sabato 30 giugno 2018

Verba volant (541): sufficiente...

Sufficiente, agg. m. e f.

Vedo che nella sinistra italiana va di moda parlar male di Alexis Tsipras: ad esempio ho letto una dura presa di posizione di un tale che periodicamente viene invocato come un futuribile leader della sinistra, ma il cui unico titolo è essere stato un ininfluente viceministro del governo Letta, non esattamente un gabinetto della Terza Internazionale. Fosse solo per questa canea credo che sia da sostenere - ancora una volta - il governo di Syriza, come ho fatto, con determinazione e senza rimpianti, negli anni passati.
Io credo intanto che dobbiamo ricordare da dove questo governo sia partito, da quella notte in cui Angela Merkel ha stretto al collo di Tsipras un cappio che Hollande e renzi si erano incaricati di insaponare. Contro la Grecia, contro il primo tentativo di fare in un paese dell'Unione europea un governo socialdemocratico - perché di questo parliamo, non di un esecutivo bolscevico - c'è stata una furibonda e violenta reazione da parte di tutti gli altri paesi, compresi quelli che erano allora guidati da partiti espressione del Pse. Senza tenere conto di quell'attacco di inaudita violenza, non si può giudicare quello che è successo dopo.
Ed è successo quello che i falchi tedeschi - dalla Merkel a Schauble - passando per tutti gli altri leader, non si aspettavano succedesse: il governo greco ha resistito. La decisione presa nei giorni scorsi di allungare di dieci anni le scadenze dei prestiti, di estendere - sempre per dieci anni - il cosiddetto "periodo di grazia", ossia quello in cui non scattano le sanzioni in caso di mancato pagamento e infine di concedere altri 15 milioni di euro, non segnano la vittoria della Grecia e la sconfitta del finanzcapitalismo, ma indicano che l'obiettivo non è più quello di distruggere un paese perché i suoi cittadini hanno votato "male". Non è una vittoria perché questi soldi dovranno essere destinati a pagare il debito e soprattutto perché vengono dai profitti che la Bce ha lucrato sui titoli greci: non sono affatto un regalo. Il governo tedesco ha dovuto ammettere davanti al parlamento che fino ad ora la Germania ha guadagnato 2,9 miliardi di euro dai cosiddetti "aiuti" alla Grecia. Ma la Grecia è ancora in piedi.
Il governo Tsipras ha cominciato a redistribuire il surplus di bilancio alle fasce più povere della popolazione, quelle più colpite dalla crisi. Ha ricontrattato le privatizzazioni delle infrastrutture, senza comunque cedere a quella dell'acqua. Ha ottenuto dei risultati nella lotta contro l'evasione fiscale, costringendo a pagare alcuni di quelli che non avevano mai pagato. E' sufficiente? Evidentemente per tanti che si proclamano di sinistra - che hanno votato il jobs act e le misure contro le tutele del lavoro, che hanno teorizzato le privatizzazioni dei servizi pubblici e hanno sostenuto governi che hanno indebolito la scuola e la sanità pubbliche - non sono misure sufficienti. Adesso questi dicono che la Grecia avrebbe dovuto uscire dall'Unione, tornare alla dracma, e in Italia hanno votato il governo Monti.
Nel 2009 la Grecia aveva un deficit del 15% e la sua economia segnava un passivo del 4,3%. Oggi siamo a +1,4% di crescita, il bilancio è in attivo di un punto in percentuale e c'è stato un aumento di 200mila posti di lavoro. Non è la rivoluzione, ma è quello che si poteva fare, senza uccidere i greci più poveri. Ed evidentemente non sarà tutto uguale, se contro Syriza c'è ancora una volta lo schieramento, finanziato e sostenuto dalle forze del capitale, formato da Nuova democrazia e Pasok, le larghe intese in salsa tzatziki, ossia i due partiti che hanno portato la Grecia alla crisi. Credo sbaglino quei compagni che ora attaccano Syriza, che sbagli profondamente Yanis Varoufakis che sta facendo nascere un partito che alle prossime elezioni si presenterà contro Tsipras, con l'unico risultato possibile di indebolirlo e di portare alla vittoria quelli che hanno il gradimento del finanzcapitalismo. Abbiamo già lasciato sola la sinistra greca per troppo tempo. Mi sembra drammatico ripetere lo stesso errore.
So che adesso i miei ex-compagni ed ex-amici mi criticheranno, li prevengo: io, che in Italia non sono disponibile a votare per nessuno di loro, solo perché sono il "meno peggio", dico che in Grecia sosterrei con passione quello che ho detto essere evidentemente il "meno peggio" o meglio il possibile. Io, da comunista, in Grecia sono disponibile a morire riformista. Almeno non mi possono dire che sono un rivoluzionario "con il culo degli altri": sono disposto a far andare in malora il mio paese, pur di non lasciar governare gli ulivisti vecchi e nuovi, i neopiddini, gli exdiessini o come vorrete chiamarvi. Non è solo rancore personale, è anche politica, perché un conto è arrivare a quello che ha fatto Syriza, ai compromessi che ha dovuto accettare, partendo però da una critica radicale al capitalismo e agli attuali rapporti di forza tra le classi, e un conto è teorizzare, come continua a fare la pseudosinistra italiana che il capitalismo è il "migliore dei mondi possibili", a cui occorre solo fare qualche aggiustamento. Un conto è essere socialisti e provare comunque a governare un mondo che non ci piace e un conto è essere servi del capitalismo. E' il mio modo per essere fedele al miglior Pci che ho conosciuto.

giovedì 28 giugno 2018

Verba volant (540): rosso...

Rosso, agg. m.

Non esiste più l'Emilia rossa. Questa frase è certamente vera: i risultati elettorali di domenica 24 giugno, con la vittoria della candidata del M5s, sostenuta dalla Lega, a Imola - che pure è in Romagna, ma ha tante affinità con la mia terra - servono solo a confermare qualcosa di cui ormai siamo tutti consapevoli. Si tratta di un dato incontrovertibile. Mi rendo conto però che questa frase ha un significato diverso a seconda di chi la pronuncia. Per me ha un valore particolare perché io ho conosciuto l'Emilia rossa, io so cosa vuol dire questa espressione, e quindi sento di aver perduto qualcosa, è qualcosa che mi manca. Capisco che per tanti di voi - anche di voi che vivete in questa terra - questa frase suona diversa, perché non l'avete mai vista, non è qualcosa che avete perso.
Io sono stato fortunato ad avere questa opportunità; ma intanto ho cinquant'anni - e questo esclude già i più giovani - poi sono nato e cresciuto in Emilia, da genitori emiliani, e in provincia, dove certi cambiamenti arrivavano, specialmente alcuni decenni fa, più lentamente e più tardi che nelle città - e questo esclude un'altra bella fetta di voi - infine ho avuto l'occasione, per il particolare lavoro politico che ho svolto, di conoscere molto bene una generazione di donne e di uomini, che erano stati protagonisti attivi di una stagione politica, che quindi ho conosciuto di riflesso, grazie a loro - e questo taglia fuori quasi tutti temo. Di mio ho messo una particolare attenzione - che ho sempre avuto e che cerco di coltivare anche ora che ho smesso di fare politica - per la memoria. 
Credo che la cosa importante da capire è che quando noi che l'abbiamo conosciuta - e tanto più quelli che l'hanno fatta vivere nei suoi anni più gloriosi - parliamo di Emilia rossa, non ci riferiamo a un dato strettamente politico, che pure era estremamente evidente: in questa regione il Pci aveva una forte maggioranza, guidava le amministrazioni di città e di paesi, dalla montagna alla bassa. Ma non è questione di mettere le bandierine su una carta, bandierine che ovviamente possono cambiare colore. Quando parliamo di Emilia rossa vogliamo raccontarvi una terra in cui la partecipazione politica era un tratto essenziale del vivere la società, in tutti i suoi aspetti, e in cui la solidarietà era espressione di questa forte passione politica.
Ed era qualcosa che coinvolgeva non solo il nostro partito. Scusate se faccio l'esempio delle feste di partito, ma sapete quanto il tema mi sia caro. Quando io ero un bambino, nei primi anni Settanta a Granarolo, un paese piccolo, più piccolo di quanto sia ora, il Pci faceva sei feste, una per ogni frazione e la comunale, ma facevano le loro feste - non sei ovviamente, ma una sola - anche i socialisti e i democristiani, perché quello era lo spirito che animava, anche nel suo aspetto più gioiosamente ludico, quella piccola comunità, che si riconosceva ancora contadina, per quanto ormai fortemente industrializzata, seppur nella dimensione delle piccole e piccolissime aziende.
Certo il colore dominante era il rosso - a Granarolo nelle politiche del 1972 il Pci aveva il 60,3%, il Psi l'8,9% e il Psiup il 4% - ma quel clima di partecipazione coinvolgeva tutti: in quelle stesse elezioni andò a votare il 97,2%. La politica era un elemento che faceva crescere la comunità, anche individualmente, perché la politica era anche un'agenzia formativa. E naturalmente la politica coinvolgeva tutti gli aspetti della vita di quei piccoli territori perché le persone che erano attive nel sindacato, nel mondo cooperativo, nelle associazioni sportive, nei circoli ricreativi, erano gli stessi che animavano la vita delle sezioni.
Era anche una comunità chiusa, che viveva la propria diversità rispetto al contesto nazionale - dove invece i democristiani erano la maggioranza - con un orgoglio da assediati, era una società in cui non era sempre facile vivere, perché ovviamente risentiva del conformismo dell'epoca, per cui ad esempio quasi nessuno di noi è scampato dall'andare a catechismo, perché era brutto non fare la prima comunione. Poi non facevi la seconda e tornavi in chiesa solo con i piedi in avanti. Il nonno che non ho conosciuto era un comunista, ma nella sua piccolissima comunità suonava le campane, perché era bravo, davvero bravo, a suonarle, era un modo in cui un contadino che sapeva a mala pena fare la propria firma esprimeva il proprio valore, che la comunità gli riconosceva.
In Emilia esistono ancora alcune partecipanze agrarie. Si tratta di un istituto medievale, che definisce le regole di assegnazione delle terre da coltivare, spesso derivate da grandi lavori di bonifica, che rimangono però di proprietà collettiva e indivisa. E' qualcosa che viene dal tempo dei feudi, secoli prima di Marx, eppure è uno dei modi in cui questa terra ha espresso il suo essere socialista. E' questo spirito comunitario e solidale che rendeva rossa l'Emilia.
E poi c'è la lotta, l'idea che i diritti vanno conquistati e difesi, anche con il sacrificio. Nell'aggettivo greco rysios , da cui, attraverso il latino, deriva l'italiano rosso, gli etimologisti riconoscono una radice che nel sanscrito, l'antica lingua indoeuropea, ritroviamo nella parola che indica il sangue. E' il sangue che dà il nome al colore. Ed è il sangue dei braccianti e dei contadini che lottavano contro gli agrari, degli operai che scioperarono nel "biennio rosso", delle donne che chiedevano un futuro migliore per i propri figli, dei partigiani che si batterono contro il fascismo, delle donne e degli uomini uccisi a Monte Sole, che ha colorato le bandiere di questa terra. La memoria cresce con il sangue di queste donne e di questi uomini e queste lotte sono diventate un tratto di questa terra, tanto da segnarne la storia. E infatti la memoria era gelosamente custodita dalle generazioni che vennero dopo, anche con l'inevitabile rischio della retorica.
Credo di aver già raccontato in altre definizioni come la nostra inadeguatezza, la nostra incapacità di analisi, il nostro piegarsi alla trionfante ideologia capitalista, ci abbia portato fino a qui, in un processo durato molti anni. E comunque non era mia intenzione raccontarvi in questa occasione la caduta, né quello che siamo diventati - lo avete sotto gli occhi tutti i giorni - né come lo siamo diventati. Voglio solo provare a spiegarvi quanto io trovi inadeguata quell'espressione con cui ho cominciato questa definizione, se riferita all'oggi. Da un punto di vista politico mi può interessare capire di che colore siano quelle bandierine che mettiamo sopra ogni territorio dopo una tornata elettorale e perfino provare a capire di quale colore saranno alla prossima. Ma non sarà più il colore di quelle bandierine, anche se tornasse in una qualche tonalità di rosso, a raccontare questa terra. Perché non è la politica che plasma una comunità, ma allora era la comunità che diventava politica, che dava il proprio colore alla politica. E questa comunità non tornerà mai più quella che alcuni di noi hanno visto, perché sono cambiate davvero troppe cose, siamo cambiati noi, in peggio, spesso molto in peggio, perché quell'idea di partecipazione solidale non c'è più. Non esiste più l'Emilia rossa, perché quelle generazioni di donne e di uomini non ci sono più e noi non saremo mai capaci di prenderne il posto, e temo che nessuno ne sarà mai capace.

mercoledì 27 giugno 2018

Verba volant (539): salma

Salma, sost. f.

Vedo un gran trafficare attorno alla salma del pd. Non mi stupisco ovviamente. Abbiamo visto in tanti documentari che intorno ai cadaveri in putrefazione c'è tutto un lavorio di iene, avvoltoi e di altri animali "spazzini", che svolgono comunque un lavoro prezioso, perché altrimenti il mondo sarebbe un posto piuttosto malsano. Ho l'impressione che però questo affannarsi non sia altrettanto etologicamente nobile, ma sia paragonabile piuttosto al rapace arrivo dei parenti lontani che provano ad arraffare quello che possono dell'eredità dello zio buon'anima. Ovviamente Repubblica è in prima fila e mi pare abbia già scelto il ticket del futuro centrosinistra: Giuseppe Sala e Roberto Saviano, l'efficiente sindaco tecnocrate, ma capace di sedersi a una tavola multietnica, e il roboante tribuno di ogni buona causa. E poi c'è il nostro Macron all'amatriciana, l'ineffabile Carlo Calenda, e poi il fratello di Montalbano e vedrete che ne spunteranno altri nelle prossime settimane. Vedo anche qualcuno che, come il dottor Frankenstein, vuole rianimare il cadavere, al grido di "si può fare...".
Teoricamente di quello che succede attorno a quella salma non me ne importa nulla. Ho sempre disprezzato il pd quando era vivo e non mi pare elegante continuare a farlo adesso che è morto (anche se naturalmente godo a vedere questo spettacolo). Devo però intervenire, perché tutti questi - avvoltoi, medici ciarlatani, eredi furbastri - dicono che la salma attorno a cui vegliano piangenti - e l'eredità a cui ambiscono - è quella della sinistra. E quindi tutti questi sarebbero impegnati a ricostruire la sinistra in Italia.
Vorrei ricordarvi che tutti voi, da Prodi a Bersani, da Scalfari a D'Alema, avete fatto nascere e crescere il pd proprio con lo scopo dichiarato - siete stati onesti, bisogna darvene atto - di espungere perfino la parola sinistra dal vocabolario della politica italiana. E i vostri epigoni, quelli che ho sopra citato, sono culturalmente, prima che politicamente, estranei alla sinistra. Sala non è di sinistra, Saviano non è di sinistra, Calenda non è di sinistra, il fratello di Montalbano non è di sinistra. Possono fare politica? Certamente sì, e mi auguro lo facciano. Io li voterò? Certamente no, perché io sono comunista e loro sono sostenitori del capitalismo. Poi lo so che loro dicono che fanno meno schifo dei fascisti, ed è anche vero, non ho problema a riconoscerlo. Ma, come ho già detto, per me il tempo del meno peggio è finito.
Anticamente la parola salma prima di indicare il cadavere umano significava propriamente carico, ricolmo, dice il Pianigiani riempito di checchessia. Curiosamente questa è anche la definizione che meglio descrive il pd. Il pd ha voluto essere pieno di tutto e nei pochissimi posti dove ancora ha vinto c'è riuscito perché è stato il contenitore dove si sono addensati i più diversi interessi, anche i meno commendevoli, dove ha raccolto un po' di questo e un po' di quello, avendo come unico denominatore la gestione del potere.
Mi pare che gli apprendisti stregoni stiano facendo la stessa cosa, ossia creare qualcosa che possa essere riempito di checchessia, basta che non ci sia nulla di anche solo vagamente socialista. In pratica stanno creando qualcosa che è già una salma.

martedì 26 giugno 2018

Verba volant (538): felicità...

Felicità, sost. f.

Erodoto racconta che il vecchio e saggio Solone, dopo aver cambiato in maniera profonda le leggi di Atene, partì per un lungo viaggio con l'obiettivo di conoscere il mondo. A dire il vero Solone voleva soprattutto allontanarsi dalla sua città, perché aveva imposto agli ateniesi di non cambiare quelle nuove leggi per almeno dieci anni e questo sarebbe stato più semplice se egli non fosse rimasto.
Visitò molte terre, conobbe molte persone, filosofi e sovrani, uomini del popolo e sacerdoti. Giunto in Lidia, un grande regno che occupava le terre della parte occidentale dell'attuale Turchia, il re Creso volle incontrarlo. Era uno degli uomini più ricchi del suo tempo, era un re molto potente, ma voleva che Solone riconoscesse non queste cose, che erano scontate e banali, voleva che lo considerasse felice, anzi voleva essere considerato l'uomo più felice della terra. Per questo fece condurre Solone nei suoi vasti palazzi, gli fece vedere tutti i suoi tesori, e quando finalmente chiese al saggio venuto da Atene chi fosse l'uomo più felice del mondo, rimase sorpreso quando si sentì rispondere: "Tello, cittadino ateniese". Chiese chi fosse questo Tello, che non aveva mai sentito nominare. E Solone gli rispose che si trattava di un ateniese che aveva vissuto onestamente, che aveva avuto dei figli e che li aveva tutti visti crescere e che infine era morto combattendo per la sua città. Un uomo assolutamente comune. Creso rimase deluso dalla risposta di Solone e lo congedò senza tante cerimonie.
Il re della Lidia pensò che Solone volesse semplicemente contrapporre un uomo comune a uno potente. E non ci pensò più fino a quando non fu sconfitto da un re più potente di lui, a cui aveva incautamente dichiarato guerra. Ciro, il re della Persia, catturò il suo nemico e lo condannò a morte, ma quando il rogo cominciò ad ardere, Creso invocò il nome di Solone. Ciro, incuriosito, fece spegnere il fuoco e chiese a Creso la ragione di quella strana invocazione in punto di morte e questi gli raccontò l'episodio avvenuto tanti anni prima, dicendo che solo allora aveva capito cosa l'ateniese gli volesse dire. Ciro gli salvò la vita e tenne Creso come suo consigliere, ma l'uomo che un tempo era stato re non aveva capito davvero. Aveva capito, ancora una volta, quello che importava a lui.
Quello che Solone voleva dire è che la felicità è un paradosso, perché è un caratteristica della vita che richiede la scomparsa della vita per esistere. E infatti télos nella lingua dei greci significa a un tempo perfezione e morte. E quindi siccome la felicità è qualcosa che rende l'uomo perfetto, occorre aspettare la morte per raggiungerla.
In queste parole di Solone c'è tutto quello per cui molti di noi amano la Grecia antica, ossia l'amore per la logica, per il ragionamento razionale, e il rifiuto di una felicità effimera, materiale. Ma c'è anche in più un'incredibile eleganza stilistica, perché in questo modo Solone ci dice in maniera obliqua quello che ci farebbe troppo paura se espresso in maniera diretta: che la felicità non esiste.

domenica 24 giugno 2018

Verba volant (537): rumore...

Rumore, sost. m.

Quando vivevo a Bologna, conoscevo due persone che abitavano al terzo piano di un condominio praticamente di fronte a quello che i bolognesi chiamano ancora "ponte vecchio", dove passano - molto vicino alle case - i treni della linea Bologna-Firenze. Ricordo che quando andai a cena da loro trovai insopportabile il rumore - e le vibrazioni - dei frequentissimi treni che passavano da lì, ma loro si erano ormai abituati. Ovviamente sentivano come me quel rumore, sentivano che stava passando un treno, ma non ci facevano più caso.
Al nostro paese - ma credo che non capiti solo a noi - sta succedendo la stessa cosa. Viviamo ormai in mezzo al rumore delle polemiche e rischiamo di non farci più caso. Da alcune settimane ogni mattina la lettura dei giornali o dei siti di informazione o l'ascolto delle notizie alla radio è costantemente coperto dal rumore delle polemiche attorno alle dichiarazioni di Matteo Salvini.
Lo schema è sempre quello ed è piuttosto semplice: Salvini fa una dichiarazione provocatoria su un tema controverso e su quella dichiarazione si scatena una polemica, dai toni sempre più accesi. La dichiarazione di Salvini non deve anticipare una scelta di governo, anzi per lo più è slegata dalla concreta attività politica dell'esecutivo, e non deve neppure riflettere quello che il leader della Lega effettivamente pensa su quel tema, ma deve essere solamente in antitesi con quello che ci hanno insegnato che sia giusto dire.
Faccio un esempio. Soccorrere una persona in pericolo è una cosa che ci hanno insegnato che è giusto fare. Ovviamente non vuol dire che applichiamo sempre questa regola, come le altre che ci hanno insegnato. Se pensiamo che soccorrere un altro metta in pericolo noi stessi, non lo facciamo e siamo sicuri che nessuno ci rimprovererà per questa scelta. Poi decidiamo di non soccorrere qualcuno anche per molti altri motivi, perché quella persona in pericolo non ci piace, perché facciamo prevalere il nostro egoismo e la nostra indifferenza, o anche solo la nostra accidia. Comunque sia, diciamo una cosa e ne facciamo un'altra. sappiamo qual è la cosa giusta da fare, ma facciamo quella sbagliata. Poi arriva Salvini e invece ci dice di non soccorrere le persone. A questo punto, al di là del merito della questione in sé - che a Salvini non importa affatto - si innesca un processo che non siamo più in grado di fermare. Di fronte alla dichiarazione di Salvini molti si sentono in dovere di intervenire, perché quella presa di posizione è moralmente sbagliata e i toni si accendono. Poi naturalmente c'è qualcuno che, spesso per piaggeria verso il potere e altrettanto spesso per il gusto di dire una cosa fuori dal senso comune, dice che quello che ha detto Salvini è proprio vero e accusa gli altri di essere ipocriti. Poi tra quelli che criticano Salvini ci sono quelli che cercano di giustificare queste affermazioni, che provano a capirne le cause, sono i campioni del "ma...": non sono razzista, ma... E alla fine quella frase provocatoria è passata, ma non importa, perché il giorno dopo si deve cominciare con un'altra provocazione e così via. E si genera un rumore a cui mi accorgo che ci stiamo già abituando. Ho l'impressione che di fronte a queste sortite stiamo facendo come la scimmietta che che si tappa le orecchie, per difenderci dall'inquinamento acustico. Quei miei amici avevano quasi sempre le finestre chiuse, e questo attutiva il rumore, ma non rendeva certo più vivibile quella casa. E inoltre i treni continuavano a passare e a far rumore, al di là dei vetri chiusi, sempre più spessi, con i quali si difendevano.
Non sempre riusciamo a rispondere alla provocazione, perché magari dobbiamo fare altre cose, lavorare, curare la nostra famiglia, ma anche semplicemente vivere. Ma il rumore rimane in sottofondo e finisce che ci abituiamo. E pensiamo che la politica sia sostanzialmente questo urlare: perché oggi anche chi si oppone a Salvini lo fa con lo stesso tono e per lo più copiandone la volgarità. E se ci abituiamo a sentire il rumore dei treni che passano di continuo, non ci accorgeremo se uno passa fuori orario o se un altro fa un rumore strano, perché forse è danneggiato. Se ogni giorno il governo spara una dichiarazione provocatoria, a cui non fa seguire un concreto atto di governo, rischiamo di non accorgerci quando invece un qualche atto seguirà davvero. Oppure saremo così impegnati a rispondere alle frasi a effetto, da non guardare cosa stanno intanto facendo quelli di loro che intanto in silenzio lavorano.
Quelle due persone, quando ebbero una figlia, decisero di cambiare casa. Fu una scelta inevitabile, perché non volevano che una bambina vivesse in una casa dove non si potevano aprire le finestre. E' una scelta possibile. Io, se avessi vent'anni, lascerei certamente questo paese, pur consapevole che questo è uno stile che ritroviamo anche in altri paesi, ma certo in Italia viene interpretato con un livello di volgarità e ignoranza che mi pare gli altri non abbiano. Ma comunque il rumore rimane, un'altra famiglia sarà andata a vivere in quell'appartamento, perché non poteva permettersi altro. La soluzione vera è non far passare i treni da lì, magari progettando un tunnel sottoterra. Ma intanto dobbiamo fare i conti con il rumore delle polemiche. E dobbiamo decidere cosa fare.
Personalmente credo che per quanto siano pericolose le parole - e figuratevi se non ne sono consapevole io che scrivo un dizionario - lo siano di più le azioni e che quindi non dobbiamo farci distrarre. E credo anche che in mezzo a persone che urlano un modo per farsi sentire sia quello di parlare a bassa voce. E' fondamentale che non alimentiamo il rumore. Che forse ci travolgerà comunque, ma che dobbiamo continuare ad ascoltare.

mercoledì 20 giugno 2018

Verba volant (536): traccia...

Traccia, sost. f.

Spero che non sia richiesto al candidato anche di essere sincero. 
Non faccio l'insegnante - per fortuna dei miei ipotetici studenti - e francamente non so con quali criteri i commissari giudicheranno i temi che i maturandi hanno scritto questa mattina. Spero siano valutati per come scrivono più che per quello che devono scrivere. A me basterebbe che non ci fossero errori grammaticali per dare la sufficienza e credo sarei generoso di fronte a congiuntivi usati correttamente.
Come ogni anno, le tracce proposte richiedono una notevole dose di ipocrisia. Tra l'altro credo che sia indicativo l'uso del termine traccia: il maturando non può scrivere quello che vuole, ma quello che qualcuno ha immaginato che dovrà scrivere e che ha già abbozzato nel lunghissimo titolo.
Immagino che perfino il figlio di Salvini - mi scuso in anticipo con lui se faccio questo esempio: magari è un ottimo ragazzo, che non condivide le idee del padre - affrontando la traccia sul brano di Bassani, scriverebbe una dura riflessione contro le discriminazioni razziali. Per prendere un bel voto, per passare alla maturità, sa che questo è quello che ci si aspetta che scriva nel tema, magari infilandoci il nome di Liliana Segre, che va così di moda: il nome della senatrice vale da solo già mezzo voto in più. E allo stesso modo bisogna scrivere che l'uguaglianza è un grande valore e che i Costituenti hanno scritto un bellissimo articolo su di essa. Oppure che De Gasperi e Moro sono stati lungimiranti nel costruire l'integrazione europea. Su Moro devi scrivere che è stato assassinato dalle Brigate rosse: anche in questo caso è un mezzo voto in più, anche se non c'entra nulla. E così via, di banalità in banalità.
Sono temi su cui si può esercitare quei buoni sentimenti mainstream che piacciono tanto ai redattori e ai lettori di Repubblica: e infatti subito Saviano ha scritto un tweet per lodare la scelta di queste tracce.
Poi scritti i loro "bravi" temi, svolte le loro tracce, le ragazze e i ragazzi in procinto di diventare maturi potranno fare quello che la società capitalista richiede loro ogni giorno: discriminare gli altri in base al colore della pelle, o al sesso, o a una malattia, ostentare le differenze e giudicare le persone in base alla loro ricchezza. E votare per partiti che sistematicamente violano l'art. 3 della Costituzione, perché pongono ostacoli di ordine economico e sociale, in modo da limitare di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini. 
Perché noi vogliamo, cari maturandi, che voi siate come noi, che seguiate le nostre tracce.

domenica 17 giugno 2018

Verba volant (535): topo...

Topo, sost. m.

A leggere le cronache di questi giorni pare che Parigi sia invasa dai topi: sembra che ce ne siano due per ogni cristiano - o musulmano o ateo o come volete indicare voi i cosi con due gambe. Visti i rapporti non proprio idillici che intercorrono in questo momento tra noi e i cugini d'Oltralpe, qualche giornale italiano è anche soddisfatto di poter enfatizzare questo problema della Ville Lumèrie: d'altra parte cosa potremmo aspettarci da un popolo che non conosce il bidet.
I topi a Parigi - come in ogni altra città europea - ci sono sempre stati, basta leggere I miserabili di Victor Hugo dove questi animali sono onnipresenti. La Parigi raccontata dal grande romanziere dell'Ottocento è naturalmente ben diversa da quella dei nostri anni: c'è l'elettricità, l'acqua corrente in tutte le case, un moderno sistema di raccolta dei rifiuti. Ci sono ancora i miserabili, anche se si preferisce tenerli lontani dal centro della città. Eppure i topi ci sono ancora. Curiosamente proprio il progresso sta in qualche modo favorendo il proliferare di questi animali. I cambiamenti climatici provocano a Parigi inverni miti e piovosi: se non viene troppo freddo i topi possono riprodursi di più, anche quattro volte in un anno, e se, a seguito delle forti piogge, cresce il livello della Senna, questi roditori devono lasciare le rive del fiume per colonizzare le strade cittadine. E topo è etimologicamente un derivato della talpa, ossia un animale che vive sottoterra, scavando: ma visto che noi uomini abbiamo scavato il "ventre" di Parigi per costruire la metropolitana e per metterci tutte le condotte di cui abbiamo bisogno, abbiamo facilitato, e di molto, il lavoro ai topi. Inoltre il turismo di massa alimenta la popolazione topesca. Sono graziosi i ristorantini e i caffè lungo la Senna, ma producono rifiuti, e i topi amano i rifiuti. I turisti che mangiano in città, seduti in un parco o all'ombra di un albero, è facile che lascino in giro altri rifiuti, e i topi ringraziano. I ratti si chiamano così etimologicamente proprio perché rubano con destrezza quello che qualcun altro lascia incustodito. In una società in cui ci spingono a creare sempre più rifiuti, dobbiamo accettare di convivere con i topi.
Naturalmente le autorità stanno facendo di tutto per combattere i topi. C'è anche un sito costantemente aggiornato dalle segnalazioni dei cittadini.
Molti secoli fa i cittadini di Hamelin, visto che la loro città era invasa dai topi, decisero di affidarsi a un uomo che aveva promesso di attirare gli animali grazie al suono del suo piffero magico. Curiosamente sorcio, un altro dei nomi che gli uomini danno ai topi, ha la stessa radice etimologica che troviamo nel verbo greco syrizein, che significa suonare e che ritroviamo in sirena. Forse il pifferario magico era egli stesso un topo. Immaginatevi la gioia dei cittadini di Hamelin quando videro i topi uscire dalle loro tane e seguire quello stravagante pifferaio; ma quando questi ritornò in città per riscuotere quanto pattuito, i "bravi" cittadini decisero di non pagarlo. Mentre erano tutti a messa - perché i "bravi" cittadini vanno sempre a messa - il pifferaio riprese a suonare, ma questa volta le sue note attirarono i bambini di Hamelin che furono condotti fuori dalla città e sparirono per sempre.
Non credo che le autorità francesi commetteranno lo stesso errore dei cittadini di Hamelin, ma dovremo fare tutti attenzione. Anche a noi può succedere di incontrare qualcuno che ci promette di risolvere tutti i nostri problemi, di liberarci per sempre dai topi, o dagli stranieri, o dai poveri, e siamo disposti a tutto pur che cominci a suonare il suo piffero magico, senza renderci conto che tutto questo avrà un prezzo, drammaticamente alto, di cui diventeremo consapevoli solo quando ormai sarà troppo tardi. E' una storia che conosciamo bene, eppure è qualcosa che sembra siamo destinati a rivivere, commettendo lo stesso fatale errore.
Forse dovremmo imparare a convivere con i topi, che non saremo mai capaci di cacciare dalle nostre città, perché si tratta anche delle loro città. Magari dovremmo imparare a produrre meno rifiuti, a non gettare via cibo che può ancora essere mangiato, a non sprecare. E poi dovremmo imparare ad avere più cura dell'ambiente, in modo che d'inverno torni a essere molto freddo, anche se questo può arrecare qualche disagio anche a noi, che pretendiamo di vivere in un mondo senza stagioni, in cui non sia mai molto caldo o molto freddo E soprattutto dovremmo lottare per una società in cui non ci siano più i miserabili, dentro e fuori le città. E infine dovremmo imparare a non fidarci dei pifferai magici.

venerdì 15 giugno 2018

Verba volant (534): mondiale...

Mondiale, sost. m.

Lo so che mondiale è propriamente un aggettivo, ma questa parola, specialmente quando viene usata al plurale, deve essere trattata come un sostantivo: e per noi italiani, i mondiali sono solo quelli lì.
Io ho avuto la fortuna di vincere i mondiali trentasei anni fa, in Spagna. Avevo pochi mesi la notte dell'Azteca: ho sempre invidiato quelli che possono dire di aver visto la "partita del secolo", ma non posso farci niente. Teoricamente sono andato vicino alla vittoria dodici anni dopo il Bernabéu e poi li ho anche rivinti, nel 2006, ma per me i mondiali si vincono solo quando si è ragazzini. Mi dispiace per quelli che adesso hanno dodici anni, per quelli che sono nati quando Zidane stendeva con una testata Materazzi: loro purtroppo hanno perso l'opportunità di vincere i mondiali, tra quattro anni saranno ormai troppo vecchi.
A dire il vero, quando io ho vinto i mondiali, non è stata proprio una spedizione carica di onori: era una squadra su cui pesava ancora l'ombra sinistra dello scandalo chiamato dai giornali Totonero. E su cui soprattutto pesò il pareggio con il Camerun nell'ultima gara del girone eliminatorio, quell'1-1 che permise alla squadra africana, alla sua prima esperienza mondiale, di uscire imbattuta dai mondiali, e all'Italia di agguantare per il rotto della cuffia quel girone terribile con Brasile e Argentina, in cui, contro tutti i pronostici, la nostra squadra riuscì a vincere, aprendosi la strada alla finale con la Germania, anzi la Germania ovest, perché allora c'erano ancora due Germanie, c'erano l'Unione sovietica, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. In trentasei anni la cartina dell'Europa è cambiata parecchio. Comunque sia, quando sei un ragazzino fai fatica perfino a concepire che i tuoi eroi della domenica pomeriggio - allora si giocava solo la domenica pomeriggio, pensate che bizzarria - potessero aver venduto una partita: anche il "mio" Bologna fu pesantemente coinvolto in quell'inchiesta, con i suoi due giocatori più rappresentativi, Giuseppe Savoldi e Franco Colomba. Allora non capivo neppure perché ci fossero due Germanie, anche se sapevo che una delle due era comunista, come mio padre. Però era quella che non era comunista che era forte a giocare a pallone, anche se non forte come l'Italia di Dino Zoff e di Paolo Rossi, un altro eroe che era finito nello scandalo.
Sinceramente non ricordo bene le partite della prima fase e neppure Italia-Argentina. Ricordo invece benissimo Italia-Brasile, ricordo l'altalena dei gol, noi, loro, noi, loro. Noi. Ricordo i tre gol di Rossi e quelli di Socrates - uno che poi avrei saputo che era comunista, come mio padre - e di Falcao. Tra l'altro i calciatori di quei mondiali giocavano - o avrebbero giocato - tutti in Italia, da Boniek a Rummenigge, da Zico a Platini, e ovviamente Maradona. E poi, anche se meno distintamente, ricordo la finale, ma su questi ricordi pesa naturalmente il fatto che sono immagini che abbiamo visto migliaia di volte: l'urlo di Marco Tardelli, le braccia alzate di Sandro Pertini, la coppa in mano a Enzo Bearzot. Sì, è così che ho vinto i mondiali dell'82.
Adesso ho qualche difficoltà a sapere chi gioca nell'Italia, conosco i grandi campioni più che altro per il fatto che i loro nomi fanno continuamente capolino nella home page dei giornali on line, perché si sono fidanzati con una bellissima top model o perché il loro ingaggio ha bruciato un nuovo record. So che sono cominciati i mondiali in Russia, anche perché nelle altre reti ci sono per lo più repliche. Non mi appassiono ai mondiali, sostanzialmente perché non ho più dodici anni, anche se dico che è per il fatto che si tratta ormai di uno spettacolo con cui il finanzcapitalismo cerca di distrarre il popolo, come facevano gli imperatori dell'antica Roma con i giochi nel Colosseo. Ma anche se io non lo seguo più, credo che un ragazzino di dodici anni abbia il diritto - e il dovere - di vedere quelle partite come un grande gioco, di appassionarsi alle gesta dei suoi eroi; avrà tempo, crescendo, di capire cosa c'è dietro, come noi, crescendo, abbiamo capito cosa c'era dietro l'oro della coppa dell'82.
Ed evitiamo anche di fare confronti. Certo allora avevamo un presidente della Repubblica di cui essere fieri, un uomo che è ancora un nostro maestro. Tra trentasei anni quelli che adesso ne hanno dodici si saranno giustamente dimenticati dell'uomo grigio che siede al Quirinale. Non era comunque un'Italia migliore, non era una politica migliore, anche se c'erano indubbiamente uomini migliori, non era un calcio migliore, anche se c'erano uomini migliori. O almeno non è un'Italia di cui dobbiamo avere nostalgia. Se adesso facciamo schifo è anche per quello che è stato fatto - o non fatto - allora.
E, nonostante tutto, io sono contento di aver vinto i mondiali dell'82.

giovedì 14 giugno 2018

Verba volant (533): porto...

Porto, sost. m.

Questa parola deriva, attraverso il latino, dal greco poreytòs, in cui riconosciamo la stessa radice che troviamo in pòros, che significa passaggio: il porto quindi non è mai una destinazione, ma un luogo - o magari un momento - di passaggio, da un luogo a un altro, da una condizione a un'altra. Io credo dovrebbero ricordare questa semplice definizione sia il ministro che in questi giorni ha dichiarato che i porti italiani saranno chiusi, sia i sindaci di grandi città sul mare che, magari solo per fare polemica contro il partito di quel ministro o forse perché ci credono davvero, hanno detto che vorrebbero aprire i porti delle loro città. Ma dovrebbero ricordare questa definizione anche le autorità francesi che hanno creato a Calais, un porto così importante per la storia di quel paese, un grande campo, chiamato significativamente The Jungle, che - nonostante sia ufficialmente chiuso - è ancora una destinazione per troppe persone.
Quel ministro ha certamente l'autorità per "chiudere" un luogo fisico, una banchina dove dovrebbe attraccare una nave, come io ho il permesso di dire che questa decisione è sbagliata, tragicamente sbagliata, perché è immorale il divieto di attracco e quindi di sbarco di una nave dove si trovano 629 persone, tra cui bambini, donne in gravidanza, persone malate. Non credo che un sindaco abbia il potere di aprire quel luogo che il ministro ha chiuso, ma il tema non è il luogo fisico e chi ne abbia le chiavi.
Un ministro non può impedire un passaggio da una condizione a un'altra. L'uomo - o la donna - che decide di lasciare il proprio paese perché in quel luogo non ci sono più le condizioni politiche, economiche, sociali, per vivere, non è più un cittadino sottoposto alle leggi del suo paese, ma un esule, che quelle regole non può più - o non vuole più - rispettare, e che quindi deve essere sottoposto a nuovi doveri, ovviamente in cambio di nuovi diritti. L'uomo - o la donna - dal momento che è partito diventa qualcun altro, qualcuno a cui noi dobbiamo garantire precisi diritti, come ci insegnano già gli antichi. E hanno ancora più diritti quelli che nel linguaggio burocratico chiamiamo "minori non accompagnati", ma che poi sono bambine e bambini, le cui famiglie hanno una sola possibilità e devono scegliere: uno solo può fare quel viaggio, per uno solo ci sono i soldi, e viene scelto il più debole, quello che soffrirà di più, ma anche quello che potrà vivere di più. Anche qui c'è un passaggio, quel bambino - o quella bambina - diventa un orfano.
Naturalmente non tutti quelli che partono hanno questi diritti, alcuni non li hanno mai avuti - se non il diritto di essere salvati in caso di imminente pericolo - perché il loro obiettivo è lasciare un paese, dove magari stanno davvero male anche loro, ma per commettere dei reati, e con l'intento di non rispettare le leggi del paese in cui vogliono arrivare. Compito di un ministro sarebbe quello di organizzare un sistema di controlli rapido, efficiente e sicuro, attraverso cui separare il grano dal loglio. A parte che fare una cosa del genere è difficile, e richiederebbe tempo - tempo che immagino il ministro non abbia, visto che è sempre in giro a fare dichiarazioni - fare questo sarebbe controproducente per quel ministro, dal momento che il suo partito per ottenere voti ha bisogno che arrivino stranieri in maniera irregolare. Ma soprattutto quelli che votano per quel ministro hanno bisogno di stranieri senza diritti, altrimenti non saprebbero chi far lavorare nei loro campi o nelle loro fabbriche con paghe da fame o non saprebbero a chi affittare in nero le loro case. E allora qui assistiamo a un altro passaggio, quell'uomo - o quella donna - da esule che era, diventa uno sfruttato; e si tratta di un passaggio su cui il ministro e i suoi elettori chiudono volentieri un occhio.
Quando il ministro urlerà ancora che i nostri porti sono chiusi, noi dovremo rispondergli che ci sono cose che non può fare, ci sono passaggi su cui non può intervenire e che non può chiudere.
Ma il porto deve essere un luogo e un momento di passaggio non solo per quegli uomini e quelle donne che stanno arrivando, ma anche per noi, che apparentemente rimaniamo fermi qui. Abbiamo bisogno di riconoscerci come uomini e donne che passano attraverso dei porti: è il passaggio che facciamo, o che dovremmo fare, da spettatori inermi ad attori, da consumatori a cittadini, da schegge di una comunità chiusa ed egoista a gocce in una fratellanza solidale sempre più ampia. Dei porti si può avere paura, perché è più facile stare nella sicurezza delle proprie case, nelle certezze che ci siamo costruiti, mentre ogni passaggio ha in sé un rischio. Lo sanno bene quelle donne e quegli uomini che accettano ogni giorno per sé e per i propri figli un pericolo che paralizzerebbe tanti di noi. Per questo dobbiamo andare loro incontro, dobbiamo capirli, dobbiamo riconoscerli come fratelli: quei porti li dobbiamo aprire a loro, ma anche a noi.

lunedì 11 giugno 2018

Verba volant (532): zattera...

Zattera, sost. f.

Il 2 luglio 1816, al largo delle coste dell'attuale Mauritania, affondò la fregata francese Méduse; il responsabile di quel disastro fu il comandante Hughes Duroy de Chaumareys che, oltre a non navigare da oltre venticinque anni, non conosceva quelle acque; a causa della sua impreparazione e dei suoi errori la nave si incagliò sul fondale sabbioso e si squarciò. Duecentocinquanta persone si salvarono grazie alle scialuppe, ma i centocinquanta uomini della ciurma furono imbarcati su una zattera di fortuna, lunga 20 metri e larga 7. In un primo momento il capitano decise di trascinare la zattera, ma, visto che era troppo pesante, le cima che la legavano alle scialuppe furono lasciate andare e quegli uomini furono abbandonati al loro destino. Venti morirono già la prima notte. In quei tragici giorni gli uomini sulla zattera diedero il peggio di sé: gli ammutinamenti furono frequenti e causarono sempre dei morti, le risse erano continue, i tentativi di accaparrarsi le magre derrate che erano riusciti a portare con loro finirono per distruggere quel poco di cui avrebbero potuto nutrirsi, il nono giorno ci furono i primi casi di cannibalismo sui cadaveri e dopo qualche giorno i "sani" decisero che i "malati" sarebbero dovuti morire per permettere a loro di salvarsi. Il 17 luglio, quando quasi tutti erano ormai morti di fame o si erano gettati in mare per la disperazione, i superstiti vennero salvati dal battello Argus. Cinque morirono la notte seguente. Solo quindici uomini si salvarono e tornarono in Francia.
Meno di due anni dopo il giovane pittore Théodore Géricault dipinse un grande olio su tela intitolato La zattera della Medusa. Quell'opera, che oggi possiamo vedere al Louvre, è considerata il capolavoro di Géricault e segna l'inizio del romanticismo nella pittura francese. Il pittore avrebbe potuto scegliere tanti momenti, anche intensamente drammatici: il momento in cui le cime vennero gettate in acqua, i primi combattimenti sulla zattera, la decisione di gettare quelli che non ce l'avrebbero fatta e le cui carni non potevano essere mangiate. Oppure il momento del salvataggio. Descrive invece il momento in cui i pochi rimasti vedono in fondo all'orizzonte gli alberi di una nave. Nei diari di quelli che torneranno si racconta che quell'immagine lontana a un certo punto scomparve e quindi l'illusione che si era diffusa poco prima, svanì in maniera drammatica. Cosa dipinge Géricault? Il momento in cui gli uomini credono che la nave si stia avvicinando e in cui le loro mani sventolano dei luridi stracci come segnalazione? o quello successivo, in cui la vedono allontanarsi e quel movimento delle braccia è ormai inutile? Non lo sappiamo e ciascuno di noi può leggere in un modo diverso quell'immagine. Con angoscia o con speranza.
Mentre scrivo 629 persone sono ferme in una barca in mezzo al Mediterraneo, quella nave non corre il rischio di affondare come la zattera dipinta da Géricault, nessuno è ancora morto, anche se ogni ora le condizioni si fanno sempre più precarie, anche perché tra quei 629 tanti sono bambini, molte sono le donne che tra poco partoriranno, moltissimi sono deboli, stremati da un viaggio che è cominciato chissà dove e chissà quando. Non ci sarà un pittore che trasformerà in un capolavoro il dramma dell'Aquarius. Ma adesso sappiamo che quelle donne e quegli uomini sono lì e che ogni movimento può scatenare la loro gioia come ogni fermata può abbatterli e prostrarli. Quella nave deve raggiungere un porto. Chi usa quelle 629 persone per la propria battaglia, quand'anche fosse legittima, quand'anche fosse fondata - e in questo momento stanno sbagliando sia il governo italiano sia quelli degli altri paesi che negano la possibilità di attracco - è colpevole quanto chi ha sfruttato quelle donne e quegli uomini organizzando il viaggio che li ha portati fino a lì.
L'ho scritto altre volte, la questione non è decidere chi adesso aprirà per primo i propri porti, o lo farà domani, o dopodomani, perché domani ci sarà un'altra nave e dopodomani un'altra ancora. La questione è decidere un diverso modello di sviluppo. Adesso, sia come sia, quella zattera deve arrivare a terra. Ma una volta che quelle persone sono sbarcate non possiamo dimenticare i loro volti, dobbiamo fissarli come fissiamo il viso dolente dell'uomo nel quadro di Géricault, l'unico che non guarda la nave in lontananza e invece guarda noi, e quel suo sguardo ci dice che noi siamo con loro su quella zattera, ci dice che non possiamo illuderci di essere in salvo. E non sappiamo se quella nave là in fondo si sta avvicinando o sta sparendo per sempre.

sabato 9 giugno 2018

Verba volant (531): delatore...

Delatore, sost. m.

Nell'antica Grecia la giustizia fu sempre una questione che atteneva alla dimensione privata dei cittadini: esistevano naturalmente i tribunali, c'erano i giudici pagati dallo stato, ma non c'era la pubblica accusa. Nei tribunali si scontravano due cittadini, portatori dei loro interessi individuali. Peraltro non c'erano neppure avvocati, un cittadino doveva sempre rappresentarsi da solo; c'erano i logografi, ossia quelli che - naturalmente dietro compenso - scrivevano i discorsi che l'accusatore e l'imputato avrebbero poi dovuto pronunciare davanti ai giudici. Fu privato anche il più celebre processo politico di Atene, quello che nel 399 a.C. portò alla condanna a morte di Socrate. Anche se fu chiaramente originato dalla volontà del ricostruito regime democratico di sbarazzarsi una volta per tutte di quello che consideravano - peraltro non a torto - un loro nemico e un sostenitore - e invece questo non era vero - dei Trenta, fu necessario trovare alcuni "bravi" cittadini che denunciassero il filosofo e che sostenessero la causa contro di lui. E non è un caso che la parola sicofante, che al principio indicava soltanto la persona che di propria iniziativa denunciava le violazioni della legge da parte degli altri cittadini, cominciò a diventare sinonimo di delatore, di spia, perché ad Atene, come nelle altre città greche, c'erano persone che vivevano in questo modo, denunciando gli altri.
Leggendo con un po' di calma il discorso che il nuovo presidente del consiglio ha pronunciato in parlamento, ottenendo la fiducia, e ascoltando le dichiarazioni dei suoi garruli vice, ho pensato che a loro questo sistema piacerebbe parecchio, anzi che sia il sistema verso cui vorrebbero portarci. C'è in quel discorso molta enfasi sul tema della giustizia, anche perché certamente fare riforme in questo settore è meno costoso di quanto sia introdurre il reddito di cittadinanza o abolire la legge Fornero sulle pensioni. Visto che il governo non riuscirà in breve tempo a mantenere queste promesse, si cerca di costruire un sistema in cui i "cattivi" vengano puniti, partendo però dall'assunto che i "cattivi" sono sempre gli altri.
E infatti Conte ha detto che il loro obiettivo sarà "una giustizia rapida ed efficiente e dalla parte dei cittadini, con nuovi strumenti come la class action, l'equo indennizzo per le vittime di reati violenti, il potenziamento della legittima difesa.", una giustizia in cui l'enfasi è tutta rivolta al cittadino che subisce un torto e che può anche farsi giustizia da solo. E poi si parla di costruire nuove prigioni, di rendere più dure le pene, di rendere in sostanza lo stato meno amico.
E in un altro passaggio si dice che "saranno maggiormente tutelati coloro che dal proprio luogo di lavoro, sia esso pubblico o privato, denunceranno comportamenti criminosi compiuti all'interno dei propri uffici". Una legge in tal senso esiste già, è quella che tutela il whistleblower, come si chiama adesso, con il solito termine inglese, il sicofante. Visto che lo stato non può trovare chi commette reati - ci dice il governo - aiutateci voi.
Sappiamo bene però che la delazione, quando diventa sistema, è un potente strumento che sostiene i regimi totalitari; è stato così nei regimi fascisti - quanti "bravi" cittadini hanno denunciato, anche per proprio tornaconto, i loro vicini ebrei o gli oppositori - è stato così nei regimi dell'Europa dell'est: nella Repubblica popolare tedesca, la Stasi poteva contare su una "spia" ogni sessanta cittadini, alimentando un sistema che, attraverso questo clima di sospetto, faceva crescere la paura e quindi rafforzava il regime.
Quando il governo smantellerà i controlli sui commercianti, perché - come dice Di Maio - sono tutti onesti, chi si incaricherà di denunciare quelli che continueranno a evadere il fisco? Naturalmente i "bravi" cittadini. Ma chi ci assicura che un commerciante "onesto" non denunci un proprio concorrente, che, grazie alla qualità del suo lavoro, gli sta togliendo clienti?
Conte descrive un paese in cui pochi, forti dei loro privilegi, tengono sotto scacco una maggioranza di persone a cui sono negati i diritti più elementari. Lui - che non a caso si è definito "l'avvocato degli italiani" - e la sua maggioranza si presentano come i liberatori di questi molti, promettendo pene severe contro i pochi privilegiati. Le ingiustizie naturalmente ci sono in questo paese e anzi sono cresciute negli ultimi anni, anche per colpa di un partito come il pd che ha sistematicamente favorito le forze peggiori della società. Ma c'è anche un clima di odio, in cui il debole, non appena ha un po' di potere, si sfoga contro quello che è ancora più debole, il povero, quando ha un po' di soldi, si sfoga contro chi ha ancora meno di lui. E su questo clima di odio tra gli ultimi, sappiamo che cresce la Lega che individua il nemico non più in Roma ladrona - anche perché ormai Roma sono loro - ma contro gli immigrati, gli stranieri, gli altri. In un paese in cui stanno facendo crescere e diffondere l'odio, costruire una giustizia oppressiva e tutta incentrata sul privato dei cittadini è una miscela pericolosissima. Qualcuno sta consapevolmente giocando con il fuoco e con le tensioni più cupe della società. 

venerdì 8 giugno 2018

Verba volant (530): riconoscersi...

Riconoscersi, v. intr.

Sappiamo che nessuno sapeva suonare la lira come Orfeo: Apollo gli aveva donato quello strumento e le Muse gli avevano insegnato a usarlo. Sappiamo che la sua musica era in grado di ammansire le belve più feroci e che perfino gli oggetti inanimati si potevano muovere per seguire quelle note. Sappiamo che nessuno sapeva cantare come Orfeo, ma non sappiamo cosa cantasse e non lo sapremo mai: noi esseri umani dobbiamo accettare che ci sono tante cose che non conosceremo mai.
Orfeo amava, riamato, Euridice e quando la sua sposa morì, per il morso di un serpente, il poeta ebbe la forza - o l'incoscienza, direbbe qualcuno - di scendere negli inferi per chiedere che Euridice potesse tornare con lui, sulla terra. Ovidio racconta questa storia, facendoci assistere a una scena di stupita meraviglia: mentre Orfeo canta la sua supplica di fronte ad Ade e a Persefone, tutto si ferma: Tantalo smette di cercare di raccogliere l'acqua per placare la sua sete eterna, si ferma la ruota di Issione, perfino gli avvoltoi cessano di rodere il fegato di Tizio, e mentre le Furie si commuovono, Sisifo si siede sul suo macigno per ascoltare quell'inatteso concerto. Euridice può tornare sulla terra - Ade cede a quella supplica - ma Orfeo non può volgersi indietro durante il cammino, dovrà condurre fuori dagli inferi la sua sposa senza guardarla. E' buio tutt'intorno, il cammino è malcerto, ma Orfeo precede Euridice accompagnandola con il suo canto: non sappiamo neppure in questo caso cosa cantasse, immagino un canto di gioia. Ma Orfeo, quando sta quasi per raggiungere l'uscita degli inferi fa quello che non avrebbe dovuto fare: si volge indietro e Euridice sparisce sotto i suoi occhi, per tornare definitivamente nel regno dei morti.
Perché Orfeo si è voltato? è una domanda che ci tormenta ogni volta che sentiamo questa storia. Il poeta che era stato capace di fermare gli inferi, di ottenere la vita dal dio della morte, fa una cosa talmente stupida. Non può essere curiosità, come racconta qualcuno, e neppure timore di vedere come fosse diventata la sua amata dopo essere stata nel regno dei morti: il suo amore doveva essere più forte di così. Gesualdo Bufalino pensa che abbia fatto apposta, e nel suo racconto Euridice capisce che è così: a Orfeo importava solo dimostrare di essere il più grande dei poeti. Io credo invece che Orfeo volesse davvero avere ancora un po' di tempo per poter stare con Euridice, che volesse portarla davvero sulla terra, ma in quel momento si è trovato di fronte ai suoi limiti, l'uomo capace di far tutto con il proprio canto, ha pensato che forse non era riuscito a guidare la propria sposa, che non era stato capace di condurla fin lì. Orfeo, forse per la prima volta nella sua vita, si è trovato di fronte ai propri limiti umani e li ha riconosciuti. Orfeo era un mortale, ma anche figlio di una divinità, la musa Calliope, e quindi nipote di Zeus, Orfeo, come Achille, come tanti altri eroi del mito, sta in mezzo tra cielo e terra; ma c'è un momento in cui devi scegliere, o la vita sceglie per te. La storia di Orfeo ci racconta questo, che c'è sempre un momento in cui abbiamo paura di non farcela, di essere inadeguati, ma che questa è la condizione umana, e che dobbiamo accettarla, accentando i nostri limiti.
E se fosse stata Euridice stessa a chiedergli di girarsi? Amava a tal punto Orfeo da volergli mostrare i suoi limiti, da farlo diventare un uomo. Non sapremo mai cosa i due sposi si siano detti in quel breve tratto di cammino che hanno fatto insieme quel giorno, forse per una volta Orfeo ha smesso di cantare, e ha avuto la capacità di ascoltare Euridice che aveva capito che quel viaggio negli inferi era inutile, perché la morte è un destino a cui non possiamo sfuggire e che lei avrebbe continuato a vivere nei versi di Orfeo. In quel breve cammino Orfeo ed Euridice si sono amati come non si erano mai amati prima, si sono riconosciuti come due esseri umani in cammino.

mercoledì 6 giugno 2018

Verba volant (529): fantoccio...

Fantoccio, sost. m.

Signore e signori, buonanotte è un film del 1976 firmato da un collettivo di registi italiani dal forte intento satirico: viene raccontata una giornata televisiva, con telegiornali, sceneggiati, spettacoli di intrattenimento, quiz. Luigi Magni è l'autore di Il Santo Soglio, un immaginario sceneggiato ambientato nella Roma del Cinquecento. Il conclave non riesce a eleggere il nuovo papa, perché due potenti cardinali aspirano al soglio pontificio e le loro forze si equivalgono. Dal momento che nessuno dei due riesce a prevalere e il loro scontro rischia di minare la stessa chiesa (in una sola notte fanno uccidere ben diciotto cardinali, ma dato che sono nove di una fazione e nove di un'altra, l'equilibrio non cambia), decidono di far convergere tutti i loro voti su Felicetto de li Caprettari, un vecchio cardinale, che vive in povertà perché ha donato tutti i suoi beni, quasi un santo per l'epoca, ammalato da tempo, che sta per morire e che non si alza da letto da anni: il perfetto papa di transizione, troppo malato e troppo onesto per disturbare i loro traffici. Ma quando finalmente il cardinal de li Caprettari - un grandissimo Nino Manfredi - riceve la tiara pontificia, svela il suo inganno: per dieci anni si è finto moribondo proprio perché immaginava che alla fine lo avrebbero fatto papa, per continuare indisturbati i loro maneggi, sapendo che sarebbe stato innocuo e che sarebbe morto presto. E il primo atto del nuovo pontefice, che scopriamo non meno spietato dei suoi avversari, è quello di condannare a morte i due cardinali che lo hanno eletto. 
Ovviamente non mi aspetto che Giuseppe Conte faccia altrettanto: Matteo e Giggino possono dormire sonni tranquilli e soprattutto non rischiano di perdere la testa. Ma in un tempo come questo, in cui si può diventare leader senza averne le qualità, senza essere l'espressione di un blocco sociale, senza rappresentare una storia e un sistema di valori, Giuseppe Conte potrebbe essere scelto per sostituire i due dioscuri della coalizione giallo-verde. In fondo anche Di Maio è "nato" così, è diventato il leader di quel partito perché qualcuno ha cominciato a dire che lo sarebbe diventato, perché è stato ospitato in ogni possibile trasmissione televisiva e ogni volta veniva indicato come il futuro leader, e così, quando alla fine i militanti di quel partito sono stati chiamati a scegliere il loro "capo politico", hanno scelto quello che qualcun altro aveva già scelto, hanno ratificato una scelta fatta da altri. E più o meno analogo è il cursus honorum di Salvini, per quanto svolto all'interno di un partito più strutturato, ma anche in questo caso hanno cominciato a dire che sarebbe diventato il segretario della Lega e la profezia si è autoavverata.
Questa è la post-democrazia, baby. Quindi se decideranno che Conte sarà il prossimo leader, vedrete che non ci vorrà molto: più competente di Di Maio, più presentabile di Salvini, ieri Conte si è esibito in un lungo intervento democristianissimo, più di un'ora per non dire quasi nulla. Giuseppe Conte sarà un fantoccio? La domanda così è mal posta. La vera domanda è chi tiene i fili. E Salvini e Di Maio non sono certo burattinai, al massimo burattini. Se Conte è il fantoccio di qualcuno, non lo è certo di loro due.
Nel racconto cinematografico di Luigi Magni - peraltro attinto a episodi avvenuti nella storia non sempre gloriosa e commendevole di quella potente organizzazione - noi assistiamo senza riuscire a intervenire allo scontro tra poteri e non ci rimane che obbedire a quello che alla fine vincerà. Ora invece siamo parte attiva dello scontro, perché siamo continuamente "usati". Crediamo sia democrazia la tifoseria con cui esaltiamo il "nostro" campione o insultiamo quello degli "altri", pensiamo di contare, perché ci chiamano a ratificare le loro scelte, perché votiamo perfino. Certo votare è meglio che non votare, ma essere costretti a votare tra opzioni che altri costruiscono per noi e tra cui non ci sono davvero differenze significative è una libertà sempre più relativa. Temo che i fantocci siamo noi.

lunedì 4 giugno 2018

Verba volant (528): populista...

Populista, agg. m. e f.

Praticamente tutti i mezzi di informazione degli altri paesi definiscono "populista" il governo Salvini-Di Maio, nato in questi giorni dopo un lungo e apparentemente sofferto travaglio. Ma cosa significa esattamente questo aggettivo? come si traduce in politica? Come sapete, io sono ottusamente legato alla distinzione sinistra-destra, anzi la considero tanto più fondamentale proprio da quando hanno provato a dirmi che questa distinzione non esiste più e che occorre superarla. E infatti per me il governo Salvini-Di Maio è decisamente un governo di destra; e questo mi basta per considerarmi all'opposizione.
Ma cosa significa populista? vuol dire che i membri di questo governo fanno parte del popolo? Mi pare non sia questa l'accezione considerata. Negli stessi giorni in cui Lega e M5s tentavano di fare il governo, i giornali hanno scatenato una durissima polemica contro il presidente del consiglio incaricato perché aveva un po' gonfiato il proprio curriculum. Al di là di qualche esagerazione, il curriculum di Giuseppe Conte non è affatto quello di un uomo del popolo: è un professore universitario, che insegna anche in un ateneo privato, finanziato da Confindustria, è un uomo che negli anni ha accumulato incarichi e che ha coltivato relazioni, anche Oltretevere. Un altro esempio: il governo Salvini-Di Maio ha concretamente rischiato di non vedere la luce, perché i partiti che lo sostengono volevano come ministro Paolo Savona. E Savona è un uomo del popolo? Si tratta di un anziano ex professore universitario, che nella sua lunga vita ha avuto moltissimi incarichi pubblici, fino a diventare ministro in un governo, quello di Ciampi, che si caratterizzò per l'alta provenienza dei propri membri; e poi Savona ha seduto in tanti consigli di amministrazione, anche lui ha lavorato tanti anni per Confindustria. Curiosamente gli stessi giornali criticano i due leader di partito entrati al governo perché sono giovani dallo scarno curriculum: nessuno dei due è riuscito a completare l'università e nessuno dei due ha mai avuto un lavoro prima di cominciare a fare politica. Salvini e Di Maio sì che possono rappresentare, molto meglio di altri, le persone che ciascuno di noi frequentemente incontra e con cui abbiamo relazioni. Eppure non siamo contenti. Quante polemiche abbiamo fatto nella scorsa legislatura perché il ministro dell'istruzione non era laureata?
Non sarà che il problema è che molti di noi che scriviamo di politica, che ne proviamo a interpretare i cambiamenti e che abbiamo perfino la pretesa di indirizzarli, non siamo affatto populisti, perché abbiamo smesso da tempo di parlare con il popolo? Ho sempre considerato grevemente propagandista la polemica verso i politici che non sanno rispondere alla domanda su quanto costi un litro di latte - si può governare benissimo senza saperlo, così come si può essere ottimi ministri senza essere andati all'università - ma credo sia un problema grave se chi deve rappresentarci non sa quanto pesi sul bilancio di una famiglia la rata di un mutuo a tasso variabile o che calcoli debba fare una coppia prima di decidere se avere un figlio o cosa significhi trovarsi all'improvviso un genitore anziano da accudire. E forse noi siamo stati politici inadeguati - per usare un eufemismo - anche perché, forti delle nostre belle lauree incorniciate in salotto, garantiti da un lavoro, magari pubblico, con in banca un piccolo salvadanaio, abbiamo smesso di capire cosa stava avvenendo nella società. Tanto che ci siamo convinti che alle persone bastassero i diritti civili e che anzi questi fossero vissuti una conquista della sinistra, anche prima dei diritti sociali, che noi certamente avevano raggiunto, ma da cui tantissimi erano allora - e lo sono tanto più oggi - esclusi.
Nei prossimi cinque anni vorrei evitare che il dibattito fosse incentrato sugli orrendi calzini di Salvini o sulle incertezze grammaticali di Di Maio - che peraltro sono elementi che li rendono simpatici alle persone, che procurano loro molti voti - ma appunto sulla concreta condizione di vita del popolo, anche per non lasciare le persone in balia o dei fascisti o dell'"amico del popolo" del Foglio, che, non essendo costretto a bagni continui come Marat, può imperversare in qualsiasi salotto televisivo, o del nostro Savonarola napoletano, che ci promette la salvezza se acquisteremo i suoi libri.
E se anche noi a sinistra cominciassimo a essere populisti? Intendiamoci bene, diventare populista per chi si considera comunista - o anche solo di sinistra - non significa dire quello che la maggioranza delle persone vogliono sentirsi dire. E' quello che ha fatto Berlusconi, è quello che ha fatto renzi, è quello che abbiamo fatto anche noi in tanti momenti tragici della recente cronaca politica. Le persone non vogliono pagare le tasse e allora diciamo che abbasseremo le tasse, e le abbiamo effettivamente abbassate quando eravamo al governo; le persone dicono che vogliono più sicurezza e noi diciamo che metteremo in galera i clandestini, e quando abbiamo governato abbiamo creato delle prigioni solo per loro, e potrei andare avanti a lungo. In questi venticinque anni noi abbiamo sistematicamente fatto quello che voleva la maggioranza dei nostri concittadini, anche quando era sbagliato, soprattutto quando era sbagliato, ma lo abbiamo con affettato snobismo, usando parole difficili, senza mai farci capire. Salvini e Di Maio, nel loro scorretto italiano, che è lo stesso che parlano i nostri concittadini, fanno le stesse cose che abbiamo fatto noi, andandoci giù più pesante, e si fanno capire.
A noi fa schifo andare al McDonald's come fa Salvini, preferiamo gli hamburger cucinati con prodotti a chilometro zero, accompagnati da birra artigianale, ma intanto le persone ruttano insieme a Salvini, dopo aver bevuto un bicchiere enorme di Coca e una maxi porzione di patate fritte.
E se provassimo a dire in maniera semplice - magari non ruttando, ma facendoci davvero capire - che le tasse bisogna pagarle, anche quella sulla casa dove abitiamo, che le persone che vengono da altri paesi stanno peggio di noi, perfino peggio di quelli che mangiano da McDonald's e così via, sconfessando tutto quello che abbiamo detto in questi venticinque anni, non dicendo alle persone quello che vogliono sentirsi dire, ma quello che pensiamo sia il modo per uscire da questa crisi. Dobbiamo dire le nostre idee, se le abbiamo.
Non è in antitesi essere comunista ed essere populista - o popolare, se proprio questo aggettivo non vi piace. Finora è stato così. E infatti siamo morti.