In questi giorni chi - come me - ha
nutrito e nutre grandi speranze per quel movimento di popoli che ci
siamo abituati a chiamare "primavera araba", guarda con
estrema ansia a quello che succede in Siria e in Egitto. Sappiamo che
i governi occidentali - per timore delle conseguenze, ma soprattutto
per non spendere altro denaro in questi tempi di crisi - non
interverranno militarmente contro il regime di Assad, come hanno
fatto in Libia contro Gheddafi, ma la Lega araba e soprattutto la
Turchia - che si sta ritagliando un ruolo sempre più definito come
arbitro del difficile scacchiere mediorientale – hanno detto
chiaramente che il regime deve passare la mano e faranno sentire
tutto il loro peso economico e militare. Nel paese intanto si
combatte una violentissima guerra civile, di cui abbiamo scarse
informazioni. Credo che alla fine anche Assad cadrà, ma allo stato
attuale è impossibile intuire quale sarà l'esito di questa nuova
rivolta araba. L'unica costante che finora abbiamo potuto registrare
è quella che non ci sono costanti e in ogni paese la rivolta ha
avuto un andamento e soprattutto uno sbocco diverso l'uno dall'altro.
In Egitto i militari tentano di non cedere il potere, ma l’onda
rivoluzionaria partita all’inizio di quest’anno non è più
disponibile ad accettare una normalizzazione imposta dall'alto;
anche qui si combatte e purtroppo ogni giorno dobbiamo contare i
morti di questa nuova fase della rivoluzione.
Le vicende di questi ultimi giorni, che
ho sintetizzato in maniera davvero troppo sommaria nel precedente
paragrafo, mi spingono a riflettere ancora una volta su quanto sia
paradossale la situazione in cui viviamo. Gli egiziani sono scesi in
piazza perché vogliono votare, i siriani vogliono votare, gli
yemeniti – ora che finalmente il presidente Saleh ha accettato di "abdicare" – vogliono votare, i tunisini sono andati in massa a
votare per eleggere il nuovo parlamento, dopo la rivolta che ha
costretto Ben Ali alle dimissioni. Questo succede dall'altra parte
del mondo - anche se a pochissimi chilometri dal nostro paese -
invece nel "nostro" mondo la situazione è completamente
diversa. Gli indignados spagnoli - che sono stati i primi europei a
scendere in piazza in maniera così forte e organizzata - pur al di
fuori di ogni tipo di organizzazione politica e sindacale
tradizionale - hanno platealmente e pubblicamente ignorato i
dibattiti della campagna elettorale, dando un giudizio egualmente
negativo sui due maggiori partiti iberici, e in parte hanno disertato
le urne. Gli statunitensi che hanno voluto manifestare la loro rabbia
verso un mondo che considerano profondamente ingiusto non hanno
marciato davanti alla Casa Bianca o al Congresso – come avevano
fatto invece negli anni Sessanta e Settanta – ma nel cuore di Wall
street, facendo capire, anche attraverso questa chiarissima scelta
simbolica, che il vero potere non è nelle mani dei politici di
Washington, ma in quelle, molto più rapaci, dei banchieri, degli
speculatori, dei grandi uomini d’affari. In Italia credo ci sia una
sinistra minoritaria - di cui io mi sento parte - che avverte il
disagio di non sapere cosa votare alle prossime elezioni politiche e
che forse non voterà, perché non riesce a riconoscersi nei valori,
prima ancora che nelle scelte, della principale forza politica del
centrosinistra.
Per i popoli dell'Africa
settentrionale e del Medio Oriente la democrazia è l'obiettivo
verso cui tendere; dopo decenni di regimi autoritari sono giustamente
convinti che con questo sistema potranno far rispettare le loro
scelte politiche, le loro libertà e i loro diritti. Noi "vecchi
sinistri", che guardiamo con interesse – e con passione - a
questo movimento, pensiamo – forse con qualche ingenuità, dettata
dall’entusiasmo – che insieme alla democrazia arriverà
finalmente per gli arabi anche la modernità, almeno come la
intendiamo noi, che non siamo mai guariti del tutto dall'idea delle
"magnifiche sorti e progressive". Al contrario per i popoli
delle civilissime e antiche democrazie occidentali - ma su questo
punto dopo voglio fare una digressione - è sempre meno chiaro chi abbia
davvero il potere; ci sentiamo sempre meno rappresentati dalle
persone che abbiamo votato e siamo sempre meno disposti a riconoscere
deleghe. Dagli indignados spagnoli ai giovani di tanti paesi europei
che sono scesi in piazza, passando per gli irriducibili di Zuccotti
park, molti cittadini hanno la sensazione - spesso fondata - che le
loro opinioni non abbiano valore. Il governo greco è caduto perché
il primo ministro aveva proposto di fare un referendum tra i
cittadini e questo è stato considerato uno sproposito dalle autorità
finanziarie internazionali, che peraltro nessuno ha mai eletto. In
Italia abbiamo un governo imposto da queste stesse autorità
internazionali, il cui programma deve basarsi su una traccia scritta
da due persone, Draghi e Trichet, che nessuno di noi ha mai votato.
Sembra ormai prevalente l'opinione che in tempi di crisi le regole
della democrazia possano essere sospese, con i cittadini che
rimangono a guardare quello che viene deciso in altre sedi.
Giustamente ai nuovi governi che
nascono dalle rivolte nei paesi arabi chiediamo di trovare meccanismi
istituzionali e politici per bilanciare il rapporto tra stato e
autorità religiose. Uno stato teocratico, qualunque sia la religione
su cui si basa, non difende l'uguaglianza dei cittadini davanti alla
legge e quindi la religione islamica non deve imporre i suoi dogmi e
le sue leggi a istituzioni democraticamente elette, che devono essere
libere di esprimere la volontà della maggioranza, anche quando
questa va contro i dettami imposti dalla religione. Quando lo scià è
stato costretto ad abdicare i democratici di tutto il mondo hanno
esultato per la fine di una dittatura molto dura, ma la festa è
durata troppo poco, dal momento che da quella sacrosanta rivolta è
nato un regime, il cui apparato repressivo non ha nulla da invidiare
a quello precedente. Siamo tutti d'accordo sull'idea che i cittadini
dei paesi musulmani dovrebbero liberarsi delle dittature, laiche o
religiose che siano, e che l'unico sbocco possibile, dopo la fine di
questi regimi, debba essere la nascita di un sistema democratico. Ma
questa affermazione da sola non basta, dobbiamo farci delle domande
sulla democrazia e sui suoi obiettivi. Per far questo però bisogna prima
compiere un atto di umiltà, guardando al passato, anche recente, dei
nostri paesi. Tanti "soloni" europei spiegano ai "poveri"
arabi cosa sia la democrazia, dimenticando che nella civilissima
Europa, nell'Europa occidentale - quella "buona", quella
dalla parte "giusta" del Muro di Berlino - ci sono state
due dittature fasciste fino alla metà degli anni Settanta; quando io
sono nato - non troppi anni fa - in Spagna c'era Franco e in Grecia
c'erano i Colonnelli. E non parliamo di quello che succedeva di "là",
visto che le dittature comuniste sono crollate nell'89.
La democrazia non si accende con un
interruttore - non c'è il tasto on/off come sui computer - la
democrazia è un processo, che può richiedere molti anni.
Francamente trovo un po' buffo che un italiano consideri scandaloso e preoccupante che
in Tunisia abbia vinto le elezioni un partito islamista moderato,
come Ennahda, dimenticando che nel 1948 in questo paese ha vinto le
elezioni, le prime dopo una dittatura durata vent'anni e dopo una
durissima guerra civile, un partito cattolico moderato, sostenuto in
maniera determinante dalla chiesa cattolica, un partito peraltro che ha saputo,
con saggezza, traghettare una parte consistente dei cittadini che
avevavo sostenuto il vecchio regime nelle nuove istituzioni
democratiche. Era l'Italia delle donne che andavano in chiesa con il
velo sulla testa, che aveva nel proprio ordinamento il "delitto
d'onore", e ancora negli anni successivi l'Italia in cui
facevano scandalo le gambe delle Kessler alla televisione. Adesso non c'è più
quell'Italia, fortunatamente - e anche per merito di una parte di
quei cattolici moderati - ma ci abbiamo messo alcuni decenni. Un
discorso analogo può essere fatto per gli Stati Uniti. Adesso quel
grande paese è governato da un Presidente dalla pelle nera, ma nel
1957 - poco più di cinquant'anni fa - un altro Presidente,
Eisenhower, fu costretto a mandare l'esercito federale a Little Rock
per scortare nove bambini afroamericani in una scuola che, secondo il
governatore dell'Arkansas doveva essere riservata soltanto ai
bianchi.
Fatta questa riflessione preventiva sul
modo in cui noi siamo arrivati alla democrazia, dobbiamo anche
chiederci, visto il momento di crisi in cui ora ci troviamo, se sia
giusto che i paesi arabi debbano seguire le orme dell’occidente.
Negli Stati Uniti e in Europa molte persone pensano di aver perso una
parte dei propri diritti, di godere di minori libertà, di essere
giorno dopo giorno emarginate dai processi decisionali. La crisi
economica ha messo in luce il senso di impotenza dei cittadini, che
si vedono costretti a pagare debiti che non hanno contratto. Chi
manifesta oggi negli Stati Uniti e in Europa lamenta prima di tutto
il fatto che la capacità di prendere le decisioni è in mano a
persone che non sono state elette e che non sono tenute a rispettare
le regole democratiche.
Certo né negli Stati Uniti né in
Europa la religione impone le sue leggi allo stato - anche se tenta
di farlo; chi rappresenta le chiese agisce come una lobby tra le
altre ed è più o meno efficace, a seconda del paese. In Italia ad
esempio le gerarchie cattoliche sono una lobby influente e potente,
ma nulla di più. Invece le istituzioni economiche, le grandi banche,
le corporation impongono le loro decisioni agli stati, come vediamo
ogni giorno, in cui processo che non né democratico né trasparente.
Temo che in questo momento le nostre democrazie, così deboli, non
possano essere un buon modello per quei popoli che cercano di uscire
da dittature che - non dobbiamo mai dimenticare - noi, i nostri governi, abbiamo
alimentato e sostenuto. Forse, cambiando finalmente l'ottica
eurocentrica con cui siamo abituati a leggere il mondo, potrebbero
essere quei paesi a essere modelli per noi. Dobbiamo imparare a
guardare oltre i nostri angusti confini e tornare davvero a pensare
in un'ottica internazionale - magari immaginando movimenti civili
internazionali - anche perché il benessere del "nostro" mondo non può
più basarsi sullo sfruttamento del "loro" mondo, come è avvenuto fino
ad ora. O cresciamo insieme o insieme siamo destinati a soccombere
sotto le forze della globalizzazione e del capitalismo di rapina che
ha già tanto potere.