Processo, sost. m.
L'etimologia di questa parola è piuttosto semplice: si tratta del participio del verbo latino procedĕre e significa quindi avanzamento, progresso. Il suo significato giuridico risale al latino medievale, come ellissi dell'espressione processus iudici. Un processo è quindi, per definizione, qualcosa che deve procedere, che parte da un'accusa o da una controversia per arrivare a una sentenza, riconosciuta e accettata da tutte le parti in causa.
Se questo procedere manca, non possiamo dire che si tratta di un vero processo. Un esempio è il dibattimento che si sta celebrando in questi giorni nella Città del Vaticano e che i giornali chiamano - con scarsa fantasia - Vatileaks 2. Si tratta, con tutta evidenza, di un processo che non rispetta le procedure di un paese civile. Ad esempio gli imputati non hanno il diritto di essere assistiti da un loro avvocato, perché ne viene loro assegnato uno d'ufficio. E' evidente che in questo processo manca appunto il "processo", perché la sentenza è già stata scritta nel momento in cui è stata formulata l'accusa. Sappiamo già che gli imputati saranno condannati e sappiamo anche che prima o poi saranno graziati dal papa, che in questo modo potrà mettere in mostra la propria misericordia, proprio all'inizio del giubileo dedicato a questa virtù, tra gli applausi della stampa italiana. Immagino che Eugenio Scalfari abbia già scritto il suo lungo e dotto editoriale di lode al pontefice da pubblicare all'indomani della grazia. E quindi tutti vissero felici e contenti. Il processo a cui assistiamo in questi giorni sembra uno di quei dibattimenti raccontati da Luigi Magni nei suoi bellissimi film sulla Roma dell'Ottocento, in particolare quello di In nome del Papa Re; solo che in quei processi alla fine interveniva il boia, mentre ora finisce tutto a tarallucci e vino. Vin santo, naturalmente.
A me di questa vicenda interessa soprattutto come viene raccontata dagli organi di informazione, cosa viene detto e soprattutto cosa non viene detto. Dalle cronache emergono, con dovizia di particolari, gli aspetti torbidi e boccacceschi della vicenda: sappiamo ormai tutto dell'invito a usare come antistress la "morbida" cugina, delle relazioni pericolose tra il monsignore e la sua protetta, dell'uso spregiudicato del denaro del Vaticano. Il sesso e i soldi, come si sa, fanno vendere i giornali e fanno audience, quindi i nostri gazzettieri calcano senza vergogna su questi aspetti. E' lo stesso motivo per cui sappiamo tutto - con precisione da geometri - dell'attico del cardinal Bertone, ma sappiamo assai poco del patrimonio immobiliare del Vaticano in Italia, spesso affittato a prezzi di favore a quelli che si scandalizzano - o ci fanno scandalizzare - dei lussi dei prelati.
C'è un punto però su cui i giornali italiani sono particolarmente e pericolosamente reticenti. Tra gli imputati ci sono due giornalisti accusati di aver diffuso informazioni non autorizzate riguardanti lo Stato pontificio: una cosa che legittimamente in quello stato è considerato un reato - e infatti prevede una pena da quattro a otto anni di carcere - ma che in Italia non lo è. E Nuzzi e Fittipaldi sono due cittadini italiani, che hanno pubblicato i loro libri in Italia. Cosa c'entra la giustizia del papa re?
In questa vicenda, anche se nessuno sembra ricordarlo, è in ballo il diritto di cronaca, la libertà di stampa, ma siccome ci sono di mezzo la chiesa e il papa - in particolare questo papa così bravo, che piace tanto all'intellighenzia di sinistra - questo aspetto passa in secondo piano. Meglio parlare della cugina "morbida". Hanno fatto finta di dimenticarlo perfino i due imputati, che si sono presentati spontaneamente al processo - e nessuno poteva costringerli a farlo - solo per farsi pubblicità e vendere qualche migliaio di copie in più: risultato peraltro raggiunto, visto l'insperato successo editoriale di quei due libri.
Pensate cosa sarebbe successo se due giornalisti italiani avessero pubblicato dei documenti riservati - e compromettenti - su una qualche autorità religiosa islamica e se un qualche stato mediorientale avesse deciso di istituire un processo come quello inscenato in questi giorni a Roma. I due malcapitati - che non si sarebbero mai sognati di volare fin laggiù per partecipare a un processo-farsa - sarebbero stati considerati dei martiri della libertà di opinione, sarebbe resuscitata Oriana Fallaci per difenderli, sarebbero cominciati a circolare gli appelli degli intellettuali a loro favore, i giornali avrebbero ogni giorno difeso i due paladini dell'informazione libera. Loro avrebbero comunque venduto i loro libri - con piena soddisfazione dei loro editori - ma avrebbero difeso anche la dignità del loro mestiere. Che oggi invece è ben nascosta; dietro le forme prosperose e tranquillizzanti della cugina.
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