sabato 5 maggio 2018

da "Il Manifesto del partito comunista" di Karl Marx e Friedrich Engels

I comunisti non costituiscono un partito a sé di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi propri, distinti da quelli del proletariato nel suo insieme. Non stabiliscono dei principi a parte, sui quali vogliono poi modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che essi, da un lato, date le differenti lotte nazionali dei proletari, mettono in rilievo e fanno valere i comuni interessi del proletariato nel suo insieme, interessi che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e dall’altro lato, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia attraversa, essi rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo. 
I comunisti sono dunque, in pratica, la parte più decisa, e che più spinge innanzi, di tutti i partiti operai di tutti i paesi; essi si avvantaggiano poi dal punto di vista teorico sulla rimanente massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario. 
L’intento immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovina del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. Gli enunciati teorici dei comunisti non poggiano affatto sopra idee o principi escogitati o scoperti da questo o quell’altro fra i rinnovatori del mondo. Quegli enunciati sono soltanto l’espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classe che realmente esiste, ossia di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. 
L’abolizione dei rapporti di proprietà finora esistiti non è la nota veramente caratteristica del comunismo. Tutti i rapporti di proprietà sono sempre andati soggetti a storiche vicende e ad una continua trasformazione. La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale a favore della proprietà borghese. Ciò che caratterizza il comunismo non è l’abolizione della proprietà in genere, ma è l’abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella forma di produzione e di appropriazione che poggia sugli antagonismi di classe e sullo sfruttamento degli uni ad opera degli altri. 
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata. È stato rimproverato a noi comunisti di voler abolire la proprietà personalmente acquisita attraverso il penoso lavoro: quella proprietà che si dice costituisca il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e dell’indipendenza dell’individuo. Proprietà acquistata col penoso lavoro, e individualmente meritata! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese, o del piccolo possidente contadino, anteriore alla proprietà borghese? Quella non abbiamo bisogno di abolirla; perché lo sviluppo dell’industria l’ha già tolta di mezzo, o è sulla via di distruggerla. O parlate voi, invece, della moderna proprietà privata borghese? Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea forse proprietà per il proletario stesso? In nessun modo. Quel lavoro salariato non genera che capitale, ossia genera la proprietà che sfrutta il lavoro salariato stesso e che può accrescersi solo a patto di generare nuovo lavoro salariato da sfruttare nuovamente. 
La proprietà, nella sua forma presente, si muove entro l’opposizione fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di tale antinomia. Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare una semplice posizione privata, ma occupare una posizione sociale all’interno del sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo grazie all’attività concorrente di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, solo per mezzo dell’attività combinata di tutti i membri della società stessa. Il capitale non è una potenza personale: è una potenza sociale. Se il capitale, dunque, viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, non avviene con questo che una proprietà personale si trasformi in una proprietà sociale. È solo il carattere sociale della proprietà che si cambia. Essa perde il carattere di proprietà di classe. 
Veniamo al lavoro salariato. Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari per mantenere in vita l’operaio in quanto è operaio. Ciò, dunque, di cui si appropria l’operaio salariato, mediante la sua attività, basta solo a mantenere e a riprodurre la sua magra esistenza. Questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro, che è indispensabile alla conservazione e riproduzione della vita, noi non vogliamo affatto abolirla; essa non porta alcun profitto netto che dia potere sul lavoro altrui. 
Noi vogliamo soltanto abolire il tristo e misero modo di questa appropriazione, per cui l’operaio vive solo per aumentare il capitale e quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante. Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il modo di esistenza dei lavoratori. Nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente sarà signore del passato. Nella società borghese il capitale è personale ed indipendente mentre l’individuo operante è privo d’indipendenza e di personalità. 
Ora l’abolizione di tale stato di cose viene definita dalla borghesia abolizione della personalità e della libertà. E a ragione. Prima si tratta certamente di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese. Per libertà, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, s’intende ora il libero commercio, e la libera compravendita. Scomparso il commercio, scompare anche la libertà del commercio. Le frasi risonanti del libero trafficare e mercanteggiare, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno in genere un qualche senso solo rispetto - e in contrapposizione - al traffico ed alla cittadinanza del Medioevo, entrambi vincolati, ma non ne hanno nessuno rispetto all’abolizione comunista del commercio, delle forme borghesi di produzione e della borghesia stessa. 
Voi raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei suoi membri: e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove decimi. Voi dunque ci rimproverate che noi vogliamo abolire una forma di proprietà che presuppone come sua indispensabile condizione il privare il gran numero dei membri della società di ogni proprietà. 
Voi ci rimproverate, insomma, di voler abolire la vostra proprietà. Senza dubbio, e certamente, noi vogliamo questo. Dal momento in cui il lavoro non si presti più ad essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, ossia, a farla breve, non si presti più ad essere trasformato in una forza sociale monopolizzabile, cioè dal momento in cui la proprietà personale non può esser più trasformata in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che la persona rimane soppressa. Voi, dunque, confessate che sotto il nome di persona non sia da intendere se non il borghese, ossia il proprietario borghese. E questa persona deve essere, non c’è dubbio, soppressa. 
Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie solo la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire il lavoro altrui. È stato obiettato che, abolita la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività e nel mondo si diffonderebbe una generale inerzia. Se questo ragionamento reggesse, la società borghese già da un pezzo avrebbe dovuto andare in rovina per effetto dell’indolenza, poiché quelli che in essa lavorano non guadagnano, e quelli che in essa guadagnano non lavorano. Tutta la grave obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro salariato là dove non c’è più il capitale. Tutte le obiezioni che sono state rivolte alla forma comunistica di produzione e appropriazione dei prodotti materiali, sono state estese anche alla produzione e appropriazione dei prodotti intellettuali. 
Quello stesso borghese che ritiene che, eliminando la proprietà di classe, cessi la produzione, afferma allo stesso tempo che, eliminando la cultura di classe, muoia la cultura nel suo insieme. La cultura, di cui si rimpiange la perdita, non è altro per la maggior parte degli uomini che l’avviamento a diventare delle macchine belle e buone. Ma non discutete con noi applicando i vostri criteri borghesi di libertà, cultura, diritto e così via all’abolizione della proprietà borghese. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di proprietà e di produzione, come il vostro diritto è il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe. 
Questa concezione interessata, che vi fa elevare al grado di leggi eterne della natura e della ragione i vostri rapporti di proprietà e di produzione, che in verità sono nati storicamente nel corso della produzione stessa, voi la condividete con tutte le classi dominanti che sono scomparse. Ciò che voi intendete ed ammettete per proprietà antica, ciò che voi riconoscete per proprietà feudale, non siete più in grado d’intenderlo e di riconoscerlo quando si tratti della proprietà borghese! 
Ma voler abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali si indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti. Su che cosa si fonda l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Essa esiste nel suo pieno sviluppo solo per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella mancanza forzata della vita di famiglia presso i proletari, e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di tale complemento ed entrambe spariranno con lo sparire del capitale. 
Voi ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri. Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami perché all’educazione domestica sostituiamo quella sociale. Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società e cioè dalle condizioni sociali all’interno delle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventano l’azione della società sull’educazione: essi ne mutano soltanto il carattere, sottraendo l’educazione all’influsso della classe dominante. Le dichiarazioni borghesi sulla famiglia, sull’educazione e sui dolci legami che uniscono i figli ai genitori diventano sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si perdono del tutto tra i proletari, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in strumenti di lavoro. 
Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne. II borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Ora, nel sentire che gli strumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può fare a meno di pensare che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce affatto che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di uno strumento di produzione. Del resto non c’è nulla di così grottesco quanto l’orrore da moralisti raffinati col quale i nostri borghesi guardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti un carattere ufficiale. I comunisti non hanno assolutamente bisogno di introdurre la comunione delle donne, perché questa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari - per non parlare della prostituzione ufficiale - hanno come divertimento principale quello della reciproca seduzione delle loro consorti. II matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle donne. Tutt’al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, una ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto che, aboliti gli attuali rapporti di produzione, sparirebbe allo stesso tempo la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, quindi la prostituzione ufficiale e la non ufficiale. 
I comunisti vengono inoltre accusati di voler distruggere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma come il proletariato d’ogni paese deve innanzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e costituirsi in nazione, così esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso del tutto diverso da quello della borghesia. 
Le separazioni e gli antagonismi dei popoli vanno via via sparendo con lo sviluppo della borghesia, la libertà del commercio, l’azione del mercato mondiale, l’uniformità della produzione industriale e le condizioni di esistenza che da essa derivano. Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletari dei paesi civili, è una delle prime condizioni dell’emancipazione del proletariato. Nella misura in cui verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione ad opera di un’altra. Caduto il contrasto delle classi all’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse. 
Le accuse contro il comunismo, che partono da considerazioni religiose, filosofiche o ideologiche, non meritano d’essere discusse più accuratamente. Occorre forse una grande profondità di mente per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e il modo d’essere della società, cambiano anche le visioni, le nozioni e le concezioni, il che significa che muta anche la coscienza degli uomini ? Che cos’altro mai dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma quando la produzione materiale si rivoluziona? 
Le idee dominanti in una determinata epoca sono le idee della classe dominante. Si sente parlare di idee che rivoluzionano un’intera società. Ebbene con ciò si dice semplicemente che in seno alla società preesistente si sono già sviluppati gli elementi di una società nuova, e che la dissoluzione degli antichi rapporti di vita va di pari passo con la dissoluzione delle antiche idee. Quando il mondo antico stava per tramontare, le antiche religioni furono tutte vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo diciottesimo alle idee cristiane si oppose la corrente dei lumi, la società feudale sosteneva l’estrema lotta contro la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di libertà religiosa servirono a proclamare il principio della libera concorrenza nel campo del sapere. «Ma - si dirà - non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si modificano nel corso degli svolgimenti storici; eppure la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si sono sempre mantenuti attraverso tutti questi mutamenti. Ci sono inoltre delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc. che sono comuni a tutte le forme sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne: abolisce la religione e la morale anziché rinnovarle, e così facendo contraddice tutto lo svolgimento storico verificatosi fin qui.» A che cosa si riduce questa accusa? Tutta la storia della società si è mossa fin qui attraverso i contrasti delle classi che hanno assunto nelle diverse epoche forme diverse. Ma qualunque sia stata la forma assunta da tali contrasti, lo sfruttamento di una parte della società ad opera di un’altra è il fatto costante dei secoli passati. Non bisogna perciò meravigliarsi se in tutti questi secoli, malgrado le diversità e le variazioni mostrate, la coscienza sociale si sia mossa sempre secondo certe forme comuni, forme che si dissolveranno solo con la completa scomparsa dell’antagonismo delle classi. 
La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con tutti i tradizionali rapporti di proprietà; non bisogna quindi meravigliarsi se nel corso del suo sviluppo essa rompa nel modo più radicale con le idee tradizionali. Ma lasciamo ora da parte le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo visto sopra che la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato si elevi a classe dominante, ossia nel raggiungere vittoriosamente la democrazia. 
Il proletariato si servirà del suo dominio politico per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato tutti gli strumenti della produzione, ossia nelle mani del proletariato organizzato come classe dominante, e per aumentare con la massima velocità possibile le forze produttive. Naturalmente tutto ciò non può accadere se non attraverso misure dispotiche contro il diritto di proprietà e violazioni dei rapporti borghesi di produzione, ossia con misure che appariranno economicamente insufficienti e insostenibili, che nel corso del movimento supereranno se stesse verso nuove misure, ma che nel frattempo sono i mezzi indispensabili per rivoluzionare l’intero modo di produzione. 
Com’è ovvio, tali misure saranno diverse da paese a paese. Ma per i paesi più progrediti, potranno essere generalmente applicate le misure che qui di seguito indichiamo: 
1. Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello stato.
2. Imposta fortemente progressiva. 
3. Abolizione del diritto di eredità. 
4. Confisca dei beni degli emigrati e dei ribelli. 
5. Accentramento del credito nelle mani dello stato attraverso una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo. 
6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello stato. 
7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano generale. 
8. Uguale obbligo di lavoro per tutti, organizzazione di eserciti industriali specialmente per l’agricoltura. 
9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e dell’industria e misure atte a preparare la progressiva eliminazione della differenza fra città e campagna. 
10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale.
Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite e tutti i mezzi di produzione saranno concentrati nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perso ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Ora, se il proletariato nella lotta contro la borghesia è spinto a costituirsi in classe, e se attraverso la rivoluzione diventa classe dominante, distruggendo violentemente gli antichi rapporti di produzione, in questo modo esso, abolendo tali rapporti, abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe. Al posto della società borghese, con le sue classi ed i suoi antagonismi di classe, subentrerà un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.

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