Dato per scontato che non posso augurarvi di star bene, visto che non dipende né da me né da voi (non possiamo nemmeno augurare di star male a chi lo meriterebbe), e dato che nessuno di noi sa davvero cosa desiderino le altre persone, cosicché ogni augurio rischia di essere generico e banale, ho deciso di augurarvi un 2016 di memoria, di rabbia lieta e operosa e di lotta. Ossia spero che nei prossimi dodici mesi - e anche dopo, se possibile - esercitiate la memoria, specialmente sulle cose che vogliono che dimentichiate, vi incazziate per le cose che lo meritano, per le ingiustizie, per i soprusi, per le violenze, e che questo vostro essere incazzati non vi renda tristi, ma felici, perché avete capito finalmente che potete fare qualcosa per eliminare quelle ingiustizie, quei soprusi, quelle violenze, e infine che lottiate per quello che è giusto. Vi auguro di andare a votare e di votare bene, vi auguro di votare, al prossimo referendum, contro la pessima riforma costituzionale voluta da questo governo, vi auguro di tenervi informati, al di là di quello che vogliono farci credere, vi auguro di manifestare e di scendere in piazza. Io proverò a fare così: mi sembra un buon proposito per l'anno nuovo. E proviamo a resistere, difendendoci, ma anche attaccando. Con la consapevolezza di stare dalla parte giusta e con il sorriso che ci viene quando vediamo di avere a fianco dei compagni che la pensano allo stesso modo. Auguri...
giovedì 31 dicembre 2015
martedì 29 dicembre 2015
Verba volant (236): coperta...
Un'indispensabile premessa per i miei lettori che non conoscono Parma. La Pilotta è l'unica parte ancora conservata del vasto complesso di edifici che costituivano il palazzo ducale, in particolare gli spazi di servizio dove si trovavano le stalle, le scuderie, le abitazioni della servitù, e che delimitavano alcuni cortili, in uno dei quali si giocava appunto la pelota. Attualmente è la sede di alcuni importanti musei e della biblioteca civica; inoltre ospita lo splendido Teatro Farnese, un gioiello poco conosciuto del nostro paese, che vi invito a visitare.
Nella Pilotta trovano rifugio i senzatetto della città. Di giorno si disperdono per le vie e le piazze di Parma e noi non li vediamo, o almeno possiamo fare finta di non vederli. Ma di notte, specialmente durante le rigide e nebbiose notti invernali padane, quei portici - tra i pochissimi della nostra città - offrono loro un riparo di fortuna, ma almeno sicuro, anche perché quell'area è sorvegliata dalle telecamere. Qualche giorno fa, un po' prima delle feste, gli agenti della polizia municipale hanno raccolto e portato via le coperte che i senzatetto avevano utilizzato la notte precedente e che avrebbero usato quella successiva, perché quelle coperte abbandonate offendevano il decoro della città. È vero, quelle coperte - donate ai senzatetto da alcune associazioni cittadine - effettivamente sono brutte, sporche, e offrono una pessima immagine ai cittadini e ai turisti che passano ogni giorno per la Pilotta. Non voglio sembrare più buono di quanto sia: anche a me quelle coperte danno fastidio, ne sento la puzza quando ci passo accanto, e penso anche che qualcuna di quelle persone in fondo meriti quello che gli è capitato e che la colpa non sia sempre del destino cinico e baro.
In questi giorni la decisione della polizia municipale è stata criticata da più parti - almeno in pubblico - perché certe cose a Natale, quando tutti facciamo finta di essere più buoni, non si fanno - meglio farle dopo il 6 gennaio, quando siamo liberi di essere stronzi - e soprattutto perché così si può criticare un'amministrazione comunale che non piace (e che personalmente non mi sta neppure antipatica, anzi). Naturalmente in tanti - ovviamente in privato - hanno pensato che la polizia municipale abbia fatto bene a fare quello che ha fatto e che anzi avrebbe dovuto fare di più. A molti di quelli che in questi giorni hanno deplorato l'azione dei vigili - penso al pd e ai suoi fiancheggiatori - non frega nulla dei senzatetto - e infatti quando hanno governato non hanno fatto nulla per risolvere i loro problemi - ma serve a farsi belli a buon mercato, con una buona dose di ipocrisia. In sostanza le coperte della Pilotta sono diventate l'ennesima occasione offerta a una classe dirigente inadeguata per fare un po' di propaganda, lasciando sostanzialmente tutto come prima. Tanto prima o poi arriverà l'estate e quelle coperte non saranno più necessarie.
Quelle coperte sono davvero un'offesa per il decoro della nostra città. Quelle coperte offendono le nostre coscienze, le nostre convinzioni, le nostre sicurezze, perché ci ricordano che ci sono cittadini che la casa non ce l'hanno, non l'hanno mai avuta, l'hanno avuta e ora l'hanno perduta, non la possono avere. Lo scandalo non sono quelle coperte sporche abbandonate sotto i portici della Pilotta, ma le persone che tutte le notti hanno bisogno di quelle coperte. Nascondere quelle coperte in qualche magazzino del Comune - magari dicendo che rimangono a disposizione dei senzatetto, come un qualsiasi oggetto smarrito - non significa risolvere il problema dei senzatetto, che è grave, che coinvolge molte persone, italiane e straniere, vecchie e giovani, donne e uomini; spesso persone come me, come voi, persone che hanno avuto meno opportunità, che hanno avuto minor fortuna, persone che hanno fatto errori, a volte anche gravi. Solo nasconde il problema, lo mette sotto un'altra coperta, non meno indecorosa di quelle raccolte dalla polizia municipale.
Quelle coperte ci offendono perché ci chiedono cosa abbiamo fatto, ci interrogano sulle nostre responsabilità. Tanti di quelli che passano in Pilotta credono di non essere responsabili, magari si sentono perfino buoni perché hanno donato una di quelle coperte. E' colpa anche nostra, perché non ci arrabbiamo, o facciamo finta di arrabbiarci, perché pensiamo che il problema sia sempre un altro e che ci sia qualcun altro che se ne deve occupare. Invece è qualcosa di cui dovremmo occuparci noi. E non ospitando qualcuno di quei senzatetto, come ci provoca immediatamente uno di quei benpensanti non appena alziamo la voce, o organizzando uno di quei stucchevoli pranzi delle feste per i poveri, a beneficio dei fotografi dei giornali. La soluzione non è nella carità individuale, ma nella solidarietà civica.
Quelle coperte ci offendono perché ci chiedono cosa abbiamo fatto, ci interrogano sulle nostre responsabilità. Tanti di quelli che passano in Pilotta credono di non essere responsabili, magari si sentono perfino buoni perché hanno donato una di quelle coperte. E' colpa anche nostra, perché non ci arrabbiamo, o facciamo finta di arrabbiarci, perché pensiamo che il problema sia sempre un altro e che ci sia qualcun altro che se ne deve occupare. Invece è qualcosa di cui dovremmo occuparci noi. E non ospitando qualcuno di quei senzatetto, come ci provoca immediatamente uno di quei benpensanti non appena alziamo la voce, o organizzando uno di quei stucchevoli pranzi delle feste per i poveri, a beneficio dei fotografi dei giornali. La soluzione non è nella carità individuale, ma nella solidarietà civica.
Per quanto sia meritorio donare coperte a chi ne ha bisogno, non possiamo dire che questo sia sufficiente. Se critichiamo l'ipocrisia di chi non vuole che i senzatetto passino la notte sotto i portici della Pilotta, non possiamo neppure dire che ci accontentiamo di questa soluzione. Il meno peggio non smette mai di essere peggio e dobbiamo fare di tutto affinché nessuno sia costretto a dormire in strada. Lo scandalo vero è il numero di case vuote: a Parma, come in ogni altra città, ci sono centinaia di case disabitate, magari in rovina. Case spesso di proprietà pubblica, che lo stato non sa nemmeno di avere, e case lasciate così per gli interessi dei privati, che preferiscono lasciarle andare in malora piuttosto che affittarle a chi ne ha bisogno. Ci sono centinaia di case oggetto di speculazione, per far diventare ricco chi è già ricco. Lo scandalo è l'indifferenza, lo scandalo è l'avidità, lo scandalo è l'ipocrisia e non c'è una coperta abbastanza grande e spessa per nasconderle. Allora il nostro compito è sollevare questa coperta e buttarla in faccia, con tutto il suo marciume, a chi l'ha messa lì.
Mi pare un buon augurio per il prossimo anno.
Mi pare un buon augurio per il prossimo anno.
da "Il monopolio dell'uomo" di Anna Kuliscioff
Mi pare quindi, che solo col lavoro equamente retribuito, o retribuito almeno al pari dell'uomo, la donna farà il primo passo avanti ed il più, importante, perché soltanto col diventare economicamente indipendente, essa si sottrarrà al parassitismo morale, e potrà conquistare la sua libertà, la sua dignità ed il vero rispetto dell'altro sesso. Credo che soltanto allora le donne avranno la forza morale di non subire più le pressioni del padre, del marito, del fratello, e potranno creare anch'esse, in mezzo al loro sesso, quell'arme potente delle lotte sociali moderne, ch'è l’associazione, per conquistare poi con quest'arme i diritti civili e politici, che sono loro negati come agli uomini interdetti per imbecillità, per pazzia o per delinquenza.
Le leggi vigenti infliggono alla donna questa umiliazione atroce, perché non solo gli uomini, ma anche le donne stesse considerano la donna come un'eterna minorenne, ed essa non potrà mai diventare maggiorenne se non quando potrà bastare a se stessa colla propria intelligenza, le proprie capacità e le proprie forze morali.
In America c'è voluto un mezzo secolo di lavoro femminile nell'industria, nell'istruzione pubblica, nelle professioni libere, nessuna esclusa, perché le donne americane ottenessero, non il diritto al voto deliberativo, che si è ottenuto in uno solo degli Stati Uniti, ma soltanto il diritto al voto consultivo nei corpi politici, nelle commissioni legislative e nelle assemblee generali.
Non sono che sette anni che la legislatura del Kentuky sentiva due donne, la Benet e la Hoggart, patrocinare i diritti del loro sesso. Le donne avvocatesse di se medesime suscitarono, naturalmente, grande curiosità sia fra i deputati sia fra il pubblico accorso numerosissimo alla Camera. Gli scettici ed i maligni furono disarmati e vinti dall'eloquenza e dall'erudizione giuridica della Miss Hoggart; e lo stesso giorno fu presentato un bill, che conferiva alle donne il diritto all'amministrazione dei loro beni ed alle madri un'autorità sui figli eguale a quella del padre.
Questo fatto, che troverebbe in Francia, in Inghilterra ed altrove molti riscontri, che qui ometto per amore di brevità, non è che un esempio isolato inteso a dimostrare, come le leggi giuridiche sono la conseguenza di abitudini e costumi sociali, e non altro che la sanzione dei rapporti sociali già esistenti, allo stesso modo che le leggi cosmiche e biologiche non sono che la sintesi dei fenomeni osservati.
Non voglio però cadere nell'assoluto e non negherò che, se oggi, per una specie di miracolo, i legislatori uomini concedessero alle donne i diritti civili e politici, questo fatto eserciterebbe un'immensa influenza sul loro sviluppo intellettuale e morale, poiché è legge biologica che le funzioni nuove creano, a poco a poco, organi loro adatti. Fra le donne sarebbe avvenuto su per giù lo stesso fenomeno che si osserva nella gran massa degli operai, uomini poco atti ancora alla vita civile e politica. Eppure, dopo pochi anni di partecipazione diretta degli operai alla vita politica, vediamo come dal loro balbettare quasi infantile si sviluppano oratori poderosi, forniti di cognizioni serie e di studi profondi sulle questioni vitali che agitano la loro classe.
Ma ormai nessuna persona intelligente e di buon senso crede più ai miracoli; e le leggi vigenti, che riguardano le donne, subiranno la stessa evoluzione di tutte le altre leggi. Perché, direi colle parole dello Spencer, che "a misura che la cooperazione volontaria modifica sempre più il carattere del tipo sociale, il principio tacitamente ammesso dell'eguaglianza dei diritti per tutti diventa condizione fondamentale della legge."
Le donne, quindi, cooperando a titolo eguale degli uomini al lavoro sociale sotto qualsiasi aspetto, renderanno impossibili le leggi attuali, che le mettono in condizione d'inferiorità fra i minorenni e fra gli incapaci per imbecillità o pazzia quanto ai diritti politici, e assegnano loro un posto così inferiore in famiglia quanto ai diritti civili. Certo è che, finché la donna non potrà bastare a se stessa e per vivere dovrà dipendere dall'uomo, la legge, che la considera come proprietà del marito, dovendo la moglie seguirlo dovunque, rimarrà in tutto il suo vigore; e se quell'articolo, così oltraggioso alla dignità umana della donna, venisse anche abolito, quest'abolizione non rimarrebbe che lettera morta, data la dipendenza economica, in cui si trova la grande maggioranza delle donne.
Le leggi vigenti infliggono alla donna questa umiliazione atroce, perché non solo gli uomini, ma anche le donne stesse considerano la donna come un'eterna minorenne, ed essa non potrà mai diventare maggiorenne se non quando potrà bastare a se stessa colla propria intelligenza, le proprie capacità e le proprie forze morali.
In America c'è voluto un mezzo secolo di lavoro femminile nell'industria, nell'istruzione pubblica, nelle professioni libere, nessuna esclusa, perché le donne americane ottenessero, non il diritto al voto deliberativo, che si è ottenuto in uno solo degli Stati Uniti, ma soltanto il diritto al voto consultivo nei corpi politici, nelle commissioni legislative e nelle assemblee generali.
Non sono che sette anni che la legislatura del Kentuky sentiva due donne, la Benet e la Hoggart, patrocinare i diritti del loro sesso. Le donne avvocatesse di se medesime suscitarono, naturalmente, grande curiosità sia fra i deputati sia fra il pubblico accorso numerosissimo alla Camera. Gli scettici ed i maligni furono disarmati e vinti dall'eloquenza e dall'erudizione giuridica della Miss Hoggart; e lo stesso giorno fu presentato un bill, che conferiva alle donne il diritto all'amministrazione dei loro beni ed alle madri un'autorità sui figli eguale a quella del padre.
Questo fatto, che troverebbe in Francia, in Inghilterra ed altrove molti riscontri, che qui ometto per amore di brevità, non è che un esempio isolato inteso a dimostrare, come le leggi giuridiche sono la conseguenza di abitudini e costumi sociali, e non altro che la sanzione dei rapporti sociali già esistenti, allo stesso modo che le leggi cosmiche e biologiche non sono che la sintesi dei fenomeni osservati.
Non voglio però cadere nell'assoluto e non negherò che, se oggi, per una specie di miracolo, i legislatori uomini concedessero alle donne i diritti civili e politici, questo fatto eserciterebbe un'immensa influenza sul loro sviluppo intellettuale e morale, poiché è legge biologica che le funzioni nuove creano, a poco a poco, organi loro adatti. Fra le donne sarebbe avvenuto su per giù lo stesso fenomeno che si osserva nella gran massa degli operai, uomini poco atti ancora alla vita civile e politica. Eppure, dopo pochi anni di partecipazione diretta degli operai alla vita politica, vediamo come dal loro balbettare quasi infantile si sviluppano oratori poderosi, forniti di cognizioni serie e di studi profondi sulle questioni vitali che agitano la loro classe.
Ma ormai nessuna persona intelligente e di buon senso crede più ai miracoli; e le leggi vigenti, che riguardano le donne, subiranno la stessa evoluzione di tutte le altre leggi. Perché, direi colle parole dello Spencer, che "a misura che la cooperazione volontaria modifica sempre più il carattere del tipo sociale, il principio tacitamente ammesso dell'eguaglianza dei diritti per tutti diventa condizione fondamentale della legge."
Le donne, quindi, cooperando a titolo eguale degli uomini al lavoro sociale sotto qualsiasi aspetto, renderanno impossibili le leggi attuali, che le mettono in condizione d'inferiorità fra i minorenni e fra gli incapaci per imbecillità o pazzia quanto ai diritti politici, e assegnano loro un posto così inferiore in famiglia quanto ai diritti civili. Certo è che, finché la donna non potrà bastare a se stessa e per vivere dovrà dipendere dall'uomo, la legge, che la considera come proprietà del marito, dovendo la moglie seguirlo dovunque, rimarrà in tutto il suo vigore; e se quell'articolo, così oltraggioso alla dignità umana della donna, venisse anche abolito, quest'abolizione non rimarrebbe che lettera morta, data la dipendenza economica, in cui si trova la grande maggioranza delle donne.
mercoledì 23 dicembre 2015
Verba volant (235): mancia...
Mancia, sost. f.
All'indomani degli attentati di Parigi i padroni, soddisfatti, si sono fregati le mani: potevano approfittare della paura del terrorismo per fare nuovi affari alle spalle dei cittadini. E infatti tutti i governi europei hanno deciso di investire sulla sicurezza, aumentando gli stanziamenti per le armi e l'intelligence e naturalmente la Troika ha detto che queste spese sarebbero state ammesse, anche se al di fuori degli stretti vincoli imposti dalle regole di bilancio. Il nostro presidente del consiglio, emulo di Bertoldo, ha provato a fare il furbo. Dal momento che stava preparando la legge di bilancio ha infilato nelle spese per la sicurezza, ottenendo quindi il placet dei suoi controllori europei, un po' di soldi da distribuire agli elettori, in vista delle prossime amministrative - che non si presentano facilissime per il partito di regime - e soprattutto del referendum istituzionale, il passaggio su cui ha puntato tutto e su cui rischia di cadere. E su cui noi dobbiamo fare di tutto affinché cada.
Con un guizzo dei suoi ha detto che l'Italia avrebbe investito tanto in sicurezza quanto in cultura, un intento lodevole e su cui potremmo perfino essere d'accordo, se non fosse fatto con il solito renzi touch.
Per quello che riguarda la sicurezza la legge di bilancio prevede di estendere il contributo di 80 euro alle forze dell'ordine. Ovviamente questo provvedimento in sé va bene, pur ricordando che non si tratta di soldi in più dati ai lavoratori, ma di una detrazione fiscale, ossia di uno sconto sulle tasse che avrebbero comunque dovuto pagare. Nonostante questo, visto che a cavallo donato non si guarda in bocca, i colleghi delle forze dell'ordine ringraziano, dal momento che i loro stipendi sono piuttosto bassi. Il problema però non è quello, non è così che aumenta la sicurezza di questo paese, perché quelli che lavorano in questo delicato settore condividono con tutti noi dipendenti pubblici una serie di problemi che rendono difficile, se non impossibile, lavorare bene. C'è una cronica mancanza di risorse destinate agli strumenti con cui lavoriamo. Spesso ci si lamenta che le auto della polizia e dei carabinieri non possono uscire perché non ci sono i soldi della benzina, ma pensate anche alle dotazioni dei computer negli uffici pubblici: non è un tema indifferente in un'epoca in cui è indispensabile la velocità nello scambio delle informazioni. E poi c'è la farraginosità delle regole, l'inutile complicazione della burocrazia, la mancanza di formazione, c'è un sistema che non premia e valorizza la responsabilità, ma che anzi induce a non lavorare bene, a non prendersi responsabilità, perché rischi di pagarne le conseguenze. Chi lavora nel pubblico sa bene di cosa parlo. Non basta dare 80 euro in più a chi dovrebbe difenderci, occorre metterli nelle condizioni per farlo. E adesso queste condizioni non ci sono; e non ci saranno l'anno prossimo. Ma forse qualche poliziotto in più voterà per il partito di regime, e questo a loro basta.
Altrettanto curioso l'investimento del governo sulla cultura: anche in questo caso un bonus - 500 euro, non spiccioli - rivolto ai diciottenni, con cui potranno fare acquisti "culturali", ossia libri, biglietti per concerti, per musei, per spettacoli. Qui evidentemente la questione si fa spinosa: un libro di Fabio Volo o un concerto di Gigi D'Alessio sono cultura? Personalmente avrei qualche dubbio, ma credo sia sbagliato che ci sia qualcuno che decide cosa è e cosa non è cultura, anzi questo sarebbe un regime e quindi suppongo che i 500 euro saranno dedicati a quello che i nostri connazionali più giovani considerano piacevole, di moda. Francamente non so cosa avrei comprato quando avevo 18 anni, se avessi avuto una cifra analoga, ma immagino che non avrei comprato né la Recherche né i biglietti per l'opera né per una mostra d'arte. Immagino li avrei spesi un po' a caso - me li sarei sputtanati, come si dice a Bologna - come faranno i diciottenni il prossimo anno. Non è un giudizio di merito sui giovani di oggi che, anzi, io credo siano migliori e più intelligenti di come li raccontiamo e li immaginiamo noi vecchi, ma una semplice constatazione, di puro realismo.
Io credo che l'educazione sia importante, anzi sia la funzione più importante che deve svolgere uno stato, che la collettività deve finanziare e sostenere in ogni modo, e questa operazione non è assolutamente educativa. Tieni 500 euro e usali bene, dice il governo, e poi ricordati di noi quando dovrai votare, aggiunge sottovoce. E' un'operazione che serve a far crescere la società? No, al massimo fa crescere un po' i consumi, Fabio Volo e Gigi D'Alessio incasseranno un po' più di Siae, ma tutto lì. La cultura in una società cresce se si fanno investimenti sulla scuola, sulle biblioteche, sui musei, sugli strumenti della comunicazione, se si offrono opportunità ai giovani artisti, tutto quello che in questo paese sistematicamente non facciamo.
C'è poi un corollario a questa norma che è particolarmente interessante. Infatti questa operazione non è rivolta neppure a tutti i diciottenni, ma solo a quelli italiani e appartenenti all'Unione europea. Gli altri, anche se nati in Italia, anche se studenti in scuole italiane, non riceveranno i 500 euro. Poi dice che uno diventa terrorista; magari terroristi non lo diventeranno - perché sono intelligenti - ma un po' queste ragazze e questi ragazzi si incazzeranno per essere stati così platealmente discriminati rispetto ai loro coetanei, ai loro compagni di scuola, ai loro amici. Però è anche vero che loro non votano: cosa serve spendere questi soldi? Va bene la cultura, ma non possiamo fare beneficenza.
So che quelli del regime si arrabbiano quando diciamo che si tratta di mance elettorali, come le scarpe di Lauro. Ma del resto cosa dovremmo pensare?
E il resto? Mancia.
All'indomani degli attentati di Parigi i padroni, soddisfatti, si sono fregati le mani: potevano approfittare della paura del terrorismo per fare nuovi affari alle spalle dei cittadini. E infatti tutti i governi europei hanno deciso di investire sulla sicurezza, aumentando gli stanziamenti per le armi e l'intelligence e naturalmente la Troika ha detto che queste spese sarebbero state ammesse, anche se al di fuori degli stretti vincoli imposti dalle regole di bilancio. Il nostro presidente del consiglio, emulo di Bertoldo, ha provato a fare il furbo. Dal momento che stava preparando la legge di bilancio ha infilato nelle spese per la sicurezza, ottenendo quindi il placet dei suoi controllori europei, un po' di soldi da distribuire agli elettori, in vista delle prossime amministrative - che non si presentano facilissime per il partito di regime - e soprattutto del referendum istituzionale, il passaggio su cui ha puntato tutto e su cui rischia di cadere. E su cui noi dobbiamo fare di tutto affinché cada.
Con un guizzo dei suoi ha detto che l'Italia avrebbe investito tanto in sicurezza quanto in cultura, un intento lodevole e su cui potremmo perfino essere d'accordo, se non fosse fatto con il solito renzi touch.
Per quello che riguarda la sicurezza la legge di bilancio prevede di estendere il contributo di 80 euro alle forze dell'ordine. Ovviamente questo provvedimento in sé va bene, pur ricordando che non si tratta di soldi in più dati ai lavoratori, ma di una detrazione fiscale, ossia di uno sconto sulle tasse che avrebbero comunque dovuto pagare. Nonostante questo, visto che a cavallo donato non si guarda in bocca, i colleghi delle forze dell'ordine ringraziano, dal momento che i loro stipendi sono piuttosto bassi. Il problema però non è quello, non è così che aumenta la sicurezza di questo paese, perché quelli che lavorano in questo delicato settore condividono con tutti noi dipendenti pubblici una serie di problemi che rendono difficile, se non impossibile, lavorare bene. C'è una cronica mancanza di risorse destinate agli strumenti con cui lavoriamo. Spesso ci si lamenta che le auto della polizia e dei carabinieri non possono uscire perché non ci sono i soldi della benzina, ma pensate anche alle dotazioni dei computer negli uffici pubblici: non è un tema indifferente in un'epoca in cui è indispensabile la velocità nello scambio delle informazioni. E poi c'è la farraginosità delle regole, l'inutile complicazione della burocrazia, la mancanza di formazione, c'è un sistema che non premia e valorizza la responsabilità, ma che anzi induce a non lavorare bene, a non prendersi responsabilità, perché rischi di pagarne le conseguenze. Chi lavora nel pubblico sa bene di cosa parlo. Non basta dare 80 euro in più a chi dovrebbe difenderci, occorre metterli nelle condizioni per farlo. E adesso queste condizioni non ci sono; e non ci saranno l'anno prossimo. Ma forse qualche poliziotto in più voterà per il partito di regime, e questo a loro basta.
Altrettanto curioso l'investimento del governo sulla cultura: anche in questo caso un bonus - 500 euro, non spiccioli - rivolto ai diciottenni, con cui potranno fare acquisti "culturali", ossia libri, biglietti per concerti, per musei, per spettacoli. Qui evidentemente la questione si fa spinosa: un libro di Fabio Volo o un concerto di Gigi D'Alessio sono cultura? Personalmente avrei qualche dubbio, ma credo sia sbagliato che ci sia qualcuno che decide cosa è e cosa non è cultura, anzi questo sarebbe un regime e quindi suppongo che i 500 euro saranno dedicati a quello che i nostri connazionali più giovani considerano piacevole, di moda. Francamente non so cosa avrei comprato quando avevo 18 anni, se avessi avuto una cifra analoga, ma immagino che non avrei comprato né la Recherche né i biglietti per l'opera né per una mostra d'arte. Immagino li avrei spesi un po' a caso - me li sarei sputtanati, come si dice a Bologna - come faranno i diciottenni il prossimo anno. Non è un giudizio di merito sui giovani di oggi che, anzi, io credo siano migliori e più intelligenti di come li raccontiamo e li immaginiamo noi vecchi, ma una semplice constatazione, di puro realismo.
Io credo che l'educazione sia importante, anzi sia la funzione più importante che deve svolgere uno stato, che la collettività deve finanziare e sostenere in ogni modo, e questa operazione non è assolutamente educativa. Tieni 500 euro e usali bene, dice il governo, e poi ricordati di noi quando dovrai votare, aggiunge sottovoce. E' un'operazione che serve a far crescere la società? No, al massimo fa crescere un po' i consumi, Fabio Volo e Gigi D'Alessio incasseranno un po' più di Siae, ma tutto lì. La cultura in una società cresce se si fanno investimenti sulla scuola, sulle biblioteche, sui musei, sugli strumenti della comunicazione, se si offrono opportunità ai giovani artisti, tutto quello che in questo paese sistematicamente non facciamo.
C'è poi un corollario a questa norma che è particolarmente interessante. Infatti questa operazione non è rivolta neppure a tutti i diciottenni, ma solo a quelli italiani e appartenenti all'Unione europea. Gli altri, anche se nati in Italia, anche se studenti in scuole italiane, non riceveranno i 500 euro. Poi dice che uno diventa terrorista; magari terroristi non lo diventeranno - perché sono intelligenti - ma un po' queste ragazze e questi ragazzi si incazzeranno per essere stati così platealmente discriminati rispetto ai loro coetanei, ai loro compagni di scuola, ai loro amici. Però è anche vero che loro non votano: cosa serve spendere questi soldi? Va bene la cultura, ma non possiamo fare beneficenza.
So che quelli del regime si arrabbiano quando diciamo che si tratta di mance elettorali, come le scarpe di Lauro. Ma del resto cosa dovremmo pensare?
E il resto? Mancia.
Rapido 904, Grande galleria dell'Appennino, San Benedetto Val di Sambro, 23 dicembre 1984
Anna Maria Brandi, 26 anni
Giovanni Calabrò, 67 anni
Angela Calvanese in De Simone, 33 anni
Susanna Cavalli, 22 anni
Susanna Cavalli, 22 anni
Lucia Cerrato, 66 anni
Anna De Simone, 9 anni
Giovanni De Simone, 4 anni
Nicola De Simone, 40 anni
Pier Francesco Leoni, 23 anni
Luisella Matarazzo, 25 anni
Carmine Moccia, 30 anni
Valeria Moratello, 22 anni
Maria Luigia Morini, 45 anni
Federica Taglialatela, 12 anni
Gioacchino Taglialatela, 50 anni
Giovanni De Simone, 4 anni
Nicola De Simone, 40 anni
Pier Francesco Leoni, 23 anni
Luisella Matarazzo, 25 anni
Carmine Moccia, 30 anni
Valeria Moratello, 22 anni
Maria Luigia Morini, 45 anni
Federica Taglialatela, 12 anni
Gioacchino Taglialatela, 50 anni
Abramo Vastarella, 29 anni
lunedì 21 dicembre 2015
Verba volant (234): transizione...
Transizione, sost. f.
Immagino già la smorfia di alcuni dei miei venticinque lettori, i duri e puri, quelli senza se e senza ma: ecco il solito politicante - diranno - ecco che se ne viene fuori con una formula del politichese. Sì, voglio proprio tessere un elogio alla politica. Perché senza politica non c'è democrazia. E senza democrazia non c'è sinistra.
I compagni di Podemos oggi avrebbero potuto festeggiare. Si sono presentati per la prima volta alle elezioni e sono diventati la terza forza del paese, scardinando il bipolarismo su cui si è retta in questi decenni quella giovane democrazia. Oggi però Pablo Iglesias ha spiegato che non è il tempo di mostrare i muscoli, ma quello di ragionare, che non è il tempo della forza, ma quello della politica. Ha detto che dovranno discutere, che Podemos rifletterà, ma soprattutto ha detto che sarà necessario un compromesso, che non ha esitato a definire storico. Ha spiegato che Podemos farà di tutto affinché non nasca un governo del Ppe. Questo è un punto fermo, ma da qui in poi comincia la politica e ora la palla passa ai socialisti che dovranno decidere: o fare come il pd, coma la Spd, come i francesi e diventare un partito di centro moderato, pronto ad allearsi con Rajoy in nome delle "larghe intese" e dei valori del finanzcapitalismo, oppure scegliere di tornare a essere una grande forza di sinistra, una forza che è stata determinante per la transizione dalla dittatura fascista di Franco alla democrazia. Immagino che sarà per quel partito una scelta dilaniante, perché una parte ha già scelto di stare a destra, ma adesso i compagni del Psoe hanno un appuntamento con la storia. Io da sostenitore di Podemos, spero ovviamente che i socialisti scelgano bene, non commettano un errore che non solo farebbe nascere un pessimo governo in Spagna, ma condannerebbe la sinistra ad ancora lunghi anni di opposizione, sempre più difficili. Non ho molte speranze che vada effettivamente così, perché immagino che sia cominciato da parte delle forze del capitale un "corteggiamento" serrato, fatto di minacce e di blandizie, a cui sarà difficile resistere. Vedremo comunque cosa succederà, vigileremo.
Però i socialisti spagnoli non potranno usare l'alibi di non aver trovato una sponda. Iglesias oggi ha offerto la mano ai socialisti e, se loro la rifiuteranno, ne pagheranno le conseguenze.
La politica è responsabilità. Il pd fa oggettivamente schifo, ma fa anche così schifo perché il Movimento Cinque stelle non ha avuto la forza, l'intelligenza, l'astuzia, di proporsi come un interlocutore. Perché il M5s non è riuscito a fare, all'indomani delle elezioni, quello che ha fatto Podemos. Il M5s ha rinunciato alla politica e si è accontentato di rimirare i numeri del proprio strabiliante risultato elettorale. So che adesso si leveranno gli strali dei duri e puri della "mia" parte, che mi diranno che il M5s non è Podemos e mi diranno tutto il male possibile di Grillo, dei grilleschi, dei grillini. So tutto - per molti versi vi dò ragione - però, mentre da una parte e dall'altra prevalgono le teste di legno, in Italia renzi ha instaurato un regime. E, se non riusciremo a sconfiggerlo al referendum istituzionale dell'anno prossimo, sarà durissima farlo dopo.
Iglesias oggi ha messo in fila pochi punti: il rifiuto del governo del Ppe, il sostegno al referendum in Catalogna, una nuova legge elettorale proporzionale, l'indipendenza della giustizia, la difesa dei diritti sociali. E' molto? E' poco? E' quello che forse oggi è possibile ottenere. Altrimenti ci saranno nuove elezioni: una forza popolare non può aver paura delle elezioni. La sinistra italiana si è suicidata quando ha rinunciato alle elezioni, ad esempio nel novembre del 2011, quando si è piegata al colpo di stato di Napolitano e ha accettato la governabilità. Podemos per fortuna non sta facendo lo stesso errore.
Qualcosa evidentemente abbiamo da imparare dalla sinistra spagnola, dall'intelligenza politica dei suoi dirigenti e dei suoi militanti. Dobbiamo imparare a essere noi, a dire quello che vogliamo, ma dobbiamo anche imparare a discutere con quelli che non sono noi, ma che con noi possono fare un pezzo di strada. Podemos ha parlato al popolo della Spagna, ai poveri, a quelli che sono stati colpiti dalla crisi, ha offerto loro una speranza. Ci dovremmo ricordare come si fa, i nostri vecchi ce lo hanno pure insegnato. Come ci hanno insegnato fare politica. Noi lo abbiamo dimenticato, lo abbiamo voluto dimenticare, persi dietro a una falsa idea di modernità. Eppure è tutto lì, le idee, le proposte, perfino le parole. Vanno solo fatte riemergere. E potrebbe cominciare anche per noi la transizione.
Immagino già la smorfia di alcuni dei miei venticinque lettori, i duri e puri, quelli senza se e senza ma: ecco il solito politicante - diranno - ecco che se ne viene fuori con una formula del politichese. Sì, voglio proprio tessere un elogio alla politica. Perché senza politica non c'è democrazia. E senza democrazia non c'è sinistra.
I compagni di Podemos oggi avrebbero potuto festeggiare. Si sono presentati per la prima volta alle elezioni e sono diventati la terza forza del paese, scardinando il bipolarismo su cui si è retta in questi decenni quella giovane democrazia. Oggi però Pablo Iglesias ha spiegato che non è il tempo di mostrare i muscoli, ma quello di ragionare, che non è il tempo della forza, ma quello della politica. Ha detto che dovranno discutere, che Podemos rifletterà, ma soprattutto ha detto che sarà necessario un compromesso, che non ha esitato a definire storico. Ha spiegato che Podemos farà di tutto affinché non nasca un governo del Ppe. Questo è un punto fermo, ma da qui in poi comincia la politica e ora la palla passa ai socialisti che dovranno decidere: o fare come il pd, coma la Spd, come i francesi e diventare un partito di centro moderato, pronto ad allearsi con Rajoy in nome delle "larghe intese" e dei valori del finanzcapitalismo, oppure scegliere di tornare a essere una grande forza di sinistra, una forza che è stata determinante per la transizione dalla dittatura fascista di Franco alla democrazia. Immagino che sarà per quel partito una scelta dilaniante, perché una parte ha già scelto di stare a destra, ma adesso i compagni del Psoe hanno un appuntamento con la storia. Io da sostenitore di Podemos, spero ovviamente che i socialisti scelgano bene, non commettano un errore che non solo farebbe nascere un pessimo governo in Spagna, ma condannerebbe la sinistra ad ancora lunghi anni di opposizione, sempre più difficili. Non ho molte speranze che vada effettivamente così, perché immagino che sia cominciato da parte delle forze del capitale un "corteggiamento" serrato, fatto di minacce e di blandizie, a cui sarà difficile resistere. Vedremo comunque cosa succederà, vigileremo.
Però i socialisti spagnoli non potranno usare l'alibi di non aver trovato una sponda. Iglesias oggi ha offerto la mano ai socialisti e, se loro la rifiuteranno, ne pagheranno le conseguenze.
La politica è responsabilità. Il pd fa oggettivamente schifo, ma fa anche così schifo perché il Movimento Cinque stelle non ha avuto la forza, l'intelligenza, l'astuzia, di proporsi come un interlocutore. Perché il M5s non è riuscito a fare, all'indomani delle elezioni, quello che ha fatto Podemos. Il M5s ha rinunciato alla politica e si è accontentato di rimirare i numeri del proprio strabiliante risultato elettorale. So che adesso si leveranno gli strali dei duri e puri della "mia" parte, che mi diranno che il M5s non è Podemos e mi diranno tutto il male possibile di Grillo, dei grilleschi, dei grillini. So tutto - per molti versi vi dò ragione - però, mentre da una parte e dall'altra prevalgono le teste di legno, in Italia renzi ha instaurato un regime. E, se non riusciremo a sconfiggerlo al referendum istituzionale dell'anno prossimo, sarà durissima farlo dopo.
Iglesias oggi ha messo in fila pochi punti: il rifiuto del governo del Ppe, il sostegno al referendum in Catalogna, una nuova legge elettorale proporzionale, l'indipendenza della giustizia, la difesa dei diritti sociali. E' molto? E' poco? E' quello che forse oggi è possibile ottenere. Altrimenti ci saranno nuove elezioni: una forza popolare non può aver paura delle elezioni. La sinistra italiana si è suicidata quando ha rinunciato alle elezioni, ad esempio nel novembre del 2011, quando si è piegata al colpo di stato di Napolitano e ha accettato la governabilità. Podemos per fortuna non sta facendo lo stesso errore.
Qualcosa evidentemente abbiamo da imparare dalla sinistra spagnola, dall'intelligenza politica dei suoi dirigenti e dei suoi militanti. Dobbiamo imparare a essere noi, a dire quello che vogliamo, ma dobbiamo anche imparare a discutere con quelli che non sono noi, ma che con noi possono fare un pezzo di strada. Podemos ha parlato al popolo della Spagna, ai poveri, a quelli che sono stati colpiti dalla crisi, ha offerto loro una speranza. Ci dovremmo ricordare come si fa, i nostri vecchi ce lo hanno pure insegnato. Come ci hanno insegnato fare politica. Noi lo abbiamo dimenticato, lo abbiamo voluto dimenticare, persi dietro a una falsa idea di modernità. Eppure è tutto lì, le idee, le proposte, perfino le parole. Vanno solo fatte riemergere. E potrebbe cominciare anche per noi la transizione.
sabato 19 dicembre 2015
Verba volant (233): diga...
Diga, sost. f.
Della vicenda dei due fucilieri di marina accusati dal governo indiano di aver ucciso due pescatori di quel paese si è parlato a lungo; spesso a sproposito. Come è noto, quel fatto di cronaca è stato caricato di significati politici, internazionali e nazionali, che vanno molto al di là dell'episodio in sé e che non contribuiscono certo a risolverlo. Nessuno però ricorda - o vuole ricordare - il problema di fondo: quei due militari italiani non avrebbero dovuto stare su quella nave. Per quale ragione dei dipendenti pubblici - quindi pagati dalla collettività - dovevano difendere gli interessi - ovviamente leciti, ma privati - di un armatore? E' un interesse dello stato che quell'armatore possa continuare a trasportare delle merci? No, è un problema suo garantire la sicurezza delle proprie navi, così come è un suo diritto ottenere un guadagno adeguato da quel lavoro, anche particolarmente carico di rischi. Semplicemente il governo di allora decise di fare un favore, parecchio oneroso, agli armatori, facendosi carico della sicurezza delle loro navi, senza avere in cambio alcuna contropartita; almeno di natura lecita.
Dal momento che perseverare è diabolico, il governo renzi - che proprio un santo non è - ha deciso di continuare in questa pericolosa confusione di interessi, pubblici e privati. Dopo aver tentato per qualche settimana di resistere agli ordini, sempre più perentori, delle forze del capitale affinché anche l'Italia schierasse nuove truppe in Medio Oriente, come hanno fatto in maniera disciplinata tutti gli altri paesi europei, usando come scusa gli attacchi terroristici dei loro "amici" dell'Isis, renzi è stato costretto a cedere. Aveva perfino tentato di spacciare come lotta al terrorismo islamico le mance elettorali previste in occasione delle prossime amministrative e i finanziamenti a pioggia alle sagre degli amici degli amici, ma evidentemente qualcuno l'ha tirato per la giacca e l'ha costretto a mandare i soldati al fronte. E così, riscopertosi guerriero, assiso su una poltrona di Vespa, ha annunciato l'invio in Iraq di un contingente di 450 militari: a Mosul, vicino al fronte, là dove si combatte e si rischia davvero. Abbiamo poi saputo, quasi incidentalmente, che le truppe italiane nello specifico saranno schierate a protezione della diga della città curda e che proprio nei prossimi giorni cominceranno i lavori di un'azienda italiana, la Trevi di Cesena, per la manutenzione straordinaria di questa opera. In pratica le truppe italiane andranno a proteggere i cantieri della Trevi.
Naturalmente la propaganda del Minculpop ci ha spiegato che questi lavori sono indispensabili per garantire la sicurezza di quell'opera che, se cedesse, causerebbe enormi danni in tutta la regione circostante e molto più a valle, forse fino a Baghdad, scaricando un'incredibile quantità di acqua. A dire il vero qualcuno dice che questi non siano lavori di consolidamento - che non sarebbero strettamente necessari - ma interventi previsti per potenziare ulteriormente la diga e renderla quindi ancora più pericolosa. Personalmente guardo sempre con sospetto alla costruzione di queste grandi dighe nei paesi in via di sviluppo, i cui benefici sono evidentissimi per le aziende che le costruiscono - e per i politici che prendono tangenti per farle costruire - e quasi nulli per quei paesi. Anzi spesso la costruzione di queste dighe ha rappresentato la rovina per molti popoli che vivevano in quelle aree, costretti a lasciare le loro case e i loro terreni. E un danno ambientale incalcolabile. Ad esempio il governo turco ha utilizzato la costruzione delle dighe nel territorio dei curdi con il duplice scopo di togliere l'acqua ai paesi confinanti e di distruggere alcune città di quel popolo colonizzato.
La diga di Mosul fu fatta costruire all'inizio degli anni Ottanta da Saddam Hussein soprattutto in funzione anticurda, per "arabizzare" il nord di quel paese, e fu realizzata da aziende italiane e tedesche. Quella diga è considerata una delle più pericolose del mondo, non solo perché si trova in un teatro di guerra, ma soprattutto perché è estremamente fragile; una parte è costruita su un deposito di gesso, un minerale che si scioglie a contatto con l'acqua, e quindi richiede una manutenzione costante e costosa. Quella diga - che realisticamente sarebbe da smantellare e non da rendere più grande - è evidentemente la gallina dalla uova d'oro per le aziende occidentali che vogliono curarne la manutenzione.
E allora proviamo a capire se è nato prima l'uovo o la gallina; in questo caso non si tratta di un esercizio ozioso. Primo scenario. Se il governo italiano ha deciso di schierare le proprie truppe proprio a Mosul dopo aver saputo che la Trevi aveva ottenuto l'appalto per i lavori di manutenzione della diga, ha fatto a quell'azienda un notevole favore. Sicuramente quelli della Trevi avevano previsto di assumere un discreto numero di contractors - come si chiamano adesso i mercenari - per proteggere i propri beni e i propri lavoratori a Mosul e avevano fatto la loro offerta tenendo conto anche di questi costi per la sicurezza; ora quella spesa non serve più e quindi la Trevi vedrà aumentare di molto i propri utili, grazie al lavoro dei militari italiani, che paghiamo noi. Secondo scenario. Quelli della Trevi sapevano che il governo avrebbe schierato l'esercito a protezione dei loro cantieri e quindi non hanno tenuto conto dei costi per la sicurezza e in questo modo hanno potuto tenere più bassi i costi complessivi e ottenere un appalto che stavano cercando, senza successo, da tempo. Questo intervento, comunque sia andata, è un successo per l'azienda di Cesena che ci guadagnerà molti soldi, anche al netto delle tangenti che pagherà, a Baghdad e a Roma. A spese nostre.
Ricordiamocelo durante le cerimonie per commemorare il primo italiano caduto a Mosul o quando srotoleremo gli striscioni con la foto di un soldato rapito laggiù da quelli dell'Isis. Questa non è la nostra guerra, è la guerra di chi fa affari, è la guerra dei governi loro complici, è la guerra di chi sfrutta i popoli. E' la guerra di chi costruisce le dighe e di chi toglie l'acqua ai popoli e dei governi che li proteggono. E' la guerra dei signori contro di noi.
Della vicenda dei due fucilieri di marina accusati dal governo indiano di aver ucciso due pescatori di quel paese si è parlato a lungo; spesso a sproposito. Come è noto, quel fatto di cronaca è stato caricato di significati politici, internazionali e nazionali, che vanno molto al di là dell'episodio in sé e che non contribuiscono certo a risolverlo. Nessuno però ricorda - o vuole ricordare - il problema di fondo: quei due militari italiani non avrebbero dovuto stare su quella nave. Per quale ragione dei dipendenti pubblici - quindi pagati dalla collettività - dovevano difendere gli interessi - ovviamente leciti, ma privati - di un armatore? E' un interesse dello stato che quell'armatore possa continuare a trasportare delle merci? No, è un problema suo garantire la sicurezza delle proprie navi, così come è un suo diritto ottenere un guadagno adeguato da quel lavoro, anche particolarmente carico di rischi. Semplicemente il governo di allora decise di fare un favore, parecchio oneroso, agli armatori, facendosi carico della sicurezza delle loro navi, senza avere in cambio alcuna contropartita; almeno di natura lecita.
Dal momento che perseverare è diabolico, il governo renzi - che proprio un santo non è - ha deciso di continuare in questa pericolosa confusione di interessi, pubblici e privati. Dopo aver tentato per qualche settimana di resistere agli ordini, sempre più perentori, delle forze del capitale affinché anche l'Italia schierasse nuove truppe in Medio Oriente, come hanno fatto in maniera disciplinata tutti gli altri paesi europei, usando come scusa gli attacchi terroristici dei loro "amici" dell'Isis, renzi è stato costretto a cedere. Aveva perfino tentato di spacciare come lotta al terrorismo islamico le mance elettorali previste in occasione delle prossime amministrative e i finanziamenti a pioggia alle sagre degli amici degli amici, ma evidentemente qualcuno l'ha tirato per la giacca e l'ha costretto a mandare i soldati al fronte. E così, riscopertosi guerriero, assiso su una poltrona di Vespa, ha annunciato l'invio in Iraq di un contingente di 450 militari: a Mosul, vicino al fronte, là dove si combatte e si rischia davvero. Abbiamo poi saputo, quasi incidentalmente, che le truppe italiane nello specifico saranno schierate a protezione della diga della città curda e che proprio nei prossimi giorni cominceranno i lavori di un'azienda italiana, la Trevi di Cesena, per la manutenzione straordinaria di questa opera. In pratica le truppe italiane andranno a proteggere i cantieri della Trevi.
Naturalmente la propaganda del Minculpop ci ha spiegato che questi lavori sono indispensabili per garantire la sicurezza di quell'opera che, se cedesse, causerebbe enormi danni in tutta la regione circostante e molto più a valle, forse fino a Baghdad, scaricando un'incredibile quantità di acqua. A dire il vero qualcuno dice che questi non siano lavori di consolidamento - che non sarebbero strettamente necessari - ma interventi previsti per potenziare ulteriormente la diga e renderla quindi ancora più pericolosa. Personalmente guardo sempre con sospetto alla costruzione di queste grandi dighe nei paesi in via di sviluppo, i cui benefici sono evidentissimi per le aziende che le costruiscono - e per i politici che prendono tangenti per farle costruire - e quasi nulli per quei paesi. Anzi spesso la costruzione di queste dighe ha rappresentato la rovina per molti popoli che vivevano in quelle aree, costretti a lasciare le loro case e i loro terreni. E un danno ambientale incalcolabile. Ad esempio il governo turco ha utilizzato la costruzione delle dighe nel territorio dei curdi con il duplice scopo di togliere l'acqua ai paesi confinanti e di distruggere alcune città di quel popolo colonizzato.
La diga di Mosul fu fatta costruire all'inizio degli anni Ottanta da Saddam Hussein soprattutto in funzione anticurda, per "arabizzare" il nord di quel paese, e fu realizzata da aziende italiane e tedesche. Quella diga è considerata una delle più pericolose del mondo, non solo perché si trova in un teatro di guerra, ma soprattutto perché è estremamente fragile; una parte è costruita su un deposito di gesso, un minerale che si scioglie a contatto con l'acqua, e quindi richiede una manutenzione costante e costosa. Quella diga - che realisticamente sarebbe da smantellare e non da rendere più grande - è evidentemente la gallina dalla uova d'oro per le aziende occidentali che vogliono curarne la manutenzione.
E allora proviamo a capire se è nato prima l'uovo o la gallina; in questo caso non si tratta di un esercizio ozioso. Primo scenario. Se il governo italiano ha deciso di schierare le proprie truppe proprio a Mosul dopo aver saputo che la Trevi aveva ottenuto l'appalto per i lavori di manutenzione della diga, ha fatto a quell'azienda un notevole favore. Sicuramente quelli della Trevi avevano previsto di assumere un discreto numero di contractors - come si chiamano adesso i mercenari - per proteggere i propri beni e i propri lavoratori a Mosul e avevano fatto la loro offerta tenendo conto anche di questi costi per la sicurezza; ora quella spesa non serve più e quindi la Trevi vedrà aumentare di molto i propri utili, grazie al lavoro dei militari italiani, che paghiamo noi. Secondo scenario. Quelli della Trevi sapevano che il governo avrebbe schierato l'esercito a protezione dei loro cantieri e quindi non hanno tenuto conto dei costi per la sicurezza e in questo modo hanno potuto tenere più bassi i costi complessivi e ottenere un appalto che stavano cercando, senza successo, da tempo. Questo intervento, comunque sia andata, è un successo per l'azienda di Cesena che ci guadagnerà molti soldi, anche al netto delle tangenti che pagherà, a Baghdad e a Roma. A spese nostre.
Ricordiamocelo durante le cerimonie per commemorare il primo italiano caduto a Mosul o quando srotoleremo gli striscioni con la foto di un soldato rapito laggiù da quelli dell'Isis. Questa non è la nostra guerra, è la guerra di chi fa affari, è la guerra dei governi loro complici, è la guerra di chi sfrutta i popoli. E' la guerra di chi costruisce le dighe e di chi toglie l'acqua ai popoli e dei governi che li proteggono. E' la guerra dei signori contro di noi.
venerdì 18 dicembre 2015
Verba volant (232): nuovo...
Nuovo, agg.
Il vero - e forse unico - mito fondante del renzismo è stato apparire come una novità. In un paese vecchio, governato da vecchi e dai figli di quei vecchi, l'irruzione di questo branco di giovani, per quanto rumorosi, per quanto arroganti, per quanto inesperti - difetti che i vecchi sono comunque disposti a perdonare, quando si ricordano che loro stessi sono stati rumorosi, arroganti, inesperti - è stata vista da molti come qualcosa di salutare. Ed è un mito che funziona ancora, nonostante non siano più, oggettivamente, la novità del panorama politico italiano. Quelli della Leopolda - almeno delle prime Leopolde, visto che la spinta propulsiva di questa manifestazione pare affievolirsi con gli anni - non volevano essere solo giovani, o meglio non volevano solo apparire giovani. In fondo anche uno come Enrico Letta era giovane, ma non era certo nuovo, è uno dei tanti figli di... che ci sono in questo paese. E neppure Gianni Cuperlo è nuovo, pur essendo giovane, perché ha alle spalle una lunga storia di militanza, come molti di noi. Quelli della Leopolda dovevano essere - o almeno apparire - del tutto nuovi.
A dire la verità neppure matteo renzi era esattamente una novità, essendo entrato nella politica che conta con uno di quei sistemi che lui stesso, negli anni successivi, avrebbe poi tanto bistrattato. Il giovane di Rignano è diventato presidente della Provincia di Firenze perché così imponeva un accordo, biecamente spartitorio, che ha retto per molti anni tra gli eredi del Pci e quelli della Dc, almeno qui nelle cosiddette regioni rosse: quando si dovevano scegliere gli amministratori locali a noi toccavano i sindaci, perché i Comuni erano più importanti e noi eravamo più importanti - politicamente ed elettoralmente - e a loro toccavano le Province, perché quelle erano istituzioni con meno poteri. Dovevano accontentarsi e spesso si accontentavano. In sostanza quello designato a fare il presidente della Provincia doveva essere una figura meno popolare del sindaco, non doveva fargli ombra, e veniva controllato da un nostro vicepresidente, scelto tra i più bravi, proprio con questo scopo. Nonostante questo, renzi - che evidentemente non era uno che si accontentava - ha avuto l'indubbia capacità di liberarsi di questo marchio d'origine e di riuscire appunto a presentarsi come nuovo.
Giovani, carini e disoccupati è il titolo di un film uscito parecchi anni fa, quando io ero giovane. Probabilmente non era neppure un gran film, ma ebbe la capacità di raccontare con efficacia quella nostra generazione e infatti fu imitato, con esiti alterni, in molte occasioni. Quelli della Leopolda sono riusciti a presentarsi così: giovani, carini, disoccupati. E figli di NN, almeno politicamente. Oggettivamente Maria Elena Boschi è la renziana perfetta, quella che rappresenta meglio di tutti queste caratteristiche; Maria Elena è il simbolo del renzismo e per questo non può cadere, non può essere sfiduciata. E' giovane, è carina, oggi non è più disoccupata, perché a lei è stato affidato il compito più importante, quello di riformare la Costituzione. Un incarico che un tempo sarebbe toccato a un uomo, anzi a un uomo vecchio. I miei lettori con qualche anno in più ricorderanno certamente Aldo Bozzi, liberale, con la sua bella barba bianca, con i suoi toni pacati, a cui fu affidata la presidenza della prima commissione parlamentare, solo consultiva, incaricata di elaborare un progetto di revisione della seconda parte della Costituzione. La prima Repubblica aveva il viso, ancora risorgimentale, del senatore Bozzi, gesuitico e tardo, come lo zio di nonna Speranza; questa nostra, nuova, Repubblica invece ha il viso - e i tacchi - di Maria Elena Boschi.
Il giocattolo però si è rotto - o ha rischiato seriamente di rompersi - quando abbiamo scoperto che la caparbia Maria Elena non è la figlia di NN che ci hanno raccontato fino ad ora, ma è la figlia di suo padre e suo padre è un signore che negli anni si è creato una notevole posizione di potere nella sua città, fino a diventare - è ormai cosa nota - vicepresidente di Banca Etruria. Maria Elena non è nata sotto un cavolo, ma è la rappresentante di una famiglia che ha relazioni, contatti, interessi. Sinceramente a me importa poco capire se c'è stato o non c'è stato un qualche conflitto di interesse. Non mi sembra la cosa politicamente più rilevante. Questa vicenda, per molti versi drammatica, del fallimento di alcune banche locali ha svelato un bluff che noi da tempo denunciavamo. Questi saranno anche giovani, saranno anche carini, ma non sono affatto nuovi. Sono tutt'al più diversi da quelli che c'erano prima, ma non sono certo meno famelici, e sicuramente sono più pericolosi. Lo dimostra la riforma costituzionale che porta il nome della Boschi e che richiama in maniera inquietante quello di un altro aretino. Questi nuovi sono parte integrante di un potere che sta facendo di tutto - lecito e illecito - per difendersi e per rafforzarsi; anche usare i propri figli, facendo finta siano nuovi.
Il vero - e forse unico - mito fondante del renzismo è stato apparire come una novità. In un paese vecchio, governato da vecchi e dai figli di quei vecchi, l'irruzione di questo branco di giovani, per quanto rumorosi, per quanto arroganti, per quanto inesperti - difetti che i vecchi sono comunque disposti a perdonare, quando si ricordano che loro stessi sono stati rumorosi, arroganti, inesperti - è stata vista da molti come qualcosa di salutare. Ed è un mito che funziona ancora, nonostante non siano più, oggettivamente, la novità del panorama politico italiano. Quelli della Leopolda - almeno delle prime Leopolde, visto che la spinta propulsiva di questa manifestazione pare affievolirsi con gli anni - non volevano essere solo giovani, o meglio non volevano solo apparire giovani. In fondo anche uno come Enrico Letta era giovane, ma non era certo nuovo, è uno dei tanti figli di... che ci sono in questo paese. E neppure Gianni Cuperlo è nuovo, pur essendo giovane, perché ha alle spalle una lunga storia di militanza, come molti di noi. Quelli della Leopolda dovevano essere - o almeno apparire - del tutto nuovi.
A dire la verità neppure matteo renzi era esattamente una novità, essendo entrato nella politica che conta con uno di quei sistemi che lui stesso, negli anni successivi, avrebbe poi tanto bistrattato. Il giovane di Rignano è diventato presidente della Provincia di Firenze perché così imponeva un accordo, biecamente spartitorio, che ha retto per molti anni tra gli eredi del Pci e quelli della Dc, almeno qui nelle cosiddette regioni rosse: quando si dovevano scegliere gli amministratori locali a noi toccavano i sindaci, perché i Comuni erano più importanti e noi eravamo più importanti - politicamente ed elettoralmente - e a loro toccavano le Province, perché quelle erano istituzioni con meno poteri. Dovevano accontentarsi e spesso si accontentavano. In sostanza quello designato a fare il presidente della Provincia doveva essere una figura meno popolare del sindaco, non doveva fargli ombra, e veniva controllato da un nostro vicepresidente, scelto tra i più bravi, proprio con questo scopo. Nonostante questo, renzi - che evidentemente non era uno che si accontentava - ha avuto l'indubbia capacità di liberarsi di questo marchio d'origine e di riuscire appunto a presentarsi come nuovo.
Giovani, carini e disoccupati è il titolo di un film uscito parecchi anni fa, quando io ero giovane. Probabilmente non era neppure un gran film, ma ebbe la capacità di raccontare con efficacia quella nostra generazione e infatti fu imitato, con esiti alterni, in molte occasioni. Quelli della Leopolda sono riusciti a presentarsi così: giovani, carini, disoccupati. E figli di NN, almeno politicamente. Oggettivamente Maria Elena Boschi è la renziana perfetta, quella che rappresenta meglio di tutti queste caratteristiche; Maria Elena è il simbolo del renzismo e per questo non può cadere, non può essere sfiduciata. E' giovane, è carina, oggi non è più disoccupata, perché a lei è stato affidato il compito più importante, quello di riformare la Costituzione. Un incarico che un tempo sarebbe toccato a un uomo, anzi a un uomo vecchio. I miei lettori con qualche anno in più ricorderanno certamente Aldo Bozzi, liberale, con la sua bella barba bianca, con i suoi toni pacati, a cui fu affidata la presidenza della prima commissione parlamentare, solo consultiva, incaricata di elaborare un progetto di revisione della seconda parte della Costituzione. La prima Repubblica aveva il viso, ancora risorgimentale, del senatore Bozzi, gesuitico e tardo, come lo zio di nonna Speranza; questa nostra, nuova, Repubblica invece ha il viso - e i tacchi - di Maria Elena Boschi.
Il giocattolo però si è rotto - o ha rischiato seriamente di rompersi - quando abbiamo scoperto che la caparbia Maria Elena non è la figlia di NN che ci hanno raccontato fino ad ora, ma è la figlia di suo padre e suo padre è un signore che negli anni si è creato una notevole posizione di potere nella sua città, fino a diventare - è ormai cosa nota - vicepresidente di Banca Etruria. Maria Elena non è nata sotto un cavolo, ma è la rappresentante di una famiglia che ha relazioni, contatti, interessi. Sinceramente a me importa poco capire se c'è stato o non c'è stato un qualche conflitto di interesse. Non mi sembra la cosa politicamente più rilevante. Questa vicenda, per molti versi drammatica, del fallimento di alcune banche locali ha svelato un bluff che noi da tempo denunciavamo. Questi saranno anche giovani, saranno anche carini, ma non sono affatto nuovi. Sono tutt'al più diversi da quelli che c'erano prima, ma non sono certo meno famelici, e sicuramente sono più pericolosi. Lo dimostra la riforma costituzionale che porta il nome della Boschi e che richiama in maniera inquietante quello di un altro aretino. Questi nuovi sono parte integrante di un potere che sta facendo di tutto - lecito e illecito - per difendersi e per rafforzarsi; anche usare i propri figli, facendo finta siano nuovi.
martedì 15 dicembre 2015
da "L'ipotesi" di Guido Gozzano
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes.
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza!-
Vïaggïa vïaggïa viaggia
vïaggïa nel folle volo:
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
Vïaggïa vïaggia vïaggïa
vïaggïa per l'alto mare:
si videro innanzi levare
un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Pirgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu richiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...
lunedì 14 dicembre 2015
Verba volant (231): velo...
Velo, sost. m.
Quando entro in una chiesa, da turista, mi tolgo il cappello. Ovviamente non me lo impone la mia religione - visto che fortunatamente non ce l'ho - ma lo faccio sempre, senza pensare ai motivi, senza fare riflessioni socio-antropologiche. E' una forma di educazione, perché appunto sono stato educato così: entro in chiesa e mi tolgo il cappello, in maniera praticamente automatica. Come mia nonna - che invece era devota - si copriva il capo per assistere a una funzione, anche quando non è stato più obbligatorio.
Lo vorrei ricordare a chi non lo sa: il Codice Piano Benedettino del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in chiesa, soprattutto al momento della comunione. Questa norma è stata abolita con l'introduzione, nel 1983, del nuovo Codice di diritto canonico, anche se mia nonna - come ho detto - continuava a coprirsi la testa. Per curiosità fate un giro nei siti dei fondamentalisti cattolici: loro deplorano il fatto che le donne partecipino alla messa a capo scoperto, richiamandosi a san Paolo. Infatti l'apostolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzi, ben più celebre per il cosiddetto Inno alla carità, scrive:
Nell'ufficio dove lavoro vengono molte donne straniere, alcune di loro portano il velo in modo che non si veda neppure una ciocca di capelli, altre lo portano, ma si vedono i capelli, altre non lo portano affatto. Capita di vedere insieme una madre con il velo e la figlia senza. Forse quella decisione racconta un conflitto in quella famiglia, tra quelle due donne, o semplicemente è il segno del tempo che passa, delle tradizioni che cambiano. Oppure quella madre non solo non ha rimproverato la figlia perché non porta più il velo, ma un po' la invidia e non ha il coraggio di fare altrettanto, magari per non entrare in conflitto con la propria madre. I tempi cambiano e le persone cambiano.
Probabilmente se noi la smettessimo con questa canea del velo, questo cambiamento sarebbe più naturale e più veloce. Leggo che il presidente di un'importante regione italiana, la più moderna, la più europea, per inseguire i voti dei fondamentalisti cattolici, ha vietato alle donne di entrare con il volto coperto negli ospedali e negli uffici pubblici. Ovviamente ha giustificato questo provvedimento, dicendo che serve per prevenire gli atti di terrorismo (e infatti il provvedimento include anche i passamontagna e i caschi integrali). Mente naturalmente, perché nessun terrorista se ne va in giro a capo coperto o con il turbante o magari con la scritta terrorista sulla schiena, come i calciatori. I terroristi si vestono come noi, si vestono come Salvini, come la Gelmini, come la Santanché - no, magari come la Santanché no, per non correre il rischio di essere arrestati per cattivo gusto. Quel provvedimento serve solo a dire che loro sono diversi da noi, perché noi giriamo negli uffici e negli ospedali a capo scoperto - a parte le suore (ma effettivamente una suora-kamikaze non si è mai vista) - mentre loro si ostinano a tenere il velo. E più noi lo proibiremo, più qualcuna di loro vorrà indossarlo, anche se avrebbe già smesso.
Allora facciamo una cosa davvero rivoluzionaria, alla faccia di Paolo e di Maometto (e anche di Maroni): lasciamo decidere alle donne. E lasciamo stare gli angeli.
Quando entro in una chiesa, da turista, mi tolgo il cappello. Ovviamente non me lo impone la mia religione - visto che fortunatamente non ce l'ho - ma lo faccio sempre, senza pensare ai motivi, senza fare riflessioni socio-antropologiche. E' una forma di educazione, perché appunto sono stato educato così: entro in chiesa e mi tolgo il cappello, in maniera praticamente automatica. Come mia nonna - che invece era devota - si copriva il capo per assistere a una funzione, anche quando non è stato più obbligatorio.
Lo vorrei ricordare a chi non lo sa: il Codice Piano Benedettino del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in chiesa, soprattutto al momento della comunione. Questa norma è stata abolita con l'introduzione, nel 1983, del nuovo Codice di diritto canonico, anche se mia nonna - come ho detto - continuava a coprirsi la testa. Per curiosità fate un giro nei siti dei fondamentalisti cattolici: loro deplorano il fatto che le donne partecipino alla messa a capo scoperto, richiamandosi a san Paolo. Infatti l'apostolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzi, ben più celebre per il cosiddetto Inno alla carità, scrive:
Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l'uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli.Anche senza scomodare gli angeli, a cui credo importi assai poco di cosa noi abbiamo in testa, il velo per i fondamentalisti cattolici è un segno di sottomissione della donna. Proprio come per i fondamentalisti islamici. Evidentemente chi ha redatto il nuovo codice ha considerato queste parole dell'apostolo un po' meno importanti delle altre e ha eluso questo obbligo, perché non più al passo con i tempi: perfino la chiesa cattolica si accorge quando esagera e ci mette una pezza.
Nell'ufficio dove lavoro vengono molte donne straniere, alcune di loro portano il velo in modo che non si veda neppure una ciocca di capelli, altre lo portano, ma si vedono i capelli, altre non lo portano affatto. Capita di vedere insieme una madre con il velo e la figlia senza. Forse quella decisione racconta un conflitto in quella famiglia, tra quelle due donne, o semplicemente è il segno del tempo che passa, delle tradizioni che cambiano. Oppure quella madre non solo non ha rimproverato la figlia perché non porta più il velo, ma un po' la invidia e non ha il coraggio di fare altrettanto, magari per non entrare in conflitto con la propria madre. I tempi cambiano e le persone cambiano.
Probabilmente se noi la smettessimo con questa canea del velo, questo cambiamento sarebbe più naturale e più veloce. Leggo che il presidente di un'importante regione italiana, la più moderna, la più europea, per inseguire i voti dei fondamentalisti cattolici, ha vietato alle donne di entrare con il volto coperto negli ospedali e negli uffici pubblici. Ovviamente ha giustificato questo provvedimento, dicendo che serve per prevenire gli atti di terrorismo (e infatti il provvedimento include anche i passamontagna e i caschi integrali). Mente naturalmente, perché nessun terrorista se ne va in giro a capo coperto o con il turbante o magari con la scritta terrorista sulla schiena, come i calciatori. I terroristi si vestono come noi, si vestono come Salvini, come la Gelmini, come la Santanché - no, magari come la Santanché no, per non correre il rischio di essere arrestati per cattivo gusto. Quel provvedimento serve solo a dire che loro sono diversi da noi, perché noi giriamo negli uffici e negli ospedali a capo scoperto - a parte le suore (ma effettivamente una suora-kamikaze non si è mai vista) - mentre loro si ostinano a tenere il velo. E più noi lo proibiremo, più qualcuna di loro vorrà indossarlo, anche se avrebbe già smesso.
Allora facciamo una cosa davvero rivoluzionaria, alla faccia di Paolo e di Maometto (e anche di Maroni): lasciamo decidere alle donne. E lasciamo stare gli angeli.
domenica 13 dicembre 2015
Verba volant (230): estremista...
Estremista, sost. m. e f. e agg.
E' passato un mese dagli attentati di Parigi: e in questi trenta giorni qualcosa è successo. Lo abbiamo capito fin da subito che quella strage era destinata a cambiare le vite di tutti noi. Non sappiamo ancora quando e come, ma in qualche modo credo sarà inevitabile.
La nostra democrazia subirà una qualche ulteriore limitazione. I cittadini francesi lo stanno già sperimentando sulla propria pelle. Da quella notte è stato istituito lo stato di emergenza che, in maniera eccezionale e assolutamente inconsueta, è stato prorogato per tre mesi. Grazie a questa decisione è possibile dichiarare il coprifuoco, interrompere la libera circolazione, impedire qualsiasi forma di manifestazione e chiudere luoghi pubblici; inoltre è possibile controllare i mezzi di informazione e ordinare perquisizioni di giorno e di notte. Ovviamente speriamo che il governo francese usi questo potere con discrezione e con prudenza, ma intanto quel potere ce l'ha e vedremo quando lo cederà. Nel frattempo le autorità europee stanno predisponendo una serie di misure di controllo che potrebbero avere carattere permanente, pur essendo dettate da questa situazione straordinaria. Quello che viene pubblicato in rete verrà controllato in maniera regolare e i contenuti considerati pericolosi saranno censurati o rimossi. Tutti gli scambi di informazione, comprese le chat, saranno accessibili agli investigatori. In sostanza quello che scriveremo sarà controllato non solo a fini commerciali - come avviene ormai regolarmente - ma per spiare quello che diciamo e scriviamo. E' un potere enorme che francamente non so come verrà usato; speriamo sia usato con saggezza, ma non possiamo fidarci. I nostri governi ci hanno ampiamente dimostrato che non possiamo fidarci di loro.
Chi difende questa scelta spesso cita un antico adagio: male non fare, paura non avere. Devo dire che stavolta non sono d'accordo: pur non facendo niente di male, io ho paura di questa situazione. Per me, ma soprattutto per altri, che hanno meno possibilità di difendersi, che sono più ricattabili sul posto di lavoro o che un lavoro lo stanno cercando. Perché quello che scriviamo potrà essere usato contro di noi. Anche se io firmo tutto e cerco di dare la maggior pubblicità possibile a quello che scrivo - visto che fortunatamente lo posso ancora fare - mi spaventa un sistema che possa controllare in maniera così pervasiva quello che io e ciascuno di voi fa, anche qui, in rete. Chi ci assicura che le informazioni raccolte non verranno utilizzate per assumere o non assumere una persona, per concedergli o non concedergli un prestito, e - nella peggiore delle ipotesi - che quello che abbiamo scritto non diventerà reato? Al punto in cui siamo nessuno, dal momento che abbiamo visto che, in nome della sicurezza, le libertà possono essere sospese.
Una delle tragedie più complesse e studiate di Eschilo è il Prometeo incatenato. Il titano è stato punito da Zeus perché ha donato il fuoco ai mortali, permettendo loro di continuare a vivere, mentre il dio avrebbe voluto annientarli. Prometeo, pur nella sofferenza della sua condizione di vittima, sa però di essere più forte del dio che lo sta punendo, perché neppure Zeus può violare le leggi, può considerarsi al di sopra della giustizia. Eschilo ci insegna che non ci sono ragioni per negare la giustizia e che non ci sono persone che possono dire di avere il potere di non rispettarla.
Allora dobbiamo dire, allo sfinimento, che per essere più sicuri abbiamo bisogno di avere più libertà. Combattere il terrorismo significa anche rifiutare l'idea - che oggi purtroppo si sta affermando - che le azioni di uno stato non possano avere dei limiti, anche se queste azioni servono a sconfiggere dei terroristi. I limiti servono e devono essere intangibili. In Italia purtroppo sappiamo bene che lo stato può commettere atti di terrorismo contro i propri cittadini - scrivo questa definizione, non per caso, il 12 dicembre, l'anniversario della strage di piazza Fontana - e quindi non possiamo consegnare agli stati un potere così incontrollabile. La situazione è estrema e quindi richiede che le risposte siano estreme. Se qualcuno ci definisce estremisti perché diciamo e scriviamo che certi diritti non possono essere limitati, chiamateci pure così. Dobbiamo essere estremisti della democrazia e della giustizia. Per essere sicuri abbiamo bisogno che la nostra privacy - sia on line che off line - sia rispettata, tutelata e difesa, in qualunque condizione e di fronte a ogni minaccia, specialmente quando questa minaccia arriva dallo stato in cui viviamo. Abbiamo bisogno di essere liberi in quello che diciamo e scriviamo, ovviamente essendo responsabili di quello che diciamo e che scriviamo. Abbiamo bisogno che i diritti umani fondamentali siano rispettati. Abbiamo bisogno di più democrazia. E ne hanno bisogno quei popoli che ben più di noi subiscono gli attacchi dei terroristi, e insieme subiscono i nostri attacchi. C'è un solo modo per insegnare la democrazia: applicarla.
E' passato un mese dagli attentati di Parigi: e in questi trenta giorni qualcosa è successo. Lo abbiamo capito fin da subito che quella strage era destinata a cambiare le vite di tutti noi. Non sappiamo ancora quando e come, ma in qualche modo credo sarà inevitabile.
La nostra democrazia subirà una qualche ulteriore limitazione. I cittadini francesi lo stanno già sperimentando sulla propria pelle. Da quella notte è stato istituito lo stato di emergenza che, in maniera eccezionale e assolutamente inconsueta, è stato prorogato per tre mesi. Grazie a questa decisione è possibile dichiarare il coprifuoco, interrompere la libera circolazione, impedire qualsiasi forma di manifestazione e chiudere luoghi pubblici; inoltre è possibile controllare i mezzi di informazione e ordinare perquisizioni di giorno e di notte. Ovviamente speriamo che il governo francese usi questo potere con discrezione e con prudenza, ma intanto quel potere ce l'ha e vedremo quando lo cederà. Nel frattempo le autorità europee stanno predisponendo una serie di misure di controllo che potrebbero avere carattere permanente, pur essendo dettate da questa situazione straordinaria. Quello che viene pubblicato in rete verrà controllato in maniera regolare e i contenuti considerati pericolosi saranno censurati o rimossi. Tutti gli scambi di informazione, comprese le chat, saranno accessibili agli investigatori. In sostanza quello che scriveremo sarà controllato non solo a fini commerciali - come avviene ormai regolarmente - ma per spiare quello che diciamo e scriviamo. E' un potere enorme che francamente non so come verrà usato; speriamo sia usato con saggezza, ma non possiamo fidarci. I nostri governi ci hanno ampiamente dimostrato che non possiamo fidarci di loro.
Chi difende questa scelta spesso cita un antico adagio: male non fare, paura non avere. Devo dire che stavolta non sono d'accordo: pur non facendo niente di male, io ho paura di questa situazione. Per me, ma soprattutto per altri, che hanno meno possibilità di difendersi, che sono più ricattabili sul posto di lavoro o che un lavoro lo stanno cercando. Perché quello che scriviamo potrà essere usato contro di noi. Anche se io firmo tutto e cerco di dare la maggior pubblicità possibile a quello che scrivo - visto che fortunatamente lo posso ancora fare - mi spaventa un sistema che possa controllare in maniera così pervasiva quello che io e ciascuno di voi fa, anche qui, in rete. Chi ci assicura che le informazioni raccolte non verranno utilizzate per assumere o non assumere una persona, per concedergli o non concedergli un prestito, e - nella peggiore delle ipotesi - che quello che abbiamo scritto non diventerà reato? Al punto in cui siamo nessuno, dal momento che abbiamo visto che, in nome della sicurezza, le libertà possono essere sospese.
Una delle tragedie più complesse e studiate di Eschilo è il Prometeo incatenato. Il titano è stato punito da Zeus perché ha donato il fuoco ai mortali, permettendo loro di continuare a vivere, mentre il dio avrebbe voluto annientarli. Prometeo, pur nella sofferenza della sua condizione di vittima, sa però di essere più forte del dio che lo sta punendo, perché neppure Zeus può violare le leggi, può considerarsi al di sopra della giustizia. Eschilo ci insegna che non ci sono ragioni per negare la giustizia e che non ci sono persone che possono dire di avere il potere di non rispettarla.
Allora dobbiamo dire, allo sfinimento, che per essere più sicuri abbiamo bisogno di avere più libertà. Combattere il terrorismo significa anche rifiutare l'idea - che oggi purtroppo si sta affermando - che le azioni di uno stato non possano avere dei limiti, anche se queste azioni servono a sconfiggere dei terroristi. I limiti servono e devono essere intangibili. In Italia purtroppo sappiamo bene che lo stato può commettere atti di terrorismo contro i propri cittadini - scrivo questa definizione, non per caso, il 12 dicembre, l'anniversario della strage di piazza Fontana - e quindi non possiamo consegnare agli stati un potere così incontrollabile. La situazione è estrema e quindi richiede che le risposte siano estreme. Se qualcuno ci definisce estremisti perché diciamo e scriviamo che certi diritti non possono essere limitati, chiamateci pure così. Dobbiamo essere estremisti della democrazia e della giustizia. Per essere sicuri abbiamo bisogno che la nostra privacy - sia on line che off line - sia rispettata, tutelata e difesa, in qualunque condizione e di fronte a ogni minaccia, specialmente quando questa minaccia arriva dallo stato in cui viviamo. Abbiamo bisogno di essere liberi in quello che diciamo e scriviamo, ovviamente essendo responsabili di quello che diciamo e che scriviamo. Abbiamo bisogno che i diritti umani fondamentali siano rispettati. Abbiamo bisogno di più democrazia. E ne hanno bisogno quei popoli che ben più di noi subiscono gli attacchi dei terroristi, e insieme subiscono i nostri attacchi. C'è un solo modo per insegnare la democrazia: applicarla.
giovedì 10 dicembre 2015
mercoledì 9 dicembre 2015
Verba volant (229): sorpresa...
Stupore, sost. m.
Francamente ogni volta mi stupisco dello stupore con cui i commentatori accolgono e raccontano una vittoria elettorale del Front national: sono passati tredici anni da quando il vecchio Le Pen raggiunse il ballottaggio per le presidenziali, per essere poi sconfitto da Chirac, e in tutti questi anni i risultati di quel partito sono stati positivi. E allora perché vi stupite ancora? Il Front national è ormai una realtà consolidata del panorama politico francese e quindi stupirsi è assolutamente fuori luogo. O questi commentatori attoniti sono cretini oppure sono in malafede.
E' vero che questi risultati positivi non si sono mai tradotti in una "vera" vittoria, grazie al particolare meccanismo istituzionale ed elettorale che vige in Francia. Nonostante l'ampio consenso popolare, il Front governa solo qualche piccolo comune, ha due deputati e due senatori e non ha mai avuto vere responsabilità di governo, né a livello locale né soprattutto a livello nazionale. E questo l'ha indubbiamente rafforzato, perché in questi anni non ha mai dovuto rendere conto ai propri elettori delle promesse fatte in campagna elettorale, non ha mai dovuto scontrarsi con la difficoltà di governare, ha potuto presentarsi come alternativa anti-sistema, sicuro che il sistema non gli avrebbe mai permesso di mettersi alla prova. I Le Pen hanno avuto vita facile, hanno potuto essere tutto e il contrario di tutto, fascisti e antifascisti, liberisti e antiliberisti, di destra e di sinistra, tanto nessuno ha mai preteso da loro di verificare le loro idee. E' questa la differenza sostanziale con la Lega, è quello che spiega perché la Lega non sarà mai il nostro Front national. Non è solo una questione di ideali: il Front è appunto nazionale, mentre la Lega rimane, nonostante i tentativi fatti di "sbarcare" nel Mezzogiorno, un movimento regionale. La Lega ha governato - e governa - città e regioni, ha partecipato a governi nazionali, lo ha fatto spesso male, qualche volta perfino bene, ma ormai ha perso quella verginità che Marine può continuare a sbandierare. E sarà così probabilmente anche dopo il prossimo turno delle regionali, visto che i socialisti hanno già dichiarato che i loro voti andranno alla destra "presentabile" di Sarkozy. Il Front è virtualmente il primo partito della Francia, ma non conta nulla, perché non potrà mai andare al governo. Il Front national però, anche così, è molto utile.
Allora me lo comincio a spiegare questo stupore, alimentato ad arte ogni volta che si avvicina una scadenza elettorale. Il Front national serve, è indispensabile alla tenuta del sistema, proprio per il fatto che è anti-sistema. Senza il Front una parte degli elettori socialisti potrebbero ancora pensare che i propri avversari siano Sarkozy e il centrodestra, e invece c'è sempre lo spauracchio Le Pen che gli "stupiti" commentatori al soldo delle forze del capitale possono sventolare in faccia ai socialisti, costringendoli alle "larghe intese". In questi anni la "paura" del Front national, costruita con rigore e metodo scientifico, è servita a neutralizzare il Partito socialista, a farlo diventare quel docile cane da guardia dell'ideologia ultraliberista che è oggi. Se Hollande è diventato indistinguibile da Sarkozy il merito è tutto di chi in questi anni ha "usato" i Le Pen. E poi il Front ha un'altra funzione indispensabile al sistema capitalista: raccoglie un voto popolare, un voto di protesta, un voto di rivolta, che, se non ci fosse il Front national, potrebbe perfino essere raccolto da un qualche partito di sinistra, meno succube alle forze del capitale. E ovviamente "loro" di questo hanno paura e sono disposti a tutto, pur di annientare le forze di sinistra, come abbiamo visto in Grecia e in Portogallo.
Pensate a quello che è successo in Italia agli inizi del secolo. Le forze conservatrici, gli agrari, gli industriali, i banchieri, avevano paura che si diffondesse il socialismo e così crearono e sostennero in ogni modo il fascismo. I cardinali lo benedissero, i capitalisti lo finanziarono, la monarchia e l'esercito gli consegnarono il potere, con lo scopo di eliminare tutti i loro nemici - i socialisti, i repubblicani, i sindacalisti - e di controllare ancora, attraverso i fascisti, quel potere che temevano di perdere, visto quello che era successo in Russia. E andò tutto bene per vent'anni e se Mussolini non avesse fatto l'errore di entrare in guerra a fianco della Germania, noi avremmo avuto ancora per molti anni quel regime, come gli spagnoli subirono il regime franchista, nato negli stessi anni e con gli stessi obiettivi.
Il potere è lo stesso di allora e i suoi obiettivi sono gli stessi di allora, difendere i propri privilegi e annientare le forze che cercano la giustizia sociale. E ci sono riusciti. Grazie anche all'uso spregiudicato che fanno di forze come il Front national e soprattutto grazie alla propaganda dei loro servi, che non perdono occasione di dirci quanto siano pericolosi questi "nuovi" fascisti, quanto siano inaffidabili, e così fingono di difenderci, ci fanno dimenticare che i nostri veri nemici sono i capitalisti, sono le multinazionali, sono i padroni.
Lo stupore è molto spesso falso, perché le forze del capitale avevano bisogno che la destra "impresentabile" vincesse queste elezioni. Ne avevano bisogno per spostare ulteriormente a destra il baricentro della politica europea, per assicurare che alle prossime elezioni - quelle che contano davvero - vincesse la destra "presentabile" o al massimo la "loro" sinistra; ne avevano bisogno per spaventare ancora una volta gli elettori di sinistra, per costringerli a votare per loro e per i loro complici.
E bisogna riconoscere che in queste circostanze è stata davvero una fortuna per le forze del capitale che pochi giorni prima delle elezioni ci siano stati gli attentati dei terroristi islamici. Quegli attacchi sono stati la ciliegina sulla torta della campagna elettorale delle forze del capitale. Forse hanno perfino dato un aiuto alla quella fortuna, perché è vero che gli attentatori ci sono e possono colpirci, ma è più facile che lo possano fare se i servizi segreti li conoscono e li lasciano girare indisturbati. E le forze del capitale - e i governi che da loro dipendono - fanno di tutto per acuire la crisi in quella parte di mondo dove possono nascere nuovi terroristi.
Pur rispettando la buona fede di chi in questi giorni scrive lettere per perorare la necessità di ritrovare l'unità della sinistra, proprio alla luce di quello che è successo in Francia, temendo che qualcosa di analogo possa succedere anche qui, voglio dire che la vicenda francese ci dice tutto il contrario. L'unità con quelle forze che si fanno chiamare di centrosinistra - dal pd alla Spd, passando per i socialisti francesi - è mortale per la sinistra europea, proprio perché rafforza il disegno del capitale. Occorre ribaltare il tavolo. Prima di tutto riappropriandoci delle parole d'ordine della sinistra che abbiamo lasciato in mano ai fascisti in tutta Europa, spiegando che l'uguaglianza si coniuga a sinistra, non a destra, che la difesa del lavoro si fa a sinistra, non a destra, che i diritti crescono se si allargano a tutti, non se si restringono a pochi. E poi svelando il loro trucco: è sbagliato aiutare una destra contro l'altra destra. Se il Front national andasse al governo perderebbe rapidamente i propri consensi perché finirebbe per tradire le aspettative dei propri elettori. Essere stupiti significa etimologicamente rimanere fermi: non ce lo possiamo permettere. La sinistra in Europa deve essere alternativa alla destra - a tutta la destra - altrimenti muore, come è morta in Italia, proprio perché ha smesso di essere alternativa, e soprattutto deve sapere chi è il suo nemico, che è sempre quello, il capitale, il privilegio, l'ingiustizia. Se lo capiremo e ci muoveremo, loro sono destinati alla sconfitta, altrimenti moriremo.
Francamente ogni volta mi stupisco dello stupore con cui i commentatori accolgono e raccontano una vittoria elettorale del Front national: sono passati tredici anni da quando il vecchio Le Pen raggiunse il ballottaggio per le presidenziali, per essere poi sconfitto da Chirac, e in tutti questi anni i risultati di quel partito sono stati positivi. E allora perché vi stupite ancora? Il Front national è ormai una realtà consolidata del panorama politico francese e quindi stupirsi è assolutamente fuori luogo. O questi commentatori attoniti sono cretini oppure sono in malafede.
E' vero che questi risultati positivi non si sono mai tradotti in una "vera" vittoria, grazie al particolare meccanismo istituzionale ed elettorale che vige in Francia. Nonostante l'ampio consenso popolare, il Front governa solo qualche piccolo comune, ha due deputati e due senatori e non ha mai avuto vere responsabilità di governo, né a livello locale né soprattutto a livello nazionale. E questo l'ha indubbiamente rafforzato, perché in questi anni non ha mai dovuto rendere conto ai propri elettori delle promesse fatte in campagna elettorale, non ha mai dovuto scontrarsi con la difficoltà di governare, ha potuto presentarsi come alternativa anti-sistema, sicuro che il sistema non gli avrebbe mai permesso di mettersi alla prova. I Le Pen hanno avuto vita facile, hanno potuto essere tutto e il contrario di tutto, fascisti e antifascisti, liberisti e antiliberisti, di destra e di sinistra, tanto nessuno ha mai preteso da loro di verificare le loro idee. E' questa la differenza sostanziale con la Lega, è quello che spiega perché la Lega non sarà mai il nostro Front national. Non è solo una questione di ideali: il Front è appunto nazionale, mentre la Lega rimane, nonostante i tentativi fatti di "sbarcare" nel Mezzogiorno, un movimento regionale. La Lega ha governato - e governa - città e regioni, ha partecipato a governi nazionali, lo ha fatto spesso male, qualche volta perfino bene, ma ormai ha perso quella verginità che Marine può continuare a sbandierare. E sarà così probabilmente anche dopo il prossimo turno delle regionali, visto che i socialisti hanno già dichiarato che i loro voti andranno alla destra "presentabile" di Sarkozy. Il Front è virtualmente il primo partito della Francia, ma non conta nulla, perché non potrà mai andare al governo. Il Front national però, anche così, è molto utile.
Allora me lo comincio a spiegare questo stupore, alimentato ad arte ogni volta che si avvicina una scadenza elettorale. Il Front national serve, è indispensabile alla tenuta del sistema, proprio per il fatto che è anti-sistema. Senza il Front una parte degli elettori socialisti potrebbero ancora pensare che i propri avversari siano Sarkozy e il centrodestra, e invece c'è sempre lo spauracchio Le Pen che gli "stupiti" commentatori al soldo delle forze del capitale possono sventolare in faccia ai socialisti, costringendoli alle "larghe intese". In questi anni la "paura" del Front national, costruita con rigore e metodo scientifico, è servita a neutralizzare il Partito socialista, a farlo diventare quel docile cane da guardia dell'ideologia ultraliberista che è oggi. Se Hollande è diventato indistinguibile da Sarkozy il merito è tutto di chi in questi anni ha "usato" i Le Pen. E poi il Front ha un'altra funzione indispensabile al sistema capitalista: raccoglie un voto popolare, un voto di protesta, un voto di rivolta, che, se non ci fosse il Front national, potrebbe perfino essere raccolto da un qualche partito di sinistra, meno succube alle forze del capitale. E ovviamente "loro" di questo hanno paura e sono disposti a tutto, pur di annientare le forze di sinistra, come abbiamo visto in Grecia e in Portogallo.
Pensate a quello che è successo in Italia agli inizi del secolo. Le forze conservatrici, gli agrari, gli industriali, i banchieri, avevano paura che si diffondesse il socialismo e così crearono e sostennero in ogni modo il fascismo. I cardinali lo benedissero, i capitalisti lo finanziarono, la monarchia e l'esercito gli consegnarono il potere, con lo scopo di eliminare tutti i loro nemici - i socialisti, i repubblicani, i sindacalisti - e di controllare ancora, attraverso i fascisti, quel potere che temevano di perdere, visto quello che era successo in Russia. E andò tutto bene per vent'anni e se Mussolini non avesse fatto l'errore di entrare in guerra a fianco della Germania, noi avremmo avuto ancora per molti anni quel regime, come gli spagnoli subirono il regime franchista, nato negli stessi anni e con gli stessi obiettivi.
Il potere è lo stesso di allora e i suoi obiettivi sono gli stessi di allora, difendere i propri privilegi e annientare le forze che cercano la giustizia sociale. E ci sono riusciti. Grazie anche all'uso spregiudicato che fanno di forze come il Front national e soprattutto grazie alla propaganda dei loro servi, che non perdono occasione di dirci quanto siano pericolosi questi "nuovi" fascisti, quanto siano inaffidabili, e così fingono di difenderci, ci fanno dimenticare che i nostri veri nemici sono i capitalisti, sono le multinazionali, sono i padroni.
Lo stupore è molto spesso falso, perché le forze del capitale avevano bisogno che la destra "impresentabile" vincesse queste elezioni. Ne avevano bisogno per spostare ulteriormente a destra il baricentro della politica europea, per assicurare che alle prossime elezioni - quelle che contano davvero - vincesse la destra "presentabile" o al massimo la "loro" sinistra; ne avevano bisogno per spaventare ancora una volta gli elettori di sinistra, per costringerli a votare per loro e per i loro complici.
E bisogna riconoscere che in queste circostanze è stata davvero una fortuna per le forze del capitale che pochi giorni prima delle elezioni ci siano stati gli attentati dei terroristi islamici. Quegli attacchi sono stati la ciliegina sulla torta della campagna elettorale delle forze del capitale. Forse hanno perfino dato un aiuto alla quella fortuna, perché è vero che gli attentatori ci sono e possono colpirci, ma è più facile che lo possano fare se i servizi segreti li conoscono e li lasciano girare indisturbati. E le forze del capitale - e i governi che da loro dipendono - fanno di tutto per acuire la crisi in quella parte di mondo dove possono nascere nuovi terroristi.
Pur rispettando la buona fede di chi in questi giorni scrive lettere per perorare la necessità di ritrovare l'unità della sinistra, proprio alla luce di quello che è successo in Francia, temendo che qualcosa di analogo possa succedere anche qui, voglio dire che la vicenda francese ci dice tutto il contrario. L'unità con quelle forze che si fanno chiamare di centrosinistra - dal pd alla Spd, passando per i socialisti francesi - è mortale per la sinistra europea, proprio perché rafforza il disegno del capitale. Occorre ribaltare il tavolo. Prima di tutto riappropriandoci delle parole d'ordine della sinistra che abbiamo lasciato in mano ai fascisti in tutta Europa, spiegando che l'uguaglianza si coniuga a sinistra, non a destra, che la difesa del lavoro si fa a sinistra, non a destra, che i diritti crescono se si allargano a tutti, non se si restringono a pochi. E poi svelando il loro trucco: è sbagliato aiutare una destra contro l'altra destra. Se il Front national andasse al governo perderebbe rapidamente i propri consensi perché finirebbe per tradire le aspettative dei propri elettori. Essere stupiti significa etimologicamente rimanere fermi: non ce lo possiamo permettere. La sinistra in Europa deve essere alternativa alla destra - a tutta la destra - altrimenti muore, come è morta in Italia, proprio perché ha smesso di essere alternativa, e soprattutto deve sapere chi è il suo nemico, che è sempre quello, il capitale, il privilegio, l'ingiustizia. Se lo capiremo e ci muoveremo, loro sono destinati alla sconfitta, altrimenti moriremo.
sabato 5 dicembre 2015
Verba volant (95): quorum...
Quorum, s. m.
La storia etimologica di questa parola merita di essere raccontata. Si tratta naturalmente di una parola latina, il genitivo plurale del pronome relativo qui, che però arriva in italiano dall'inglese. Infatti si tratta della prima parola del testo di un'antica legge inglese che fissava in due il numero minimo di giudici indispensabile affinché un processo fosse valido.
Come noto la legge italiana che regola l’elezione dei rappresentanti italiani nel parlamento europeo prevede, probabilmente in maniera incostituzionale, che accedano al riparto dei seggi solo le liste che abbiano superato il 4% dei suffragi. Ed è ormai altrettanto noto che questo risultato è stato raggiunto, per poche migliaia di voti, dalla lista L’Altra Europa con Tsipras, che io ho convintamente votato e per cui, nel mio piccolo, ho fatto campagna elettorale, insieme a un po’ di altri “sinistri sparsi“.
Negli ultimi giorni della campagna elettorale il raggiungimento del quorum era diventato il nostro obiettivo e quindi esserci arrivati, seppur per il rotto della cuffia, è stato un elemento di grande soddisfazione. Ovviamente la parte faticosacomincia adesso. Se non ci fossimo arrivati sarebbe stato un disastro perché ciascuno sarebbe tornato per la sua strada, “sanza meta“, ma il fatto di esserci arrivati non ci garantisce che il cammino sia in discesa, come qualche entusiasta sembra pronto a credere. Anzi.
Il voto italiano e quello europeo offrono alcune opportunità, ma anche diverse insidie. Andiamo per ordine e partiamo dalle prime.
La sinistra in Europa c’è e c’è soprattutto dove la crisi ha colpito più duramente e dove con più determinazione - in qualche caso con ferocia - sono state applicate le regole dettate dalla troika e dal finanzcapitalismo: Grecia, Spagna,Portogallo e Irlanda. In Grecia Syriza è diventato il primo partito, in Spagna ha ottenuto un risultato importante il nuovo partito Podemos, nato sulla spinta del movimento degli indignados, che finalmente hanno deciso di non continuare a rimanere “neutrali”, ma di partecipare al voto e di aderire al gruppo parlamentare della sinistra; un dato non scontato, vista la storia recente di quel movimento. Poi è nato un leader, Alexis Tsipras, altro dato all’inizio non scontato, vista una certa propensione - per usare un eufemismo - della sinistra europea a dividersi piuttosto che a unirsi. Tsipras è riuscito a proiettare la propria lotta di resistenza nazionale in una dimensione europea, e non solo ha riconosciuto che questa è l’Europa che provoca la sofferenza del suo paese, contro cui lui si è battuto e si batte, ma ha anche detto che questa è l’Europa che vuole cambiare; questo è il salto che dobbiamo fare anche noi, insieme a lui. In Italia poi siamo riusciti a mettere un piede dentro la porta e questo, date le condizioni di partenza, è stato già un risultato importante.
Un’altra opportunità, almeno per la sinistra radicale in Italia, sembra venire da come si stanno muovendo le altre forze politiche. Vedremo cosa faranno nelle prossime settimane Grillo e Casaleggio; comunque sia, la scelta di avviare un dialogo con alcune forze schiettamente conservatrici - se non criptofasciste - come l’Ukip di Nigel Farage, potrebbe creare seri problemi agli elettori di sinistra e progressisti del Movimento Cinque stelle. Il risultato supefacente del Pd di Renzi è certamente un’insidia, come dopo dirò, ma potrebbe diventare un’opportunità. La improvvisa - e interessata - conversione al renzismo di molti esponenti della cosiddetta “sinistra Pd” elimina un alibi che ha consentito a tanti compagni di continuare, nonostante tutto, a votare Pd, anche contro l’evidenza.
La maggiore insidia, come dicevo, sta proprio nel risultato, inatteso in questa percentuale, di Renzi. Un partito così grande, senza reali e credibili avversari, crea una forza di attrazione a cui non è facile sfuggire. Non si tratta solo della tendenza - innata in questo paese - di “andare in soccorso del vincitore“, come diceva Flaiano, ma di qualcosa di politicamente comprensibile. In fondo il Pd di Renzi è l’unico partito del centrosinistra che ha avuto un risultato positivo in queste elezioni e per molti elettori di sinistra può essere convincente pensare che sia meglio sostenere i tentativi di Renzi di riformare l’Europa piuttosto che cedere al pericolo populista e fascista, che pure ha ottenuto risultati significativi. E’ ovviamente più facile affidarsi a Renzi, che ha tenuto a freno Grillo, piuttosto che ad Hollande che è stato sconfitto da Le Pen.
Io credo che il risultato di queste elezioni europee ci consegni tre opzioni che possiamo personalizzare in Merkel, Tsipras e Le Pen. C’è la continuità nella governabilità dell’Europa, rappresentata da Merkel, e ci sono due visioni opposte di cambiamento: la rifondazione dell’Europa, rappresentata da Tsipras e la sua distruzione, incarnata da Le Pen. In questo scenario i socialisti europei - anche nella “via italiana” proposta, in maniera confusa e velleitaria, da Renzi - sono schiacciati e di fatto ininfluenti, avendo già accettato la continuità proposta dalla cancelliera tedesca, attraverso le larghe intese, di cui Schultz è l’azionista di minoranza, oggi in Germania e domani in Europa.
Dato che il quorum non può e non deve bastarci, dobbiamo capire cosa fare domani.
Io credo che dobbiamo rimanere autonomi e penso che sbaglino quei compagni che ci dicono - ovviamente quelli in buona fede e quelli che non lo fanno pensando al proprio tornaconto personale - che sia necessario “lavorare da dentro“. Se facessimo così perderemmo la nostra identità, senza peraltro riuscire a incidere davvero né sugli assetti europei né sul renzismo. Noi dobbiamo avere due grandi obiettivi “nostri”: basta austerità e potere alla democrazia. E su questi obiettivi dare battaglia, incalzando i socialisti europei e anche Renzi, che rimane comunque cosa diversa rispetto a quella famiglia, a cui ha aderito senza convinzione e senza condividerne la storia e la cultura. Renzi è e rimane un centrista moderato, che solo in Italia può passare per un leader del centrosinistra.
Dobbiamo riuscire partendo da noi, da una nostra idea autonoma di Europa e di società. Se adesso ci ripiegassimo in una logica essenzialmente politicista, misurandoci nel rapporto con gli altri - che siano Renzi e il Pd in Italia o Schultz e il Pse in Europa - saremmo sconfitti. Abbiamo bisogno di ridefinire la nostra identità di sinistra. Questa è l’essenza stessa della politica come elemento della democrazia, ossia la definizione di sé nel progetto generale; altrimenti si finisce succubi della trasformazione della politica in gestione del potere e di ricerca del fattibile, nel quadro dato, un quadro che però costruiscono altri e mai noi. La radicalità sta nel non accettare questo sistema che ci hanno imposto, ma di provare a pensarne uno diverso e alternativo.
scritto il 31 maggio 2014
La storia etimologica di questa parola merita di essere raccontata. Si tratta naturalmente di una parola latina, il genitivo plurale del pronome relativo qui, che però arriva in italiano dall'inglese. Infatti si tratta della prima parola del testo di un'antica legge inglese che fissava in due il numero minimo di giudici indispensabile affinché un processo fosse valido.
Quorum vos duos esse volumus…Ossia:
Dei quali vogliamo che voi siate due…Nella prassi parlamentare inglese il termine ha quindi indicato il numero legalmente necessario per la validità delle adunanze e delle votazioni degli organi collegiali. E da qui questa parola ha cominciato a essere usata anche per indicare il numero minimo di voti necessario per l'elezione di un candidato o la soglia necessaria per far sì che una lista acceda alla ripartizione dei seggi.
Come noto la legge italiana che regola l’elezione dei rappresentanti italiani nel parlamento europeo prevede, probabilmente in maniera incostituzionale, che accedano al riparto dei seggi solo le liste che abbiano superato il 4% dei suffragi. Ed è ormai altrettanto noto che questo risultato è stato raggiunto, per poche migliaia di voti, dalla lista L’Altra Europa con Tsipras, che io ho convintamente votato e per cui, nel mio piccolo, ho fatto campagna elettorale, insieme a un po’ di altri “sinistri sparsi“.
Negli ultimi giorni della campagna elettorale il raggiungimento del quorum era diventato il nostro obiettivo e quindi esserci arrivati, seppur per il rotto della cuffia, è stato un elemento di grande soddisfazione. Ovviamente la parte faticosacomincia adesso. Se non ci fossimo arrivati sarebbe stato un disastro perché ciascuno sarebbe tornato per la sua strada, “sanza meta“, ma il fatto di esserci arrivati non ci garantisce che il cammino sia in discesa, come qualche entusiasta sembra pronto a credere. Anzi.
Il voto italiano e quello europeo offrono alcune opportunità, ma anche diverse insidie. Andiamo per ordine e partiamo dalle prime.
La sinistra in Europa c’è e c’è soprattutto dove la crisi ha colpito più duramente e dove con più determinazione - in qualche caso con ferocia - sono state applicate le regole dettate dalla troika e dal finanzcapitalismo: Grecia, Spagna,Portogallo e Irlanda. In Grecia Syriza è diventato il primo partito, in Spagna ha ottenuto un risultato importante il nuovo partito Podemos, nato sulla spinta del movimento degli indignados, che finalmente hanno deciso di non continuare a rimanere “neutrali”, ma di partecipare al voto e di aderire al gruppo parlamentare della sinistra; un dato non scontato, vista la storia recente di quel movimento. Poi è nato un leader, Alexis Tsipras, altro dato all’inizio non scontato, vista una certa propensione - per usare un eufemismo - della sinistra europea a dividersi piuttosto che a unirsi. Tsipras è riuscito a proiettare la propria lotta di resistenza nazionale in una dimensione europea, e non solo ha riconosciuto che questa è l’Europa che provoca la sofferenza del suo paese, contro cui lui si è battuto e si batte, ma ha anche detto che questa è l’Europa che vuole cambiare; questo è il salto che dobbiamo fare anche noi, insieme a lui. In Italia poi siamo riusciti a mettere un piede dentro la porta e questo, date le condizioni di partenza, è stato già un risultato importante.
Un’altra opportunità, almeno per la sinistra radicale in Italia, sembra venire da come si stanno muovendo le altre forze politiche. Vedremo cosa faranno nelle prossime settimane Grillo e Casaleggio; comunque sia, la scelta di avviare un dialogo con alcune forze schiettamente conservatrici - se non criptofasciste - come l’Ukip di Nigel Farage, potrebbe creare seri problemi agli elettori di sinistra e progressisti del Movimento Cinque stelle. Il risultato supefacente del Pd di Renzi è certamente un’insidia, come dopo dirò, ma potrebbe diventare un’opportunità. La improvvisa - e interessata - conversione al renzismo di molti esponenti della cosiddetta “sinistra Pd” elimina un alibi che ha consentito a tanti compagni di continuare, nonostante tutto, a votare Pd, anche contro l’evidenza.
La maggiore insidia, come dicevo, sta proprio nel risultato, inatteso in questa percentuale, di Renzi. Un partito così grande, senza reali e credibili avversari, crea una forza di attrazione a cui non è facile sfuggire. Non si tratta solo della tendenza - innata in questo paese - di “andare in soccorso del vincitore“, come diceva Flaiano, ma di qualcosa di politicamente comprensibile. In fondo il Pd di Renzi è l’unico partito del centrosinistra che ha avuto un risultato positivo in queste elezioni e per molti elettori di sinistra può essere convincente pensare che sia meglio sostenere i tentativi di Renzi di riformare l’Europa piuttosto che cedere al pericolo populista e fascista, che pure ha ottenuto risultati significativi. E’ ovviamente più facile affidarsi a Renzi, che ha tenuto a freno Grillo, piuttosto che ad Hollande che è stato sconfitto da Le Pen.
Io credo che il risultato di queste elezioni europee ci consegni tre opzioni che possiamo personalizzare in Merkel, Tsipras e Le Pen. C’è la continuità nella governabilità dell’Europa, rappresentata da Merkel, e ci sono due visioni opposte di cambiamento: la rifondazione dell’Europa, rappresentata da Tsipras e la sua distruzione, incarnata da Le Pen. In questo scenario i socialisti europei - anche nella “via italiana” proposta, in maniera confusa e velleitaria, da Renzi - sono schiacciati e di fatto ininfluenti, avendo già accettato la continuità proposta dalla cancelliera tedesca, attraverso le larghe intese, di cui Schultz è l’azionista di minoranza, oggi in Germania e domani in Europa.
Dato che il quorum non può e non deve bastarci, dobbiamo capire cosa fare domani.
Io credo che dobbiamo rimanere autonomi e penso che sbaglino quei compagni che ci dicono - ovviamente quelli in buona fede e quelli che non lo fanno pensando al proprio tornaconto personale - che sia necessario “lavorare da dentro“. Se facessimo così perderemmo la nostra identità, senza peraltro riuscire a incidere davvero né sugli assetti europei né sul renzismo. Noi dobbiamo avere due grandi obiettivi “nostri”: basta austerità e potere alla democrazia. E su questi obiettivi dare battaglia, incalzando i socialisti europei e anche Renzi, che rimane comunque cosa diversa rispetto a quella famiglia, a cui ha aderito senza convinzione e senza condividerne la storia e la cultura. Renzi è e rimane un centrista moderato, che solo in Italia può passare per un leader del centrosinistra.
Dobbiamo riuscire partendo da noi, da una nostra idea autonoma di Europa e di società. Se adesso ci ripiegassimo in una logica essenzialmente politicista, misurandoci nel rapporto con gli altri - che siano Renzi e il Pd in Italia o Schultz e il Pse in Europa - saremmo sconfitti. Abbiamo bisogno di ridefinire la nostra identità di sinistra. Questa è l’essenza stessa della politica come elemento della democrazia, ossia la definizione di sé nel progetto generale; altrimenti si finisce succubi della trasformazione della politica in gestione del potere e di ricerca del fattibile, nel quadro dato, un quadro che però costruiscono altri e mai noi. La radicalità sta nel non accettare questo sistema che ci hanno imposto, ma di provare a pensarne uno diverso e alternativo.
scritto il 31 maggio 2014
giovedì 3 dicembre 2015
Verba volant (82): provocare...
Provocare, v. tr.
Il significato del verbo latino provocare è letteralmente chiamare fuori. Quante volte in un film abbiamo sentito un'espressione come
E non è un caso che provocare significhi anche assumere volutamente atteggiamenti tali da suscitare il desiderio fisico, da eccitare l’interesse sensuale. Lo sanno bene purtroppo le vittime di violenza sessuale che, troppe volte, vengono accusate di aver provocato i loro molestatori, solo perché hanno avuto la faccia tosta e l’impudenza di indossare una minigonna o dei jeans attillati. In questo caso evidentemente la provocazione sta negli occhi di chi guarda.
Ovviamente anche in politica provocare va per la maggiore; anche perché ho già detto che si tratta di una pratica che non richiede particolare intelligenza. Si butta lì una frase ad effetto, cercando magari un punto debole dell’avversario, la si urla il più forte possibile, la si amplifica, facendola girare nei social network, e si spera che qualcuno ci caschi. La regola generale di buon senso sarebbe quella di non cedere alle provocazioni, ma a volte è difficile, rischi di fare la figura del codardo e quindi rispondi, magari provocando a tua volta. Il provocatore però è sempre in vantaggio, è partito per primo e tu non sarai più in grado di raggiungerlo, come il povero Achille che insegue vanamente la tartaruga.
Beppe Grillo è un maestro della provocazione, la sa usare con teatrale efficacia; anzi la sua fortuna politica si basa proprio sull’uso calcolato di questo strumento retorico. Ed ha una base di seguaci sempre pronti a diffondere ogni sua frase ad effetto e a difenderlo contro chi osa rispondergli, come sta avvenendo in questi giorni dopo la sua parafrasi cretina di Se questo è un uomo, che ha giustamente suscitato disagio e fastidio in tante persone.
Ho deciso di dedicare una definizione a questa parola perché nei giorni scorsi il politico genovese è stato a Bologna per uno dei suoi comizi-spettacolo. Per altro ci dovremmo interrogare su questa forma inusuale di propaganda politica, in cui le persone addirittura pagano per ascoltare un comizio, ma non è questo il tema che mi interessa oggi. Tra le molte provocazioni fatte da Grillo ce n’è una che mi ha particolarmente colpito e sui cui vorrei fare una riflessione. Si tratta ovviamente di un esercizio inutile perché ormai la provocazione ha colpito, ha raggiunto il proprio obiettivo, è stata detta e propagata, senza alcun contradditorio. Questa mia riflessione anzi finisce per amplificare ulteriormente questa frase di Grillo, e non riuscirà a convincere nessuno dei suoi adepti. Ma nella mia vita politica mi è già capitato di fare cose inutili e controcorrente: una in più non fa la differenza.
Grillo ha detto che a
Probabilmente nessuna città può essere definita semplicemente di sinistra - o di destra, ovviamente - perché una città è una struttura complessa, che cambia nel tempo e che ha in sé moltissime anime e molte contraddizioni. Ha ragione chi dice che Bologna è una città di sinistra, quanto chi dice che si tratta di una città massonica o di una città clericale. Eppure quando si parla di Bologna affermare che sia una città di sinistra è più vero - scusate la forzatura sintattica - che nella maggioranza degli altri casi. Perché questo è avvenuto? Come mai l’anima di sinistra è diventata così forte, da oscurare perfino quella clericale, con buona pace di Biffi e di Caffarra? Francamente non lo so e non è neppure questa la sede per un’analisi del genere.
Immagino che qualcuno possa fare riferimento alla lunga storia della città, allo spirito egualitario, che si è espresso fin dal tempo del Liber Paradisus. Io, essendo nato nel contado, non posso non citare le partecipanze e il loro antico comunismo agrario. E poi ci sono state le società di mutuo soccorso e le cooperative, la cui storia è gloriosa, al netto di quello che molte di loro sono diventate ora, fino ad esprimere un ministro del lavoro di centrodestra.
Non so se qui, in queste terre, ci sia una particolare predisposizione, quasi genetica, alla sinistra. Certamente qui c’è stato un singolare e fortissimo radicamento territoriale del Pci, anche se neppure questo fatto, da solo, credo basti a raccontare un universo di solidarietà che si è manifestato anche fuori - e talvolta contro - il sistema del partito-chiesa. E poi c’è la tradizione di ottimi amministratori pubblici comunisti, con storie personali molto diverse, anche in quel caso con le loro contraddizioni, che comunque sarebbe perfino ingeneroso paragonare alla vacuità degli attuali amministratori.
Come ho detto la forza del bravo provocatore sta nel colpire uno dei punti deboli del proprio avversario. E Grillo qui ha potuto affondare il colpo con facilità, dal momento che il partito più importante della città, che esprime il sindaco e gran parte della classe dirigente cittadina, non è più un partito di sinistra, ma un partito, nelle migliori delle ipotesi, di centro moderato, che cerca di espungere gli ultimi germi di sinistra, fingendo comunque di essere un partito di centrosinistra, per garantire il proprio tradizionale insediamento elettorale. Grillo avrebbe potuto dire che il Pd bolognese non è più di sinistra, ma non sarebbe stata né una provocazione né una cosa particolarmente originale; anzi qualcuno degli esponenti di quel triste partito fatica a definire se stesso di sinistra e quindi la cosa non avrebbe colpito nel segno. Dire che Bologna non è più di sinistra ha invece colto il bersaglio, quantomeno perché ha squarciato il velo sull’ipocrisia di un partito che si definisce tale, solo per fini elettorali e per mantenere in vita, grazie a quel po’ di militanza rimasta, una struttura per altri aspetti del tutto autoreferenziale.
Questo però non risponde ancora alla mia domanda, scaturita dalla provocazione grillesca: Bologna è ancora una città di sinistra? Sul tema mi piacerebbe sentire anche la vostra opinione, sia che siate della città sia che la osserviate da fuori, anche se, in quest’ultimo caso avete sempre troppa indulgenza verso una città che credete sia migliore di quello che effettivamente è. Avviene lo stesso per la cucina: chi ci arriva e ci sta per poco tempo è convinto, sbagliando, di mangiare bene, mentre è molto difficile farlo, visto il livello medio dei locali bolognesi. Per tornare alla sinistra, io credo lo sia ancora, indipendentemente dalla classe politica che la rappresenta e la guida. Credo basterebbe dare un’occhiata al numero di associazioni che ci sono in città e in provincia, alle migliaia di persone che dedicano il loro tempo libero, le loro risorse, le loro capacità, alle altre persone, specialmente a quelle che hanno più bisogno.
Persone che immaginano il futuro così, con e per gli altri - per me - sono di sinistra. E contribuiscono a fare una città di sinistra. Almeno un po’ più delle altre.
scritto il 16 aprile 2014
Il significato del verbo latino provocare è letteralmente chiamare fuori. Quante volte in un film abbiamo sentito un'espressione come
vieni fuori, se hai coraggioEcco questa è, in senso strettamente etimologico, una provocazione. In italiano questo verbo significa prima di tutto spingere, con la parola o con l'azione, a un comportamento aggressivo; e quindi, quando viene usato in senso intransitivo, comportarsi con qualcuno in modo offensivo, irritante, ostile. Provocare è qualcosa di piuttosto semplice, richiede poca fantasia e poca intelligenza: sarà per questa ragione che in questi tempi tristi è così frequente incontrare qualcuno che provoca e così raro qualcuno che dialoga.
In un'altra definizione ho parlato di quell'artista statunitense che, per descrivere il complesso rapporto tra l'uomo e il cibo, ha realizzato un video in cui una donna "gioca" con una bottiglia di latte. Il sesso è notoriamente qualcosa che provoca e che crea interesse, come sanno bene quelli che preparano le home page dei principali siti di informazione italiani che, quando non sanno cosa scrivere o registrano un calo di accessi, usano quest'arma potentissima.
Sapete qual è la parola che ha avuto, fino ad ora, più contatti tra le definizioni di Verba volant? Puttana, ovviamente; anche merda è in buona posizione, ma non arriva a quel livello di interesse.E non è un caso che provocare significhi anche assumere volutamente atteggiamenti tali da suscitare il desiderio fisico, da eccitare l’interesse sensuale. Lo sanno bene purtroppo le vittime di violenza sessuale che, troppe volte, vengono accusate di aver provocato i loro molestatori, solo perché hanno avuto la faccia tosta e l’impudenza di indossare una minigonna o dei jeans attillati. In questo caso evidentemente la provocazione sta negli occhi di chi guarda.
Ovviamente anche in politica provocare va per la maggiore; anche perché ho già detto che si tratta di una pratica che non richiede particolare intelligenza. Si butta lì una frase ad effetto, cercando magari un punto debole dell’avversario, la si urla il più forte possibile, la si amplifica, facendola girare nei social network, e si spera che qualcuno ci caschi. La regola generale di buon senso sarebbe quella di non cedere alle provocazioni, ma a volte è difficile, rischi di fare la figura del codardo e quindi rispondi, magari provocando a tua volta. Il provocatore però è sempre in vantaggio, è partito per primo e tu non sarai più in grado di raggiungerlo, come il povero Achille che insegue vanamente la tartaruga.
Beppe Grillo è un maestro della provocazione, la sa usare con teatrale efficacia; anzi la sua fortuna politica si basa proprio sull’uso calcolato di questo strumento retorico. Ed ha una base di seguaci sempre pronti a diffondere ogni sua frase ad effetto e a difenderlo contro chi osa rispondergli, come sta avvenendo in questi giorni dopo la sua parafrasi cretina di Se questo è un uomo, che ha giustamente suscitato disagio e fastidio in tante persone.
Ho deciso di dedicare una definizione a questa parola perché nei giorni scorsi il politico genovese è stato a Bologna per uno dei suoi comizi-spettacolo. Per altro ci dovremmo interrogare su questa forma inusuale di propaganda politica, in cui le persone addirittura pagano per ascoltare un comizio, ma non è questo il tema che mi interessa oggi. Tra le molte provocazioni fatte da Grillo ce n’è una che mi ha particolarmente colpito e sui cui vorrei fare una riflessione. Si tratta ovviamente di un esercizio inutile perché ormai la provocazione ha colpito, ha raggiunto il proprio obiettivo, è stata detta e propagata, senza alcun contradditorio. Questa mia riflessione anzi finisce per amplificare ulteriormente questa frase di Grillo, e non riuscirà a convincere nessuno dei suoi adepti. Ma nella mia vita politica mi è già capitato di fare cose inutili e controcorrente: una in più non fa la differenza.
Grillo ha detto che a
a Bologna la sinistra non esiste più da anni.Applausi. Si tratta di una stupidata naturalmente, ma di sicuro effetto. Dal momento che a Bologna ci sono nato e ci ho vissuto molti anni - per quanto ora non ami tornare in quella città - e soprattutto perché lì io sono diventato di sinistra, rimanendolo tenacemente e ostinatamente ancora adesso, nonostante tutto, il tema mi appassiona. Molto di più di quanto interessi allo stesso Grillo, che probabilmente ha già dimenticato la sua boutade, per concentrarsi su un nuovo bersaglio polemico.
Probabilmente nessuna città può essere definita semplicemente di sinistra - o di destra, ovviamente - perché una città è una struttura complessa, che cambia nel tempo e che ha in sé moltissime anime e molte contraddizioni. Ha ragione chi dice che Bologna è una città di sinistra, quanto chi dice che si tratta di una città massonica o di una città clericale. Eppure quando si parla di Bologna affermare che sia una città di sinistra è più vero - scusate la forzatura sintattica - che nella maggioranza degli altri casi. Perché questo è avvenuto? Come mai l’anima di sinistra è diventata così forte, da oscurare perfino quella clericale, con buona pace di Biffi e di Caffarra? Francamente non lo so e non è neppure questa la sede per un’analisi del genere.
Immagino che qualcuno possa fare riferimento alla lunga storia della città, allo spirito egualitario, che si è espresso fin dal tempo del Liber Paradisus. Io, essendo nato nel contado, non posso non citare le partecipanze e il loro antico comunismo agrario. E poi ci sono state le società di mutuo soccorso e le cooperative, la cui storia è gloriosa, al netto di quello che molte di loro sono diventate ora, fino ad esprimere un ministro del lavoro di centrodestra.
Non so se qui, in queste terre, ci sia una particolare predisposizione, quasi genetica, alla sinistra. Certamente qui c’è stato un singolare e fortissimo radicamento territoriale del Pci, anche se neppure questo fatto, da solo, credo basti a raccontare un universo di solidarietà che si è manifestato anche fuori - e talvolta contro - il sistema del partito-chiesa. E poi c’è la tradizione di ottimi amministratori pubblici comunisti, con storie personali molto diverse, anche in quel caso con le loro contraddizioni, che comunque sarebbe perfino ingeneroso paragonare alla vacuità degli attuali amministratori.
Come ho detto la forza del bravo provocatore sta nel colpire uno dei punti deboli del proprio avversario. E Grillo qui ha potuto affondare il colpo con facilità, dal momento che il partito più importante della città, che esprime il sindaco e gran parte della classe dirigente cittadina, non è più un partito di sinistra, ma un partito, nelle migliori delle ipotesi, di centro moderato, che cerca di espungere gli ultimi germi di sinistra, fingendo comunque di essere un partito di centrosinistra, per garantire il proprio tradizionale insediamento elettorale. Grillo avrebbe potuto dire che il Pd bolognese non è più di sinistra, ma non sarebbe stata né una provocazione né una cosa particolarmente originale; anzi qualcuno degli esponenti di quel triste partito fatica a definire se stesso di sinistra e quindi la cosa non avrebbe colpito nel segno. Dire che Bologna non è più di sinistra ha invece colto il bersaglio, quantomeno perché ha squarciato il velo sull’ipocrisia di un partito che si definisce tale, solo per fini elettorali e per mantenere in vita, grazie a quel po’ di militanza rimasta, una struttura per altri aspetti del tutto autoreferenziale.
Questo però non risponde ancora alla mia domanda, scaturita dalla provocazione grillesca: Bologna è ancora una città di sinistra? Sul tema mi piacerebbe sentire anche la vostra opinione, sia che siate della città sia che la osserviate da fuori, anche se, in quest’ultimo caso avete sempre troppa indulgenza verso una città che credete sia migliore di quello che effettivamente è. Avviene lo stesso per la cucina: chi ci arriva e ci sta per poco tempo è convinto, sbagliando, di mangiare bene, mentre è molto difficile farlo, visto il livello medio dei locali bolognesi. Per tornare alla sinistra, io credo lo sia ancora, indipendentemente dalla classe politica che la rappresenta e la guida. Credo basterebbe dare un’occhiata al numero di associazioni che ci sono in città e in provincia, alle migliaia di persone che dedicano il loro tempo libero, le loro risorse, le loro capacità, alle altre persone, specialmente a quelle che hanno più bisogno.
Persone che immaginano il futuro così, con e per gli altri - per me - sono di sinistra. E contribuiscono a fare una città di sinistra. Almeno un po’ più delle altre.
scritto il 16 aprile 2014
Verba volant (228): autostrada...
Autostrada, sost. f.
Come immagino facciano molti di voi, la mattina, mentre mi preparo per andare a lavorare, ascolto la radio. Anzi la radio mi serve a scandire i miei rituali quotidiani: ad esempio, se non ho ancora fatto colazione quando comincia il notiziario regionale, vuol dire che sono decisamente in ritardo. Tranquilli: non vi voglio annoiare raccontandovi le mie abitudini mattutine.
Da alcune settimane sento in radio due pubblicità che mi hanno sorpreso. Invece di promuovere le solite cose - una merendina, un contratto di telefonia, un supermercato - alcune aziende fanno pubblicità alle loro autostrade. Uno spot ci invita a prendere la Pedemontana, allettandoci con il fatto che non ci sono caselli, il secondo invece ci spinge a utilizzare la Brebemi, ossia la nuova autostrada che collega Brescia e Milano, passando per Bergamo.
Sul momento ci ho fatto poco caso, le ho ascoltate con la stessa distrazione con cui ascolto le altre. Poi ho cominciato a pensarci. Le altre pubblicità le capisco: quando vado a fare spesa posso scegliere se andare in questo o quell'altro supermercato e, una volta entrato, posso decidere se acquistare questa o quell'altra merendina. E così via per tutti gli altri prodotti oggetto delle réclames; ma una strada cosa c'entra? Se voglio andare a Milano con la ferrovia capisco che io possa decidere che treno prendere, di questa o di quella compagnia. Ma se ci vado in auto perché devo scegliere quale autostrada utilizzare? Ce ne sono due? E perché cavolo abbiamo costruito due autostrade, consumando un bene così prezioso - e insostituibile - come il suolo per fare due strade per portarci nello stesso posto?
La pubblicità, oltre che per informarci delle possibilità che abbiamo come consumatori, serve anche a creare un bisogno, a farci diventare appunto più consumatori. Immagino che questi spot servano essenzialmente a questo. Non avrei mai pensato in vita mia di andare a Cornate d'Adda, ma l'idea di poterci finalmente arrivare comodamente in autostrada - per di più senza dover passare per i caselli, grazie al sistema free flow, come mi spiega quotidianamente un'entusiasta annunciatrice - mi spingerà certo a visitare questo ridente paese della Brianza, i cui monumenti più notevoli, secondo Wikipedia, sono le due centrali idroelettriche sull'Adda. Chissà prima come ci si arrivava fino a Cornate? O forse chi ha costruito queste nuove autostrade aveva in mente quello che ha scritto Paulo Coelho: non è importante la meta, ma il cammino; e quindi mi esorta, se devo andare a Milano, a non fare la strada più breve, passando per Piacenza e Lodi, ma a fare quella più lunga, per Brescia e Bergamo. In fondo è importante il viaggio, e quello che pagherò di pedaggio. Effettivamente quanti nuovi autogrill potrò visitare? Quante rustichelle potrò assaggiare in questo mio viaggio dell'anima tra le nuove autostrade italiane?
E' interessante la storia di questa parola. Il termine autostrada è stato utilizzato per la prima volta nel 1922, quando venne inventato dall'ingegnere Piero Puricelli che preparò il progetto dell'Autostrada dei laghi. L'autostrada, nell'immaginario di quegli anni, doveva essere una strada diversa, moderna, adatta appunto al nuovo e moderno mezzo di trasporto che allora cominciava a diffondersi: l'automobile. E curiosamente questa parola è passata dall'italiano alle altre lingue europee. Come nella musica il mondo parla italiano - piano, pianissimo, andante - così succede con autostrada, parola che è passata pari pari in Polonia, in Romania, nella parte meridionale della Svezia. E nelle altre lingue si registra la traduzione letterale dei due distinti termini auto e strada. Gli italiani hanno inventato la parola autostrada.
E indubbiamente la creazione di una rete di autostrade è stato un elemento di progresso. Giustamente l'Autostrada del sole è uno dei simboli del boom. Ricordo un divertente monologo di Massimo Troisi che racconta l'entusiasmo di suo padre quando la televisione diede l'annuncio che quest'opera era stata realizzata: dicevano che Milano e Napoli erano diventate più vicine, così mio padre ci caricò sul treno per andare a Milano.
So che costruire strade è importante, ma bisogna costruire quelle che servono. Se bisogna fare pubblicità a una strada affinché le persone la utilizzino, significa che quella strada non serve. Ed è stato un grave errore farla. Significa che quella strada è servita soltanto all'azienda che l'ha costruita, ai politici e ai funzionari pubblici che hanno preso tangenti per far costruire quella strada, ai proprietari a cui è stata espropriata la terra, a chi ha costruito brutti centri commerciali vicino a quella strada, ai politici e ai funzionari pubblici che hanno preso tangenti per dare il permesso di costruirli. Ma non serve alle persone che ogni giorno devono andare da un posto all'altro. E soprattutto non serve al nostro ambiente, perché quella strada significa che un'altra fetta del nostro territorio è stata cementificata, che un altro pezzo del nostro paesaggio è stato rovinato, che un'altra parte del nostro paese è stata stuprata.
Trovo ipocrita che in questi giorni queste pubblicità vengano precedute o seguite dalle riflessioni sulla conferenza di Parigi. Cosa c'è di più moralmente e ambientalmente insostenibile di un'autostrada che non serve? Come possono gli stessi politici che hanno inaugurato quelle nuove autostrade andare a Parigi per dire che dobbiamo cambiare i nostri stili di vita? Dobbiamo cambiare loro e cambiare i padroni delle autostrade che in questo modo ci stanno uccidendo. Ma senza la scomodità di passare per i caselli.
Come immagino facciano molti di voi, la mattina, mentre mi preparo per andare a lavorare, ascolto la radio. Anzi la radio mi serve a scandire i miei rituali quotidiani: ad esempio, se non ho ancora fatto colazione quando comincia il notiziario regionale, vuol dire che sono decisamente in ritardo. Tranquilli: non vi voglio annoiare raccontandovi le mie abitudini mattutine.
Da alcune settimane sento in radio due pubblicità che mi hanno sorpreso. Invece di promuovere le solite cose - una merendina, un contratto di telefonia, un supermercato - alcune aziende fanno pubblicità alle loro autostrade. Uno spot ci invita a prendere la Pedemontana, allettandoci con il fatto che non ci sono caselli, il secondo invece ci spinge a utilizzare la Brebemi, ossia la nuova autostrada che collega Brescia e Milano, passando per Bergamo.
Sul momento ci ho fatto poco caso, le ho ascoltate con la stessa distrazione con cui ascolto le altre. Poi ho cominciato a pensarci. Le altre pubblicità le capisco: quando vado a fare spesa posso scegliere se andare in questo o quell'altro supermercato e, una volta entrato, posso decidere se acquistare questa o quell'altra merendina. E così via per tutti gli altri prodotti oggetto delle réclames; ma una strada cosa c'entra? Se voglio andare a Milano con la ferrovia capisco che io possa decidere che treno prendere, di questa o di quella compagnia. Ma se ci vado in auto perché devo scegliere quale autostrada utilizzare? Ce ne sono due? E perché cavolo abbiamo costruito due autostrade, consumando un bene così prezioso - e insostituibile - come il suolo per fare due strade per portarci nello stesso posto?
La pubblicità, oltre che per informarci delle possibilità che abbiamo come consumatori, serve anche a creare un bisogno, a farci diventare appunto più consumatori. Immagino che questi spot servano essenzialmente a questo. Non avrei mai pensato in vita mia di andare a Cornate d'Adda, ma l'idea di poterci finalmente arrivare comodamente in autostrada - per di più senza dover passare per i caselli, grazie al sistema free flow, come mi spiega quotidianamente un'entusiasta annunciatrice - mi spingerà certo a visitare questo ridente paese della Brianza, i cui monumenti più notevoli, secondo Wikipedia, sono le due centrali idroelettriche sull'Adda. Chissà prima come ci si arrivava fino a Cornate? O forse chi ha costruito queste nuove autostrade aveva in mente quello che ha scritto Paulo Coelho: non è importante la meta, ma il cammino; e quindi mi esorta, se devo andare a Milano, a non fare la strada più breve, passando per Piacenza e Lodi, ma a fare quella più lunga, per Brescia e Bergamo. In fondo è importante il viaggio, e quello che pagherò di pedaggio. Effettivamente quanti nuovi autogrill potrò visitare? Quante rustichelle potrò assaggiare in questo mio viaggio dell'anima tra le nuove autostrade italiane?
E' interessante la storia di questa parola. Il termine autostrada è stato utilizzato per la prima volta nel 1922, quando venne inventato dall'ingegnere Piero Puricelli che preparò il progetto dell'Autostrada dei laghi. L'autostrada, nell'immaginario di quegli anni, doveva essere una strada diversa, moderna, adatta appunto al nuovo e moderno mezzo di trasporto che allora cominciava a diffondersi: l'automobile. E curiosamente questa parola è passata dall'italiano alle altre lingue europee. Come nella musica il mondo parla italiano - piano, pianissimo, andante - così succede con autostrada, parola che è passata pari pari in Polonia, in Romania, nella parte meridionale della Svezia. E nelle altre lingue si registra la traduzione letterale dei due distinti termini auto e strada. Gli italiani hanno inventato la parola autostrada.
E indubbiamente la creazione di una rete di autostrade è stato un elemento di progresso. Giustamente l'Autostrada del sole è uno dei simboli del boom. Ricordo un divertente monologo di Massimo Troisi che racconta l'entusiasmo di suo padre quando la televisione diede l'annuncio che quest'opera era stata realizzata: dicevano che Milano e Napoli erano diventate più vicine, così mio padre ci caricò sul treno per andare a Milano.
So che costruire strade è importante, ma bisogna costruire quelle che servono. Se bisogna fare pubblicità a una strada affinché le persone la utilizzino, significa che quella strada non serve. Ed è stato un grave errore farla. Significa che quella strada è servita soltanto all'azienda che l'ha costruita, ai politici e ai funzionari pubblici che hanno preso tangenti per far costruire quella strada, ai proprietari a cui è stata espropriata la terra, a chi ha costruito brutti centri commerciali vicino a quella strada, ai politici e ai funzionari pubblici che hanno preso tangenti per dare il permesso di costruirli. Ma non serve alle persone che ogni giorno devono andare da un posto all'altro. E soprattutto non serve al nostro ambiente, perché quella strada significa che un'altra fetta del nostro territorio è stata cementificata, che un altro pezzo del nostro paesaggio è stato rovinato, che un'altra parte del nostro paese è stata stuprata.
Trovo ipocrita che in questi giorni queste pubblicità vengano precedute o seguite dalle riflessioni sulla conferenza di Parigi. Cosa c'è di più moralmente e ambientalmente insostenibile di un'autostrada che non serve? Come possono gli stessi politici che hanno inaugurato quelle nuove autostrade andare a Parigi per dire che dobbiamo cambiare i nostri stili di vita? Dobbiamo cambiare loro e cambiare i padroni delle autostrade che in questo modo ci stanno uccidendo. Ma senza la scomodità di passare per i caselli.
mercoledì 2 dicembre 2015
Verba volant (227): processo...
Processo, sost. m.
L'etimologia di questa parola è piuttosto semplice: si tratta del participio del verbo latino procedĕre e significa quindi avanzamento, progresso. Il suo significato giuridico risale al latino medievale, come ellissi dell'espressione processus iudici. Un processo è quindi, per definizione, qualcosa che deve procedere, che parte da un'accusa o da una controversia per arrivare a una sentenza, riconosciuta e accettata da tutte le parti in causa.
Se questo procedere manca, non possiamo dire che si tratta di un vero processo. Un esempio è il dibattimento che si sta celebrando in questi giorni nella Città del Vaticano e che i giornali chiamano - con scarsa fantasia - Vatileaks 2. Si tratta, con tutta evidenza, di un processo che non rispetta le procedure di un paese civile. Ad esempio gli imputati non hanno il diritto di essere assistiti da un loro avvocato, perché ne viene loro assegnato uno d'ufficio. E' evidente che in questo processo manca appunto il "processo", perché la sentenza è già stata scritta nel momento in cui è stata formulata l'accusa. Sappiamo già che gli imputati saranno condannati e sappiamo anche che prima o poi saranno graziati dal papa, che in questo modo potrà mettere in mostra la propria misericordia, proprio all'inizio del giubileo dedicato a questa virtù, tra gli applausi della stampa italiana. Immagino che Eugenio Scalfari abbia già scritto il suo lungo e dotto editoriale di lode al pontefice da pubblicare all'indomani della grazia. E quindi tutti vissero felici e contenti. Il processo a cui assistiamo in questi giorni sembra uno di quei dibattimenti raccontati da Luigi Magni nei suoi bellissimi film sulla Roma dell'Ottocento, in particolare quello di In nome del Papa Re; solo che in quei processi alla fine interveniva il boia, mentre ora finisce tutto a tarallucci e vino. Vin santo, naturalmente.
A me di questa vicenda interessa soprattutto come viene raccontata dagli organi di informazione, cosa viene detto e soprattutto cosa non viene detto. Dalle cronache emergono, con dovizia di particolari, gli aspetti torbidi e boccacceschi della vicenda: sappiamo ormai tutto dell'invito a usare come antistress la "morbida" cugina, delle relazioni pericolose tra il monsignore e la sua protetta, dell'uso spregiudicato del denaro del Vaticano. Il sesso e i soldi, come si sa, fanno vendere i giornali e fanno audience, quindi i nostri gazzettieri calcano senza vergogna su questi aspetti. E' lo stesso motivo per cui sappiamo tutto - con precisione da geometri - dell'attico del cardinal Bertone, ma sappiamo assai poco del patrimonio immobiliare del Vaticano in Italia, spesso affittato a prezzi di favore a quelli che si scandalizzano - o ci fanno scandalizzare - dei lussi dei prelati.
C'è un punto però su cui i giornali italiani sono particolarmente e pericolosamente reticenti. Tra gli imputati ci sono due giornalisti accusati di aver diffuso informazioni non autorizzate riguardanti lo Stato pontificio: una cosa che legittimamente in quello stato è considerato un reato - e infatti prevede una pena da quattro a otto anni di carcere - ma che in Italia non lo è. E Nuzzi e Fittipaldi sono due cittadini italiani, che hanno pubblicato i loro libri in Italia. Cosa c'entra la giustizia del papa re?
In questa vicenda, anche se nessuno sembra ricordarlo, è in ballo il diritto di cronaca, la libertà di stampa, ma siccome ci sono di mezzo la chiesa e il papa - in particolare questo papa così bravo, che piace tanto all'intellighenzia di sinistra - questo aspetto passa in secondo piano. Meglio parlare della cugina "morbida". Hanno fatto finta di dimenticarlo perfino i due imputati, che si sono presentati spontaneamente al processo - e nessuno poteva costringerli a farlo - solo per farsi pubblicità e vendere qualche migliaio di copie in più: risultato peraltro raggiunto, visto l'insperato successo editoriale di quei due libri.
Pensate cosa sarebbe successo se due giornalisti italiani avessero pubblicato dei documenti riservati - e compromettenti - su una qualche autorità religiosa islamica e se un qualche stato mediorientale avesse deciso di istituire un processo come quello inscenato in questi giorni a Roma. I due malcapitati - che non si sarebbero mai sognati di volare fin laggiù per partecipare a un processo-farsa - sarebbero stati considerati dei martiri della libertà di opinione, sarebbe resuscitata Oriana Fallaci per difenderli, sarebbero cominciati a circolare gli appelli degli intellettuali a loro favore, i giornali avrebbero ogni giorno difeso i due paladini dell'informazione libera. Loro avrebbero comunque venduto i loro libri - con piena soddisfazione dei loro editori - ma avrebbero difeso anche la dignità del loro mestiere. Che oggi invece è ben nascosta; dietro le forme prosperose e tranquillizzanti della cugina.
L'etimologia di questa parola è piuttosto semplice: si tratta del participio del verbo latino procedĕre e significa quindi avanzamento, progresso. Il suo significato giuridico risale al latino medievale, come ellissi dell'espressione processus iudici. Un processo è quindi, per definizione, qualcosa che deve procedere, che parte da un'accusa o da una controversia per arrivare a una sentenza, riconosciuta e accettata da tutte le parti in causa.
Se questo procedere manca, non possiamo dire che si tratta di un vero processo. Un esempio è il dibattimento che si sta celebrando in questi giorni nella Città del Vaticano e che i giornali chiamano - con scarsa fantasia - Vatileaks 2. Si tratta, con tutta evidenza, di un processo che non rispetta le procedure di un paese civile. Ad esempio gli imputati non hanno il diritto di essere assistiti da un loro avvocato, perché ne viene loro assegnato uno d'ufficio. E' evidente che in questo processo manca appunto il "processo", perché la sentenza è già stata scritta nel momento in cui è stata formulata l'accusa. Sappiamo già che gli imputati saranno condannati e sappiamo anche che prima o poi saranno graziati dal papa, che in questo modo potrà mettere in mostra la propria misericordia, proprio all'inizio del giubileo dedicato a questa virtù, tra gli applausi della stampa italiana. Immagino che Eugenio Scalfari abbia già scritto il suo lungo e dotto editoriale di lode al pontefice da pubblicare all'indomani della grazia. E quindi tutti vissero felici e contenti. Il processo a cui assistiamo in questi giorni sembra uno di quei dibattimenti raccontati da Luigi Magni nei suoi bellissimi film sulla Roma dell'Ottocento, in particolare quello di In nome del Papa Re; solo che in quei processi alla fine interveniva il boia, mentre ora finisce tutto a tarallucci e vino. Vin santo, naturalmente.
A me di questa vicenda interessa soprattutto come viene raccontata dagli organi di informazione, cosa viene detto e soprattutto cosa non viene detto. Dalle cronache emergono, con dovizia di particolari, gli aspetti torbidi e boccacceschi della vicenda: sappiamo ormai tutto dell'invito a usare come antistress la "morbida" cugina, delle relazioni pericolose tra il monsignore e la sua protetta, dell'uso spregiudicato del denaro del Vaticano. Il sesso e i soldi, come si sa, fanno vendere i giornali e fanno audience, quindi i nostri gazzettieri calcano senza vergogna su questi aspetti. E' lo stesso motivo per cui sappiamo tutto - con precisione da geometri - dell'attico del cardinal Bertone, ma sappiamo assai poco del patrimonio immobiliare del Vaticano in Italia, spesso affittato a prezzi di favore a quelli che si scandalizzano - o ci fanno scandalizzare - dei lussi dei prelati.
C'è un punto però su cui i giornali italiani sono particolarmente e pericolosamente reticenti. Tra gli imputati ci sono due giornalisti accusati di aver diffuso informazioni non autorizzate riguardanti lo Stato pontificio: una cosa che legittimamente in quello stato è considerato un reato - e infatti prevede una pena da quattro a otto anni di carcere - ma che in Italia non lo è. E Nuzzi e Fittipaldi sono due cittadini italiani, che hanno pubblicato i loro libri in Italia. Cosa c'entra la giustizia del papa re?
In questa vicenda, anche se nessuno sembra ricordarlo, è in ballo il diritto di cronaca, la libertà di stampa, ma siccome ci sono di mezzo la chiesa e il papa - in particolare questo papa così bravo, che piace tanto all'intellighenzia di sinistra - questo aspetto passa in secondo piano. Meglio parlare della cugina "morbida". Hanno fatto finta di dimenticarlo perfino i due imputati, che si sono presentati spontaneamente al processo - e nessuno poteva costringerli a farlo - solo per farsi pubblicità e vendere qualche migliaio di copie in più: risultato peraltro raggiunto, visto l'insperato successo editoriale di quei due libri.
Pensate cosa sarebbe successo se due giornalisti italiani avessero pubblicato dei documenti riservati - e compromettenti - su una qualche autorità religiosa islamica e se un qualche stato mediorientale avesse deciso di istituire un processo come quello inscenato in questi giorni a Roma. I due malcapitati - che non si sarebbero mai sognati di volare fin laggiù per partecipare a un processo-farsa - sarebbero stati considerati dei martiri della libertà di opinione, sarebbe resuscitata Oriana Fallaci per difenderli, sarebbero cominciati a circolare gli appelli degli intellettuali a loro favore, i giornali avrebbero ogni giorno difeso i due paladini dell'informazione libera. Loro avrebbero comunque venduto i loro libri - con piena soddisfazione dei loro editori - ma avrebbero difeso anche la dignità del loro mestiere. Che oggi invece è ben nascosta; dietro le forme prosperose e tranquillizzanti della cugina.
sabato 28 novembre 2015
"Vincenzo De Pretore" di Eduardo De Filippo
De Pretore Vincenzo s’arrangiava
campava ‘a bona ‘e Dio, comme se dice.
Figlio di padre ignoto, senz’amice,
facev’ ‘o mariuolo pe’ campà.
Marciava bene: ‘o vestetiello inglese
‘a scarpa mocassino su misura;
‘a cammina le steva na pittura;
‘a cravatta marro’ “petit-pois”.
Nun s’ ‘a faceva, comme v’aggio ditto,
né cu n’amico, né cu nu parente;
campava sulo, nun liggeva niente;
ma ‘o Codice ‘o puteva declamà.
Pe’ na manovra ca fenette ‘nfieto
- nu scippo a na bizzoca - jiett’ ‘a dinto;
nemmen’ ‘o pizzo c’ ‘o mustaccio finto
chella vota ‘o putètteno salvà.
L’ammonimento già l’aveva avuto.
Ddoje vote sorvegliato speciale…
Se spuzzuliaje na Pasca e dduje Natale
c’ ‘o scisto, ‘a fava secca e c’ ‘o cantà.
Quanno ascette, Vicienzo ce penzaje:
“s’adda perdere ‘o nomm’ ‘e De Pretore
si nun trovo nu Santo protettore
ca me protegge ‘nterra, e in aldilà!
E chi sceglio? Chi piglio?” - Finalmente,
chillo ca cerca trova, penza e penza.
Se scigliette nu Santo ‘e conseguenza,
ca meglio d’isso ‘ncielo nun ce stà.
Pato a Gesù, marito d’ ‘a Madonna,
‘mparentat’ a Sant’Anna e a San Gioacchino:
“Si nun me po’ proteggere a puntino
qua San Giuseppe me pruteggiarrà?”
Arrubbava vasanne fijurelle;
nu furto, nu lumino e ddoje cannele…
Era cadut’ ‘ puorco dint’ ‘e mmele.
San Giuseppe ‘o faceva rispettà.
Chi ‘o manteneva ‘o 19 ‘e Marzo,
‘o jiuorno ‘e San Giuseppe! Addirittura,
si se trovava ‘ncopp’ a na Quistura,
nun se steva cujeto manco llà.
Campanno ‘e chistu passo, se capisce,
pure si te protegge ‘o Pateterno,
quaccheduno ce stà, pure all’Inferno,
ca ‘mpiz’ ‘a cora, pe te scumbinà.
A Piaza Municipio, ‘na matina,
sfilann’ ‘o portafoglio a nu signore,
chisto, cchiù lesto, ferm’ a De Pretore
e ‘o ‘ncatasta cu tanta abilità,
‘nfacc’a nu camionne; a nun contento
d’averle sbutecato ‘na mascella,
‘o lassa, mette man’ ‘a rivoltelle,
e tira, senza scrupolo e piatà.
De Pretore cadette “E’ muorto!…E’ muorto!”
“Gneornò, suspir’ancora!”. Ll’aizàjeno
‘a terra e lestu s’ ‘o purtàjeno
dint’ a na carruzzella p’ ‘o salvà.
Miezo stunato… ‘a man’ ‘e nu ‘nfirmiere…
nu fieto ‘e mmedicina l’affucava
e mentre nu chirurgo s’accustava
De Pretore già steva in aldilà.
Cu ‘e pied’ ‘a fora, e cu nu cammisone
‘e musullina, pallido e scaruso,
era, gnorsì, nu poco curioso;
ma ll’aneme se vestono accussì.
Allero e zumpettianno se fermaje
for’ ‘o palazzo ‘e Dio, ‘nnanz’ ‘o purtone:
spustaje cu fforza na maniglia ‘attone,
sbattènnola doje vote pè chiammà.
Nu spurtiello quadrato s’arapette,
e comm’ ‘a guardaporta s’affaciaje
na capa ‘e pruvulone, ca spiaje.
Nomme, cognomme, patria e qualità.
“E a chi volete?” “Voglio a S. Giuseppe…”
“Ma siete atteso?…Siete canusciuto?”
“Ma sono addirittura benvoluto,
San Giuseppe m’ha fatto saglì ccà!”
“Allora ci tenete appuntamento?”
“Così credo. Voi dite: De Pretore,
chillo ca ve scegliette Protettore,
vò sapè, mò che è muorto, c’ ‘adda fa!”
Se chiudett’ ‘o spurtiello. De Pretore
sentett’ ‘o passo ca s’alluntanava.
Doppo poco sentette ca turnava,
cchiù svelto e risoluto a cammenà.
Arapenn’ ‘o spurtiello n’ata vota,
‘o pruvulone, tutt’amariggiato,
dicette: “De Pretò, te si sbagliato.
San Giuseppe ha risposto: “e ch’aggia fa?
Si è muorto se mettesse mmiez’ ‘e muorte,
chi ‘o sape a stu Vicienzo De Pretore?”
Stev’ parlanno cu nostro Signore,
‘o quale ha ditto: “Làssace parlà”.
Vicienzo rummanètte penzieruso.
Po’ dicette: “Ma chesta è malafede!
Si se conta stu fatto nun se crede:
‘e ll’ampe s’ ‘e sapeva cunzumà?
È meglio ca ce jate n’ata vota,
facènnol’ accanì ca so’ diciso;
si nun traso e rummanno ‘mparaviso
facce correr’ ‘e guardie ‘e l’aldilà!”
Doppo aspettato cos’ ‘e mez’ora,
sentette c’ ‘o purtone s’arapeva,
e tanto d’ ‘o remore ca faceva,
Vicienzo se sentette scunucchià.
Po’, quanno s’arapette tuttuquanto,
vedette a San Giuseppe ca scenneva
nu scalone’ndurato, e ca diceva:
“Ma chistu De Pretore, chi sarrà?”
E De Pretore, cu ‘na faccia tosta,
‘o jett’ incontro, cu ‘na mana tesa:
“So’ De Pretore, ‘o figlio d’ ‘a Turresa!
M’hanno sparato ‘na mez’ora fa”
“T’hanno sparato? Uh povero guaglione!
Chi è stato ca t’ha fatt’ ‘o mmalamente?
“Ma allora nun sapite proprio niente?…
Vuje ‘mparaviso che ce state a ffa?…
Llavissev’ ‘a sapè, ca si so muorto,
è certamente pure colpa vosta.
Io arrubavo sicuro, a bella posta,
sapenno ca ce stìveve vuje ccà”
“Sicchè tu si ‘nu muorto mariuolo?!”
“Gnernò, mò ca so’ muorto song’onesto.
Nu mariuolo vivo, si fa chesto,
nun ‘o ffà pe murì, ma pe’ campà”.
“E’ giusto!” rispunnette S. Giuseppe
“però, ccà ‘ncopp’, stu ragionamento
difficilmente, dint’ a ‘nu mumento,
cagna ‘na Legge antica ca ce sta!
Chi arroba in vita, è sempre mariuolo
E doppo muorto resta segnalato…
Si ‘o mariuolo fosse perdunato
‘o ffuoco eterno che ce stesse a ffà?”
De Pretore dicette: “ ‘J che ne saccio,
io nun pozo capì tutte sti llegge.
Chi tene a S. Giuseppe c’ ‘o prutegge,
è San Giuseppe che c’adda penzà”
“Primm’ ‘e tutto - dicette San Giuseppe -
sta prutezione, si me l’ ‘e cercata,
tu te l’ ‘e vista, e tu te l’ ‘e pigliata.
Nun capisco pecchè t’avev’ a dà!”
“Overo? E tutte chelli ffigurelle
cu vvuje fotografato e culurato?
Io, certi vvote, me so ‘ndebbitato
p’ ‘e cannèle e pe’ ll’uoglio! E mò che ffà?…
Mò me dicite “Ccà ce sta ‘na Legge…
Ca ‘o mariuolo è sempre signalato…”
A me, si nun m’avessero sparato,
fosse muorto p’ ‘a famma, San Giusè!…
Mò tantu bello, nun facimme storie,
parlate in confidenza c’ ‘o Signore.
Dicìtele “Vicienzo De Pretore
ll’aggio protetto, e ‘o faccio restà ccà”
“E si me dice: no?” “Peggio pe’ vvuje,
ca ‘lloco ‘ncoppa nun cuntate niente.
Pe’ chello c’ aggio spiso, stregn’ ‘e diente.
Ma vuje …ce avite perzo ‘e dignità!”
San Giuseppe, nu poco penzieruso,
s’abbiaje p’ ‘o scalone, a malincuore,
e se truvaje ‘mpresenza d’ ‘o Signore,
cu lluocchie ‘nterra pe’ nun ‘o guardà.
“Giuseppe cosa c’è?” “Caro Maestro,
va trova comm’ è gghiuto e comm’ è stato,
‘o certo è ca me sento scuncertato.
Nun saccio comm’ avesse accummincià.
Fore ce sta nu mariuolo muorto
Ca se chiama Vicienzo De Pretore.
Siccome me scegliette Protettore
Giustamente vulesse restà ccà”
“San Giusè, ma te fusse rimbambito?
Nu mariuolo! E dice: giustamente?
Ma tu te si stunate veramente!
Chest’ è ‘a vicchiaja ca te fa parlà”
“Che centra? Vuje, ched’è, nun site vecchio?
Anze, si ce penzate, mmiez’ a nnuje,
‘o vicchiacone overo site vuje.
Insomma, ccà se tratt’ ‘e dignità.
De Pretore arrubbava, sissignore;
è muorto acciso pe’ chesta ragione.
S’era fissato c’ ‘a prutezione:
m’appicciava ‘e cannele… c’aggia fa?
Lle vaco a ddì ca nun ne saccio niente…
Ca conta solamente ‘o Pateterno,
e ca se n’adda scènnere all’Inferno
pecchè ‘a protezione nun ce sta?…
Si vuje vulite fa chesta figura,
io nun ‘a voglio fa. Sa che ve dico?
Ve rummanno devoto, frato, amico;
ma ve saluto, e mme ne vaco a ccà”
Dicette ‘o Pateterno: “Chella è ‘a porta.
Però piènzece bbuono nu mumento.
Pecchè, si po’ te ven’ ‘o pentimento,
‘a porta è chiusa, e chiusa restarrà!”
E c’ ‘a mazza fiorita, San Giuseppe,
comme si nun avesse manco ‘ntiso,
lassav’ ‘o posto ‘e copp’ ‘o Paraviso,
c’ ‘a capa sotto, e senza s’avutà.
‘A Madonna, strignènnose dint’ ‘e spalle,
se su sette pur’essa e s’avutaje;
facette ‘a riverenza, salutaje,
dichiaranno: “Ma comme pozzo fa?…
Giuseppe è mio marito, certamente…
E lo devo seguire ovunque vada.
Io, come moglie, seguo la sua strada:
‘na mugliera fedele chesto fa”
Gesù Cristo dicette: “Io song’ ‘o figlio…
Che faccio? ‘E llasso sule? E cu’ qua’ core?
Specialmente mia Madre, se ne more…
Io mme ne vaco cu Papà e Mammà”
Sant’Anna fece segno a San Gioacchino
San Giuvanne, cumpar’ ‘o Salvatore…
L’Angelo Gabriele Annunciatore
pur’ isso s’ ‘a vuleva spalummà.
Tanto, ca ‘o Pateterno se su sette,
strillanno: “Fermi tutti!!…Dove andate?
Si overamente ascite e ve ne jate,
‘o Paraviso nun ‘o pozzo fa”
Tutt’ ‘a Sacra Famiglia se fermaje,
aspettanno ‘a Parola d’ ‘o Signore.
“Va bene, fate entrare a De Pretore…
Almeno, m’ ‘o facite interrogà!”
De Pretore trasette “Vieni avanti
Tu ti chiami Vincenzo?” “Sissignore”
“E di cognome?” “Faccio De Pretore”
“Tuo padre?” “De Pretore fuje mammà”
“Come sarebbe?!” “So’ di padre ignoto”
“Non capisco. Ma ignoto di che cosa?”
“Che quando sulla terra non si sposa,
‘e figlie nun se ponno dichiarà”
“Ma i figli sono figli” “Niente affatto.
Vuje ve credite ca so tutte eguale;
ma ‘e figlie, ‘nterra, si nun so’ legale,
campano comme ponno: c’hann’a fa?”
“Ma c’è la Chiesa!” “Comme nun ce stesse,
Nun cagna ‘a strada vecchia p’una nova;
ce sta chi ‘o pate fauzo s’ ‘o trova…
E addeventa legale chillu llà”
Doppo capuziato, ‘o Pateterno
dicette: “Aggio capi’ ‘o fattariello.
Pirciò tu addeventaste mariunciello?”
“Gnorsì, ma sulamente pe’ campà.
Senza ‘nu pate ca te mann’ ‘a scola,
campanno abandunato mmiez’ ‘a via,
facenno sulamente a capa mia…
se sape ca fernesce p’arrubà!
E songo a melione chella ggente
Ca pe’ se mantenè pulit’ ‘a fora,
quanno nu figlio nun è nato ancora,
le negano ‘o diritto d’ ‘o ccampà.
Se ll’accidene ‘ncuorpo, ‘e ccriature,
senza piatà, redento e pazianno.
Pariente e amice ‘o ssanno e nun ‘o ssanno…
E se levano ‘a tuorno ‘a verità.
Overo, Patetè, sti criaturelle
accise primm’ ‘e nascere, addo’ vanno?
Veneno ‘Mparaviso, e nun ‘o ssanno?
E vuje nun c’ ‘o putisseve spiegà?”
“Dove sei nato?” “So’ napulitano.
Pure pe’ chesto stevo scumbinato…
Pe’ Napule ogneduno ha studiato,
pe’ vedè comm’ aveven’ ‘a ‘nguaià!”
“Pero’ senza volerlo…” “Per progetto.
Caro Maestro, con la malafede;
con l’arma che si vede e non si vede,
con la calunnia e con la falsità”
“Ma c’è il governo!” “Nun ne sape niente.
Se ‘mbrogliano cu ‘e llegge pure lloro.
Nun c’è che ffà; s’hanno ‘mparat’ ‘o coro,
ch’a Napule se vene pe’ cantà.
‘O peggio surdo è chi nun sente apposta.
Pecchè, si voglio fa na vita onesta
E nisciuno m’aiuta, che me resta?
Industrializzo la disonestà”
Nu minuto ‘e silenzio, ‘o Pateterno,
cu ‘na santa pazienza se su sette,
e cu ‘na voce ferma po’ dicette:
“Chistu Napulitano resta ccà!”
Po’ se chiammaje San Ciro: “Cì, ‘e sentito
‘o fatto d’ ‘e creature?” “Ll’aggio ‘ntiso…”
rispunnette San Ciro, “’Mparaviso
nun c’è cchiù posto p’ ‘e ricoverà!
Arrivavano a chiome, st’Angiulille…
Ca j’ dicevo…scusate si v’ ‘o ddico:
ma ‘o Pateterno fosse ‘nu nemico?
Sti mmeze criaturelle che nne fa?
Cu ‘e ccapuzzelle grosse, a forma ‘e pera;
ch’ ‘e ddetelle azzeccate e ll’uocchie ‘nchiuse,
pàrene vicchiarelle penzieruse,
ca sanno ‘a ggente, ‘o munno e ‘a ‘nfamità!
N’aggio fatte nuttate appriesso a lloro,
attuorno a tutte chelli spalluzzelle!
Ce n’aggio miso ‘nguenta e ppumatelle…
Ma ‘e scelle nun putevano spuntà…”
Dicett’ ‘o Pateterno: “Nun fa niente.
Nun vularranno maje chist’Angiulille.
Che ffà… so piccerille piccerille
E mm’ ee porto cu mmico, a passià.
Pe’ comme vanno ‘e fatte ‘ncopp’ ‘a terra,
ce sta na Legge mia, can un perdona.
Chillo ca dice: “Dio nun se ne addona”
se sbaglia, pecchè ‘a Leggia mia ce sta.
Nun è ca tutt’ ‘e juorne stong’ attiento
a chello ca succede ‘ncopp’ ‘a terra;
pero’ si se scatena quacche guerra,
è ll’ommo stesso c’ ‘a fa scatenà.
Se ‘mbroglia dint’ ‘a stessa cattiveria,
se ‘mbriaca c’ ‘a vendetta e c’ ‘a malizia;
s’accide, se condanna e fa giustizia;
ma è sempe ‘a Leggia mia ca ce ‘o ffa fa.
Andate tutti a letto. Domattina
Vi sveglierete nelle prime ore
per spiegare a Vincenzo De Pretore
in Paradiso come ci si sta”
‘E Sante cu ‘na meza resatela
e cu ‘nu miez’inchino s’abbiàjeno.
Ammaglieranno amaro se cuccàjeno
penzanno: “’A rrobba mo’ s’adda ‘nzerrà!”
‘O Pateterno, ‘a sera, è abituato
a sentì, ‘Mparaviso, ‘e meglie cante.
Invece, chella notte, tuttuquante
nun ‘e ssenteva manco ‘e pepetià.
E, cu ‘nu naso fino ‘e Pateterno,
‘O Signore capett’ ‘a serenata.
Nun potette durmì tutt’ ‘a nuttata,
penzanno che discorso aveva fa.
Schiarato juorno, fece l’adunata
e dicette: “Capisco il malumore,
avvuje ve fa paura De Pretore,
ch’ è mariunciello, e ca ve po’ arrubbà?
State tranquilli, ne rispondo io.
Chisto pirciò se chiamma Paraviso.
Lietto sicuro, pane ben diviso…
Neh, De Pretore c’arrubbasse a ffà?”
‘E Sante se guardàjeno tutte ‘nfaccia
E ‘ntunajen’ ‘a cchiù bbella Pasturale,
comm’a chella che cantano a Natale:
e pe’ Vicienzo che felicità!
A poco a poco tutte chistu coro,
e tutta chesta musica fernette.
‘E bello De Pretore se sentette
‘a stanchezza e ‘o dolore d’ ‘o campà.
Po’ n’ata voce ‘e cristiane,
una diceva: “Fatelo dormire.
Ripiglia il polso, ma non puo’ capire.
Complimenti, Dottore… se ne va?”
Cu ll’uocchie miez’ aperte, lle parette
‘e vedè ‘na figura d’omme anziano,
cu nu figlietto e cu ‘na penna ‘mmano
e ca diceva:”’O pozzo interrogà?”
N’ata voce dicette: “Con prudenza”
“Tu ti chiami Vincenzo?” “Sissignore”
“E di cognome?” “Faccio De Pretore”
“Tuo padre?” “Ve l’ho detto poco fa”
N’ata voce dicette: “Su coraggio
cercate di rispondere al signore”.
“Gnorsì, già mi ha concesso l’alto onore.
Sul’isso me puteva perdunà.
Ce ll’aggio ditto, ch’ero mariunciello
e ca pe’ chesto songo muorto acciso.
Fatemi rimanere in Paradiso!
Tengo… ‘a prumessa e voglio…restà ccà…”
Credenno ca parlava c’ ‘o Signore,
‘nzerraje pe’ sempe ll’uocchie De Pretore.
campava ‘a bona ‘e Dio, comme se dice.
Figlio di padre ignoto, senz’amice,
facev’ ‘o mariuolo pe’ campà.
Marciava bene: ‘o vestetiello inglese
‘a scarpa mocassino su misura;
‘a cammina le steva na pittura;
‘a cravatta marro’ “petit-pois”.
Nun s’ ‘a faceva, comme v’aggio ditto,
né cu n’amico, né cu nu parente;
campava sulo, nun liggeva niente;
ma ‘o Codice ‘o puteva declamà.
Pe’ na manovra ca fenette ‘nfieto
- nu scippo a na bizzoca - jiett’ ‘a dinto;
nemmen’ ‘o pizzo c’ ‘o mustaccio finto
chella vota ‘o putètteno salvà.
L’ammonimento già l’aveva avuto.
Ddoje vote sorvegliato speciale…
Se spuzzuliaje na Pasca e dduje Natale
c’ ‘o scisto, ‘a fava secca e c’ ‘o cantà.
Quanno ascette, Vicienzo ce penzaje:
“s’adda perdere ‘o nomm’ ‘e De Pretore
si nun trovo nu Santo protettore
ca me protegge ‘nterra, e in aldilà!
E chi sceglio? Chi piglio?” - Finalmente,
chillo ca cerca trova, penza e penza.
Se scigliette nu Santo ‘e conseguenza,
ca meglio d’isso ‘ncielo nun ce stà.
Pato a Gesù, marito d’ ‘a Madonna,
‘mparentat’ a Sant’Anna e a San Gioacchino:
“Si nun me po’ proteggere a puntino
qua San Giuseppe me pruteggiarrà?”
Arrubbava vasanne fijurelle;
nu furto, nu lumino e ddoje cannele…
Era cadut’ ‘ puorco dint’ ‘e mmele.
San Giuseppe ‘o faceva rispettà.
Chi ‘o manteneva ‘o 19 ‘e Marzo,
‘o jiuorno ‘e San Giuseppe! Addirittura,
si se trovava ‘ncopp’ a na Quistura,
nun se steva cujeto manco llà.
Campanno ‘e chistu passo, se capisce,
pure si te protegge ‘o Pateterno,
quaccheduno ce stà, pure all’Inferno,
ca ‘mpiz’ ‘a cora, pe te scumbinà.
A Piaza Municipio, ‘na matina,
sfilann’ ‘o portafoglio a nu signore,
chisto, cchiù lesto, ferm’ a De Pretore
e ‘o ‘ncatasta cu tanta abilità,
‘nfacc’a nu camionne; a nun contento
d’averle sbutecato ‘na mascella,
‘o lassa, mette man’ ‘a rivoltelle,
e tira, senza scrupolo e piatà.
De Pretore cadette “E’ muorto!…E’ muorto!”
“Gneornò, suspir’ancora!”. Ll’aizàjeno
‘a terra e lestu s’ ‘o purtàjeno
dint’ a na carruzzella p’ ‘o salvà.
Miezo stunato… ‘a man’ ‘e nu ‘nfirmiere…
nu fieto ‘e mmedicina l’affucava
e mentre nu chirurgo s’accustava
De Pretore già steva in aldilà.
Cu ‘e pied’ ‘a fora, e cu nu cammisone
‘e musullina, pallido e scaruso,
era, gnorsì, nu poco curioso;
ma ll’aneme se vestono accussì.
Allero e zumpettianno se fermaje
for’ ‘o palazzo ‘e Dio, ‘nnanz’ ‘o purtone:
spustaje cu fforza na maniglia ‘attone,
sbattènnola doje vote pè chiammà.
Nu spurtiello quadrato s’arapette,
e comm’ ‘a guardaporta s’affaciaje
na capa ‘e pruvulone, ca spiaje.
Nomme, cognomme, patria e qualità.
“E a chi volete?” “Voglio a S. Giuseppe…”
“Ma siete atteso?…Siete canusciuto?”
“Ma sono addirittura benvoluto,
San Giuseppe m’ha fatto saglì ccà!”
“Allora ci tenete appuntamento?”
“Così credo. Voi dite: De Pretore,
chillo ca ve scegliette Protettore,
vò sapè, mò che è muorto, c’ ‘adda fa!”
Se chiudett’ ‘o spurtiello. De Pretore
sentett’ ‘o passo ca s’alluntanava.
Doppo poco sentette ca turnava,
cchiù svelto e risoluto a cammenà.
Arapenn’ ‘o spurtiello n’ata vota,
‘o pruvulone, tutt’amariggiato,
dicette: “De Pretò, te si sbagliato.
San Giuseppe ha risposto: “e ch’aggia fa?
Si è muorto se mettesse mmiez’ ‘e muorte,
chi ‘o sape a stu Vicienzo De Pretore?”
Stev’ parlanno cu nostro Signore,
‘o quale ha ditto: “Làssace parlà”.
Vicienzo rummanètte penzieruso.
Po’ dicette: “Ma chesta è malafede!
Si se conta stu fatto nun se crede:
‘e ll’ampe s’ ‘e sapeva cunzumà?
È meglio ca ce jate n’ata vota,
facènnol’ accanì ca so’ diciso;
si nun traso e rummanno ‘mparaviso
facce correr’ ‘e guardie ‘e l’aldilà!”
Doppo aspettato cos’ ‘e mez’ora,
sentette c’ ‘o purtone s’arapeva,
e tanto d’ ‘o remore ca faceva,
Vicienzo se sentette scunucchià.
Po’, quanno s’arapette tuttuquanto,
vedette a San Giuseppe ca scenneva
nu scalone’ndurato, e ca diceva:
“Ma chistu De Pretore, chi sarrà?”
E De Pretore, cu ‘na faccia tosta,
‘o jett’ incontro, cu ‘na mana tesa:
“So’ De Pretore, ‘o figlio d’ ‘a Turresa!
M’hanno sparato ‘na mez’ora fa”
“T’hanno sparato? Uh povero guaglione!
Chi è stato ca t’ha fatt’ ‘o mmalamente?
“Ma allora nun sapite proprio niente?…
Vuje ‘mparaviso che ce state a ffa?…
Llavissev’ ‘a sapè, ca si so muorto,
è certamente pure colpa vosta.
Io arrubavo sicuro, a bella posta,
sapenno ca ce stìveve vuje ccà”
“Sicchè tu si ‘nu muorto mariuolo?!”
“Gnernò, mò ca so’ muorto song’onesto.
Nu mariuolo vivo, si fa chesto,
nun ‘o ffà pe murì, ma pe’ campà”.
“E’ giusto!” rispunnette S. Giuseppe
“però, ccà ‘ncopp’, stu ragionamento
difficilmente, dint’ a ‘nu mumento,
cagna ‘na Legge antica ca ce sta!
Chi arroba in vita, è sempre mariuolo
E doppo muorto resta segnalato…
Si ‘o mariuolo fosse perdunato
‘o ffuoco eterno che ce stesse a ffà?”
De Pretore dicette: “ ‘J che ne saccio,
io nun pozo capì tutte sti llegge.
Chi tene a S. Giuseppe c’ ‘o prutegge,
è San Giuseppe che c’adda penzà”
“Primm’ ‘e tutto - dicette San Giuseppe -
sta prutezione, si me l’ ‘e cercata,
tu te l’ ‘e vista, e tu te l’ ‘e pigliata.
Nun capisco pecchè t’avev’ a dà!”
“Overo? E tutte chelli ffigurelle
cu vvuje fotografato e culurato?
Io, certi vvote, me so ‘ndebbitato
p’ ‘e cannèle e pe’ ll’uoglio! E mò che ffà?…
Mò me dicite “Ccà ce sta ‘na Legge…
Ca ‘o mariuolo è sempre signalato…”
A me, si nun m’avessero sparato,
fosse muorto p’ ‘a famma, San Giusè!…
Mò tantu bello, nun facimme storie,
parlate in confidenza c’ ‘o Signore.
Dicìtele “Vicienzo De Pretore
ll’aggio protetto, e ‘o faccio restà ccà”
“E si me dice: no?” “Peggio pe’ vvuje,
ca ‘lloco ‘ncoppa nun cuntate niente.
Pe’ chello c’ aggio spiso, stregn’ ‘e diente.
Ma vuje …ce avite perzo ‘e dignità!”
San Giuseppe, nu poco penzieruso,
s’abbiaje p’ ‘o scalone, a malincuore,
e se truvaje ‘mpresenza d’ ‘o Signore,
cu lluocchie ‘nterra pe’ nun ‘o guardà.
“Giuseppe cosa c’è?” “Caro Maestro,
va trova comm’ è gghiuto e comm’ è stato,
‘o certo è ca me sento scuncertato.
Nun saccio comm’ avesse accummincià.
Fore ce sta nu mariuolo muorto
Ca se chiama Vicienzo De Pretore.
Siccome me scegliette Protettore
Giustamente vulesse restà ccà”
“San Giusè, ma te fusse rimbambito?
Nu mariuolo! E dice: giustamente?
Ma tu te si stunate veramente!
Chest’ è ‘a vicchiaja ca te fa parlà”
“Che centra? Vuje, ched’è, nun site vecchio?
Anze, si ce penzate, mmiez’ a nnuje,
‘o vicchiacone overo site vuje.
Insomma, ccà se tratt’ ‘e dignità.
De Pretore arrubbava, sissignore;
è muorto acciso pe’ chesta ragione.
S’era fissato c’ ‘a prutezione:
m’appicciava ‘e cannele… c’aggia fa?
Lle vaco a ddì ca nun ne saccio niente…
Ca conta solamente ‘o Pateterno,
e ca se n’adda scènnere all’Inferno
pecchè ‘a protezione nun ce sta?…
Si vuje vulite fa chesta figura,
io nun ‘a voglio fa. Sa che ve dico?
Ve rummanno devoto, frato, amico;
ma ve saluto, e mme ne vaco a ccà”
Dicette ‘o Pateterno: “Chella è ‘a porta.
Però piènzece bbuono nu mumento.
Pecchè, si po’ te ven’ ‘o pentimento,
‘a porta è chiusa, e chiusa restarrà!”
E c’ ‘a mazza fiorita, San Giuseppe,
comme si nun avesse manco ‘ntiso,
lassav’ ‘o posto ‘e copp’ ‘o Paraviso,
c’ ‘a capa sotto, e senza s’avutà.
‘A Madonna, strignènnose dint’ ‘e spalle,
se su sette pur’essa e s’avutaje;
facette ‘a riverenza, salutaje,
dichiaranno: “Ma comme pozzo fa?…
Giuseppe è mio marito, certamente…
E lo devo seguire ovunque vada.
Io, come moglie, seguo la sua strada:
‘na mugliera fedele chesto fa”
Gesù Cristo dicette: “Io song’ ‘o figlio…
Che faccio? ‘E llasso sule? E cu’ qua’ core?
Specialmente mia Madre, se ne more…
Io mme ne vaco cu Papà e Mammà”
Sant’Anna fece segno a San Gioacchino
San Giuvanne, cumpar’ ‘o Salvatore…
L’Angelo Gabriele Annunciatore
pur’ isso s’ ‘a vuleva spalummà.
Tanto, ca ‘o Pateterno se su sette,
strillanno: “Fermi tutti!!…Dove andate?
Si overamente ascite e ve ne jate,
‘o Paraviso nun ‘o pozzo fa”
Tutt’ ‘a Sacra Famiglia se fermaje,
aspettanno ‘a Parola d’ ‘o Signore.
“Va bene, fate entrare a De Pretore…
Almeno, m’ ‘o facite interrogà!”
De Pretore trasette “Vieni avanti
Tu ti chiami Vincenzo?” “Sissignore”
“E di cognome?” “Faccio De Pretore”
“Tuo padre?” “De Pretore fuje mammà”
“Come sarebbe?!” “So’ di padre ignoto”
“Non capisco. Ma ignoto di che cosa?”
“Che quando sulla terra non si sposa,
‘e figlie nun se ponno dichiarà”
“Ma i figli sono figli” “Niente affatto.
Vuje ve credite ca so tutte eguale;
ma ‘e figlie, ‘nterra, si nun so’ legale,
campano comme ponno: c’hann’a fa?”
“Ma c’è la Chiesa!” “Comme nun ce stesse,
Nun cagna ‘a strada vecchia p’una nova;
ce sta chi ‘o pate fauzo s’ ‘o trova…
E addeventa legale chillu llà”
Doppo capuziato, ‘o Pateterno
dicette: “Aggio capi’ ‘o fattariello.
Pirciò tu addeventaste mariunciello?”
“Gnorsì, ma sulamente pe’ campà.
Senza ‘nu pate ca te mann’ ‘a scola,
campanno abandunato mmiez’ ‘a via,
facenno sulamente a capa mia…
se sape ca fernesce p’arrubà!
E songo a melione chella ggente
Ca pe’ se mantenè pulit’ ‘a fora,
quanno nu figlio nun è nato ancora,
le negano ‘o diritto d’ ‘o ccampà.
Se ll’accidene ‘ncuorpo, ‘e ccriature,
senza piatà, redento e pazianno.
Pariente e amice ‘o ssanno e nun ‘o ssanno…
E se levano ‘a tuorno ‘a verità.
Overo, Patetè, sti criaturelle
accise primm’ ‘e nascere, addo’ vanno?
Veneno ‘Mparaviso, e nun ‘o ssanno?
E vuje nun c’ ‘o putisseve spiegà?”
“Dove sei nato?” “So’ napulitano.
Pure pe’ chesto stevo scumbinato…
Pe’ Napule ogneduno ha studiato,
pe’ vedè comm’ aveven’ ‘a ‘nguaià!”
“Pero’ senza volerlo…” “Per progetto.
Caro Maestro, con la malafede;
con l’arma che si vede e non si vede,
con la calunnia e con la falsità”
“Ma c’è il governo!” “Nun ne sape niente.
Se ‘mbrogliano cu ‘e llegge pure lloro.
Nun c’è che ffà; s’hanno ‘mparat’ ‘o coro,
ch’a Napule se vene pe’ cantà.
‘O peggio surdo è chi nun sente apposta.
Pecchè, si voglio fa na vita onesta
E nisciuno m’aiuta, che me resta?
Industrializzo la disonestà”
Nu minuto ‘e silenzio, ‘o Pateterno,
cu ‘na santa pazienza se su sette,
e cu ‘na voce ferma po’ dicette:
“Chistu Napulitano resta ccà!”
Po’ se chiammaje San Ciro: “Cì, ‘e sentito
‘o fatto d’ ‘e creature?” “Ll’aggio ‘ntiso…”
rispunnette San Ciro, “’Mparaviso
nun c’è cchiù posto p’ ‘e ricoverà!
Arrivavano a chiome, st’Angiulille…
Ca j’ dicevo…scusate si v’ ‘o ddico:
ma ‘o Pateterno fosse ‘nu nemico?
Sti mmeze criaturelle che nne fa?
Cu ‘e ccapuzzelle grosse, a forma ‘e pera;
ch’ ‘e ddetelle azzeccate e ll’uocchie ‘nchiuse,
pàrene vicchiarelle penzieruse,
ca sanno ‘a ggente, ‘o munno e ‘a ‘nfamità!
N’aggio fatte nuttate appriesso a lloro,
attuorno a tutte chelli spalluzzelle!
Ce n’aggio miso ‘nguenta e ppumatelle…
Ma ‘e scelle nun putevano spuntà…”
Dicett’ ‘o Pateterno: “Nun fa niente.
Nun vularranno maje chist’Angiulille.
Che ffà… so piccerille piccerille
E mm’ ee porto cu mmico, a passià.
Pe’ comme vanno ‘e fatte ‘ncopp’ ‘a terra,
ce sta na Legge mia, can un perdona.
Chillo ca dice: “Dio nun se ne addona”
se sbaglia, pecchè ‘a Leggia mia ce sta.
Nun è ca tutt’ ‘e juorne stong’ attiento
a chello ca succede ‘ncopp’ ‘a terra;
pero’ si se scatena quacche guerra,
è ll’ommo stesso c’ ‘a fa scatenà.
Se ‘mbroglia dint’ ‘a stessa cattiveria,
se ‘mbriaca c’ ‘a vendetta e c’ ‘a malizia;
s’accide, se condanna e fa giustizia;
ma è sempe ‘a Leggia mia ca ce ‘o ffa fa.
Andate tutti a letto. Domattina
Vi sveglierete nelle prime ore
per spiegare a Vincenzo De Pretore
in Paradiso come ci si sta”
‘E Sante cu ‘na meza resatela
e cu ‘nu miez’inchino s’abbiàjeno.
Ammaglieranno amaro se cuccàjeno
penzanno: “’A rrobba mo’ s’adda ‘nzerrà!”
‘O Pateterno, ‘a sera, è abituato
a sentì, ‘Mparaviso, ‘e meglie cante.
Invece, chella notte, tuttuquante
nun ‘e ssenteva manco ‘e pepetià.
E, cu ‘nu naso fino ‘e Pateterno,
‘O Signore capett’ ‘a serenata.
Nun potette durmì tutt’ ‘a nuttata,
penzanno che discorso aveva fa.
Schiarato juorno, fece l’adunata
e dicette: “Capisco il malumore,
avvuje ve fa paura De Pretore,
ch’ è mariunciello, e ca ve po’ arrubbà?
State tranquilli, ne rispondo io.
Chisto pirciò se chiamma Paraviso.
Lietto sicuro, pane ben diviso…
Neh, De Pretore c’arrubbasse a ffà?”
‘E Sante se guardàjeno tutte ‘nfaccia
E ‘ntunajen’ ‘a cchiù bbella Pasturale,
comm’a chella che cantano a Natale:
e pe’ Vicienzo che felicità!
A poco a poco tutte chistu coro,
e tutta chesta musica fernette.
‘E bello De Pretore se sentette
‘a stanchezza e ‘o dolore d’ ‘o campà.
Po’ n’ata voce ‘e cristiane,
una diceva: “Fatelo dormire.
Ripiglia il polso, ma non puo’ capire.
Complimenti, Dottore… se ne va?”
Cu ll’uocchie miez’ aperte, lle parette
‘e vedè ‘na figura d’omme anziano,
cu nu figlietto e cu ‘na penna ‘mmano
e ca diceva:”’O pozzo interrogà?”
N’ata voce dicette: “Con prudenza”
“Tu ti chiami Vincenzo?” “Sissignore”
“E di cognome?” “Faccio De Pretore”
“Tuo padre?” “Ve l’ho detto poco fa”
N’ata voce dicette: “Su coraggio
cercate di rispondere al signore”.
“Gnorsì, già mi ha concesso l’alto onore.
Sul’isso me puteva perdunà.
Ce ll’aggio ditto, ch’ero mariunciello
e ca pe’ chesto songo muorto acciso.
Fatemi rimanere in Paradiso!
Tengo… ‘a prumessa e voglio…restà ccà…”
Credenno ca parlava c’ ‘o Signore,
‘nzerraje pe’ sempe ll’uocchie De Pretore.
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