lunedì 29 giugno 2020

Verba volant (773): contrabbasso...

Contrabbasso, sost. m.

Ciao tesoro, come è andata?
Fred è felice di tornare nel loro piccolo appartamento di Forestville, ma soprattutto quella sera è felice di vedere Mary. Oggi mi hanno mandato alla torre. Da solo.
Ma lavori al St. Elizabeths solo da due settimane.
Ci sono problemi di personale. E così il supervisore ha detto che toccava a me, che ormai sono pronto per la torre. 
E come è andata?
Il supervisore mi ha detto di non preoccuparmi, di attenermi scrupolosamente al registro, di portare ai pazienti le medicine nelle dosi e negli orari indicati. E Tom prima di andare mi ha detto che è un lavoro facile: basta stare lì e guardare le gabbie. Non c'è altro da fare. Non ci mettono neppure un dottore, perché dice che tanto lì i dottori non servono, lì ci sono quelli che non possono guarire. E che comunque non saprebbero neppure come curare.
E tu?
Ho guardato le gabbie e ho portato le medicine come dice il registro. Oggi non erano previste terapie né elettroshock. E comunque farò meglio ad abituarmi. Stanno trasferendo i pazienti meno gravi in altre strutture. Al St. Elizabeths rimarranno i criminali e gli incurabili. Credo che mi toccheranno sempre più spesso i turni alla torre. Credevo ci fosse rumore, credevo di sentire di continuo le urla dei pazienti. Mi ha sorpreso il silenzio. Gli unici rumori sono stati quelli dei miei passi lungo il corridoio e dei piccoli sportelli attraverso cui ho fatto passare le medicine e il cibo. Quel silenzio può farti diventare pazzo. Ho passato la giornata sognando di ascoltare un qualche disco della Blue Note. 

Mary quella sera ha fatto tardi, quando entra in casa Fred è già arrivato. L'ha capito anche prima di aprire la porta: ha sentito Light blue di Thelonious Monk. Ciao tesoro, hai solo ascoltato dei dischi o hai anche preparato la cena?
Ciao Mary. Oggi ho letto il registro. 
Cosa?
Lo leggo sempre, ma non avevo mai letto la prima pagina, quella dove ci sono i nomi dei pazienti. In genere li indichiamo con il numero. Non so perché, ma per infrangere quel silenzio oggi pomeriggio ho deciso di conoscere i loro nomi e ho visto che il n. 23 si chiama Edward Rudolph Warren.
Allora?
Senti il contrabbasso in questo pezzo? È lui, è Ed "Butch" Warren. Ho tanti dischi in cui suona. Con Donald Byrd, con Dexter Gordon, con Sonny Clark, con Hank Mobley, e naturalmente con Monk. È lui che suona il contrabbasso in Watermelon man di Herbie Hancock.
Ma sei sicuro che sia lui? Come ci sarebbe finito uno come lui al St. Elizabeths.
No, non sono sicuro. Non l'ho mai visto dal vivo e nelle copertine dei miei album non c'è una sua foto. L'uomo nella camera n. 23 ha trent'anni, ma sembra molto più vecchio, è rinchiuso lì per schizofrenia paranoide. Almeno così dice il registro. Non parla mai. Ma lì nessuno parla mai. Non gli posso chiedere se è lui Butch Warren. Però non ho suoi dischi dopo il '64: e questo mi fa sospettare.  
Ma all'ospedale cosa dicono?
Ne sanno poco, ma d'altra parte sanno poco di tutti i pazienti. Sembra che abbia chiesto lui di farsi ricoverare. Non è indicata la professione. Uno si ricorda che quando è arrivato sembrava un barbone, che per lui si è fatto ricoverare solo per avere un letto e tre pasti al giorno. Ma nessuno sano di mente verrebbe volontariamente al St. Elizabeths e accetterebbe gli elettroshock solo per quello schifo che gli passiamo. Domani voglio fare un salto al negozio di Winston ad Anacostia. Lui conosce tutti. 
Va bene, ma ricordati che questo mese hai già comprato un album. Dobbiamo risparmiare. E la regola è un disco al mese.

Mary sa che quella sera Fred tornerà con un album: non può andare al negozio di Winston senza prenderne uno.
Amore, ti prometto che questo è quello del prossimo mese, ma è appena uscito il nuovo di Miles Davis, In a silent way.
Mary sorride. Dimmi piuttosto cosa hai saputo del tuo misterioso paziente.
A quello che ne sa Winston potrebbe anche essere lui. A dire il vero di Butch Warren non si sa nulla da qualche anno. Nel '63 suonava con Monk e lì girava molta eroina. All'inizio dell'anno è morto il suo amico Sonny Clark e poi sembra che sia stato molto colpito dall'uccisione di Kennedy. Winston dice che a un certo punto Butch è come sparito. O forse non l'hanno mai cercato. E adesso nessuno sa dove sia. Secondo lui è morto da qualche parte, forse a New York. O forse è ancora vivo, come si può essere vivi al St. Elizabeths.

Ho parlato con il medico che lo ha in cura. Come prevedevo dice che non è una cosa importante sapere chi sia quell'uomo. Che secondo lui non è un musicista. Dice che l'unica cosa è continuare con gli elettroshock. 

Quando Mary rientra dalla lavanderia dove lavora, Fred è sprofondato nel divano. Sta ascoltando Leapin' and lopin'. Ormai anche lei sa che in quel disco è Butch Warren che suona il contrabbasso.
Mary, non ne posso più del St. Elizabeths, non ho studiato da infermiere per fare il guardiano di un carcere. E non è solo per la storia di Edward Warren, chiunque egli sia. Non mi importa se sia o meno un genio della musica, ma non merita di stare in quelle condizioni, così come tutti gli altri. Perfino quelli che hanno commesso dei crimini non meritano i continui elettroshock, le dosi sempre più massicce di psicofarmaci, non meritano quel terrificante silenzio. Ho trovato un posto in una struttura che gestisce i malati in una casa famiglia, lì finalmente posso aiutare qualcuno. Però lo stipendio è più basso. Ma non ce la faccio più.

Domenica 21 maggio 2006, trentasette anni dopo, Fred ha saputo che aveva ragione: quell'uomo della n. 23 era davvero Butch Warren.
È scritto in un articolo del Washington Post, firmato da Marc Fisher. Il giornalista ha incontrato Butch nell'ospedale psichiatrico dove vive, nel Maryland, a meno di cinquanta miglia da Washington. Lo ho "scoperto" un infermiere, che - a differenza di Fred - ha avuto a disposizione internet; lui non è un appassionato di jazz, ma si è incuriosito perché quel vecchio senza denti si mette al piano della sala ricreativa e suona per gli altri pazienti. Fred conosce la storia di Butch fino al St. Elizabeths.
Dimesso dall'ospedale Ed ha lavorato un po', aggiustando radio e apparecchi televisivi o pulendo i pavimenti negli uffici della Marina, ha fatto anche qualche serata, ma soprattutto è stato un barbone. Una volta è stato arrestato. Una notte d'inverno la polizia lo ha trovato dentro un negozio la cui porta era stata forzata: ha raccontato di averla trovata così e di essere entrato mentre l'allarme ancora suonava, perché aveva freddo. La sua vita è stata così: qualche notte in prigione, molte nei rifugi per i senzatetto e nei dormitori delle chiese e finalmente l'ospedale per vecchi malati di mente. Butch però non se n'è mai andato da Washington, dalla città in cui era scomparso, e in cui tutti lo credevano morto. Ma in cui nessuno lo ha mai davvero cercato. E in cui, dopo quell'articolo, è tornato a fare qualche concerto. Elegante e preciso come cinquantanni prima, quando tutti volevano suonare con lui, perché lui era una garanzia. Perché, come ha detto un suo collega, Ed non può prendersi cura di sé, ma può ancora suonare
Edward Rudolph Warren, detto Butch, nato a Washington DC il 9 agosto 1939, è morto a Silver Spring, nella casa di cura dove viveva e dove suonava per gli altri pazienti, il 5 ottobre 2013.

Nella primavera del 2010 a Washington è stato aperto un nuovo ospedale psichiatrico e gli edifici in cui era ospitato il St. Elizabeth definitivamente chiusi. Alla fine del 2007 il Dipartimento di Giustizia del governo federale e gli uffici del Distretto di Columbia hanno finalmente trovato un accordo per chiudere i contenziosi aperti da cittadini e associazioni per lesioni ai diritti civili all'interno dell'ospedale. Il Distretto di Columbia ha accettato le proprie responsabilità, anche se non ha ancora avviato un controllo con i radar nel terreno per cercare i resti dei pazienti. I registri per decenni sono stati mal tenuti e quindi non si sa quante persone siano state effettivamente ospitate nell'ospedale, né quante siano morte. Il fatto che nell'area del campus ci fosse un inceneritore fa supporre che non si saprà mai.

mercoledì 24 giugno 2020

Verba volant (772): oca...

Oca, sost. f.

Mi sembra che nel '38 tu avessi solo due scelte: o eri fascista e conquistavi il mondo o eri comunista e lo salvavi.
Non so se Joy Davidman, la poetessa e scrittrice nata a New York nel 1915, abbia davvero detto questa frase a C.S. Lewis - come è raccontato nel film Viaggio in Inghilterra - ma è sostanzialmente vero. Certamente per lei è stato cosi. Forse adesso quella scelta può sembrarci facile. E perfino scontata. Ma in quel tempo evidentemente non era così.

Se alla fine degli anni Trenta, dopo aver pagato cinquanta centesimi, attraversavi il portone rosso del Village Vanguard, al 178 della Settima Avenue South, appena sotto l'Undicesima strada, ed entravi in quella piccola e fumosa sala triangolare - infatti il precedente proprietario aveva chiamato il suo locale The Golden Triangle - sapevi subito da parte del mondo stavi. Intanto perché eri proprio in mezzo al Village e poi perché alle pareti c'erano quadri e manifesti che sostenevano la causa della Repubblica spagnola. Perché, sempre grazie a quei cinquanta centesimi, potevi ascoltare Maxwell Bodenheim - il "re dei Village Bohemians", il cui omicidio è stato uno scandalo nell'America puritana degli anni Cinquanta - o Harry Kemp, il "poeta vagabondo", leggere le loro poesie o ascoltare Huddie William Ledbetter - che però tutti chiamavano Lead Belly, piancia di piombo, un soprannome che gli hanno dato i suoi compagni in carcere - suonare la chitarra a dodici corde. Tutti gli "irregolari" del Village si trovavano in quel club aperto il 22 febbraio 1935 da Max Gordon. E poi si suonava jazz, e bianchi e neri sedevano insieme, sopra e sotto il palco, in maniera scandalosa per l'America di quegli anni. E, sempre per quei cinquanta centesimi, potevi ascoltare anche The Revuers, un quintetto formato da due ragazze e tre ragazzi, tutti di New York, e tutti di famiglie ebraiche arrivate dall'Europa centrale e orientale, che cantavano e facevano cabaret.

In quel quintetto ci sono anche Adolph Green, nato nel 1914 nel Bronx - lo riconosci subito con quelle orecchie a sventola e i denti da castoro - e Basya Cohen, una ragazza dall'aria sofisticata, nata a Brooklyn nel 1917, che si fa chiamare Betty Comden. Green ha un coinquilino, è l'unico in questa storia a non essere di New York. È nato nel 1918 a Lawrence, nel Massachusetts, ma anche lui è figlio di due ebrei ucraini emigrati anni prima in America; ha studiato pianoforte e composizione ad Harvard. Mentre tira avanti trascrivendo musica e componendo arrangiamenti, Leonard Bernstein si diverte a suonare il piano al Village Vanguard, accompagnando i suoi amici Revuers. Un bello spettacolo per soli cinquanta centesimi.
Adolph e Betty sono due bravi cantanti, due discreti attori, ma si rendono presto conto che non riusciranno a sfondare: lui con quella faccia al massimo può fare qualche ruolo da caratterista e lei non ha proprio il fisico da pin-up. Però sanno scrivere, e quando lo fanno insieme hanno un'incredibile capacità di inventare libretti, sceneggiature e testi di canzoni: nasce così la "ditta" Comden e Green, che per quasi sessant'anni sforna successi per Broadway e Hollywood.
Alla fine del 1944 debutta il loro primo musical, intitolato On the town, con le musiche dell'amico Leonard, che qualche anno prima è nominato direttore assistente della Filarmonica di New York ed è diventato noto quando in un concerto alla Carnegie Hall ha dovuto sostituire Bruno Walter, il grande direttore che ha scelto l'America perché non può più esibirsi nella Germania nazista.
On the town è la storia di tre marinai che, prima di partire per l'Europa dove dovranno combattere i fascisti, hanno una licenza di un giorno a New York e in quelle ventiquattro ore fanno di tutto per trovare una ragazza. Qualche anno dopo, quando Comden e Green saranno sbarcati a Hollywood, quel musical diventerà il film che noi conosciamo con il titolo Un giorno a New York, con Gene Kelly, Frank Sinatra e Jules Munshin nella parte dei tre marinai. Quella produzione di Broadway viene ricordata anche perché nel cast ci sono sei neri e la protagonista femminile è la ballerina di origine giapponese Sono Osato. Anche Adolph e Betty recitano in quella produzione: sono il marinaio Ozzie e la sua "innamorata" Claire. Nonostante il successo, sarà però l'ultima volta che lo faranno. La loro carriera è ormai un'altra.
Peraltro Adolph e Betty non saranno mai una coppia, anche se nella sceneggiatura di The Band wagon - un altro dei loro grandi successi, del 1953, che noi conosciamo con il titolo Spettacolo di varietà, diretto da Vincente Minnelli e interpretato da un grandissimo Fred Astaire - i due autori dello spettacolo, Lester e Lily, che Adolph e Betty hanno creato su di loro, sono sposati.
Comunque ad Hollywood  due sceneggiatori di New York sono un investimento sicuro: non sbagliano un film. Il loro grande successo è la sceneggiatura di Singin' in the rain del 1952, il capolavoro di Gene Kelly e Stanley Donen. Nel 1939 anche Joy Davidman è stata a Hollywood, sei mesi a scrivere sceneggiature, sotto contratto con la Metro: ne ha completate almeno quattro, ma nessuna è stata giudicata "utilizzabile" dagli studios.

Ma cerchiamo di non divagare troppo, torniamo al Village Vanguard nel 1938. La "stella" dei Revuers è Judith Tuvim, una ragazza nata nel 1921 nel Queens che ha scelto come nome d'arte Judy Holliday. A Judith piace cantare, glielo ha insegnato la madre che suona il piano, e sogna di entrare nel mondo dello spettacolo, ma all'inizio è solo la centralinista del Mercury, il teatro che Orson Welles e John Houseman hanno aperto con non poche difficoltà al 110 West della 41esima Strada.
I due hanno già sfidato il sistema mettendo in scena negli anni precedenti una produzione con solo attori neri di Shakespeare, il Voodoo Macbeth, e soprattutto il musical The Cradle will rock, scritto da Marc Blitzstein, un compositore e un autore di canzoni, che ama molto le opere di Brecht e ne condivide le idee. E che è amico di Bernstein. Quando, visto il tenore del libretto, il Federal theatre project ritira il proprio sostegno finanziario all'opera, non è più possibile mettere in scena il dramma e così il 16 giugno 1937 Blitzstein, Welles e la compagnia occupano un teatro e lo rappresentano comunque, senza scene e costumi, con il solo Blitzstein che, al pianoforte, sostituisce l'intera orchestra. Welles e Houseman sanno decisamente da che parte stare. La prima produzione del Mercury è una versione del Giulio Cesare di Shakespeare ambientata nell'Italia fascista: il personaggio del titolo viene caratterizzato come Mussolini e Welles tiene per sé la parte di Bruto.
Ma torniamo a Judy. Nel '44 i Revuers non ci sono più e così lei va a Hollywood, dove ottiene una piccola parte in un film di Geoge Cukor. Poi torna a Broadway, ma la sua carriera non sembra riuscire ad avere una svolta. Fino al 1946, grazie alla paura del palcoscenico di Jean Arthur. Jean è l'attrice preferita di Frank Capra, una sorta di versione femminile di James Stewart, è stata anche una delle quattro a essere in lizza per la parte di Scarlet in Via col vento, è una celebrità e quando Garson Kanin - che è a nato a Rochester, nello stato di New York nel 1912 - vuole mettere in scena la sua commedia Born yesterday, pensa subito a lei, ma Jean ha violente crisi di panico, vomita in camerino, ed è costretta a lasciare. E così, inaspettatamente, viene chiamata Judy.
La storia la conoscete, grazie al film Nata ieri, diretto da George Cukor nel 1950. O forse per il remake del 1993, a uso e consumo della coppia Melanie Griffith e Don Johnson. Harry Brock è un uomo d'affari rozzo e ignorante che porta la sua amichetta Billie Dawn a Washington. Dal momento che l'ingenua ignoranza di Billie rischia di diventare un problema, Brock assume un giornalista, Paul Verrall, che deve educare la ragazza. Ma Billie, che non è così stupida come sembra, non solo impara in fretta le cose che le vengono spiegate da Paul, ma soprattutto capisce quanto Harry e i suoi amici politici siano corrotti e riesce a smascherare tutti i loro piani. Judy è perfetta a interpretare Billie, per il sorriso smagliante, per i grandi occhi ingenui, per quell'aria da stupida e per la vocina querula, che nel doppiaggio italiano è resa alla perfezione dalla grandissima Rina Morelli. Quello spettacolo è un successo incredibile: 1.642 repliche, dal 4 febbraio 1946 al 31 dicembre del '49.
Come avviene sempre in questi casi gli studios vogliono sfruttare il successo, ma non vogliono rischiare con un'attrice sconosciuta. Sembra che perfino Kanin tenti di boicottarla, accordandosi con Spencer Tracy affinché Judy abbia una parte importante nel film La costola di Adamo, pur di non farle fare Nata ieri. Però Cukor conosce Judy e la Columbia decide di tentare. Anche il film è un successo al botteghino. E Judy Holliday vince l'Oscar come miglior attrice, battendo Gloria Swanson, nominata per Viale del tramonto, Bette Davis e Anne Baxter, entrambe per Eva conttro Eva. È nata una nuova stella.
Judy però non vuole rimanere nella parte della stupida che Hollywood le sta cucendo addosso. Interpreta qualche altro film, non memorabile, ma vuole tornare a Broadway. Comden e Green, i suoi vecchi amici del Village, e il compositore inglese Jule Styne hanno scritto un musical che è perfetto per Judy, Bells are ringing, la storia di una centralinista che cambia voce e identità per i suoi clienti, imparandoli a conoscere e anche a innamorarsi di uno di loro, pur non avendoli mai visti, ma solo attraverso la loro voce. È una divertente commedia degli equivoci, scritta con la solita verve dai due autori. Nel 1957 Judy vince il Tony per la sua interpretazione e quando Hollywood decide che il musical diventerà un film diretto da Vincente Minnelli - in Italia lo conosciamo con il brutto titolo Susanna agenzia squillo - non ci sono dubbi che lei debba esserne la protagonista. È purtroppo il suo ultimo film: nel 1965, due settimane prima di festeggiare i quarantaquattro anni, Judy Holliday muore a causa di un tumore al seno.

Judy ha vinto un Oscar, è una stella, ma è pur sempre la ragazza che cantava al Village Vangard, accompagnata al piano da quel sovversivo di Bernstein e con alle spalle i manifesti con la scritta ¡No pasarán!, è una che alla fine degli anni Trenta ha scelto da che parte stare. E poi è una donna intelligente, una che pensa con la sua testa. E così il suo nome è nella "lista nera" e nel '51 viene convocata dalla sottocommissione del Senato che indaga sulle infiltrazioni dei comunisti nel mondo dello spettacolo. È la "caccia alle streghe": vogliono le ammissioni e soprattutto vogliono i nomi di tutti gli altri. Molti si salveranno solo denunciando altri, magari mentendo. Lei viene convocata a Washington, ma Judy decide che di fronte a quei parrucconi bigotti del Senato non andrà lei, andrà Billie Dawn, la più famosa oca di Hollywood. È uno spasso vedere Billie che si prende gioco della sottocommissione; e Judy viene assolta e nessuno avrà più il coraggio di chiamarla a deporre. Qualche sua amica la critica per questa decisione: avrebbe dovuto battersi con la forza della sua intelligenza, ma Judy difende la sua scelta, perché non ha fatto nomi. E poi che forza quello sberleffo di una donna di fronte a quegli uomini che si sentono così tronfi.

Nel 1956 Leonard Berstein è ormai uno dei più importanti direttori d'orchestra del mondo. Nel '53 è stato il primo americano a dirigere alla Scala. In quell'anno decide di mettere in scena un'operetta basata sul Candide di Voltaire, perché neppure quello in cui stanno vivendo è "il migliore dei mondi possibili". La drammaturga comunista Lillian Hellman scrive il libretto, che però non riesce a rendere l'ironia volterriana né a reggere la forza della musica di Bernstein. L'opera subirà nel corso degli anni diversi rimaneggiamenti, ma finalmente il 13 dicembre 1989 Bernstein ci consegna, a meno di un anno dalla morte, la versione che oggi possiamo considerare definitiva. Lo stesso Maestro dirige la London Symphony Orchestra. Per interpretare Candido e Cunegonda chiama due cantanti d'opera molto noti, Jerry Hadley e June Anderson, ma per la parte del narratore e del dottor Pangloss vuole il suo vecchio coinquilino, che ritorna così, per l'ultima volta, sulle scene. Quella sera non hanno pagato cinquanta centesimi per sentire cantare Adolph Green e suonare Leonard Bernstein. Judy Holliday sarebbe stata perfetta nella parte della Vecchia Signora. Quando quel personaggio canta, con innegabile ironia I'm easily assimilated, Leonard e Adolph devono aver pensato, almeno per un attimo, alla loro amica del Village Vanguard.

Quando andate a New York, su un marciapiede della 41esima strada c'è una targa, voluta dalla New York Public Library, è una citazione di Nata ieri, leggetela e pensate a Judy.
Voglio che tutti siano intelligenti. Più intelligenti che possono essere. Un mondo di persone ignoranti è troppo pericoloso per viverci. 

lunedì 1 giugno 2020

Verba volant (771): nozze...


Nozze, sost. f.

Varsos controlla per l'ennesima volta il vasellame di casa. È di qualità abbastanza buona per essere stato fatto quaggiù. Certo non è bello come quello che avevamo a corte, a Tiro, ma me lo devo far andar bene. Però non è sufficiente: devo assolutamente comprarne altro. Devo vedere quanti soldi ho ancora in cassa per questo. E poi ci sono le spese per il banchetto. E quelle per le cerimonie. Il padrone ha voluto fare le cose in grande per le sue nozze. Lo capisco, vuol far vedere che adesso anche lui è un re, come suo padre, come i suoi fratelli, anche se così lontano da Tiro. E poi sposarsi con la figlia di Afrodite e di Ares. Chi l'avrebbe mai detto mentre vagavamo per il mondo cercando Europa, sballottati da una città all'altra, quasi mendichi. Adesso finalmente abbiamo una casa, per ora un po' rozza, decisamente troppo maschile, ma tra un po', quando avremo una regina, cambierà tutto. Una reggia ha bisogno di una regina. E ha bisogno di una discendenza. Credo che anch'io adesso potrò pensare a sistemarmi. Quella schiava che ho assunto per la cucina mi piace molto. E i nostri figli potranno servire i figli del re, come mio padre è stato l'economo di casa di Agenore.
Questi pensieri sono interrotti da alcuni tocchi leggeri sulla porta. Quando Varsos apre la porta si trova di fronte un ragazzo bellissimo, che non ha neppure l'età per avere la barba. Lo schiavo vede i capelli chiari e ricci che il berretto frigio, portato in maniera spavalda, non riescono a contenere. Il nuovo arrivato saluta con un piccolo inchino. Varsos nota che anche la sua voce è molto dolce, ha un che di femminile. Quel ragazzo emana qualcosa che Varsos non sa spiegarsi, ma capisce subito chi ha di fronte. Mi aspettavo una vostra visita. Immagino che in questi casi vogliate sempre fare dei controlli.
A dire la verità, questa è una cosa nuova anche per noi. È la prima volta che i Dodici partecipano a una festa di nozze di mortali. Non esiste un cerimoniale a cui poter attenersi. Credo dovremo improvvisare.
Io ho organizzato feste di nozze a corte per anni: non c'è nulla da improvvisare. Le assicuro che ho una discreta esperienza.
Non ne dubito, caro Varsos, ma converrà che non ha mai avuto a tavola Zeus e gli dei dell'Olimpo. Ha già previsto la disposizione dei posti a sedere?
Per parte nostra non abbiamo molti invitati. I genitori dello sposo vivono a Tiro: sono anziani e non possono muoversi. I due fratelli sono re in città lontane, hanno mandato un regalo, ma non parteciperanno alle nozze - per altro i rapporti sono sempre stati piuttosto difficili - la sorella, come credo lei sappia, non sappiamo dove sia. Ci saranno i nobili della città, gli uomini drago, gente poco avvezza a queste cerimonie, e Tiresia. Per quanto riguarda i genitori della sposa, come preferisce farli sedere?
Questo, come immagina, potrebbe essere una fonte di qualche imbarazzo, visti - come dire - i particolari rapporti che ci sono tra i Dodici. Credo che la cosa migliore sia enfatizzare che la vostra futura regina sia figlia di Afrodite, tralasciando per il momento la figura del padre. Se lei è d'accordo, le propongo di far sedere Afrodite a sinistra di Zeus, mentre Era sarà alla sua destra. Poi via via gli altri. Ares ed Efesto possono sedere ai due capi opposti, il più lontano possibile.
Io avevo pensato a un lungo tavolo. Da una parte noi e dall'altra voi. Sarà anche più facile organizzare il servizio, visto che saranno servite pietanze diverse. Naturalmente a tutto il vasellame penseremo noi. Voi dovrete solo portare ambrosia e nettare. 
Perfetto. Se permette alle decorazioni floreali penseremo noi. La ninfa Clori è bravissima in queste cose.
La ringrazio. Le chiedo se potete pensare voi anche alla musica, qui in Beozia non ho ancora trovato suonatori decenti.
Naturalmente, ho già chiesto alle Muse di essere presenti. E poi Apollo avrà certamente organizzato qualcosa.
Per quanto riguarda il servizio invece, vorrei organizzarlo io. Non serve che portiate personale dall'Olimpo. 
Va bene, ma per quel giorno vorrei aver l'onore di servire io stesso gli sposi. Naturalmente mi rimetto alla sua decisione su questo. Questa è la sua casa. Mi consideri per quel giorno un uomo del suo personale. Sono sicuro, carissimo Varsos, che saprà organizzare una festa di nozze di cui ci ricorderemo per anni.