogno di comprare dei fiori finti alla domenica sera? Non c'è problema, basta andare dai cinesi.
Lavoravo in quel paese del contado bolognese quando i cinesi rilevarono il Bar Progresso della Casa del popolo di Castel Maggiore, ossia il bar più rosso della casa del popolo più rossa del Comune più rosso della provincia di Bologna. A ripensarci c'è stato qualcosa di politicamente poetico in quell'acquisizione, ma ovviamente non si trattava della rivincita dei maoisti. È il capitalismo, bellezza. Noi abbiamo fatto tanti di quei danni gestendo il patrimonio del partito, che siamo stati costretti ad alienare quello che era stato costruito dalle donne e dagli uomini che ci avevano preceduto. E i cinesi avevano i soldi per acquistare quelle attività che noi stavamo svendendo. Così come sono i cinesi che garantiscono di tenere aperti i bar nei più sperduti paesi della bassa o nelle periferie delle nostre città.
La Cina è vicina è il titolo del secondo lungometraggio di Marco Bellocchio. Quel film è del 1967 e sinceramente con la Cina non c'entra nulla, ma racconta, con profetica drammaticità, quello che saremmo diventati; e che evidentemente eravamo già, anche se non volevamo ammetterlo. Quel "la Cina è vicina" era al massimo uno slogan di qualche frangia più estremista e velleitaria della sinistra; e curiosamente chi allora era maoista spesso è diventato peggiore di quelli che allora condannava.
Adesso sì che la Cina è vicina, non perché i cinesi gestiscono i bar delle nostre città, ma perché abbiamo scoperto che in questo mondo così ferocemente capitalista abbiamo un disperato bisogno dei cinesi.
Da quando è scoppiato l'epidemia di questa nuova influenza, alla mattina, mentre vado al lavoro, non vedo più il pullman che ogni giorno, davanti a uno dei grandi alberghi della città in cui vivo, aspetta la comitiva di turisti cinesi che, fatta una veloce colazione, partono per una nuova tappa del loro Grand tour tutto compreso. Il coronavirus sta mettendo in crisi il turismo della mia città, che si basa ormai in gran parte su questi viaggi organizzati. A Fidenza c'è un grande outlet, che da qualche anno festeggia, con la stessa attenzione che dedica al "nostro" Natale, anche il "loro" capodanno, perché loro vengono all'outlet e naturalmente comprano il made in Italy, che spesso è fatto in Cina.
E allo stesso modo stiamo scoprendo che gli "untori" non sono i baristi o i parrucchieri cinesi - che da anni sono lontani da quel paese o che non ci sono mai andati perché sono nati qui - ma i manager italiani che fanno avanti e indietro con la Cina, quelli che fanno affari con i loro colleghi cinesi. Oppure i "bravi" italiani che vanno in quelle lontane località per fare turismo sessuale.
Durante la peste nera che colpì il nostro pianeta alla metà del Trecento - la peste in cui morì Laura e che ha dato il pretesto per il Decamerone - quando la gente moriva davvero, si salvarono soltanto Milano e la Polonia, per "merito" dei regimi autocratici che c'erano in quegli stati e che riuscirono a chiudere le frontiere, a differenza di quello che avvenne nel resto d'Europa. Non che gli altri paesi fossero più democratici, semplicemente non vollero rinunciare a fare affari, a scambiare merci, a far girare uomini e denari. E i denari, come si sa portano virus. Ma che volete che sia, basta mettersi una mascherina. Rigorosamente made in China

venerdì 21 febbraio 2020

Verba volant (755): virus...

Virus, sost. m.

Ci sono parole "giovani". Nonostante il suo aspetto, nonostante quel lignaggio antico che le deriva dal latino, virus è una di queste. Ha circa centoquaranta anni, più o meno l'età che avrebbe il mio bisnonno, Cesare Billi. Peraltro quel mio avo, che faceva il mezzadro nel contado bolognese e non sapeva né leggere né scrivere, non aveva idea di cosa fosse un virus, semplicemente vedeva i cristiani e le bestie ammalarsi, e spesso morire. Se qualcuno gli avesse detto che la causa di quelle morti era un virus, non avrebbe capito - quella parola gli sarebbe suonata strana, simile a quelle che sentiva la domenica a messa - e probabilmente avrebbe pensato che le persone come lui morivano perché erano povere, perché lavoravano fino a sfiancarsi, e mangiavano poco e male. Avrebbe pensato che le persone morivano perché andavano in guerra. Poi certo capitava che qualcuno all'improvviso si ammalasse, cominciasse a bruciare per la febbre, ad avere strane bolle sul corpo, e magari morisse. E non c'era nulla da fare, se non pregare - per chi ci credeva - e sperare. Poteva succedere lo stesso alle donne, tutte le volte che dovevano far nascere una nuova vita. O quando qualcuno di loro si faceva male usando un attrezzo nei campi o semplicemente cadendo: era terribilmente difficile la vita allora, quando non avevano ancora "inventato" i virus. Morivano perché non potevano curarsi, perché non c'erano i dottori, o c'erano solo per i ricchi.
Se io sono qui a raccontare queste storie sulle parole è anche perché mio nonno Carmelo, all'inizio del secolo scorso ha resistito alla spagnola, e soprattutto alla prima guerra mondiale. E credo che anche lui pensasse che fosse più facile morire per colpa degli altri uomini che di questi invisibili virus. E anche mio padre Luigi, che nel 1945 aveva quindici anni, credo pensasse che ne uccidessero più la guerra e la povertà che i virus.
E io, che sono il primo di questa serie di Billi che ha studiato, cosa dovrei pensare? È improbabile ormai che io possa morire a causa della miseria o della guerra. Grazie ai sacrifici dei Billi che sono venuti prima di me, questo lo posso escludere con una certa sicurezza. Forse posso morire per un virus, anche perché ho i soldi per fare un viaggio in Cina e contrarre laggiù quella pericolosa malattia. Certo ho anche i soldi per curarmi e ho la fortuna di vivere in quella piccola parte del mondo in cui i servizi sanitari funzionano bene: se prendo un virus - anche quello che uccide tante persone - posso sperare, con una buona dose di probabilità, di salvarmi.
Visto che non mi ammazzeranno né la guerra né la miseria e posso sopravvivere perfino ai virus, potrei anche pensare di essere immortale. Credo che qualcuno di noi lo pensi, o almeno fa di tutto per non invecchiare o per non sembrare vecchio. No, io certamente morirò, e probabilmente anche a causa di questa ricchezza, ad esempio perché mangio troppa carne - infinitamente di più di quanta ne abbiano mai mangiata le tre generazioni di Billi che mi hanno preceduto - o per le radiazioni di questo telefono che porto sempre attaccato al mio corpo e da cui non riesco a separarmi, perché devo sempre essere collegato con il mondo, devo sempre sapere cosa succede in Cina. O magari morirò a causa dello stress, il logorio della vita moderna, come diceva una vecchia réclame.
In fondo importa poco di cosa morirò io - verosimilmente può interessare me, ma è irrilevante per voi - ma credo, anche in questi giorni in cui parliamo tanto del virus, che il mio bisnonno avesse proprio ragione. Ancora oggi dobbiamo avere paura degli uomini più che dei virus, perché in gran parte del mondo gli uomini muoiono perché lavorano fino a sfiancarsi, e mangiano poco e male. Perché per le donne far nascere una nuova vita è ancora un rischio. Perché la guerra, la miseria, lo sfruttamento sono le cause per cui ogni giorno muoiono donne e uomini nel mondo. E non c'è virus che possa debellarle. 

venerdì 14 febbraio 2020

Verba volant (754): albergo...

Albergo, sost. m.

Forse avete visto anche voi questa pubblicità: uno speaker spiega che adesso puoi prenotare un hotel per un tempo anche molto breve, per lavorare, rilassarti, fare la doccia o per qualsiasi cosa tu voglia. E, visto che ormai siamo tutti tecnologici, lo possiamo fare comodamente attraverso il sito o dopo aver scaricato la app. Praticamente hanno inventato gli alberghi a ore. Nelle immagini dello spot si vede, tra le altre cose, anche un lenzuolo da cui spuntano diverse paia di piedi. Certamente per qualcuno è anche un lavoro, e immagino che per altri quella sia un'attività rilassante, per quanto impegnativa - e quindi alla fine sia necessaria una doccia - e naturalmente liberissimi di farla in tre o quattro o cinque. Suppongo che aumentando il numero, aumenti anche la convenienza, perché puoi dividere il costo della camera, come con il campo di calcetto.

Molto probabilmente non conoscete il nome di Marguerite Monnot, ma forse avete ascoltato qualche sua canzone. Perché per quasi venticinque anni questa pianista nata in un paesino della Borgogna ha lavorato con Édith Piaf, componendo la musica di tanti suoi successi, da L'Hymne à l'amour a Milord, quest'ultima con il testo di Georges Moustaki. Durante la sua carriera ha anche composto le musiche per il musical Irma la dolce, utilizzate in parte come colonna sonora per il fortunato film con Shirley MacLaine. Alla fine degli anni Cinquanta Dean Martin porta al successo negli Stati Uniti The poor people of Paris, e la musica è naturalmente di Marguerite. La sua musica "sa" di Francia.
Nel 1956 Marguerite compone la musica per una canzone i cui versi sono stati scritti da Claude Delecluse e Michelle Senlis, intitolata Les amants d'un jour, che viene incisa naturalmente da Édith Piaf. Una splendida canzone e poi la Piaf è bravissima, ma - non succede quasi mai - è più bella la versione italiana.
La canzone è tradotta alla fine degli anni Sessanta da un artista nato nel 1944 in una famiglia ebraica di Tripoli. Quando, nel '52, la comunità ebraica è cacciata dalla Libia, il giovane ha seguito la sua famiglia in giro per l'Europa. Herbert Pagani è un'artista che è stato dimenticato, anche se ha avuto un buon successo negli anni Sessanta e Settanta. È poliedrico, dipinge, scolpisce, ma è sopratutto un musicista. È anche una delle voci storiche di Radio Monte Carlo. Per Dalida scrive molte canzoni, sia originali sia traducendo brani francesi. E così nel 1970 decide di incidere lui stesso Albergo a ore, una sua traduzione piuttosto fedele del successo della Piaf.
Quando Herbert ci dice
io lavoro al bar d'un albergo a ore
noi ci crediamo, perché interpreta questa canzone con una verità che nessun'altro riesce a darle.
È una storia di amore e di morte, racconta il suicidio di due giovanissimi amanti che 
sembravano belli come due santi dipinti
e che scelgono proprio quello squallido alberghetto per l'ultima ora che passeranno insieme prima di uccidersi.
E all'uomo non rimane che dare a quella coppia una qualche sepoltura "non ufficiale".
Non sappiamo nulla della storia di quei due giovani amanti, non lo sapremo mai, ma in qualche modo ne onoriamo la memoria anche noi, non mettendo mai piede nella camera numero tre. 
Un canzone bellissima che però non può passare in televisione e in radio tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta: il suo testo è troppo scandaloso. Le canzonette non devono far pensare, invece Albergo a ore ti costringe a riflettere, non ti dà scampo. E anche nel tempo in cui in televisione si può far la réclame agli alberghi a ore - e chissà come si sarebbe divertito Herbert Pagani, se non fosse morto a soli quarantaquattro anni - e si può far vedere che sotto un lenzuolo ci sono quattro o cinque persone, una canzone come Albergo a ore non avrebbe mercato: far pensare le persone su temi come la morte e la disperazione è sempre pericoloso.

lunedì 10 febbraio 2020

Verba volant (753): bionda...

Bionda, sost. f.

Bionda e incredibilmente sexy: Torquato Tasso ha bisogno di un nuovo personaggio femminile per rendere un po' più avvincente la Gerusalemme liberata e quindi, in mezzo a tutti quei guerrieri virilmente eterosessuali che combattono per il controllo della città santa, si inventa Armida. Lo stesso che fanno quattro secoli dopo Bob Kane e Bill Finger quando creano Catwoman.
Curiosamente il poeta che ha girato quasi tutta l'Italia e deve aver visto bellissime donne di ogni tipo, dimostra ben poca fantasia quando vuole rappresentare questa maga musulmana nata ad Antiochia. Tasso ci racconta che ha lunghi capelli biondi e ricci, una carnagione molto pallida, su cui spiccano le labbra rosse: una bellezza fiamminga che mal si addice alle origini siriane della giovane. Comunque in questo modo Armida si "vende" meglio e naturalmente i pittori che tra il Seicento e il Settecento l'hanno rappresentata non si sono scostati da questa immagine così convenzionale: un ottimo pretesto per dipingere una donna seminuda senza incorrere negli strali della censura. Come Eva, come Maddalena, come le altre "cattive" della storia.
Nel IV canto Torquato Tasso ci mette al corrente del piano malvagio di Idraote, il capo della Spectre, che è anche lo zio di Armida, per mettere in difficoltà i crociati. La giovane verrà mandata nel campo cristiano e qui fingerà di essere una principessa cacciata dal proprio regno da uno zio crudele. Se i crociati la aiuteranno a riconquistare il trono, lei, anche se musulmana, diventerà loro alleata e, a guerra conclusa, sarà loro vassalla. Tasso ci racconta che Armida si dimostra molto abile nel mettere in pratica il piano dello zio, nonostante Goffredo di Buglione non cada subito nella sua rete: il condottiero si limita a prometterle che, una volta conquistata Gerusalemme, le daranno il loro aiuto. I paladini però rumoreggiano, evidentemente a loro non interessa avere un'alleata in futuro, pensano a una diversa "ricompensa", da riscuotere molto più velocemente. Goffredo, che è molto attento ai sondaggi e vede calare la propria popolarità, a questo punto deve cedere: ad Armida sarà assegnata una scorta di dieci cavalieri. 
Il V canto si apre con Goffredo che cerca di sottrarsi al compito di scegliere i dieci fortunati: non ci pensa proprio di inimicarsi tutti gli altri. Il campo cristiano è in subbuglio. From Syria with love: il piano dell'agente segreto Armida ha funzionato. Goffredo alla fine opta per il sorteggio e Armida e i suoi dieci compagni partono alla volta di Damasco. Nottetempo un'altra quarantina di paladini - che non hanno accettato il verdetto dell'urna - lasciano il campo per andare ad "aiutare" la giovane in difficoltà. Torneranno nel campo cristiano solo alla fine del IX canto, scornati e avviliti: nei quattro canti precedenti nessuno di loro ha raggiunto l'obiettivo con Armida. Goffredo si dimostra magnanimo e li perdona: le prese in giro da parte di quelli che sono rimasti sono già una punizione sufficiente.
Nel XIV canto Tasso ci racconta che Rinaldo è riuscito a fare con Armida quello che gli altri paladini hanno tentato invano. Anzi vediamo che è proprio la biondissima agente Tatiana Romanova che si è innamorata di James Bond. No, questa è un'altra storia. Armida si innamora di Rinaldo, lo imprigiona con incantate catene floreali e lo carica sul suo carro volante. Ma non torna a Damasco, si dirige verso le Isole fortunate - dovrebbero essere più o meno le Canarie - e qui usa tutte le sue arti magiche: sulla cima di una montagna costruisce un palazzo incantato, nascosto alla vista da una coltre di nubi, solo per loro due. Dal canto suo, vediamo che Rinaldo si adatta abbastanza velocemente a questo ménage, senza lamentarsene troppo.
Però senza Rinaldo a combattere pare che Gerusalemme non possa cadere. Goffredo incarica due paladini, Carlo e Ubaldo, di riportarlo al campo. Tutto il XVI canto è dedicato ai loro sforzi per raggiungere le Canarie, trovare la montagna senza farsi scoprire da Armida e convincere Rinaldo a lasciarla. Allora, ricapitoliamo: tu sei "prigioniero" della donna più bella del mondo, che è pazzamente innamorata di te, e decidi di lasciarla per andare a combattere sotto le mura di Gerusalemme? Nessuno con un po' di discernimento se ne sarebbe andato da lì, ma Rinaldo inspiegabilmente ascolta l'invito dei suoi commilitoni, guadagnandosi così il titolo di più cretino della letteratura mondiale di tutti i tempi.
Altrettanto inspiegabilmente Armida va su tutte le furie: cara, uno così imbecille è meglio perderlo che trovarlo.  
Siamo così arrivati al XX canto: la battaglia finale. Rinaldo si trova di fronte Armida che nel frattempo si è arruolata nell'esercito del re dell'Egitto. I due non si risparmiano i colpi, ma intanto Gerusalemme sta cadendo. I grandi mercanti europei che hanno finanziato quella spedizione hanno deciso che è venuto il momento di smetterla con tutte quelle manfrine medievali: hanno bisogno di entrare a Gerusalemme e di far ripartire i traffici tra l'Europa e l'oriente che passano da quelle terre. Armida fugge, inseguita da Rinaldo, sembra si voglia togliere la vita, ha già in mano la spada per infliggersi il colpo fatale, ma l'uomo la salva: se si converte potranno tornare a vivere insieme. Lei, tra le lacrime, accetta. Dissolvenza. Titoli di coda. Fine.

Come è andata a finire? Torquato Tasso non ce lo racconta. E non c'è un sequel.
Nei primi mesi dopo la vittoria, Rinaldo ha avuto un incarico nell'amministrazione crociata di Gerusalemme, ma quando Goffredo è morto, Baldovino ha rimpiazzato tutti quelli della "vecchia guardia". Con Rinaldo è stato piuttosto facile: i mercanti della città vecchia lo hanno accusato di pretendere mazzette. Naturalmente anche quelli di prima lo facevano - come lo avrebbero fatto quelli dopo - ma Rinaldo stava davvero esagerando. Come era prevedibile non ha sposato Armida, anche se la donna si è convertita alla religione dei vincitori. E comunque la bellezza di un tempo è sfiorita, i suoi capelli non sono più così biondi.    

domenica 9 febbraio 2020

Le storie di Adelaide (I)...

Frau Kammerer? È in casa?
Giulio, mentre bussa piano alla porta, sa benissimo che la moglie del ciabattino è in cucina: come ogni giorno sente gli strilli dei suoi tre bambini.
Le presento mia sorella Adelaide.  
La ragazza sorride. Spero perdonerà il mio pessimo tedesco, frau Kammerer.

Sono passati appena pochi minuti. Giulio se n'è già andato, il signor Klemper al guantificio gli ha concesso di assentarsi solo il tempo necessario per andare a prendere la sorella in stazione. E Adelaide si ritrova seduta in quella cucina che non ha mai visto, in una città che non ha mai visto, con in braccio un bambino che non ha mai visto, che però ha smesso di piangere. Con il suo fare spiccio, la signora Kammerer le ha messo davanti una scodella di zuppa calda.
Il "gineceo" del numero 14 della Spiegelgasse si è riunito per dare il benvenuto alla nuova pigionante italiana. C'è naturalmente la padrona di casa, la moglie di Titus Kammerer, che fa il ciabattino al pianterreno della casa accanto e che Adelaide ha visto di sfuggita, c'è la vedova Rosenthal - suo marito è morto all'inizio della guerra sul fronte francese e lei è tornata a Zurigo con i suoi due figli piccoli - e c'è Nadja Uljanova. I Kammerer sanno solo che suo marito è un esule russo, ma non cosa faccia di preciso. Adelaide invece sa che quell'esule è conosciuto dalle polizie di tutta Europa con il nome di Lenin. E anche Nadja sa che quella ragazza è la sorella di un giovane comunista in clandestinità, non solo uno che è solo fuggito in Svizzera per evitare di partire soldato. Comunque Titus Kammerer non è uno che fa troppe domande quando affitta una delle stanze di casa sua: ormai Zurigo è un porto di mare, sono arrivati esuli da ogni parte d'Europa. I pensionanti comunque si trovano bene: l'affitto è basso e le stanze sono luminose e dignitose, se non fosse per la puzza che sale dal cortile, su cui si affaccia anche una fabbrica di würstel.
Le tre donne fanno molte domande alla giovane appena arrivata, vogliono sapere dell'Italia. Adelaide non sa molto dell'Italia, parla di San Giovanni in Persiceto, il suo paese, spiega cosa sia la partecipanza, racconta gli anni difficili della guerra, dopo che suo fratello è venuto in Svizzera. E ora che loro madre è morta, Adelaide ha deciso di seguire il fratello.

Allora, com'è la nuova italiana? Chiede Titus quella sera alla moglie.
Carina, e ci sa fare con i bambini. Vorrei chiederle di darmi una mano con loro. Gli potremmo abbassare un po' l'affitto.

Adelaide è proprio brava con i bambini, anche la signora Rosenthal ha cominciato ad affidarle i figli e così la giovane italiana è diventata la bambinaia semi-ufficiale del numero 14 della Spiegelgasse.

Vladimir Il'ič torna a casa per pranzo tutti i giorni, dopo aver passato la mattina alla Biblioteca centrale sulla Zähringerplatz.
Certo che da quando c'è questa compagna italiana, c'è molto più silenzio in questo casa.

La signora Rosenthal, grazie al fatto che adesso Adelaide pensa ai bambini, aiuta una sarta che ha la bottega di fianco a quella di Titus. In quei giorni freddi di febbraio spesso la mattina rimangono tutte a casa. Ethel cucina - e insegna anche a Nadja - la vedova cuce e Adelaide canta e gioca con i bambini. Dopo pranzo, nei giorni di sole, li porta a passeggiare per le strade di Zurigo. Il signor Kammerer le ha portato una lunga corda, lei la lega al polso dei bambini e finalmente escono, cantando filastrocche in tedesco, in italiano, in francese. Ormai quel "corteo" è diventato popolare sulla Spiegelgasse.

Sul minuscolo palcoscenico del Cabaret Voltaire, al numero 1 della Spiegelgasse, mentre un musicista con la fisarmonica intona la Marsigliese, compare Tristan Tzara, con indosso un'elegante marsina nera e un pannolino come hanno i neonati. Lo segue Hugo Ball che indossa una giacca militare, con appuntate molte medaglie di cartone, e due grossi favoriti posticci; anche lui porta il pannolino. Intanto il fisarmonicista ha attaccato le prime note di Deutschland über alles. I due "bambini" si accapigliano per una bambola, mentre arrivano sul palco altri due attori con il pannolino, uno porta la corona e uno due grandi bassette bianche; sono preceduti rispettivamente dall'inno inglese e da quello austriaco. Finalmente arriva la "bambinaia", che imbraccia un fucile e indossa un elmetto. Mentre i "bambini" ancora frignano, Emmy Hennings con gesti lenti e studiati, tira fuori una corda, la lega al polso di ciascuno dei "bambini", si mette il fucile a tracolla e cantando una canzonaccia da osteria, li porta fuori per una passeggiata. Il pubblico segue ridendo quel corteo.

I signori Kammerer sono ormai abituati agli schiamazzi che vengono dal Cabaret Voltaire, ma quella sera sembra proprio che siano sotto le loro finestre. Il ciabattino si alza, indossa la vestaglia e scosta la finestra. Sono proprio lì sotto e quando vede quella scena non crede ai propri occhi.
Helga, vieni a vedere. E chiama gli italiani.

continua...

giovedì 6 febbraio 2020

Verba volant (752): gabbare...

Gabbare, v. tr.

9 febbraio 1893: giovedì grasso. Milano si prepara alla prima della stagione di Carnevale e Quaresima della Scala. In città c'è un clima di febbrile attesa. In cartellone c'è la nuova opera di Giuseppe Verdi. L'ultima opera di Giuseppe Verdi. Naturalmente nessuno dice apertamente che l'ottantenne compositore di Busseto non riuscirà più a scrivere un'altra opera dopo questo Falstaff, ma è quello che tutti pensano. E anche Verdi sa che questo è il suo ultimo lavoro, in un certo senso il suo estremo lascito al mondo del teatro che ha tanto amato. Già finire Falstaff non è stato facile, non tanto per i problemi di salute - tutto sommato sta bene per un uomo della sua età, la tempra è quella forte di un contadino emiliano - quanto per il morale. In quei mesi ha dovuto partecipare a troppi funerali: tutti gli amici di una vita lo stanno progressivamente lasciando.
Grazie a questa curiosità morbosa, la prima di Falstaff è diventata un evento: i biglietti costano trenta volte più del consueto. Eppure tutta Milano è in fila per entrare alla Scala. Da Torino è arrivata la principessa Bonaparte, moglie di Amedeo di Savoia, per il governo è presente il ministro della pubblica istruzione Ferdinando Martini, il professor Carducci è in platea.

Trent'anni prima il ventunenne Arrigo Boito scrive un'ode provocatoria che comincia con questi versi
Alla salute dell'Arte Italiana!
Perché la scappi fuora un momentino
dalla cerchia del vecchio e del cretino
giovane e sana.
Non fa nomi l'impertinente poeta, ma, visto che è anche un musicista e ha l'ambizione di scrivere opere, il suo obiettivo polemico è naturalmente il Maestro Verdi, che in quell'anno ha già scritto ventidue delle sue ventisei opere ed è una star in tutta Europa. Comunque, al di là di quello che Boito scrive o non scrive nei suoi versi, Verdi è convinto di essere il bersaglio di quello strale e non dimentica quelle parole, quando, quasi vent'anni dopo, Boito, che non è più un giovane bohemienne - o scapigliato, come si dice in Italia - gli propone un suo libretto basato sull'Otello di Shakespeare. Non vuole neppure vedere quel giovane arrogante.
Servono tutta la diplomazia di Tito e Giulio Ricordi e la pazienza di Giuseppina Strepponi per convincere Verdi a incontrare Boito. L'incontro però va bene. Verdi ama le opere di Shakespeare, perché ama il teatro e nessuno come il Bardo sa raccontare le donne e gli uomini sulla scena e quel Boito è davvero bravo a trasformare in un libretto un dramma dell'inglese. E così nasce l'Otello, che viene rappresentato a Milano il 5 febbraio 1887, con un enorme successo: Verdi pensa sia il modo giusto per chiudere la sua lunga carriera.
Ma quel Mefistofele di Boito tenta il vecchio Maestro con un nuovo libretto, basato sulla commedia Le allegre comari di Windsor e su alcune scene dei due drammi dedicati a Enrico IV. Verdi resiste: non vuole cominciare una nuova opera. E una commedia per di più. Ormai è troppo vecchio.
Però che sfida sarebbe.
Il 9 luglio 1889 Arrigo Boito gli scrive
C'è un solo modo di finir meglio che coll'Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d'ilarità! C'è da far strabiliare!
Ma non è questa lettera che convince Verdi: ha già deciso, accetta la sfida.
Caro Boito, Amen; e così sia!... Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all'età, alle malattie!
E si mette al lavoro. Che seguirà con la consueta tenacia. Come ha sempre fatto, nonostante gli costi sempre più fatica, dirige tutte le prove, perché vuole che Falstaff sia messo in scena come dice lui.

Quella sera di carnevale il pubblico sembra impazzito dall'entusiasmo. Il Maestro Verdi esce tre volte dopo il primo atto, sei dopo il secondo e sette alla fine. La folla che è rimasta fuori dalla Scala accompagna la carrozza che riporta il compositore e sua moglie Giuseppina al Grand Hotel et de Milan. Verdi esce diverse volte al balcone della sua suite per salutare quella folla che cresce ogni momento.
Certamente Verdi è contento di quell'entusiasmo, che è prima di tutto un segno di stima nei suoi confronti, per tutto quello che ha fatto in tanti anni di carriera. Eppure non può non pensare che forse tutti quegli applausi servono al pubblico per esorcizzare la storia che lui e Boito hanno messo in scena quella sera. Quando Falstaff e il resto della compagnia cantano "Tutti gabbati!" non si riferiscono solo a quello che è appena successo sul palco, ma guardano in faccia gli spettatori, ministri e generali, poeti e professori, accademici e musicisti, nobili e ricchi. Il vecchio Verdi, il senatore Verdi, il padre della patria Verdi, saluta il suo pubblico con un ghigno anarchico: avete poco da ridire - sembra dire - perché tutti siamo gabbati.

Certo Falstaff è una commedia, ma il suo protagonista non è un personaggio farsesco. Falstaff è un contemporaneo di Don Chisciotte e, come lui, è una sorta di "reduce" del medioevo in un mondo che è ormai definitivamente cambiato: di entrambi ridiamo perché si ostinano a vivere in maniera anacronistica come cavalieri in una società dominata dai borghesi. Eppure amiamo il cavaliere dalla triste figura perché si aggrappa con pazza ostinazione alla sua idea di onore e all'amore puro per la sua Dulcinea. Invece finiamo per detestare Falstaff che, in uno dei suoi interventi più crudi, dice che a lui l'onore non interessa, e chiede con cattiveria ai suoi due servi infedeli (così diversi da Sancho Panza):
Può l'onore riempirvi la pancia?
E nonostante parli sempre d'amore, Falstaff non è capace di provarlo, a lui interessano le donne solo se hanno denari. E naturalmente non ha la grandezza tragica di Don Giovanni che non si pente neppure di fronte ai diavoli e sfida apertamente la morte. Falstaff sotto la quercia di Herne piagnucola e chiede perdono.
Falstaff è il meschino che non conosce grandezza. È qualcuno che conosciamo bene, perché noi siamo così. Ridiamo di fronte alla sua sconfitta, ma anche noi siamo spaventati, perché sappiamo di essere molto più simili a lui che a Don Chisciotte. O siamo come Ford o come il dottor Cajus o come Bardolfo. Il nostro destino è quello di essere gabbati. Non illudetevi - dice Verdi - non rimpiangete il mondo vecchio: non era migliore. E non sperate nel mondo nuovo: non sarà migliore. Vivete la vostra mediocrità, qui e ora. Per questo, nonostante le risate, Falstaff non è una commedia, ma forse una delle più terribili tragedie di Verdi.
E chissà se il Maestro ha pensato che stava per chiudere la sua storia teatrale con una commedia in cui i gabbati sono gli uomini, mentre le donne riescono a ottenere quello che vogliono. Verdi ha spesso raccontato la storia di grandi donne che fanno impallidire i loro uomini - come Violetta con Alfredo, Gilda con il Duca, Aida con Radames - ma alla fine muoiono tutte. In Falstaff invece le donne vincono. E si godono i frutti della loro vittoria. Finisce rivoluzionario il vecchio Verdi.

Anche il giovane compositore toscano Giacomo Puccini ha voluto assistere al Falstaff. Ascolta quelle note del vecchio maestro, che potrebbe essere suo padre, e ne coglie tutta la modernità. Rimane sbalordito. Si chiede se lui a ottant'anni, a metà del prossimo secolo, sarà mai capace di scrivere una musica così nuova.

E mentre Falstaff canta "Tutto nel mondo è burla", Verdi guarda il suo "complice" in quell'avventura e ricordando quei versi di trent'anni prima, che non ha mai del tutto dimenticato, pensa:
Allora, caro Boito, chi è il vero scapigliato?



lunedì 3 febbraio 2020

Verba volant (751): coppia...

Coppia, sost. f.

Questa storia comincia a Padova, alla fine del Cinquecento. Caterina è la figlia maggiore del mercante Battista Minola. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie..