domenica 29 dicembre 2013

Verba volant (40): prorogare...

Prorogare, v. tr.

Questo è uno dei verbi più squisitamente italiani, una parola che racconta meglio di altre il nostro paese.
Come al solito, partiamo dall'etimologia. Il verbo latino, da cui deriva senza modifiche quello italiano, è composto dal prefisso pro e dal verbo rogare, che significa interrogare. Secondo l'autorevole dottrina di Ottorino Pianigiani, anticamente il suo significato era
interpellare il popolo unito in assemblea se doveva ad alcuno essere differita qualche incombenza.
Ben presto "lor signori" hanno smesso di chiedere il parere del popolo unito in assemblea e hanno cominciato, con sempre maggiore frequenza, a prolungare oltre il termine stabilito quello che a loro conveniva.
Dalla fine del 2005 sentiamo parlare di decreto Milleproroghe, un’invenzione tutta italiana, l’espressione più autentica e geniale del made in Italy. In quell’inverno del nostro scontento era presidente del consiglio Silvio Berlusconie il governo ritenne necessario intervenire urgentemente per prorogare al 2008 la “completa conversione del sistema televisivo su frequenze terrestri dalla tecnica analogica alla tecnica digitale“.
Per non dar adito alle solite polemiche dei comunisti, che allora dicevano che Berlusconi si occupava unicamente dei propri interessi televisivi, il governo aggiunse un bel po’ di altre proroghe - anche se non proprio mille - visto che evidentemente non aveva avuto il tempo di occuparsi di altri temi parimenti importanti, come l’obbligo di dotare i camion e i rimorchi delle strisce retroreflettenti, la cui introduzione fu posticipata di un anno, e il rinnovo del consiglio dell’Istituto storico del Risorgimento, i cui membri, nominati dal secondo governo Salandra, furono parimenti prorogati.
L’idea fu talmente geniale da spingere tutti i successivi governi - Prodi, ancora Berlusconi, infine Monti - a chiudere ogni anno la propria attività amministrativa, proprio negli ultimi giorni di dicembre, con un decreto Milleproroghe, per sistemare tutte le cose urgenti non fatte nel corso dell’anno.
E anche Letta non ha voluto essere da meno e ha varato il suo bel Milleproroghe, il primo di una lunga serie, temo.
La cosa curiosa è che con il passare degli anni e dei governi questo decreto è diventato sempre più corposo, finendo per diventare una sorta di piccola finanziaria. Il Milleproroghe è diventato la coperta di Linus dei presidenti del consiglio, la rete di protezione dei governi.
Con quanta maggior tranquillità i nostri ministri hanno potuto - e possono - svolgere il loro ingrato e gravoso compito, sapendo che comunque, a fine dicembre ci sarebbe stato il Milleproroghe. E l’oscuro deputato poteva - e può - sempre sperare che la leggina per finanziare la sagra del suo paese sarebbe finita nelle pieghe del Milleproroghe. E l‘intrallazzatore - così si chiamano in Italia i lobbisti - è tranquillo, tanto sa che c’è il Milleproroghe, che nessuno legge e in cui può infilare di tutto.
E’ come se il 30 dicembre il presidente del consiglio in carica - chiunque sia - in carica urlasse: pace libera tutti. Appena in tempo per andare a casa a mangiare lelenticchie, che portano tanta fortuna.

p.s.
Ho scoperto solo adesso che tra le mille proroghe previste dal governo c’è il "completamento dell’attività del commissario per interventi infrastrutturali nelle zone colpite dal terremoto del 1980".

sabato 28 dicembre 2013

"Ai fratelli Cervi, alla loro Italia" di Salvatore Quasimodo


In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d'uomini e d'alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d'antiche meditazioni.

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d'amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.

Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell'isola lontana. E il ramo d'ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte, e ridono, i nemici
familiari,. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d'amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e lacrime.
Nel mio cuore e finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa terra è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.

Verba volant (39): retribuzione...

Retribuzione, sost. f.

Ho deciso di definire questa parola, invece di salario o di stipendio, che pure sono molto più interessanti dal punto di vista etimologico, perché retribuzione è la parola che i Costituenti hanno scelto, quando - negli articoli 36 e 37 - hanno parlato dei diritti dei lavoratori. Questa parola insomma, a differenza degli altri due più utilizzati sinonimi, ha dignità costituzionale.
Vista la generale dimenticanza in cui versa la nostra Costituzione, credo sia utile citare il primo comma dell’art. 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Vediamo invece cosa succede veramente nel nostro paese.
Il Comune di Brescia, per rispondere alle richieste delle scuole del suo territorio di avere fondi per assumere nuovi insegnanti di sostegno, in particolare per aiutare gli studenti stranieri, ha deciso di creare un albo di pensionati disponibili a lavorare gratuitamente.
Alcuni mesi fa il governo, la Regione Lombardia e il Comune di Milano hanno firmato un protocollo per la gestione di Expo 2015, in particolare sull’assunzione e sull’impiego del personale. In questo documento è scritto che, a fronte delle 640 persone assunte a tempo determinato, lavoreranno 18.500 volontari con un turn over di circa 500 ogni due settimane, per almeno 5 ore di lavoro al giorno. I volontari avranno la funzione di “supporto al visitatore in coda in caso di bisogno” e potranno essere utilizzati come guide all’interno dei padiglioni. In pratica ogni 29 persone impiegate, 28 lavoreranno gratis.
Peraltro tra i pochissimi che saranno retribuiti il contratto prevalente - almeno fino al 60% degli assunti - sarà quello di stage o tirocinio, che prevede un salario mensile di 516 euro, oltre al buono pasto di 5,29 euro. Non stupisce quindi che Confindustria chieda in queste settimane l’estensione del “modello Expo” anche in altri settori e non stupisce neppure che dicano la stessa cosa quelli abituati a seguire sempre e comunque l’onda neoliberista, come il “blairiano al lampredotto” Renzi.
Giovannini, se possibile, ha fatto peggio della Fornero; e non ha neppure pianto.
Nel blog LaboratorioPoliticaBologna, in un articolo di cui condivido tutto - soprattutto l‘incazzatura finale - Filippo Manvuller ha già denunciato lo scandalo dei 500 posti di lavoro che il ministero dei beni culturali assegnerà ad altrettanti giovani - a cui è richiesta una laurea con un punteggio di almeno 110 - per inventariare e digitalizzare il patrimonio culturale italiano: la retribuzione prevista, per un lavoro di 35 ore settimanali, è di 416 euro al mese, lordi.
Lavorare senza ricevere una retribuzione o con una retribuzione non proporzionale al lavoro fatto è anticostituzionale e quindi chi ci costringe a farlo - tanto più se è lo stato - è in una condizione illegale, prima ancora che politicamente criticabile.
Ovviamente poi ciascuno di noi, nel suo tempo libero, può fare del volontariato, ossia può lavorare gratis et amore Dei; c’è chi svolge un’opera meritoria e socialmente utile, come chi guida le ambulanze, e c’è chi fa un lavoro socialmente inutile - ma almeno non dannoso - come scrivere le voci di un dizionario. L’importante è che non siamo obbligati a farlo.
Per troppe persone in questo paese il volontariato è diventato una forma di contratto di lavoro. E dobbiamo pure ringraziare “lor signori” che non ci chiedono dei soldi per farci lavorare.

venerdì 27 dicembre 2013

Verba volant (38): panettone...

Panettone, sost. m.

Immagino che in questi giorni avrete mangiato almeno una fetta di panettone.
Questo dolce, di tradizione lombarda, è diventato in breve uno dei simboli italiani del Natale, anzi il segnale che questa festa sta per arrivare. Immediatamente dopo i Santi - o meglio dopo Halloween - sugli scaffali dei supermercati compaiono i primi panettoni: ecco quello è il segno inequivoco che dobbiamo prepararci alle feste. E di panettoni - che, grazie alle offerte 3x2, ci accompagneranno fino all'inizio di febbraio - ne troviamo di tutti i tipi, di tutte le misure e di tutti i gusti.
L’etimologia di questa parola è molto incerta. Sicuramente c’è la radice di pane, ma per il resto è difficile dire come sia nata questa parola. A Bologna il tipico dolce natalizio si chiama, come noto, certosino. Celebre è quello del Bar Billi al Meloncello (non siamo parenti). Ma la tradizione del contado chiama un dolce molto simile panone; almeno nella casa dei miei genitori e dei miei nonni si chiamava così. Probabilmente panettone è ugualmente una forma di accrescitivo dialettale, che si è infine italianizzato.
Abbastanza nota è la leggenda secondo la quale questo dolce sarebbe nato alla corte di Ludovico il Moro. Era stato organizzato un grande banchetto, ma per un incidente del capocuoco tutti i dolci andarono perduti, con disappunto del duca, che in questo modo avrebbe fatto una brutta figura con i suoi ospiti. Nella brigata del distratto capocuoco c’era un giovane garzone, tal Toni, che, fattosi coraggio, disse di poter fare un dolce con gli ingredienti rimasti in cucina: il “pan di Toni” fece un tale successo tra gli ospiti del duca, che da allora il dolce porterebbe ancora il nome di quel brillante garzone. Ai tempi di Ludovico il Moro c’era probabilmente più mobilità sociale di quanta ce ne sia adesso. Se solo uno dei collaboratori a progetto che lavorano con un grande chef, di quelli che scrivono sui giornali e vanno di continuo in televisione, osasse fare una proposta del genere sarebbe immediatamente licenziato.
Però bisogna arrivarci a mangiare il panettone. E non tutti ci riescono. Vediamo un po’ chi ce l’ha fatta quest’anno.
Grazie al gol di Diamanti di domenica 22 contro il Genoa, mister Pioli ha mangiato il panettone, nonostante i presagi fossero assolutamente sfavorevoli. Ora aspettiamo di vedere cosa succederà nelle prossime domeniche, anche perché la colomba rimane in bilico.
Anche il sindaco Merola ha mangiato il suo panettone, lasciando con grande generosità un po’ di uvetta a Lepore; per essere certo di gustarlo al meglio ha chiesto aiuto al collega di Firenze. Così come hanno fatto altri amici del Pd, che - grazie ad un improvvida conversione al renzismo - si sono assicurati la loro fetta, più o meno grande, di dolce. Soltanto Draghetti sta mangiando la sua ultima fetta, ma francamente non dovrebbe lamentarsi.
Anche Vasco Errani è riuscito inaspettatamente a mangiare il panettone; grazie al sacrificio di Monari, che invece salta un giro.
Sono parecchio lontano dalla mia ex-città e forse rischio di sbagliare, ma mi pare che quelli che lo hanno mangiato fino ad ora continuino tranquillamente a farlo, nella rassicurante continuità bolognese. Meglio non cambiare troppo sotto i portici.
Come noto, il giovane Letta si è vantato di aver mangiato il panettone. Si è trattato di una caduta di stile: il panettone si mangia in silenzio. Purtroppo lo mangerà ancora a Palazzo Chigi, sicuramente nel 2014 e molto probabilmente nel 2015, anche perché il suo capo - un altro che non pensava quest’anno di mangiare il panettone al Quirinale e che invece lo gusterà lì ancora per sei anni - non vuole assolutamente cambiare governo né tanto meno ci vuol far votare. Anche il padrone di Dudù, nonostante tutto, il suo panettone, riccamente farcito, è riuscito a mangiarlo. E Renzi inopinatamente quest’anno riesce a far festa con il suo panettoncino.
E’ lo stesso di quello che succede a Bologna: chi l’ha mangiato l’anno scorso continuerà a farlo.
E il popolo? Stanno già preparando le brioches.

p.s.
mi auguro naturalmente che Verba volant il panettone anche nel 2014…

giovedì 26 dicembre 2013

Verba volant (37): riposare...

Riposare, v. tr. e intr.

Questo è un verbo che ha un significato se usato come transitivo e ne ha un altro quando è intransitivo. A me interessa questo secondo uso; i colleghi della Treccani dicono che riposare significa:
cessare, smettere momentaneamente un’attività, e quindi sostare, prendere tregua per sollievo e ristoro fisico e psichico.
Il fatto di essere sufficientemente vecchio - io, a differenza dei miei amici più giovani, ricordo quando la scuola cominciava il 1° ottobre, sempre e in tutta Italia - e di aver passato l'infanzia e l'adolescenza in un piccolo paese del contado bolognese mi permette di rievocare un uso comune alle nostre famiglie.
Il sabato, quando si andava dal fornaio, si acquistava la "doppia", ossia il pane per il sabato e per la domenica. Perché la domenica i forni, così come tutti gli altri negozi, erano rigorosamente chiusi. Oggi la domenica il pane fresco lo trovi regolarmente: nei supermercati, nei locali "ibridi" bar-forno-pasticceria-pizzeria, sempre più presenti nelle nostre città e naturalmente dai fornai, che possono sostanzialmente aprire quando vogliono, grazie alla liberalizzazione degli orari e delle aperture.
Da consumatore naturalmente riconosco che poter andare a far spesa a qualsiasi ora e in qualunque giorno dell’anno è una grande comodità e ammetto che mi capita spesso di andare a comprare il pane - e non solo - la domenica, ma non riesco a considerare questa libertà un elemento di progresso. Mi rendo conto che quando faccio un discorso del genere rischio di apparire un vecchio barbogio, un laudator temporis acti, eppure credo che dovremmo riflettere su uno stile di vita che ci ha sostanzialmente negato il riposo e lo ha sostituito con il consumo. Tanto che i centri commerciali sono diventati uno dei luoghi del tempo libero delle famiglie.
Alla fine del 2009 la Corte costituzionale tedesca accolse il ricorso presentato dalle chiese cattolica ed evangelica contro la decisione di prevedere l’apertura dei negozi a Berlino durante le quattro domeniche di avvento, affermando che l’apertura domenicale è una violazione della Costituzione. I giudici avevano argomentato la loro decisione spiegando che la domenica deve essere considerata giornata del riposo dal lavoro, non solo per motivi religiosi, ma anche per permettere il recupero fisico e spirituale dei lavoratori e la loro partecipazione alla vita sociale.
Non so cosa sia successo effettivamente in questi anni nella capitale tedesca - magari qualche lettore di Verba volant me lo potrà dire - ma temo che sia stato trovato il modo di eludere questa sentenza, magari in nome della necessità di combattere la crisi, favorendo i consumi.
Sono convinto che le aperture domenicali non facciano aumentare i consumi, che rimangono più o meno gli stessi, venendo semplicemente spalmati su sette invece che su sei giorni. Le aperture domenicali tendono a favorire i grandi centri commerciali rispetto alla piccola e media distribuzione, ossia a favorire chi è è già più forte. Non aumentano i consumi delle famiglie e di conseguenza non aumenta l’occupazione - come invece sostengono le grandi catene - e in più i lavoratori e le lavoratrici sono costretti a turni massacranti.
Molti di loro da metà novembre fino alla Befana lavorano tutti i giorni festivi, escluso i giorni di Natale e Capodanno, e questo sicuramente non aiuta l’equilibrio di una famiglia. E alcuni centri commerciali sono già aperti anche il 25 dicembre. Nel nostro paese le liberalizzazioni si sono trasformate in una forma di federalismo commerciale esasperato, in cui ogni Comune decide per conto proprio, e quindi liberalizzazione è diventato sinonimo di deregolamentazione.
Nell’ultima novella della raccolta Marcovaldo o le stagioni in città, intitolata I figli di Babbo Natale, Italo Calvino scrive:
Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri.
Era il 1963. I grandi scrittori sanno essere profetici. Credo dovremmo cominciare a ripensare a questo nostro stile di vita e a questa idea di sviluppo, magari dando proprio maggior valore al nostro riposo.

mercoledì 25 dicembre 2013

Verba volant (36): strenna...

Strenna, sost. f.

Partiamo dall'etimologia, che in questo caso è particolarmente interessante.
I Romani chiamavano strena il regalo di buon augurio che i clientes portavano al loro patronus - e in seguito i cittadini all'imperatore - in occasione delle solennità, specialmente nelle calende di gennaio. La parola è molto antica, di origine sabina. Si racconta che il primo dell'anno i Sabini regalarono al loro re Tazio alcuni ramoscelli recisi nel bosco sacro dedicato a Strenua, dea della forza - da cui l'aggettivo strenuo e l'avverbio strenuamente. Il regalo gli fu così gradito che lo volle ad ogni inizio d'anno; e quindi la tradizione passò a Roma, quando Tazio divenne re della città insieme a Romolo, dopo il ratto delle Sabine.
Strenna è quindi il regalo di fine anno, di buon augurio. L’agenda, ogni anno sempre più sottile, che ci regala la banca e il calendario di cui ci fa omaggio il macellaio rientrano a pieno titolo in questa categoria. Banche e macellai ci augurano lunga vita e prospera fortuna, affinché possiamo continuare a essere loro clienti.
Con il passare dei secoli, non si è perso neppure l’uso di fare un regalo al proprio patronus.
Poco più di un anno fa è balzato agli onori delle cronache un tal Franco Fiorito, pingue discendente di quei Sabini che contribuirono a fondare l’Urbe.
Immaginate il via vai di clientes che nelle passate festività – prima che il nostro eroe cadesse in disgrazia – si sono recati nella sua bella casa di Anagni, recando strenne di ogni genere. In prima fila c’erano i suoi fornitori di generi alimentari: un cliente del genere, con un tale appetito, facevano bene a tenerselo caro e sperare che potesse continuare ad avere uno stipendio adeguato alla sua atavica fame. Poi c’erano quelli che, grazie a lui, erano stati assunti in qualche azienda pubblica e quelli che da lui erano stati raccomandati per qualche prebenda. Seguivano quelli che lui aveva aiutato, nella sua magnanimità, a trovare un posto all’ospedale o a cui ha reso meno lunga l’attesa per una tac. E poi c’erano quelli a cui ha permesso di costruire, saltando complicate pastoie burocratiche, dei condomini ad Anagni e anche quelli che in quelle case sono andati ad abitare. E naturalmente c’erano quegli imprenditori che hanno potuto costruire i loro nuovi capannoni in aree vincolate, senza sottostare ai pareri delle varie autorità di controllo, e gli operai che lavoravano in quelle fabbriche. Se poi aggiungiamo tutti i familiari avrete chiaro il movimento di clientes, che probabilmente in queste festività hanno già portato la loro strenna ad un nuovo patronus.
Certe tradizioni, come vedete, sono dure a morire.
A proposito, auguri…

lunedì 23 dicembre 2013

Verba volant (35): azzardo...

Azzardo, sost. m.

Per questa definizione voglio partire, ancora una volta, dall'etimologia. Questa parola deriva dall'arabo az-zahr, che significa dado. Sono molte le parole della nostra lingua che vengono da lì: come noto le lingue non conoscono razzismi e le parole varcano bellamente i confini costruiti dai governi. Sempre dalla stessa radice nell'italiano antico troviamo anche la parola zara, per indicare un gioco con i dadi, molto diffuso durante il medioevo in tutti i paesi dell'Europa.
Di questo gioco ci parla Dante, all’inizio del VI canto del Purgatorio:
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Dante usa questa immagine, evidentemente consueta a lui e ai suoi lettori, per descrivere le anime che gli si fanno intorno, lo strattonano, cercano di attirare la sua attenzione. In tanti stanno intorno al vincitore - questo lo sappiamo bene anche noi - mentre attorno a chi perde si fa il vuoto. Probabilmente oggi, con gli stessi toni vividi e con la stessa incisività, Dante racconterebbe le donne anziane che rimangono attaccate alle slot nei bar di periferia, sperperando tutti i loro magri risparmi.
In questi giorni capita di leggere molti commenti sul gioco d’azzardo. Probabilmente governo e parlamento rimedieranno davvero a quello che è stato eufemisticamente definito “errore” dal presidente del consiglio e non saranno penalizzati quei Comuni che aumenteranno la tassazione per le sale gioco. Comunque ormai l’errore è stato fatto ed è significativo.
Naturalmente chi scrive ha firmato la sua brava petizione online contro l’emendamento, ha detto e scritto - dove poteva e come poteva - che si tratta di una cosa orribile, ma con altrettanta franchezza devo dirvi che, a questo punto, si tratta ormai di una battaglia perduta. I buoi sono irrimediabilmente scappati e il bovaro, ben lungi dal voler chiudere le porte della stalla, si gode la sua tangente.
In Italia storicamente è lo stato il gestore del gioco d’azzardo, il re prima e poi la repubblica: casinò, lotto, lotterie, totocalcio rientravano sotto la diretta giurisdizione del ministero delle finanze. A un certo punto, alla fine degli anni Ottanta - quando cominciò la sbornia delle privatizzazioni - lo stato si è ritagliato il ruolo - ben più remunerativo - di socio, lasciando la gestione vera e propria ai privati. Come noto si tratta di un mercato molto lucroso, che garantisce ricchi guadagni sia ai gestori che allo stato.
E’ altrettanto noto che in questo ricco traffico la criminalità organizzata ha assunto un ruolo sempre maggiore; e così, più o meno consapevolmente, in questo modo lo stato è diventato socio della criminalità organizzata, alla faccia di ogni sbandierato impegno antimafia. Ecco dove e quando si è avviata - e fiorisce tutt’oggi - la vera trattativa stato-mafia.
Ormai il gioco d’azzardo regge una parte significativa del bilancio statale, paga il nostro welfare. Diventa inutile sottolineare ancora una volta che il gioco d’azzardo crea dipendenza, al pari delle droghe, del fumo e dell’alcol; conosciamo già troppe storie, finite tragicamente, di persone rovinate per il gioco e purtroppo spesso ciascuno di noi conosce persone, e le loro famiglie, che hanno sofferto per questo vizio. Naturalmente ogni persona risponde per se stessa e deve essere consapevole delle proprie scelte e delle loro conseguenze, ma quanto ormai è pervasivo il messaggio che ci fa credere che il gioco possa cambiare in meglio la nostra vita, mentre è sempre il banco che vince e il banco adesso è in mano allo stato e alla mafia, solidamente intrecciati.
Forse neppure Dante troverebbe le parole giuste per indignarsi.

sabato 21 dicembre 2013

Verba volant (34): permesso...

Permesso, sost. m.

La buona educazione è una cosa importante e infatti le nostre mamme ci hanno insegnato che quando si sta per entrare in un posto bisogna sempre dire "con permesso". Oggettivamente c'è una discreta ipocrisia in questa forma di galateo: in genere lo diciamo quando già stiamo entrando, in modo da non dare il tempo a chi sta dentro di negarci questa licenza.
In sostanza facciamo finta che ci venga dato un permesso che effettivamente non chiediamo e che con tutta probabilità ci verrebbe negato, se quello potesse davvero dire quello che pensa. Comunque sia, grazie a questo piccolo espediente, ci è consentito di entrare in una casa, in un ufficio, in una bottega, sperando di essere i benvenuti.
Fin qui ho esaminato il permesso per entrare, vediamo ora come funziona l’uscita.
In genere non abbiamo bisogno di una particolare concessione per uscire, anzi il malcapitato che ci ospita il più delle volte è ben lieto di lasciarci andare per la nostra strada. Naturalmente buona creanza vuole che salutiamo sempre, quando usciamo.
In alcuni casi invece è necessaria una speciale licenza per poter uscire da un determinato posto. Se non siamo artigiani o lavoratori in proprio genericamente intesi - o meglio, se non siamo finti lavoratori a progetto, finte partita Iva e così via - per uscire prima dal lavoro abbiamo bisogno del permesso del nostro capo, spesso scritto e firmato. A volte tale permesso ci vien fatto penare; tanto più se siamo finti lavoratori autonomi.
Per essere dimessi dall’ospedale abbiamo bisogno del permesso del medico; questo in genere non è difficile da avere, anzi, vista la cronica carenza di posti letto e la necessità di risparmiare sulla spesa sanitaria, è più che probabile che il permesso ci venga dato anche prima del tempo.
Anche per uscire dal carcere è necessario un permesso. In queste settimane abbiamo saputo che in alcuni casi è più facile averlo; ad esempio aiuta avere il numero telefonico del ministro della giustizia e aver precedentemente assunto il figlio dello stesso ministro oppure serve essere un pluriomicida con una certa propensione alle evasioni. Si tratta oggettivamente di cose non proprio facilissime, non alla portata di tutti. Quindi fa bene Berlusconi a non voler entrare in galera: così non deve porsi il problema di come uscirne.

postilla seria
Il fatto che da almeno vent’anni il principale protagonista della politica italiana sia un delinquente, plurindagato e alla fine condannato con sentenza passata in giudicato, non ha contribuito a ragionare con serenità sul funzionamento della giustizia.
La riforma della giustizia è stata usata da parte del plurindagato e dei suoi accoliti come un’arma contro i magistrati che lo stavano indagando e di conseguenza non appena in questi vent’anni qualcuno ha osato criticare il lavoro dei magistrati, anche legittimamente, è stato immediatamente additato come sostenitore del Caimano. Così, visto che il tema è rimasto compresso tra le due opposte partigianerie, non se n’è mai parlato seriamente.
Adesso è ora di uscire da questa morsa.

giovedì 19 dicembre 2013

Verba volant (33): articolo...

Articolo, sost. m.

Questa è una di quelle parole che impegna molto noi lessicografi - anche quelli da strapazzo come me - perché ha molti significati. Come gran parte delle parole italiane, anche questa deriva dal latino e precisamente da articŭlus, che è a sua volta diminutivo di artus: in sostanza il significato etimologico di questa parola è "piccolo arto", "piccolo membro". E vedrete che anche questa definizione ci servirà.
C'è prima di tutto il significato grammaticale: l'articolo è la parte variabile del discorso che si premette al sostantivo - o a parti del discorso sostantivate - precisando se si tratta di un essere od oggetto individuato (e quindi si chiama articolo determinativo) o di un essere o oggetto non individuato (e in questo caso si chiama articolo indeterminativo).
Poi c’è il significato giornalistico: come tutti sapete c’è l’articolo di un giornale, di una rivista, di un blog. Gli amici Antonella e Filippo - i “direttorissimi” di Laboratorio politica Bologna, ossia coloro che mi obbligano a questo sforzo quasi quotidiano di Verba volant - per vivere scrivono articoli. Ed è una vita grama. Per estensione si possono chiamare così anche le singole voci - o lemmi - di un’opera enciclopedica o di un dizionario. Insomma, a suo modo, anche quello che state leggendo è un articolo. (ma siccome qui nessuno guadagna un euro, non siamo testata giornalistica registrata, non prendiamo contributi pubblici, non è un articolo ma un post, signor Magistrato del lavoro, Ndr A.C.)
Poi c’è un significato commerciale: articolo è sinonimo di mercanzia. Questa è una parola spesso usata dai televenditori, dagli imbonitori da fiera; avrete certamente sentito anche voi queste espressioni, dette solitamente con fare ammiccante: Signora, interessa l’articolo? oppure E’ un articolo eccezionale o ancora Affrettatevi, sono gli ultimi articoli.
A proposito di imbonitori da fiera - e anche di “piccoli membri”, vedete come l’etimologia torna sempre - chissà perché mi è venuto in mente il già sindaco di Firenze, quel tale Matteo Renzi che, a furor di popolo, è diventato da pochi giorni il segretario di un sedicente partito di centrosinistra. Il Renzi - non è un errore: quando il cognome è solo, l’articolo lo può precedere nel linguaggio burocratico e per citare personaggi recenti o di media notorietà, come nel nostro caso – il Renzi dicevo è un abile bottegaio, ha affinato la sua arte nel mercato di san Lorenzo, accanto a quelli che vendono le Torri di Pisa che diventano celesti o rosa, a seconda della pressione atmosferica. Poi la parlata fiorentina è simpatica, dà fiducia.
E infatti il nostro, appena diventato segretario - insomma quando ha ampliato la bottega - ha subito messo in vendita un articolo. Questo articolo è da un po’ di tempo che l’ha in magazzino: Matteo avrebbe già voluto liberarsene, ma finora gli è sempre rimasto sul groppone, invenduto. Ora potrebbe farcela, anche perché - il Renzi conosce tutte le astuzie del commercio - ha assunto alcune commesse giovani e carine. Fate un salto in un centro commerciale: avete mai visto dietro il banco di uno dei negozi più glamour la Fornero? Naturalmente no. E il Renzi l’ha capito.
Infatti oggi abbiamo saputo che ha messo in vendita l’articolo 18. E così arriviamo a un altro significato della nostra parola, quello legale. L’articolo è una delle suddivisioni - la più piccola tra quelle numerate nel testo, secondo l’uso italiano - in cui è distinta una legge. L’art. 18 è una cosa piccola, che non serve più - egli dice - anche se non c’è cosa vuoi che succeda, spiega il Renzi, mentre si pulisce le mani sulla parannanza.
Il sospetto che sia una fregatura a noi è venuto, anche perché abbiamo visto l’entusiasmo della Confindustria, della banche, di quelli della trojka, alla proposta di Renzi e di questi non ci fidiamo. E poi, tra i più fidati consiglieri del già sindaco, ci sono quelli che dell’abolizione dell’articolo 18 hanno fatto un articolo di fede. E anche questi non ci stanno simpatici. Se proprio non serve a nulla perché vi affannate a toglierlo? E proprio adesso in articulo mortis?

mercoledì 18 dicembre 2013

Verba volant (32): penultimo...

Penultimo, agg.

Probabilmente qualcuno di voi ricorda una vecchia barzelletta, che risale addirittura ai tempi della Guerra fredda. Kennedy e Krusciov decidono di incontrarsi per avviare il dialogo tra le due superpotenze; il summit va bene, i due si prendono in simpatia, si mettono a scherzare e il segretario del Pcus sfida il presidente americano a una gara di corsa. Kennedy non vorrebbe accettare, perché - data la differenza d'età - l'esito è scontato, ma Krusciov insiste. Come previsto, vince Kennedy e l'indomani la Pravda titola: "Krusciov secondo, Kennedy penultimo".
Il concetto di penultimo può essere relativo, sarà per questo che dei penultimi ci siamo sempre poco occupati. La sinistra ha cercato di difendere gli ultimi, a volte riuscendoci, a volte no - adesso ha smesso del tutto, per evitare brutte figure e preferisce occuparsi dei primi, al massimo dei secondi. Anche la chiesa cattolica predica di occuparsi degli ultimi, anche se - come noto - c'è chi predica bene e razzola male. Raramente l'attenzione cade sui penultimi, eppure sono moltissimi, anzi sono la maggioranza.
Io ho una pessima opinione dei capi del cosiddetto movimento dei forconi: nel migliore dei casi si tratta di personaggi in cerca di notorietà (con questi è facile trattare, basta garantire loro una certa quantità di ospitate televisive), ma nella maggioranza dei casi ho l’impressione si tratti di venduti a chi vuol far crescere in Italia l’allarme sociale. E infatti, non a caso, nelle file di questo pseudo movimento spontaneo ci sono molti ultras - ossia persone normalmente abituate a menar le mani al soldo dei presidenti delle squadre di calcio - che hanno messo la loro “professionalità” a disposizione di interessi ancora più torbidi. Ci sono quelli di Casa Pound e compagnia cantante, altra gente che da sempre pare essere sul mercato per le cose peggiori ed è disposta a tutto; come ben sappiamo, in questo paese, da piazza Fontana in poi, qualcuno che paga per certi servizi c’è sempre. Ci sono però in mezzo a loro - sono minoranza, sono loro i veri infiltrati - anche delle persone oneste, che non ce la fanno più. Questi non sono gli ultimi, ma sono appunto i penultimi, quelli di cui non si occupa nessuno.
Ricorderete certamente cosa è successo un paio di estati fa a Rosarno: i raid contro gli immigrati, le violenze di strada, i ferimenti che solo la buona sorte non ha trasformato in omicidi. Al di là delle infiltrazioni mafiose, che ci furono e in maniera pervasiva, lì si era combattuta una guerra non tra bianchi e neri, non tra italiani e africani, ma tra ultimi e penultimi. In quei giorni gli organi di informazione parlarono a lungo - anche perché d’estate non sanno mai cosa scrivere - delle drammatiche condizioni di vita degli stranieri, costretti a vivere in case fatiscenti, senza acqua ed elettricità, sfruttati dai caporali, sottopagati dai proprietari degli agrumeti, guardati con sospetto dagli altri cittadini: ecco questi immigrati sono un esempio molto chiaro di chi siano gli ultimi, a loro deve andare tutta la nostra solidarietà, ma vera, fatta di gesti concreti e non solo di parole. In quei giorni però non si è parlato abbastanza dell’altra Rosarno, la Rosarno dei penultimi, che registra alti livelli di disoccupazione e alti tassi di abbandono scolastico, che condivide con altre realtà della Calabria - e purtroppo di tutto il Mezzogiorno - un livello di crescita molto inferiore a quello delle regioni settentrionali; la Rosarno il cui Consiglio comunale è regolarmente sciolto per infiltrazioni della malavita organizzata, dove il potere reale è nella mani delle famiglie della ‘ndrangheta e dove lo stato è assente o è percepito come un nemico; la Rosarno che abbiamo visto nelle immagini dei telegiornali, fatta di brutte case, probabilmente abusive, dove l’agricoltura vive solo grazie ai sussidi dell’Unione europea. Senza risolvere i problemi della Rosarno dei penultimi, è impossibile neppure cominciare ad affrontare quelli della Rosarno degli ultimi.
E un discorso analogo si potrebbe fare per Prato, dove ci sono due città che non si parlano: la città degli ultimi, nascosta, che lavora giorno e notte, e vive notte e giorno in quegli stessi capannoni in cui lavora; e la città dei penultimi, degli artigiani che falliscono, perché non possono competere con i cinesi.
L’Italia è come Rosarno, è come Prato, e lo sarà sempre più - basta vedere cosa sta succedendo in Grecia - visto che a quella condizione ci vuole portare questo governo, per svendere ai loro ricchi amici quel poco di patrimonio che ancora ci rimane. Per essere come la Grecia abbiamo già un governo imbelle, di fatto commissariato dalle autorità finanziarie internazionali, un partito di centrosinistra corruttibile e piegato sui valori del liberismo, una privatizzazione strisciante dei beni pubblici; ci mancavano soltanto i fascisti nelle strade: adesso li abbiamo anche noi.
L’Italia è come Rosarno e come Prato e se ne vedono i segnali e le manifestazioni di queste giorni, con il loro carico di rabbia, di rancore, ci raccontano questo. Sono manifestazioni senza allegria e senza speranza, ed è la cosa che spaventa di più. Quando le risorse diminuiranno ancora - e sarà inevitabile - la lotta per accaparrarsi quel poco sarà ancora più violenta e non ci sarà solidarietà di classe, perché ultimi e penultimi continueranno a guardarsi con sospetto, anche perché non vengono più da diverse parti d’Italia, ma vengono da diverse parti del mondo e gli ultimi non parlano neppure italiano. Una volta avremmo usato le categorie di proletari e sottoproletari, ma pare non sia più di moda, anzi proprio quando l’economia è diventata l’elemento centrale delle nostre vite - molto più della politica - è venuta a mancare quell’idea di divisione in classi della società che serve a spiegarne le dinamiche. Allora usiamo altri aggettivi per provare a capire il mondo.
La sinistra ufficiale - quella che governa e quella che vuole governare, quella della coppia Letta-Renzi, per intenderci - ha deciso che non vuole occuparsi né di ultimi né di penultimi. Agli ultimi ci penserà la carità di papa Francesco, pensano questi due bravi scout cattolici; ai penultimi ci può pensare la polizia del servo sciocco Alfano, quando esagerano con le manifestazioni. Per il resto sono impegnati a garantire altri ceti e altri interessi. Devo dire che anche il sindacato - ovviamente quello ancora rimasto, e non i partitini di Bonanni e Angeletti - fa fatica a capire i penultimi e oscilla tra la difesa dei diritti degli ultimi e la tutela delle garanzie dei terzultimi - come siamo noi dipendenti pubblici.
Il problema è che queste distinzioni diventano sempre più sottili e, se non avremo la forza di cambiare, siamo destinati a raggiungere tutti l’ultima posizione.

domenica 15 dicembre 2013

Verba volant (31): opuscolo...

Opuscolo, sost. m.

Per scrivere la definizione di questa parola deve venirmi in soccorso lo studio dell'etimologia. Il termine opuscolo deriva dal latino opuscŭlum, che è il diminutivo di opus, operis; letteralmente quindi opuscolo significa piccola opera.
Immagino che ci abbia pensato il sindaco Merola, che è uomo avvezzo al latinorum, quando ha deciso - sempre insieme ai suoi valenti collaboratori, come il giovane Matteo Lepore, anch'egli esperto di belle lettere - di preparare per questa fine d'anno un'agile pubblicazione per presentare il rendiconto di metà mandato. Poche sono state le cose fatte, piccole sono state le opere, quindi è bastevole appunto un opuscolo.
Non capisco davvero le critiche dei soliti detrattori: se il sindaco Merola avesse fatto scrivere un libro - magari in diversi volumi - un opus magnum insomma, per raccontare cosa non ha fatto in questi due anni e mezzo, allora sì questi polemisti da strapazzo avrebbero fatto bene a sottolineare l’incongruità della spesa di 76mila euro. Invece il sindaco riconosce la sua modestia, anzi la esalta, e si accinge appunto a pubblicare un opuscolo, un’opera di poche pagine.
Semmai potrebbe stupire i malpensanti il fatto che Merola e i meroliani per finanziare questa piccola opera abbiano deciso di attingere la somma dal fondo di riserva. Con tutte le scadenze a cui deve pensare un sindaco, peraltro impegnato in queste settimane in un complicato esercizio acrobatico di salto della corrente (con avvitamento), poteva forse ricordarsi che proprio in queste settimane sarebbe arrivato il fausto anniversario della metà mandato? Forse non ha voluto accantonare la somma nei mesi scorsi per una certa scaramanzia: “e se poi non ci arrivo a metà mandato?” ha pensato il prudentissimo sindaco di Bologna.
Si narra nei corridoi di Palazzo d’Accursio che Flavio Delbono avesse già stanziato i fondi per il suo rendiconto di fine mandato e mal gliene incolse, come tutti ben sapete. Merola ha preferito non ripetere l’errore del suo predecessore e ha deciso di togliere un po’ di soldi dai fondi solitamente destinati per l’emergenza neve, anche perché il fido Lepore ha consultato certi portolani che dicono che a Bologna non nevica mai.
Alle malelingue ricordiamo infine che in ogni caso l’assessore Ronchi ha già immaginato un uso alternativo degli opuscoli comunali, che i fidi postini consegneranno nelle buchette dei cittadini. Quest’anno l’assessore non chiederà a un artista di disegnare il vecchione che brucierà in piazza Maggiore, ma saranno gli stessi bolognesi a contribuire a questa innovativa e artistica installazione, portando da casa il proprio opuscolo che sarà bruciato nel rogo benaugurante e apotropaico di fine d’anno.

Verba volant (30): marcia...

Marcia, sost. f.

La marcia è uno sport, che richiede grande resistenza e allenamenti intensi e costanti. Il marciatore deve compiere un gesto atletico apparentemente innaturale per 20 o 50 chilometri, mantenendo un'alta velocità; per questo motivo richiede - forse più di altre discipline sportive - un grande sforzo durante gli allenamenti, tanto che per gli atleti di alto livello si prevedono carichi di alcune centinaia di chilometri alla settimana.
L'Italia ha una tradizione importante in questo sport: il piacentino Giuseppe Dordoni vinse nei 50 km alle olimpiadi di Helsinki del '52, mentre Abdon Pamich, nato a Fiume, vinse l'edizione del '64 a Tokyo, dopo essere arrivato terzo a Roma. Negli anni Ottanta c'è stato il grande Maurizio Damilano, piemontese, oro a Mosca e bronzo a Los Angeles e Seoul nella 20km. Recentemente c'è stata anche la delusione di Alex Schwazer, oro a Pechino, ma in seguito squalificato per una brutta storia di doping.
Quando è scoppiato il caso scrissi anche una “considerazione libera” sul mio blog. Non volevo - e non voglio - difendere Schwazer, ma mi aveva fatto arrabbiare - per usare un eufemismo - la retorica cresciuta intorno a quel fatto. Schwazer è stato additato come il traditore dello spirito olimpico, il traditore della fiducia che l’Italia ha riposto in lui, il traditore dei sani valori dello sport. A nessuno di quelli che allora hanno attinto a piene mani nella retorica decoubertiana, a partire dai vertici della politica sportiva, importava - e importa - nulla dello spirito olimpico, quanto all’Italia, Schwazer le ha dato esattamente quello che ne ha ricevuto.
Al di là di questo caso marciare è faticoso non solo quando lo si fa per sport, ma anche quando lo si fa per manifestare o per protestare. Sono faticosi i ventiquattro chilometri della Marcia per la pace Peugia-Assisi, ma è importante continuare a farli, anche se il mondo è molto cambiato da quando Aldo Capitini la promosse nel 1961.
Fu faticosa e drammatica la marcia del sale che Gandhi cominciò il 12 marzo 1930 e che durò per 24 giorni. Questa è stata una marcia che ha cambiato il mondo, come la grande marcia su Washington, alla fine della quale Martin Luther King pronunciò il celebre discorso I have a dream.
Proprio perché marciare è faticoso - a parte il fulgido esempio di Capitini, che infatti è considerato poco in Italia - nel nostro paese le marce sono più annunciate che fatte veramente. Mi pare che oggi - ad esempio - avrebbe dovuto esserci una “marcia su Roma”, trasformata in un più agevole presidio.
Peraltro nella storia recente del nostro paese c’è già stata una marcia che ha cambiato - in peggio - l’Italia: il 28 ottobre 1922 i fascisti marciarono su Roma per fingere di prendere con la forza il governo che il re, l’esercito, gli agrari, i grandi industriali diedero a Mussolini, non per paura di quella pagliacciata in orbace, ma con lo scopo di servirsi dei fascisti per eliminare una volta per tutte il pericolo comunista e socialista. Come noto, sbagliarono i loro conti e la bestia fascista, una volta slegata, certo si avventò con crudeltà contro i lavoratori, come volevano i padroni, ma alla fine divenne incontrollabile e gli stessi padroni furono costretti, dopo vent’anni di regime, ad allearsi con i comunisti e i socialisti pur di toglierseli di torno.
E’ altrettanto noto che Mussolini non marciò alla testa dei suoi uomini, ma preferì aspettare gli eventi e arrivò a Roma, a cose fatte, con un comodo treno, perché appunto marciare è faticoso. Forse sarebbe arrivato in Jaguar, se qualcuno gliela avesse prestata.

venerdì 13 dicembre 2013

Verba volant (29): sforamento...

Sforamento, sost. m.

Approfitto della definizione di questa parola per raccontare ai miei affezionati lettori un esempio di giornalismo televisivo obiettivo e scevro da faziosità: una volta si sarebbe chiamato stile inglese, ma più correttamente dovremmo parlare di stile parmigiano.
Da almeno tredici giorni le centraline per la rilevazione dell'inquinamento nella città ducale segnalano lo sforamento del limite della presenza di Pm10 nell'aria.
Parma è la città della nostra regione che nel 2013 ha il più alto numero di sforamenti giornalieri, quindi la più inquinata. Le cause di questo non ambito primato sono molte: certamente contribuisce il particolare microclima della città, ma con altrettanta evidenza gli scarichi delle automobili non aiutano a impedire questi non voluti sforamenti.
Da alcuni giorni i prodi redattori di TvParma, la maggiore televisione locale che - come la “cugina” cartacea Gazzetta di Parma - è di proprietà dell’Unione degli industriali, non mancano di denunciare questo stato di cose, dando tutta la colpa all’attuale amministrazione, unica responsabile di questa situazione. Infatti sotto l’illuminato governo di Maria Luigia d’Austria pare che l’aria della città fosse godibilissima, anzi profumata di violetta.
Se abitate in città o in provincia e se siete tifosi della squadra allenata da Roberto Donadoni, non potete perdervi il telegiornale della rete, la cui messa in onda è preceduta di solito da tre spot di differenti apparecchi acustici. Illuminante è stata l’inchiesta di ieri sera, con le interviste ai cittadini.
La prima intervistata è stata una dolce vecchina che si è lamentata dell’inquinamento, così pericoloso per la sua salute da impedirle di uscire di casa; evidentemente si è trattato di un fatto straordinario che proprio ieri la vegliarda parmigiana passeggiasse per piazza Garibaldi, appena in tempo per essere intervistata dal giornalista di TvParma, forse prima di esalare l’ultimo respiro.
La seconda intervistata ha messo le mani avanti: non voglia il Sindaco fare provvedimenti per limitare l’uso delle auto, sarebbe una violazione della sua libertà - ha detto esattamente così - di abitante del centro: no taxation, without circulation.
La terza cittadina ha finalmente fatto una proposta per limitare l’inquinamento dell’aria, perché non basta la protesta, come fanno questi esagitati dei grillini, era il sottinteso: bisogna che il Comune organizzi meglio la raccolta differenziata, che adesso è gestita proprio male.
Al termine del servizio iI giornalista di TvParma ha ricordato agli amministratori che la possibile decisione di bloccare il traffico almeno la domenica sarebbe anticostituzionale, perché bisogna salvaguardare prima di tutto lo shopping natalizio.
Grazie amici di TvParma, grazie per sforare ogni sera il limite della nostra pazienza.

giovedì 12 dicembre 2013

Verba volant (28): forcone...

Forcone, sost. m.

Il forcone è senza alcun dubbio l'attrezzo del giorno.
I colleghi della Treccani specificano che questo attrezzo è destinato a "smuovere, ammucchiare e caricare il letame", pur concedendo che possa servire anche per altri materiali, quali carbone e pietrisco. Visto che il forcone serve sostanzialmente a smuovere merda era inevitabile alla fine il suo successo commerciale e mediatico. Nel nostro paese c'è una produzione tale di questa materia prima da assicurare ai fabbricanti di forconi un sicuro successo, in barba alla crisi.
Il forcone è anche uno dei ferri del mestieredel diavolo; appena un dannato cerca di uscire dalla palude stigia, il diavolaccio incaricato della sua custodia lo ricaccia dentro, utilizzando appunto il forcone. Qualche maligno potrebbe dire che questa è una bella metafora del nostro paese: noi italiani facciamo di tutto per uscire dal pantano in cui stiamo, ma lì fuori c’è sempre qualcuno che ci impedisce di uscire. Ed è pronto a colpirci con i rebbi del suo forcone.
E i legami tra l’Italia e il forcone non sono solo questi. Non siamo forse un popolo disanti, poeti e navigatori? Certo viviamo nella terra che ha dato i natali a Cristoforo Colombo, ad Andra Doria, a Schettino e possiamo quindi fregiarci di questo titolo. E cosa tiene in mano Nettuno, il dio dei mari? Un forcone appunto, che i mitografie i poeti preferiscono chiamare tridente, per darsi un tono (anche perché il forcone è associato ad altro elemento naturale, meno nobile, come sopra ho spiegato).
Gli amici che vivono a Bologna sanno bene di cosa parlo: benché il mare sia piuttosto lontano dalla città felsinea, proprio al centro di Bologna si trova il Gigante, che impugna il suo forcone d’ordinanza. Il fiero cipiglio del dio ci fa capire che il nostro è piuttosto incazzato, evidentemente un agitatore ante litteram. Credo che il movimento dei forconi nasca proprio da lì.
Infine l’Italia è notoriamente il paese degli spaghetti e con che cosa si mangia questa pasta? Con la forchetta, ovviamente, che null’altro è che un forcone mignon.
Passeranno anche i forconi naturalmente, perché fare la rivoluzione è faticoso, specialmente in inverno, tanto più nell’imminenza delle festività natalizie. Rimarrà comunque la merda.
Una piccola notazione su quello che sta avvenendo in questi giorni in Italia: un forcone non si mette mai a lavorare da solo, c’è sempre qualcuno che lo usa.

mercoledì 11 dicembre 2013

Verba volant (27): nostalgia...

Nostalgia, sost. f.

Non è facile definire un sentimento, ed è tanto più difficile definire la nostalgia, perché spesso quello che io posso ricordare con nostalgia a voi può suscitare ricordi completamente opposti, e viceversa.
Ho deciso di definire questa parola per raccontare la nostra piacevolissima gita di domenica scorsa a Brescello. I due "direttorissimi" di Laboratorio Politica Bologna, Antonella Cardone e Filippo Manvuller, hanno proposto di incontrarmi e ho suggerito una meta più o meno equidistante per loro due, appunto il paese della bassa reggiana che venne scelto da Julien Duvivier per gli esterni di Don Camillo. Quel paese è diventato in breve lo scenario ideale di quei film: la piazza, la chiesa, la stazione, i portici con le piccole botteghe, gli argini del Po sono ormai elementi familiari per chi come me - e come moltissimi altri - ama quei film. Brescello conserva con garbo il ricordo di quell’avventura che portò il cinematografo fino agli argini del grande fiume.
Filippo ha raccontato nel suo articolo e con le sue foto le impressioni di quella giornata, che è stata soprattutto occasione per divertirci - e per mangiare - tra amici. Io la racconto in un altro modo, quello in cui sono - più o meno - capace.
Naturalmente Brescello è adesso un paese molto diverso da quello raccontato dai film. Filippo ne ha parlato in un altro articolo, dedicato in particolare all’infiltrazione della ‘ndrangheta. La piazza appare oggi sproporzionata rispetto al paese, troppo grande e troppo vuota: sono altri ormai i luoghi dello stare insieme; immagino che la domenica pomeriggio i brescellesi la trascorrano nei centri commerciali e nelle multisale della bassa. In giro eravamo solo noi turisti, e facevamo attenzione a non farci inghiottire dalla nebbia.
Passeggiare per le vie di Brescello, farsi la foto ricordo con le statue di Peppone e don Camillo o davanti al carro armato, è un modo per ricordare quei film divertentissimi, due grandi attori come Fernandel e Gino Cervi, e naturalmente i libri di Giovannino Guareschi, ma è anche l’occasione per ripensare ad un’Italia che non c’è più, se mai c’è stata.
Guareschi prima e poi chi dalle sue opere ha tratto le sceneggiature dei cinque film della serie - al di là del fatto che queste rispetto a quelle sono meno aspre, più politiccaly correct diremmo oggi - non ha voluto omettere gli aspetti più drammatici della vita di quei luoghi in quegli anni: la miseria di un paese uscito da poco dalla guerra, la fatica del lavoro dei campi e nelle stalle, il pericolo sempre incombente rappresentato dal fiume, la durezza degli scontri sociali, gli scioperi, i picchetti, scontri in si può anche morire, come succede al giovane compagno i cui funerali sono accompagnati dai rintocchi delle due campane, quella del prete e quella dei comunisti. Ha senso avere nostalgia di quel mondo là, un mondo che era effettivamente piccolo, troppo piccolo, in cui non ci si muoveva né geograficamente né socialmente? Si può avere nostalgia di quel tempo di fatiche e di lotte? Probabilmente no. E’ meglio adesso, nonostante tutto. Anche se non c’è più nessun sindaco come Peppone e sono rarissimi i preti come don Camillo.
Però, dopo che sei stato un giorno a Brescello e hai ripensato a quel mondo lì, senti - anche confusamente - che qualcosa ti manca.

martedì 10 dicembre 2013

Verba volant (26): prima...

Prima, sost. f. 

Grammaticalmente prima sarebbe un aggettivo singolare femminile, ma - come succede in alcuni casi nella nostra bella lingua - si sostantiva, per l'elisione del termine a cui si riferisce, che in questo caso è rappresentazione.
E la prima in Italia è, per antonomasia, quella della Scala, il giorno di sant'Ambrogio, il 7 dicembre.
Quest'anno non poteva non esserci un omaggio al Maestro Verdi ed è stata scelta un'opera che più opera non si può: La traviata.
La prima della Scala è da sempre un evento mondano, un appuntamento esclusivo per il bel mondo, ma la televisione ha come democratizzato questa serata, concedendo anche a noi poveri di vedere e ascoltare uno spettacolo unico.
Così sabato pomeriggio, fatto il presepio e sistemati gli addobbi, ci siamo sintonizzati su Rai5 per assistere all’opera del Cigno di Busseto. Ovviamente con il tablet a portata di mano, per commentare - a caldo - virtuosismi o cedimenti degli interpreti. Devo dire che ci sono state anche diverse occasioni per farlo, perché il giovane regista russo ha fatto alcune scelte francamente discutibili, che gli hanno meritato i fischi del pubblico in sala e il dileggio sulla rete. Il loggione reale e quello virtuale si sono scatenati.
Si potrebbe perfino fare un discorso serio su fedeltà all’originale e libertà degli interpreti, ma forse i lettori non melomani si fermerebbero qui nella lettura di questa voce del mio dizionario. In casa nostra è Zaira l’appassionata e l’esperta di melodramma, è lei che mi spiega cosa succede - o cosa dovrebbe succedere - anche se non sono sempre sicuro di riuscire a capirlo. Infatti ho immaginato un’interpretazione del dramma verdiano non proprio ortodossa. E questa oggi voglio raccontarvi.
Vediamo la storia, in estrema sintesi.
La protagonista è Violetta Valery, una donna bellissima, desiderata, che vive facendo la mantenuta. Il suo tenore di vita è molto alto, anche se la crisi si avvicina in maniera minacciosa; altre mantenute hanno già dovuto abbandonare. Il suo protettore è un personaggio poco simpatico, il ricchissimo barone Douphol, un tipo laido, non molto alto, che ha fatto fortuna in maniera oscura; famoso come organizzatore di cene eleganti, sta però perdendo lo smalto degli anni migliori. E infatti irrompe in scena il giovane Alfredo Germont, che confessa tutto il suo amore a Violetta. Certo Alfredo è un poveraccio, è un tipo buffo - gran parlantina, ma poca sostanza - gli piace atteggiarsi, indossa spesso un giubbotto di pelle, come l’eroe di un romanzo d’appendice di quando era ragazzo. Nonostante tutto, Violetta si innamora, ha voglia di una vita tranquilla, senza i gendarmi alle porte, senza i cortigiani del barone, e sogna una vecchiaia serena accanto al suo Alfredo. Qui finisce il primo atto, con Violetta stretta tra l’amore per Alfredo e il suo passato:
Sempre libera degg’io folleggiar di gioia in gioia
E infatti il secondo atto si apre sulla vita in campagna di Violetta ed Alfredo: lui che non capisce mai quello che succede e lei che invece regge la casa e soprattutto paga i conti, vendendo le ricchezze accumulate in una vita. Finalmente Alfredo si rende conto che le finanze domestiche sono allo stremo e cerca, per la prima volta in vita sua, di guadagnare qualcosa. Approfitta di questa assenza Giorgio Germont, il padre di Alfredo, per parlare finalmente con Violetta. Il vecchio Germont è il cattivo della storia, è un vecchio notabile di provincia, un tempo è stato uomo di idee radicali - per quanto già allora un migliorista - ma ora è diventato uno strenuo difensore dell’ordine costituito. Il vecchio Germont usa parole melliflue, è un grande manipolatore e convince Violetta a lasciare Alfredo; lo vuole l’Europa, egli dice, bisogna fare i sacrifici, perché ce lo chiede la Germania, ripete a una Violetta che ormai non ne può più, avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità, conclude, nonostante Violetta gli faccia vedere che finora i conti li ha sempre pagati tutti lei, compresa l’imposta sul valore aggiunto. Stremata, Violetta si fa convincere da questo vecchio ipocrita. Violetta torna a essere la mantenuta di sempre, il barone - uno che anche quando sembra spacciato, torna sempre in sella - la riprende con sé. Alfredo continua a non capire; e riesce anche a fare parecchie cazzate. E finisce anche il secondo atto.
La crisi avanza, nostante fuori sia carnevale. E Violetta muore. Nel terzo atto sostanzialmente succede solo questo, ma nell’opera ci mettono moltissimo tempo a morire e il Maestro Verdi, che nelle morti è insuperabile, riesce tranquillamente a riempire un atto intero.
Ecco io l’ho capita così.
Buona la prima.

domenica 8 dicembre 2013

Verba volant (25): impensabile...


Impensabile, agg.

Sono abbastanza vecchio per ricordare gli anni in cui era impensabile immaginare che il muro di Berlino sarebbe crollato nel modo in cui è effettivamente crollato. La fine dei regimi comunisti nell'Europa orientale era un fatto da molti sperato, da alcuni temuto, eppure quando avvenne ci colse di sorpresa. In tanti credevano che soltanto un conflitto avrebbe aperto una breccia in quel muro che offendeva la coscienza dell’Europa, ma una guerra, in quelle condizioni e in quei tempi, era impossibile perché l’impatto delle bombe nucleari non avrebbe risparmiato neppure i vincitori. La paura teneva in piedi quell'equilibrio e quel muro.
Eppure l'impensabile è avvenuto, semplicemente perché migliaia di persone hanno fatto contemporaneamente quello che non avevano mai fatto e che, fino ad allora, avevano paura di fare: hanno attraversato un confine e quel confine non c'era più.
Oltre a essere vecchio, sono anche fortunato perché ho avuto l’opportunità di assistere a un altro fatto che sembrava impensabile: ho visto la fine dell’apartheid in Sudafrica. I realisti, quelli che pensano di sapere tutto, dicevano che quel regime, nonostante tutto, non sarebbe caduto, perché ci spiegavano che i bianchi in quel paese non erano i colonialisti che potevano andersene così come erano arrivati, ma erano ormai i figli di quella terra. Gli stessi realisti dicevano che Nelson Mandela era un terrorista e pensavano che era meglio che stesse in carcere, per non turbare un precario status quo. Poi, come ricordiamo tutti in questi giorni in cui piangiamo la morte del grande leader africano, è successo l’impensabile.
La caduta del muro di Berlino non ha significato la fine dei conflitti in Europa, anzi, finito quell’equilibrio, il nostro continente ha conosciuto l’orrore dell’assedio di Sarajevo e ha visto la costruzione di altri muri. La fine dell’apartheid non ha significato la liberazione effettiva dei neri del Sudafrica, perché continuano a essere loro gli sfruttati nelle miniere. Eppure è importante essere consapevoli che l’impensabile può avvenire ed è giusto lottare e manifestare - come si faceva allora - affinché possa succedere. Uno dei limiti dell’attuale “politica dei ragionieri“, la politica di quelli che guardano esclusivamente ai numeri, è proprio quello di non credere all’impensabile e la perdita dell’anima di troppa sinistra è non fare nulla perché possa accadere.
Per chi adesso ha poco meno di vent’anni - l’età in cui io vedevo il muro e l’apartheid - è impensabile immaginare che Gerusalemme diventi la capitale dell’unico stato in cui possano vivere insieme israeliani e palestinesi; è impensabile che crolli il regime cinese, che è riuscito a coniugare il peggio del comunismo e il peggio del capitalismo.
Eppure potrebbe arrivare, quando meno ce lo aspettiamo, l’urto che manderà in frantumi queste certezze; spero che chi ha adesso vent’anni ci voglia ancora credere.

venerdì 6 dicembre 2013

"Libertà" di Paul Eluard


Sui miei quaderni di scolaro
Sui miei banchi e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Io scrivo il tuo nome

Su tutte le pagine lette
Su tutte le pagine bianche
Pietra sangue carta cenere
Io scrivo il tuo nome

Sulle dorate immagini
Sulle armi dei guerrieri
Sulla corona dei re
Io scrivo il tuo nome

Sulla giungla e sul deserto
Sui nidi sulle ginestre
Sull'eco della mia infanzia
Io scrivo il tuo nome

Sui prodigi della notte
Sul pane bianco dei giorni
Sulle stagioni promesse
Io scrivo il tuo nome

Su tutti i miei squarci d'azzurro
Sullo stagno sole disfatto
Sul lago luna viva
Io scrivo il tuo nome

Sui campi sull'orizzonte
Sulle ali degli uccelli
Sul mulino delle ombre
Io scrivo il tuo nome

Su ogni soffio d'aurora
Sul mare sulle barche
Sulla montagna demente
Io scrivo il tuo nome

Sulla schiuma delle nuvole
Sui sudori dell'uragano
Sulla pioggia fitta e smorta
Io scrivo il tuo nome

Sulle forme scintillanti
Sulle campane dei colori
Sulla verità fisica
Io scrivo il tuo nome

Sui sentieri ridestati
Sulle strade aperte
Sulle piazze dilaganti
Io scrivo il tuo nome

Sul lume che s'accende
Sul lume che si spegne
Sulle mie case raccolte
Io scrivo il tuo nome

Sul frutto spaccato in due
Dello specchio e della mia stanza
Sul mio letto conchiglia vuota
Io scrivo il tuo nome

Sul mio cane goloso e tenero
Sulle sue orecchie ritte
Sulla sua zampa maldestra
Io scrivo il tuo nome

Sul trampolino della mia porta
Sugli oggetti di famiglia
Sull'onda del fuoco benedetto
Io scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome

Sui vetri degli stupori
Sulle labbra intente
Al di sopra del silenzio
Io scrivo il tuo nome

Su ogni mio infranto rifugio
Su ogni mio crollato faro
Sui muri della mia noia
Io scrivo il tuo nome

Sull'assenza che non desidera
Sulla nuda solitudine
Sui sentieri della morte
Io scrivo il tuo nome

Sul rinnovato vigore
Sullo scomparso pericolo
Sulla speranza senza ricordo
Io scrivo il tuo nome

E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.

giovedì 5 dicembre 2013

Verba volant (24): porcello...

Porcello, sost. m.

Mi rendo conto che quello che sto per raccontare può sembrare strano ai miei lettori più giovani, ma c'è stato un tempo in cui porcello era soltanto un animale - il giovane maiale, per l'appunto - e non un sistema elettorale, peraltro anticostituzionale, come sancito proprio oggi dalla suprema Corte.
Per dirla tutta, ad alcuni di noi era venuto il sospetto che qualcosa non andasse in quella legge, ma visto che nessuna voleva cambiarla e ci hanno fatto votare diverse volte usando quel metodo bislacco, ci eravamo quasi convinti che fosse tutto a posto.
In questa definizione voglio proprio occuparmi del porcello prima di Calderoli.
Immagino che pochissimi di voi si ricordino di Meo Porcello.
Negli anni Trenta, quando Walt Disney cominciò ad inventare il suo mondo di cartoni animati, a fianco di Topolino e di Paperino, che sarebbero poi diventati star e icone pop, c’erano altri animali che potevano ambire a quello stesso successo. Meo Porcello, come venne chiamato in Italia Peter Pig, è stato uno di questi personaggi sfortunati, uno di quelli che si è perso per strada.
Meo Porcello appare per la prima volta nel cortometraggio animato del 1934, intitolato La gallinella saggia, in cui fa la sua prima apparizione anche Paperino. Quanto questi è irascibile e attaccabrighe, Meo è pigro e indolente: potevano diventare una coppia comica, ma evidentemente qualcosa non ha funzionato. Meo ricompare in un altro cortometraggio, divertentissimo, del 1935, intitolato Il concerto bandistico. Probabilmente lo avete visto: c’è Topolino che dirige una piccola orchestra, a cui tenta di far suonare l’ouverture del Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini. Meo suona la tromba e con il suo vibrato disturba Topolino.
E’ stata l’ultima apparizione cinematografica di Meo Porcello, che ricompare per un cameo in Chi ha incastrato Roger Rabbit? del 1988. E anche nei fumetti le presenze di Meo Porcello sono rarissime. Indubbiamente il porcello di Calderoli ha avuto maggiore fortuna.
C’è però un porcello che è molto più famoso di quello di Calderoli e anche di Peppa Pig: il paffuto compagno di avventure di sant’Antonio. Non il celebrato sant’Antonio da Padova (che poi era di Lisbona), ma sant’Antonio abate, detto il Grande o d’Egitto: insomma il sant’Antonio del maialino.
Sant’Antonio è particolarmente venerato in campagna, tanto che il 17 gennaio - il giorno a lui dedicato - si fa cominciare l’anno agricolo. In alcune zone d’Italia era sant’Antonio - il Befanone - quello che portava i doni ai bambini, prima che arrivasse santa Klaus, un altro che è riuscito a diventare un’icona pop.
Fu l’ordine degli antoniani in Francia, nel Trecento, ad associare sant’Antonio al maiale. Vicino ad Arles scoppiò una grave epidemia di ergotismo, una malattia che noi chiamiamo anche fuoco sacro - e che divenne poi fuoco di sant’Antonio - che si prende mangiando la segale parassitata da un fungo. Dal momento che in un monastero lì vicino erano conservati i resti di sant’Antonio, gli ammalati cominciarono a riunirsi in quel paese che sarebbe diventato st. Antoine. Qui allora cominciarono ad operare gli antoniani che scoprirono che l’ergotismo poteva essere curato spalmando un emolliente ricavato dal grasso del maiale - come noto di questo animale non si butta via niente - e da allora sant’Antonio e il porcello divennero inseparabili.
Si racconta anche di una discesa all’inferno di sant’Antonio e del suo maiale. Arrivato laggiù il santo bussò al portone, ma i diavoli, riconoscendolo, non lo fecero entrare. Comprensibile: anch’io non faccio entrare in casa i testimoni di Geova che suonano il campanello la domenica mattina. Il porcello però riuscì a intrufolarsi e fece tanti danni da costringere i diavoli a chiamare indietro sant’Antonio, perché andasse a riprenderlo.
Inutile dire che qui da noi - patria del prosciutto, del culatello, della mariola, del prete, della spalla cotta, dello strolghino - onoriamo il maiale con estrema devozione, probabilmente più del santo a cui si accompagna.
C’è un simpatico detto popolare, che a me capitava spesso di sentire quando ero piccolo. Nella traduzione dal dialetto un po’ si perde, comunque fa:
in fondo sant’Antonio si è innamorato di un maialino
Insomma per tutti c’è una speranza. Anche per Calderoli.

mercoledì 4 dicembre 2013

Verba volant (23): merda...

Merda, sost. f.

Probabilmente alcuni di voi pensano che questa parola non abbia bisogno di una definizione e che non dovrebbe neppure esserci in un dizionario che si rispetti. Ma dato che questo dizionario è ben lungi dall’essere rispettabile, ecco questa mia breve dissertazione scatologica.
Come noto i bambini provano una particolare soddisfazione a dire questa parola.
Penso che anche voi, da bambini, abbiate giocato a merda; francamente non credo appassioni tanto il gioco in sé - io ad esempio non mi ricordo neppure le regole e non saprei più giocarci - ma divertiva (e diverte ancora, immagino) avere la possibilità di ripetere diverse volte la parola in questione. Anzi il gioco diventava una sorta di spazio sospeso in cui era permesso ripetere - anzi si poteva perfino urlare - una parola che altrimenti non si poteva pronunciare e che doveva essere sostituita da insulse perifrasi.
In sostanza, quando noi eravamo bambini, era divertente trasgredire la regola e dire merda, ma eravamo ben consci che una regola c’era; e che questa parola era una di quelle da non dire, insieme a diverse altre.
Non so quanti dei 12.500 bambini che domenica scorsa occupavano la curva dello Juventus stadium abbiano urlato merda al portiere dell’Udinese Zeljko Brkic ogni volta che toccava il pallone. Immagino quasi tutti perché urlare merda è divertente - come sopra ho ampiamente dimostrato - e perché è facile lasciarsi trascinare: se anche uno solo comincia a urlare merda è più che probabile che gli altri 12.499 facciano lo stesso. Succede lo stesso anche agli adulti; nello sport come in politica.
La vicenda è nota: dal momento che la curva bianconera sarebbe rimasta vuota, a causa di discriminazione territoriale nei confronti dei tifosi napoletani, i dirigenti della Juventus hanno pensato bene di aprire lo stadio ai giovanissimi tifosi della squadra. La scelta - dettata dagli esperti del marketing per ridare smalto alla società - si è rivelata incauta: a causa dei “cori” dei bambini il giudice sportivo ha comminato una multa di 5.000 euro alla squadra di Conte.
Premesso che personalmente considero quella multa sacrosanta e forse troppo mite, credo sarebbero da multare, uno per uno, i genitori dei 12.500 bambini. Se domenica hanno urlato merda alla stadio al portiere dell’Udinese è perché hanno sentito il padre urlare la stessa cosa ai giocatori della squadra avversaria ogni volta che guarda una partita in televisione. Anzi forse si sono perfino contenuti, perché probabilmente conoscono già un repertorio di contumelie da far impallidire l’ultras più sfegatato.
Il problema non è che quei bambini si siano sfogati urlando merda per un pomeriggio - probabilmente alla loro età lo avremmo voluto fare anche noi allo stadio - il problema è che probabilmente non si sono resi conti di violare una regola, anche perché nessuno gliel’ha mai data.

martedì 3 dicembre 2013

Verba volant (22): sbagliare...

Sbagliare, v. tr. e intr.

Tutti sbagliamo, alcuni lo fanno con preoccupante regolarità, altri per fortuna molto meno; ci sono sbagli molto gravi, che possono costare la vita di chi sbaglia e di chi subisce le conseguenze di quell'errore, e ci sono sbagli insignificanti; soprattutto ci sono sbagli fatti in buona fede e sbagli dolosi. Su questi ultimi si esercita - o si dovrebbe esercitare - la giustizia.
Se tutti sbagliamo, tutti facciamo molta fatica ad ammettere i nostri sbagli.
E quando alla fine lo facciamo - in genere quando è impossibile negare l’evidenza - dopo l’ammissione dell’errore, aggiungiamo un ma e cominciamo a spiegare perché ci siamo sbagliati, cercando di minimizzare la nostra responsabilità; aggiungiamo che è colpa degli altri o delle circostanze ambientali o - se proprio non troviamo altre scuse - del destino cinico e baro.
Abbiamo sempre pronte anche due frasi generiche, adatte ad ogni occasione: a chi ci fa notare un nostro errore diciamo spesso chi non fa non falla e pensiamo così di essere a posto; e aggiungiamo, per rincarare la dose, sbagliando s’impara, come a vantarci del nostro sbaglio. Conosco persone che continuano pervicacemente a sbagliare le stesse cose: evidentemente per loro la regola non vale.
Per inciso, è da notare che siamo in genere indulgenti quando gli sbagli li facciamo noi, ma ci arrabbiamo quando gli altri sbagliano, anzi ci arrabbiano moltissimo quando siamo danneggiati dagli sbagli altrui.
Se le singole persone sono molto restie ad ammettere i loro errori, le organizzazioni sono ancora meno disposte a farlo. Anzi per qualunque organizzazione è facile dire che le responsabilità sono individuali e la colpa è tutta del malcapitato di turno. Per chi ha letto Il paradiso degli orchi di Daniel Pennac è facile capire di cosa sto parlando.
Poi ci sono organizzazioni che tendono a difendere i propri aderenti, specialmente quelli più importanti, anche di fronte alle prove più schiaccianti, per un mal riposto spirito di appartenenza. Chi ha visto Il muro di gomma di Marco Risi e conosce le vicende legate ai vergognosi e criminali depistaggi dell’aereonautica militare su Ustica sa a cosa mi riferisco.
Ho deciso di parlare di questo verbo perché in questi giorni in televisione gira uno spot di un’organizzazione che solitamente ha molte difficoltà ad ammettere di aver sbagliato, anche perché il suo capo è per definizione infallibile. Anzi questa organizzazione spesso nega anche gli sbagli dei propri membri, preferendo mettere a tacere le storie meno edificanti, per la regola che i panni sporchi si lavano in famiglia.
Sto parlando del nuovo spot televisivo - in onda dal 25 novembre - della Conferenza episco­pale italiana dedicato alle offerte per il sostentamento dei sacerdoti diocesani. Lo spot è simile a quello degli anni passati: in pochi secondi vengono raccontate le esperienze di alcuni preti di frontiera. In particolare vediamo due preti di Napoli: don Tonino Palmese, referente per la Campania di Libera, e don Antonio Vitiello, fondatore della mensa e casa-alloggio per i poveri La Tenda.
La novità dello spot sta in questa frase:
Per uno che sbaglia, ce ne sono migliaia che dedicano tutta la vita alla loro missione.
Forse questo inciso era inevitabile, forse è stato un modo furbo per mettere le mani avanti e prevenire le critiche di chi è subito pronto a tirare fuori i casi di preti che hanno sbagliato, facendo cose gravissime e in maniera dolosa. Forse è vero tutto questo, però l’hanno fatto.
Io sono ateo e ho rispetto per chi crede. Non sono anticlericale, anche se non amo molto le gerarchie cattoliche; l’8 per mille infatti lo destino da alcuni anni ai valdesi. So che molti preti sono davvero come quelli dello spot e fanno un lavoro di supplenza dello Stato di cui dovremmo ringraziarli. Poi penso che dovrebbe essere lo Stato a fare quello che in troppi casi fanno i preti; non sono d’accordo con chi dice che va bene così - la chiamano sussidiarietà - e pensano che lo Stato debba ritirarsi a favore del privato.
Personalmente penso che questo spot, anche con questo inciso, non serva a molto: chi è disponibile a sostenere il clero cattolico, continuerà a farlo, perché già da sé ha fatto quel ragionamento ed è consapevole che che le sue offerte servono a quei preti che lavorano onestamente, anche se sa che ci sono preti che non lo sono; chi non è disponibile a fare un’offerta, perché ci sono, tra gli altri, i preti pedofili o perché ha visto al cinema Magdalene, non cambierà idea grazie a questo spot.
Anche se non serve, anche se non porterà un euro in più alle casse dei preti, io credo che questa ammissione sia un fatto importante. E non credo sia un caso che sia stata fatta adesso, proprio sotto il regno di un papa che ha qualche dubbio sulla sua infallibilità.

lunedì 2 dicembre 2013

"Nubi" di Jorge Luis Borges


Non vi sarà mai cosa che non sia
una nube. Lo son le cattedrali
di vasta pietra e bibliche vetrate
che il tempo spianerà. Lo è l'Odissea,
che cambia come il mare. Se la riapri
sempre cambia qualcosa. Anche il riflesso
del tuo viso è già un altro nello specchio
ed il giorno è un dubbioso labirinto.
Siamo chi se ne va. La numerosa
nuvola che si disfa all'occidente
è nostra effigie. Incessantamente
la rosa si tramuta in altra rosa.
Sei nuvola, sei mare, sei l'oblio.
Sei anche tutto quello che hai smarrito.

Verba volant (21): salto...

Salto, sost. m.

Cosa sia un salto lo sapete tutti. Spesso per tirare avanti dobbiamo fare i salti mortali, ci è capitato di fare un salto in centro o di fare quattro salti tra amici. E forse i più furbi tra di voi hanno fatto il salto della quaglia.
Io però voglio raccontarvi una piccola storia di sport, da cui spero di ricavare una morale.
Quando Richard Douglas Fosbury, detto Dick, nella seconda metà degli anni Sessanta cominciò ad allenarsi nel salto in alto, tutti gli atleti usavano lo stile ventrale; in questa tecnica il busto è rivolto verso il basso e rimane quasi parallelo all’asticella. Il più grande campione di salto in alto con questa tecnica fu il sovietico Valerij Brumel’, che vinse la medaglia d’oro nelle Olimpiadi di Tokyo del ’64, con il record olimpico di 2,18 metri. La corsa di Valerij era molto elegante, tanto che si meritò il soprannome di Lord Brummel.
Gli allenatori degli Stati Uniti andarono in Unione sovietica per cercare di capire qual era il segreto di Brumel’. Se Dick Fosbury avesse continuato a fare come facevano tutti gli altri probabilmente sarebbe diventato un buon saltatore, forse avrebbe anche vinto molte gare, però non sarebbe entrato nella storia. Così, nel campus dell’università dell’Oregon non continuò ad allenarsi come facevano tutti, ma cambiò modo di saltare.
Aggiunse una rotazione al salto, in modo da avere la schiena rivolta all’asticella. Con quel salto “strano” Dick Fosbury vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Città del Messico, con il nuovo record olimpico di 2,24 metri. Da allora, anche se con qualche iniziale resistenza, tutti i saltatori in alto adottarono lo stile Fosbury.
Forse non è un caso che Fosbury rivoluzionò il salto in alto proprio in quelle storiche olimpiadi, di cui ci rimane l’immagine del podio dei 200 metri maschili, con i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos.
Ci capita spesso di provare a fare una cosa a cui teniamo, tentando sempre la stessa strada. A volte riusciamo, molte volte no. Ecco dovremmo imparare a pensare che le cose si possono cambiare.

domenica 1 dicembre 2013

Verba volant (20): equità...

Equità, sost. f.

A dire il vero mi voglio occupare di una specie particolare di equità, quella sociale, ossia - secondo una definizione classica - il principio di giustizia sociale volto alla riduzione delle diseguaglianze attraverso azioni di salvaguardia dei diritti della persona, della dignità dei lavoratori e di contrasto alla vulnerabilità sociale.
Leggo che nelle università di Roma si vorrebbero istituire dei corsi di equità sociale.
Iniziativa lodevole, visto quanto è emerso dai controlli della Guardia di finanza sulle dichiarazioni Isee degli studenti degli atenei della capitale: il 62% sono risultate false ed irregolari.
Dal momento che queste dichiarazioni vengono presentate per richiedere borse di studio, sovvenzioni, sconti o per vedersi assegnare i posti letto, è chiaro che questi falsi poveri hanno sottratto le già scarse risorse destinate al diritto allo studio a chi di quei benefici ha davvero bisogno. A scapito dell’equità, quindi.
Dai dati delle Fiamme gialle emerge un dato curioso. In molti descrivono l’università italiana come fondamentalmente classista: a leggere queste dichiarazioni Isee pare sia proprio vero, ma non nel senso che abbiamo sempre pensato noi veterosinistri.
Sembra che gli studenti appartengano in maggioranza alla parte più povera della società: in Italia si sta realizzando il comunismo, senza i comunisti, un fenomeno finora sconosciuto alla scienza. Insomma sarebbe sfatata la diceria secondo cui i giovani medici sarebbero figli di medici, i giovani avvocati figli di avvocati e così via, per ogni ordine e camarilla in cui è divisa la società italiana: sarebbero invece tutti figli di pezzenti. Forse in parecchi sono figli di… ma sorvoliamo su questo punto evidentemente spinoso.
Pur ribadendo che condivido l’idea di questi corsi di equità sociale, mi piacerebbe proprio conoscere i nomi dei docenti chiamati a tenere queste lezioni; spero siano persone capaci, scelte per le loro competenze. Non ci crederete, ma succede a volte nelle nostre università che diventino professori i figli dei professori. O le mogli, o i cognati, o i cugini, o altri parenti alla lontana.
Forse saranno chiamati degli esperti dalla politica o dal mondo dell’impresa, ambiti in cui - come è noto - è particolarmente perseguito l’obiettivo dell’equità sociale.
Chissà poi quali saranno i testi adottati: succederà che i docenti di equità sociale faranno acquistare agli studenti i testi di cui sono autori o comunque pubblicati da qualche casa editrice amica? Pare succeda anche questo, a volte, nelle università italiane.
Una volta, uno che aveva una certa capacità di dire frasi ad effetto disse:
qui sine peccato est vestrum, primus lapidem mittat.
Questa accusa non gli portò particolare fortuna, perché alla fine le pietre le tirarono a lui. Ora leggo che molti benpensanti si indignano verso questi giovani che hanno tentato di truffare lo Stato, dimenticando che questi giovani non sono alieni piovuti da qualche pianeta lontano, ma che sono i nostri figli e che probabilmente hanno imparato a far questo dai loro genitori.
Spesso in questo paese abbiamo avuto l’illusione di poter trovare soluzioni definitive, di arrivare a una sorta di palingenesi etica: quante volte abbiamo detto che bastava togliere la mela marcia dal cesto per salvare tutte le altre? Questa piccola storia di ordinaria corruzione romana - poteva peraltro essere capitata in qualunque parte d’Italia, nord compreso - che non riguarda la politica, ma la tanto decantata società civile, ci dice che le cose non stanno esattamente così.
In materia di equità sociale, forse sarà meglio che ripetiamo un anno.