martedì 22 novembre 2011

da "Quaderni del carcere" (XIII) di Antonio Gramsci

Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il "numero sia in esso legge suprema" e che "le opinioni di qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato esattamente quanto quello di chi allo Stato e alla nazione dedichi le sue migliori forze", ecc. Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia "legge suprema", né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia "esattamente" uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie, ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia "esattamente" uguale. Le idee e le opinioni non "nascono" spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica di attualità. La numerazione dei "voti" è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che "dedicano allo Stato e alla nazione le loro migliori forze" (quando sono tali). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi "nazionali" che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro. "Disgraziatamente" ognuno è portato a confondere il proprio "particulare" con l’interesse nazionale e quindi a trovare "orribile", ecc., che sia la "legge del numero" a decidere: è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi "ha molto" intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo "qualunque" anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.
Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come "funzionari" dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al selfgovernment. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè un’avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento "volontarietà" nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere.

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