giovedì 31 dicembre 2020

Storie (XVI). "Arriveranno i gud taims..."

Sulla Sesta Avenue, tra la 43esima e la 44esima West, c'è un grande palazzo di uffici che si chiama The Hippodrome Building. Un nome curioso per un anonimo grattacielo, uno dei tanti di Midtown Manhattan. Non fatevi ingannare dal nome: dove adesso c'è quell'edificio non c'era un ippodromo, ma il più grande teatro del mondo. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

domenica 20 dicembre 2020

Verba volant (794): slitta...

Slitta, sost. f.

Anche se sono più vecchio di Cesare Cremonini, so quanto sia bello andare in giro in Vespa per i colli bolognesi. Invece non so proprio come sia andare in slitta sulla neve tirato da un cavallo al trotto. Pare sia divertente, anche se devo fidarmi di quello che racconta James Lord Pierpont. E comunque Cesare non me la racconti giusta: sappiamo tutti e due che la parte più divertente è quando vai in giro in Vespa con la tua ragazza seduta dietro, come Gregory Peck in Vacanze romane. Almeno James è più onesto: confessa che a lui piace andare in slitta proprio perché così può stare finalmente da solo con la sua Fanny. Certo c'è sempre il rischio di cadere e magari di fare una brutta figura di fronte a qualche damerino di passaggio. Ma - assicura James - se attacchi un baio veloce, carichi una ragazza e cominci a cantare, stai sicuro: è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi, se hai una slitta che ti toglie i problemi.
E poi è divertente ascoltare il suono delle campanelle attaccate alle briglie del cavallo, anche se le hai messe per far sentire agli incroci che stai arrivando. Meglio essere prudenti, una slitta sulla neve, a differenza della Vespa quando vai su per Casaglia, non fa praticamente nessun rumore. Quindi ragazzo, fa' suonare quelle campane.

A differenza di quello che succede con Cremonini, abbiamo un solo ritratto di James Lord Pierpont, un rispettabile signore di cinquant'anni in redingote con una folta barba nera. In quel momento James, sposato e padre di quattro figli, vive in Georgia, è l'organista della locale chiesa presbiteriana, insegna musica nella scuola della città e dà lezioni private di pianoforte. Anche se è nato a Boston, vive da tempo al sud, tanto che si è arruolato come volontario nell'esercito della Confederazione. È uno dei tanti reduci della guerra di secessione che cerca di adattarsi ai tempi nuovi. Sono lontani gli anni in cui si è imbarcato in una baleniera e poi è andato in California per partecipare, senza successo, alla corsa all'oro. Ha tentato anche di fare il fotografo, anche in questo caso senza fortuna. Però James ama la musica, sa suonare l'organo ed è capace di comporre canzoni. Scrive musica da ballo, ma soprattutto canzoni per gli spettacoli dei Minstrel, attori e cantanti bianchi con la faccia dipinta di nero, che rappresentano i neri in maniera stereotipata e offensiva. Però il pubblico si diverte e questi spettacoli di varietà hanno un certo successo negli Stati Uniti - a nord e a sud - negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento. E, nonostante il chiaro intento razzista, è il modo in cui i bianchi scoprono la musica dei neri. E quello che diventerà all'inizio del Novecento il jazz.
Non sappiamo di preciso né quando né dove James abbia composto la canzone intitolata The One Horse Open Sleigh, in cui racconta di quanto sia divertente portare una ragazza in giro con la slitta d'inverno. Sappiamo che è stata eseguita per la prima volta il 15 settembre 1857 all'Ordway Hall di Boston da John Pell, un popolare "menestrello" dalla faccia nera, in uno dei suoi spettacoli. E non sappiamo se sia piaciuta al pubblico, che probabilmente si è messo a ridere quando Johnny, cantando la terza strofa, quella dove si racconta la caduta, si è buttato a terra, fingendo di essersi fatto male al sedere. O ha fatto qualche gesto volgare per descrivere Fanny che finalmente ha deciso di accettare l'invito a fare quella corsa sulla slitta. In fondo si divertivano così. Gli spettatori probabilmente hanno trovato quel pezzo - il cui ritornello richiama il Canone di Pachelbel - piuttosto orecchiabile, anche perché simile a tante altri canzoni tradizionali che hanno già sentito o magari cantato proprio andando sulle slitte. Ma James ha bisogno di soldi, deve scrivere le sue canzoni in fretta e sfrutta il più possibile quello che c'è in giro. 
In quegli stessi mesi il fratello di James diventa reverendo della chiesa presbiteriana unitaria di Savannah in Georgia e lui lo segue per suonare l'organo e dirigere il coro. Per la Festa del Ringraziamento di quell'anno, James insegna al suo nuovo coro quella canzone sulle campane e sulle slitte. È una canzone che parla della neve e dell'inverno e poi è abbastanza facile da imparare in pochi giorni. Mentre suona l'organo della chiesa di Savannah - che sarà chiusa dopo due anni perché sostiene l'abolizione della schiavitù, un "dogma" che in Georgia in quegli anni ha scarsa fortuna - James non può certo immaginare che ha scritto una delle più famose canzoni di Natale del mondo, una canzone che tutti abbiamo cantato e storpiato, anche se non sappiamo l'inglese e non abbiamo idea che si parli di slitte. 

Non ci sono notizie precise su quando Jingle Bells sia diventata una delle più popolari canzoni natalizie di sempre. Rispetto alla versione di Pierpont quella che cantiamo noi - e che è una popolare suoneria di cellulare - ha un ritornello ancora più semplice e non sappiamo chi l'abbia scritta così, ma certo viene registrata in questo modo da Will Lyle il 30 ottobre 1889 su un cilindro Edison, anche se non si ha notizie di copie superstiti. La prima registrazione arrivata fino a noi è di qualche settimana dopo: l'Edison Male Quartette, sempre su un cilindro Edison, incide una parte della canzone in un medley natalizio - usavano già allora - intitolato Sleigh Ride Party. Nel 1902 i quattro artisti, che ormai si fanno chiamare Hayden Quartet, perché non cantano solo per la Edison, e sono il più popolare quartetto vocale di qua e di là dell'Atlantico dei primi anni del Novecento, incidono Jingle Bells
E da allora questa canzone è definitivamente una delle canzoni di Natale, anzi la più conosciuta e cantata canzone non religiosa di Natale. Nel 1935 la versione di Benny Goodman raggiunge il 18° posto della classifica dei dischi più venduti, mentre nel 1941 Glenn Miller ottiene il quinto posto. E durante le feste di Natale del 2006 la cantante Kimberley Locke, scoperta nella secondo edizione di American Idol, raggiunge il primo posto con la sua registrazione della canzone. Nel 1957 Bobby Helms ha riscritto la musica in stile rockabilly. E davvero tutti hanno registrato Jingle Bells, da Sinatra a Mickey Mouse, dai Beatles a Pavarotti. Oppure quel ritornello così famoso viene appena citato, come nella versione di Bruce Springsteen di Santa Claus Is Comin' to Town. E non mancano ovviamente le parodie, come quella famosa Jingle Bells, Batman Smells, scritta negli anni Sessanta, ma rimessa in auge da Burt Simpson. O, visto che la canzone è diventata internazionale, in qualche caso si decide di cambiare le parole. In Australia a Natale non c'è la neve e non si va in slitta, però puoi portare la tua ragazza su una vecchia Holden sollevando la polvere nel bush: il risultato non cambia
Il 16 dicembre 1965 gli astronauti della missione Gemini Tom Stafford e Wally Schirra, con delle campanelle e un'armonica portate sulla navicella all'insaputa della base di Cape Canaveral, hanno eseguito una loro versione di Jingle Bells, che quindi è diventata la prima canzone diffusa nello spazio.

E James?
Continua a fare la sua vita da gentiluomo del sud. Nel 1880 suo figlio Juriah, che è diventato un medico, rinnova il copyright sulla canzone, riuscendo, pur con notevoli sforzi, a mantenerla legata al nome del padre. Anche se non ne ricaverà mai molti soldi. James Lord Pierpont muore a Winter Haven - e uno che ha scritto Jingle Bells dove altro poteva trasferirsi? - in Florida il 5 agosto 1893. E anche se non ha goduto i benefici economici, nel 1970 il suo nome è stato inserito nella Songwriters Hall of Fame, proprio per aver scritto, copiando qua e là, quella canzone.
Forse gli avrebbe fatto più piacere sapere che nel 2006 un altro "menestrello" avrebbe usato la struttura del ritornello e le prime due righe della sua The Little White Cottage, una ballata del 1857 scritta proprio nello stesso anno di Jingle Bells, per la sua Nettie Moore, l'ottavo brano di Modern Times.

Quindi la prossima volta che sentite Jingle Bells non pensate al cenone e ai regali, e neppure al Natale, ma solo di essere su una slitta con la vostra Fanny e di andare veloci verso il tramonto.

lunedì 14 dicembre 2020

Verba volant (793): buio...

Buio
, sost. m.

Forse non siamo disposti ad ammetterlo, ma anche noi "grandi" abbiamo paura del buio.
Eppure noi non siamo mai al buio. Chi di noi vive in città, sa che le finestre lasciano filtrare le luci delle strade e dei palazzi vicini, ma anche chi vive in campagna, isolato dalle altre case, sa che il buio non esiste più. 
Ci sono quei piccoli punti rossi che ci dicono che i nostri televisori, anche se momentaneamente sono spenti, sono lì, pronti a trasmettere i programmi che stanno "custodendo" per noi, e che i nostri allarmi sono inseriti, perché altrimenti non ci sentiremmo sicuri neppure a casa, e le nostre caldaie e i nostri impianti di condizionamento sono accesi, perché vogliamo dormire al fresco d'estate e al caldo in inverno, sempre vestendo lo stesso pigiama di moda, e poi ci sono le luci degli schermi dei nostri telefonini e dei nostri tablet, che, mentre noi dormiamo, si "nutrono" di energia per permetterci la mattina successiva di essere nuovamente connessi con il mondo e che continuano a ricevere notifiche e informazioni, perché da qualche parte del mondo è sempre giorno, ma soprattutto non riusciamo ad avere paura del buio perché sappiamo che ci basta allungare un braccio fuori dalle coperte e fiat lux
Il buio è un lusso che non possiamo più permetterci, la luce accompagna sempre la nostra vita, a qualsiasi ora del giorno e della notte. 
Curiosamente, almeno da un punto di vista etimologico, il buio ha a che fare con il fuoco. Questa parola deriva infatti dal basso latino burus - e per questo nei dialetti di derivazione gallica, come quello di Bologna, noi diciamo ancora bur - e significa bruciato, arso. In sostanza il buio è il colore di quello che il fuoco ha distrutto. 
Come se l'etimologia volesse dirci che non dobbiamo avere paura del buio, ma della luce, di troppa luce. E infatti quelle piccole luci che riempiono le nostre case, per quanto siano il segno di un progresso a cui non possiamo - e non dobbiamo - più rinunciare, sono anche il segno di un pericolo, la perdita del senso del limite. E non possiamo dimenticare che per permetterci di stare nel tepore dei nostri letti, in attesa di svegliarci trovando sempre l'acqua calda e le ultime notizie sui nostri telefoni, è necessaria un'incredibile quantità di energia che mette a rischio l'equilibrio del nostro pianeta e spesso è fondata sullo sfruttamento di persone che non godono di questi stessi privilegi. 
E se tutti i quasi otto miliardi di donne e uomini che ci sono su questo pianeta potessero, come facciamo noi, e come naturalmente sarebbe auspicabile, avere una casa e tutte le luci che abbiamo noi, quanto resisterebbe il mondo? Sarebbe in breve distrutto. Il pianeta resiste perché noi privilegiati che non dobbiamo più temere il buio siamo una minoranza.  
Ho cominciato a scrivere questa definizione di Verba volant alla mattina del giorno che sul calendario è dedicato a santa Lucia e che nella credenza popolare segue la notte più lunga dell'anno. Una notte che nelle nostre case è ovviamente illuminata dalle lucette degli addobbi natalizi. Sappiamo che non è vero, che il solstizio d'inverno cade qualche giorno dopo, ma non importa: io continuo a credere che questa sia la notte più lunga dell'anno, perché così hanno creduto tante generazioni prima della nostra, quelle donne e quegli uomini che hanno conosciuto davvero il buio, perché la loro vita era regolata dal succedersi del giorno e della notte e dalla scansione delle stagioni. E provo una sorta di nostalgia per quel mondo che non ho mai conosciuto, e a cui mi posso aggrappare solo attraverso queste antiche tradizioni. Naturalmente - perché viviamo in un mondo di contraddizioni - sempre al caldo della mia casa e con tutte le luci accese, e scrivendo su un uno schermo illuminato.
E forse, se chiudiamo gli occhi, se proviamo a staccare tutte le nostre diavolerie che non si spengono mai - e non ci spengono mai - potremmo perfino intuire, anche se per un breve momento, cosa significa una notte che sembra non finire e la gioia di quel bagliore di luce quando annuncia che, nonostante tutto, un altro giorno sta per cominciare, anche dopo una notte così lunga, una notte senza fine. Pensate lo stupore con cui i nostri antichissimi progenitori vedevano ogni mattina sorgere il sole, il sospiro di sollievo perché anche quella notte era finita. Certo potevano legittimamente sperare che il sole sarebbe sorto, che la luce sarebbe tornata, perché era sempre successo, ma non ne erano proprio sicuri, in fondo ai loro cuori un po' di paura c'era sempre. Noi siamo sicuri che domani mattina il sole tornerà a sorgere, sappiamo con precisione a che ora la prima luce dell'alba toccherà le nostre città, ma credo che dovremmo riacquistare un po' di quella sana meraviglia, come se non lo sapessimo, come se temessimo che il sole non sorga anche domani.
Proviamo a stare davvero al buio: avremo certamente paura - è naturale averla - ma saremo anche consapevoli che il buio fuori di noi è in qualche modo rassicurante, a differenza del buio che è dentro di noi. Quello sì che deve farci paura. O forse anche in questo caso non è il buio che dobbiamo temere, ma il fuoco dentro di noi che ha la forza di distruggere gli altri e il mondo che ci sta intorno. Dobbiamo avere - come sempre - paura di noi.

mercoledì 11 novembre 2020

Verba volant (792): dentifricio...

Dentifricio
, sost. m.

Henri Bendel e sua moglie Blanche Lehman - sì, proprio una di quei Lehman - sono arrivati a New York da Morgan City, in Louisiana, nel 1895 e hanno aperto il loro primo negozio sulla Nona Strada nel Greenwich Village. Blanche è morta di parto, insieme al bambino, pochi mesi dopo, e da quel momento Henri si è dedicato esclusivamente alla sua attività. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

giovedì 5 novembre 2020

Verba volant (791): recitare...

Recitare, v. tr.

Vito Giusto Scozzari e Frederick Paul Draper II sono
quasi coetanei. Il primo è nato a San Francisco il 26 gennaio 1918, mentre il secondo a Chester, in Pennsylvania, il 2 settembre 1923. 

Vito ha il teatro nel sangue. Ha trascorso i primi anni di vita a Napoli, dove i suoi genitori hanno deciso di tornare prima di trasferirsi definitivamente in America, questa volta a New York, quando lui ha sette anni. La madre recita in italiano a teatro per le famiglie degli emigranti e presto il bambino sale sul palcoscenico: prima solo per qualche comparsata e via via recita le prime battute. Fa il mimo, il giocoliere, il mago, fa quello che serve in quegli spettacoli popolari. Si fa chiamare Vito Scotti, perché è più facile da pronunciare rispetto al suo vero cognome.
Frederick invece non è figlio d'arte, ma, visti i suoi scarsi successi scolastici, pensa di poter diventare un attore: sempre meglio che lavorare. E poi così può trasferirsi a New York e iscriversi all'American Academy of Dramatic Arts, una scuola in cui ci sono molte belle ragazze. Fred non ha tutti i torti: in quegli anni frequentano l'istituto al 120 di Madison Avenue Grace Kelly e Anne Bancroft.

Dopo una lunga gavetta a Broadway Vito, come tutti i giovani attori di belle speranze, va a Hollywood. Nel 1949 ottiene la sua prima, piccolissima, parte - quella di un bandito messicano - in Illegal Entry, un film sul problema dei cittadini messicani che tentano di entrare negli Stati Uniti e sono vittime dei trafficanti, di qua e di là del confine: cose che succedevano in quel paese settant'anni fa. E così Vito Scotti comincia una carriera che terminerà cinquant'anni e duecento ruoli dopo, tra cinema e televisione. Naturalmente per lo più interpreta personaggi in cui deve fare l'"italiano", come in Life with Luigi, ma è stato anche un medico russo, un marinaio giapponese e un venditore ambulante emigrato dall'India. Molti dei film in cui è apparso - diverse volte, specialmente all'inizio della carriera, senza essere accreditato - non sono proprio memorabili - anche se nel 1972 è Nazorine nel Padrino di Francis Ford Coppola - ma alcuni continuano a passare in televisione con successo. Vito dà il meglio nelle commedie: nel 1968 in How Sweet It Is! - incomprensibilmente tradotto in Italia come Uffa papà quanto rompi - è il cuoco che bacia l'ombelico di Debbie Reynolds. E un anno dopo è l'attempato latin lover spagnolo che tenta, senza riuscirci, di sedurre Ingrid Bergman in Fiore di cactus. Nel 1970 è sua la voce di Peppo, il gatto italiano che suona la concertina in quella vera e propria "internazionale" del jazz messa insieme da Scat Cat sui tetti di Parigi negli Aristogatti. Vito è un artigiano del cinema, uno dei tanti che hanno reso grande Hollywood. 
Mentre frequenta i corsi dell'American Academy Fred divide una stanza con un altro studente, un ragazzo di sei anni più giovane di lui, i cui genitori sono arrivati in America dalla Grecia settentrionale e che dimostra subito un discreto talento, ma anche una notevole indisciplina. John Cassavetes vuole recitare e soprattutto vuole fare i suoi film, ma al di fuori degli studios e delle loro "regole". John lavora in televisione, è il protagonista della serie Johnny Staccato, un detective privato che è anche un pianista jazz nei locali del Greenwich. In un episodio della serie recita anche Vito Scotti. Con i soldi che guadagna in televisione Cassavetes realizza i suoi primi film, Ombre - che ottiene un premio al Festival di Venezia del 1959 - e Blues di mezzanotte. Anche Fred lavora in televisione, qualche piccola parte, per lo più non accreditata. A metà degli anni Sessanta è il barista in sei episodi di Peyton Place. John realizza quasi tutti i suoi film coinvolgendo un gruppo fidato di amici, Ben Gazzara, Seymour Cassel, Peter Falk. Naturalmente si ricorda anche del suo vecchio compagno di stanza al Greenwich, che è diventato un buon attore, e così Fred recita in cinque film diretti da John: Gli esclusi del 1963, con Judy Garland e Burt Lancaster, Volti del 1968, Mariti del 1970, Una moglie e La sera della prima, la cui protagonista è Gena Rowlands, che John ha conosciuto ai tempi dell'Academy e che è diventata sua moglie nel 1954. Dopo questo film, che è del 1977, Fred Draper decide di ritirarsi a Rancho Cucamonga, vicino a San Bernardino. È soddisfatto della sua carriera, delle poche cose che ha fatto, di quell'avventura cominciata per caso.

Si conoscevano Vito e Fred? Non credo fossero amici, probabilmente Fred non è mai stato invitato a una delle famose cene organizzate a casa sua da Vito, che era un ottimo cuoco e che si divertiva a preparare i piatti della tradizione italiana, seguendo le ricette che gli aveva lasciato sua nonna. Ma certamente si conoscevano: dopotutto Hollywood era una piccola città. 
Forse hanno già lavorato insieme - ma, visto che spesso i loro nomi non comparivano nei titoli, neppure di questo siamo sicuri - quando nell'estate del 1974 si ritrovano entrambi sul set di Negative Reaction, il secondo episodio della quarta stagione di Colombo, il ventisettesimo della serie, in Italia conosciuto con il titolo Una mossa sbagliata. Il regista è Alf Kjellin, che nella sua lunga carriera ha diretto decine di telefilm, da Il dottor Kildare a Dynasty, da Bonanza a La famiglia Bradford. La sceneggiatura è di Peter S. Fisher, che oltre ad aver scritto diversi episodi di questa serie destinata a diventare un vero e proprio cult, sarà il sceneggiatore di quasi tutti gli episodi di Ellery Queen e uno dei creatori di La signora in giallo. Il "cattivo", come avviene spesso negli episodi di Colombo, è un grande dello spettacolo, Dick Van Dyke, che qui sfoggia una bella barba grigia. Van Dyke interpreta il fotografo vincitore del premio Pulitzer Paul Galesko che, dopo averne inscenato il rapimento, uccide la moglie Frances - interpretata da Antoinette Bower, un'altra "veterana" del genere - e poi l'ex galeotto che l'ha aiutato e a cui cerca di addossare la colpa dell'omicidio di Frances. Nel corso dell'indagine il tenente Colombo si imbatte in un possibile testimone del secondo delitto, un barbone che però confessa che in quel momento era troppo ubriaco per ricordare qualcosa di quello che è avvenuto a pochi metri da lui, se non gli spari. Quel barbone, che pure dimostra una certa cultura e forse nasconde un passato misterioso, è Vito Scotti, in una delle scene più divertenti dell'episodio, perché quando Colombo va nella missione per interrogarlo, la suora, visto il suo impermeabile, lo scambia per uno dei senzatetto che si ritrovano lì all'ora di pranzo e gli dà un piatto di zuppa di manzo. In un'altra scena, Colombo chiede informazioni a un tecnico di laboratorio e quel collega della scientifica è Fred Draper.

Forse i loro nomi non vi dicono nulla e forse non ricordate neppure i loro visi, ma Vito e Fred hanno un'altra cosa in comune: negli anni Settanta sono apparsi rispettivamente in cinque e sei differenti episodi di Colombo, interpretando ogni volta un personaggio diverso.
Oltre al barbone di Una mossa sbagliata, Vito è un sollecito maitre di un ristorante di lusso che Colombo mette in difficoltà con le sue richieste di vini pregiati in L'uomo dell'anno, in cui l'assassino è Donald Pleasance, il grande attore inglese che sarà il primo interprete di Ernst Stavro Blofeld, il capo della Spectre. Poi Vito è un sarto snob in Candidato per il crimine, con il "cattivo" Jackie Cooper, da bambino una delle Simpatiche canaglie delle comiche di Hal Roach. Poi un impresario di pompe funebri in Il canto del cigno, con Johnny Cash che uccide Ida Lupino; questa scena, assolutamente inutile nell'economia del racconto è un pezzo di bravura di Falk e Scotti, da vedere e rivedere. E ancora un produttore di uva, ovviamente di origini italiane, in Doppio gioco, in cui Patrick McGoohan uccide Leslie Nielsen. E sempre il suo personaggio permette a Peter Falk e agli autori di Colombo di creare una di quelle gag che hanno caratterizzato quella serie e hanno reso così popolare quel personaggio.
Fred, arrivato direttamente dalla "banda" Cassavetes, oltre al tecnico di laboratorio dell'episodio con Van Dyke, è un tassista in Incidente premeditato. È Il dottor Murcheson, un chimico di grande talento, ma con il vizio dell'alcol che crea una portentosa crema di bellezza, ma di cui dimentica la formula e che rimane fedele alla donna di cui è da sempre perdutamente innamorato, la proprietaria di una fabbrica di cosmetici, in Bella, ma letale. E questa "cattiva" è la sempre affascinante Vera Miles, una delle bellezze che Fred sognava di incontrare ai tempi della scuola. In Testimone di se stesso Fred fa uno dei suoi piccoli ruoli, ma partecipa a uno dei finali più belli di tutta la serie. Il dottor Marcus Collier - un subdolo George Hamilton - ha ucciso il marito della donna di cui è l'analista e l'amante. Fuggendo dalla scena del crimine per poco non investe un cieco che, guidato dal suo cane, passeggia lungo la strada, davanti alla casa dove è avvenuto il delitto. Colombo per incastrare il dottore organizza un confronto tra Collier e un presunto testimone, ma invece dell'uomo cieco fa accomodare il fratello, interpretato appunto da Fred Draper. A questo punto Collier si tradisce: accusa Colombo di aver organizzato una messinscena, perché sa che quell'uomo non può averlo visto. Ma se lui sa che è cieco, significa che era lì al momento del delitto, cosa che ha sempre negato: e così un cieco diventa, seppur indirettamente, il testimone oculare che incastra il colpevole. Poi Fred è Joseph, un attore scalcinato, in Ciak si uccide in cui l'assassino è il capitano Kirk, in un momento di "vacanza" dal comando dell'Enterprise. Infine a Fred tocca l'onore di essere un "cattivo" in L'ultimo saluto al commodoro, un episodio della serie che ha un andamento diverso da quello solito. Noi spettatori pensiamo che l'assassino sia Robert Vaughn - da giovane uno dei Magnifici sette, ma poi un "cattivo" di tanti telefilm -e assistiamo alle indagini di Colombo cercando di capire come lo smaschererà. Ma quando anche lui viene ucciso, allora la storia cambia completamente e il tenente scopre l'assassino dopo aver riunito tutti gli indiziati, tra cui il vecchio avvocato interpretato dal grande Wilfrid Hyde-White, il colonnello Pickering di My Fair Lady, nella stanza dove è avvenuto il primo omicidio, come Poirot o Ellery Queen, ma rimanendo sempre Colombo. E l'assassino è proprio il nostro Fred Draper, che interpreta Swanny Swanson. E il tenente lo incastra con uno dei suoi soliti trucchi: solo lui poteva sapere che l'orologio del commodoro non poteva funzionare. E così il vecchio Fred si toglie la soddisfazione di essere un assassino di Colombo, come lo è stato il suo amico John in Concerto con delitto.

Credo che anche Vito Scotti avrebbe meritato questo onore. Comunque quando la serie viene ripresa alla fine degli anni Ottanta, nel primo episodio, intitolato Autoritratto di un assassino, Peter Falk vuole che ci sia anche Scotti, che così raggiunge le sei partecipazioni. È Vito, il proprietario di un bar in cui si svolgono diverse scene e, ancora una volta il vecchio attore regala una bella interpretazione.

Forse il vecchio Stanislavskij o forse qualcun altro ha detto:
Ricorda: non ci sono piccole parti, solo piccoli attori.
Ricordatelo anche voi quando leggete i titoli di coda. The end

mercoledì 28 ottobre 2020

Verba volant (790): labbra...

Labbra
, sost. f. pl.

Mettetevi comodi e preparate i popcorn: stasera doppio spettacolo.

Martedì 19 giugno 1973: i sessantatré posti della sala Upstairs del Royal Court Theatre di Sloane Square, a Chelsea, sono tutti occupati. Sulla scena i sedili di un vecchio cinema che sembra abbandonato. Un riflettore illumina una giovane usherette che percorre lentamente il corridoio della piccola sala con il suo vestito rosa, che non nasconde le belle gambe, e il vassoio dei dolciumi tenuto al collo da una fascia rossa. Però non cerca di venderci i suoi dolcetti alla fragola: vuole raccontarci, cantando, lo spettacolo a cui stiamo per assistere. E lo fa con una canzone bizzarra, quasi senza senso - una sorta di collage dadaista - citando film apparentemente a caso, solo per rispettare metrica e rime. Ma forse quei titoli non sono scelti in maniera così casuale. E per noi che amiamo i vecchi film in bianco e nero, il testo di quella canzone è davvero uno spasso.

Si comincia citando Michael Rennie, l'attore inglese, alto ed elegante, protagonista del film del 1951 The Day the Earth Stood Still - che in Italia conosciamo con il titolo Ultimatum alla Terra. Per gli appassionati di fantascienza è un classico del genere, così come la frase, nella lingua degli alieni, Klaatu, Barada, Nikto! che ferma il robot Gort nel momento in cui sta per distruggere la terra per vendicare la morte del suo compagno dalle sembianze umane. Qualche anno prima nessuno aveva trovato le parole per fermare le bombe che avevano distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki, nessuno, all'epoca in cui il film viene girato, sembra capace di trovare le parole per fermare una guerra che tutti sentono imminente. Non c'è salvezza in questo mondo, sembra il messaggio di quel film: bisogna sperare in un mondo diverso, bisogna sperare nell'arrivo degli alieni. Ma forse, come canta un poeta nato qualche anno dopo l'uscita di quel film, l'astronave è già passata e tu dormivi. Merita di essere ricordato il regista di quel film, Robert Wise, uno dei grandissimi artigiani di Hollywood, capace di fare film di qualsiasi genere, western, fantascientifici, bellici, anche se ha dato il meglio di sé nei film musicali e infatti ha ottenuto i suoi due Oscar per West Side Story e The Sound of Music.
Ma siamo appena all'inizio. Trixie ci annuncia un doppio spettacolo: un corto di Flash Gordon e L'uomo invisibile con Claude Rains. Sono tre le serie cinematografiche dedicate al personaggio creato da Alex Raymond: Flash Gordon del 1936, Flash Gordon's Trip to Mars del '38 e Flash Gordon Conquers the Universe del 1940. Ogni serie era divisa in quindici episodi. Il cinema, prima del film in cartellone, proiettava ogni settimana un episodio, sperando quindi che gli spettatori tornassero anche quella successiva per vedere come andava a finire. Più o meno quello che "subiamo" noi adesso con le serie televisive: solo che l'obiettivo per farci "tornare" ogni sera sul nostro divano è quello di venderci un nuovo telefono, un nuovo shampoo, una nuova merendina, un nuovo "qualcosa". Il Flash Gordon di quelle serie è Buster Crabbe, medaglia di bronzo nei 1500 metri di nuoto alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928 e medaglia d'oro nei 400 in quelle di Los Angeles quattro anni dopo; e poi una bella carriera nel cinema d'avventura. Francamente quei film sono più belli del colossal prodotto da Dino De Laurentiis nel 1980, che rischiamo di ricordare quasi soltanto per la conturbante bellezza di Ornella Muti che interpreta una poco vestita principessa Aura, senza comunque essere mai affascinante come la perfida Kala di Mariangela Melato.
The Invisible Man del 1933 segna il debutto cinematografico dell'attore inglese Claude Rains. Il suo viso non doveva apparire quasi mai durante il film - lo si vede solo alla fine, nelle ultime scene - e per questo quel ruolo è stato rifiutato da Boris Karloff. Però serviva una grande voce e il regista James Whale, che aveva già diretto Frankenstein due anni prima, ha capito subito che Rains sarebbe stato perfetto per quel ruolo, con quella sua voce così caratteristica. Ma non era sempre stato così: il giovane Claude, nonostante una grande passione per il teatro, ha difficoltà a parlare, oltre a un terribile accento cockney. Ma sir Herbert Beerbohm Tree, il fondatore della Royal Academy of Dramatic Art, è convinto che quel ragazzo possa diventare un grande attore. E così è stato e in seguito Rains è diventato docente in quella stessa scuola di recitazione, insieme ai suoi amici John Gielgud e Laurence Olivier. E noi abbiamo imparato a conoscere anche il viso di Claude Rains, che è stato uno dei grandi "cattivi" di Hollywood: il principe Giovanni in La leggenda di Robin Hood, il corrotto senatore Paine in Mr Smith va a Washington, il nazista Alexander Sebastian in Notorius; ma anche il grandissimo capitano Renault in Casablanca. E poi negli anni Sessanta, con la sua inconfondibile voce e l'innato aplomb inglese, è il professor Challenger in Mondo perduto e Mr Dryden in Lawrence d'Arabia. Quanto cinema abbiamo già raccotato; e siamo solo al quarto verso della canzone.
Poi arrivano Fay Wray e King Kong. Potete perfino non aver visto il film del 1933 prodotto dalla RKO e diretto da Merian C. Cooper and Ernest B. Schoedsack, potete perfino non conoscere esattamente la storia, ma tutti, proprio tutti, avete in testa l'immagine dell'enorme gigante che sulla cima dell'Empire State Building lotta contro quei biplani che volano come insetti intorno a lui. Ma anche se quel mostro ci spaventa, tutte le volte che guardiamo quella scena speriamo che riesca a fuggire, che scenda sano e salvo da quel dannato grattacielo, perché ci fanno molta più paura gli uomini che lo vogliono uccidere. E quelli che da dietro le cineprese riprendono tutta la scena. 
Ma non abbiamo tempo di fermarci: it came from outer space. E qui Trixie ci porta due decenni avanti, nel 1953, quando esce il film che ha proprio questo titolo diretto da Jack Arnold, basato su un soggetto scritto da Ray Bradbury, che in Italia conosciamo come Destinazione... Terra! In questo film gli alieni non sono venuti per conquistare il nostro pianeta, ma sono naufragati qui perché la loro astronave è andata in avaria. Ma non sono come noi, non sono bianchi come noi, non sono cristiani come noi, non sono maschi come noi, e quindi dovranno sopportare tutti i nostri pregiudizi. Non sono i primi "diversi" che abbiamo fatto soffrire con la nostra ipocrisia e non saranno certo gli ultimi.  
Basta pensare... Trixie ci annuncia già i due prossimi film: Doctor X del 1932 e Forbidden Planet del 1956. Se non avete visto il primo film, non vi rivelerò chi è il misterioso serial killer che uccide e sbrana le sue vittime nelle notti di luna piena. Ma vi dico che l'eroina che sta per cadere vittima di questo mostro è ancora una volta la sventurata Fay Wray, in uno dei tanti film della sua bella e lunga carriera. È morta a Manhattan l'8 agosto 2004, a novantasei anni, e due giorni dopo le luci dell'Empire State Building sono rimaste spente quindici minuti in sua memoria. Il secondo invece è nelle intenzioni dei suoi autori una specie di versione fantascientifica della Tempesta di William Shakespeare: forse un obiettivo troppo ambizioso, per quanto rimanga comunque un ottimo film di fantascienza. I protagonisti sono Walter Pidgeon, una giovane Anne Francis - citata nella canzone - una delle tante possibili fidanzate d'America e un quasi esordiente Leslie Nielsen, che certo non avrebbe mai immaginato di diventare Frank Drebin. Pidgeon aveva la faccia e il portamento dell'eroe, del buono, ma ha saputo interpretare ruoli più complessi, come quello del bandito in La belva umana e appunto il dottor Morbius in questo film; ma noi lo ricorderemo come lo splendido coprotagonista, insieme a Totò, del film I due colonnelli, che Pidgeon recita in italiano, ovviamente con il suo marcato accento inglese. Però il vero protagonista del film è il robot Robby, creato da Robert Kinoshita su disegni di A. Arnold Gillespie e Mentor Huebner, che vedremo in altri sette film e in moltissime serie televisive, dalla Famiglia Addams a Mork & Mindy, da Colombo a Wonder Woman. E ha fatto anche molta pubblicità. Tanti attori in carne e ossa sognano di fare la stessa carriera di Robby the Robot: senza riuscirci. 
Jack Arnold è uno specialista del genere e infatti nel 1955 dirige anche il successivo film citato da Trixie, Tarantula, insieme a uno dei suoi protagonisti Leo G. Carroll, che interpreta il professor Deemer, lo scienziato che ha creato il siero che rende giganteschi gli animali, compresa la tarantola che solo una squadriglia di jet armati di napalm - guidati da un giovane Clint Eastwood, non ancora il "buono" dei film di Sergio Leone - potrà distruggere. Leo G. Carroll, con quella sua aria misteriosa e altera, è un attore molto amato da Alfred Hitchcock: con lui girerà molti film e nel 1959 sarà il 'Professore" di Intrigo internazionale.
Sono enormi e giganteschi anche i trifidi, le piante che si staccano dal terreno e si nutrono di carne umana, i cui semi sono arrivati dallo spazio insieme a misteriosi meteoriti che hanno il potere di rendere ciechi chi li guarda. Il film è The Day of the Triffids del 1962, intitolato in Italia L'invasione dei mostri verdi, interpretato tra gli altri da Howard Keel, che non è più l'aitante Adamo Pontipee di Sette spose per sette fratelli. Anche se Trixie ricorda il film citando Janette Scott, l'attrice inglese che ha esordito come Cassandra in Elena di Troia di Robert Wise e negli Sessanta ha alternato con successo commedie romantiche e film di fantascienza. Janette è la biologa marina che insieme al marito vive su un faro in un'isola sperduta e che riuscirà a sconfiggere i trifidi gettandogli addosso acqua di mare. A proposito di "mostri" pericolosi, la sceneggiatura del film viene accreditata al produttore esecutivo Philip Yordan, anche se l'ha scritta Bernard Gordon, che non può lavorare perché, in quanto iscritto al Partito comunista, è nella "lista nera". Quando la Writers Guild of America ha cominciato ad accreditare correttamente le sceneggiature scritte sotto pseudonimi o attraverso prestanome, assegnando ai veri autori i loro crediti retroattivi, Gordon è quello che ne ha ricevuto di più di ogni altro scrittore della lista. Chi sono i "trifidi" più pericolosi? Una parte dell'America pensava si dovesse temere "l'invasione dei mostri rossi", ma quanti film, quanti libri, quanti musical abbiamo perduto per l'ottusa idiozia di questi pretesi difensori dell'ordine costituito?
Dana Andrews ha la faccia da western, ma Otto Preminger capisce che può diventare anche un duro per i suoi noir. Ma Trixie si ricorda di lui per La notte del demonio, un horror inglese del 1957 diretto dall'esperto del genere Jacques Tourner, famoso per Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie. Andrews è il professore statunitense John Holden, uno scienziato che non crede all'esistenza di forze misteriose e soprannaturali: ma in suo viaggio nella vecchia Inghilterra dovrà ricredersi, visto che avrà l'occasione di incontrare il demonio in persona, con la sua misteriosa pergamena scritta con caratteri runici. 
Chissà se Trixie sa che George Pal, il prossimo nome che cita nella sua canzone, si chiamava György Pál Marczincsak ed era nato nel 1908 in quello che era ancora l'Impero Austro-ungarico, sotto il regno di Francesco Giuseppe. E forse non sa neppure che ha cominciato a fare film a Berlino negli anni d'oro dell'espressionismo tedesco, ma quando Hitler è andato al potere, è uno dei tanti cineasti europei che è dovuto fuggire a Hollywood, diventando uno dei grandi registi e produttori di film fantascientifici. Trixie ha visto certamente nel 1960 The Time Machine - in Italia L'uomo che visse nel futuro - con Rod Taylor e tanti altri film che lui ha prodotto, da When Worlds Collide a The War of the Worlds, e poi Conquest of Space. Perché a Trixie piacciono gli effetti speciali e Pal è un mago di questo cinema che ci tiene incollati alle poltrone. Ma chi è la misteriosa moglie di George Pal di cui parla Trixie? Questo non lo so neppure io, anche se ho un sospetto.

I miei lettori più attenti credono abbiano ormai capito sia il titolo della canzone che quello del musical che ha debuttato quella sera di giugno a Londra. Inutile dire che è stato un successo. È rimasto in cartellone fino al 20 luglio, ma poi è stato necessario trovare una sala più grande: dal 14 agosto al 20 ottobre in quella da duecentotrenta posti del Chelsea Classic Cinema e infine dal 3 novembre in quella da cinquecento posti del King's Road Theatre, dove lo spettacolo è rimasto fino al 31 marzo 1979. Ma ormai nessuno avrebbe più fermato The Rocky Horror Show. Che nel 1973 vince anche l'Evening Standard Award come miglior musical. Merita di essere ricordato che quell'anno come miglior spettacolo viene premiato Saturday, Sunday, Monday, la versione inglese della commedia di Eduardo Sabato, domenica e lunedì, con Joan Plowright e Frank Finlay che interpretano Rosa e Peppino Priore e Olivier nel ruolo del vecchio Antonio Piscopo. Due spettacoli che, a modo loro, raccontano il tempo che cambia.

Quella giovane usherette che interpreta Science Fiction/Double Feature è Patricia Quinn, una trentenne attrice arrivata a Londra da Belfast con il sogno di sfondare nel West End. L'autore Richard O'Brien e il regista Jim Sharman la scelgono per il ruolo di Magenta e le chiedono di interpretare anche Trixie: non hanno certo i soldi per scritturare un'altra attrice. Due anni dopo il Rocky Horror diventerà un film e naturalmente Patricia sarà ancora la misteriosa e sensuale cameriera del Dr Frank-n-Furter. E quando alla fine compare in scena con la tuta spaziale per tornare nel suo pianeta i suoi capelli sono un chiaro omaggio alla moglie di Frankenstein.
Nel film quella canzone deve accompagnare i titoli di testa e Sharman immagina che mentre canta Patricia vengano proiettati i fotogrammi di tutti i film citati. Ma ancora una volta bisogna fare i conti con il budget: acquistare i diritti di tutti quei film si rivela troppo dispendioso per la produzione. E allora Sharman ha un'idea: sarà O'Brien - ossia l'ineffabile Riff Raff - a cantare la canzone, ma le labbra rosse su sfondo nero - un omaggio a Lips di Man Ray - sono quelle di Patricia. Le labbra di una donna e la voce di un uomo: Science Fiction/Double Feature in un mondo che sta cambiando, anche se molti "terrestri" fanno di tutto affinché questo non accada. Ma noi, come Trixie, continueremo a fare il tifo per Kong e per tutti i "diversi" che lottano affinché questo mondo sia la loro "casa".  

domenica 18 ottobre 2020

Verba volant (789): assassina...

Assassina, sost. f.

Nonostante quelle splendide gambe e quei capelli rosso fuoco, la carriera di Gwyneth Evelyn - nata il 13 gennaio 1925 a Culver City - non riesce proprio a decollare. 

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie..

lunedì 12 ottobre 2020

Verba volant (788): appartamento...

Appartamento, sost. m.

Venerdì 6 marzo 1953 viene annunciata al mondo la morte di Iosif Vissarionovič Džugašvili: la notizia lascia nello sgomento una metà del mondo, mentre viene accolta dall'altra metà con malcelata soddisfazione. I redattori di Time Magazine non riescono a modificare la copertina del numero che sarebbe uscito in edicola lunedì 9 marzo, su cui infatti troviamo un ritratto del presidente sudcoreano Syngman Rhee, appena rieletto, con metodi tutt'altro che democratici, per un secondo mandato. Come per Somoza, il governo di Washington sa benissimo che si tratta di "un figlio di puttana", ma anche Rhee è il "loro figlio di puttana", uno dei tanti in giro per il mondo. Finalmente il lunedì successivo sulla copertina della più autorevole rivista americana campeggia un bel ritratto di Stalin, che osserva con un sorriso compiaciuto e ironico una ragnatela che egli ha pazientemente tessuto e in cui sono imprigionati diversi uomini-insetti. Il lunedì ancora successivo la copertina è dedicata a Malenkov, che nei giorni concitati successivi alla morte del leader sovietico appare come il nuovo "uomo forte" di Mosca. Ma evidentemente non è quella la soluzione definitiva nel complesso gioco di scacchi che si sta svolgendo al Cremlino: il 20 aprile in copertina c'è Molotov, il 20 luglio Berija, e dobbiamo aspettare il 30 novembre per vedere un ritratto di Nikita Sergeevič Chruščëv, con alle spalle una fascina di spighe che stanno per essere tagliate da una falce, naturalmente rossa. 
È istruttivo osservare un anno attraverso le cinquantadue copertine di Time. Il 1953 è aperto e chiuso da due ritratti di donne: la ventisettenne Elisabetta II all'inizio del suo regno - che naturalmente nessuno avrebbe immaginato così lungo - e la novantatreenne pittrice americana Grandma Moses, una delle più importanti esponenti dello stile American primitive. C'è anche un po' d'Italia nelle copertine di Time di quell'anno: nel numero del 25 maggio c'è un ritratto austero di Alcide De Gasperi, che sta per perdere le elezioni della cosiddetta "legge truffa" e lasciare la vita politica - era un tempo così: se perdevi una battaglia fondamentale dovevi ritirarti davvero, anche se eri De Gasperi - e in quello del 14 dicembre un solenne e ieratico Pio XII.
La copertina che interessa a me però è quella del 30 marzo. Dopo Stalin e Malenkov i lettori di Time trovano sulla loro rivista lo smagliante sorriso di una bella donna dai capelli neri che indossa un elegante cappello rosa, sullo sfondo dei grattacieli di New York.  

Mercoledì 25 febbraio ha debuttato al Winter Garden Theater - il grande teatro di Midtown che dalla fine del 1982 e per quasi diciotto anni sarebbe stata la "casa" di Cats - un nuovo musical scritto da Leonard Bernstein. Il quarantacinquenne compositore e direttore d'orchestra è già molto conosciuto, ma non è ancora il "grande" Bernstein. Giovedì 10 dicembre di quello stesso anno debutta - ed è il primo direttore d'orchestra americano - alla Scala, dirigendo Maria Callas nella Medea di Luigi Cherubini con la regia di Luchino Visconti.
Ma questa storia comincia quasi vent'anni prima, all'inizio del 1935, quando Stalin comincia a organizzare le grandi purghe degli anni Trenta. Ruth ed Eileen McKenney, due sorelle cresciute a East Cleveland in Ohio, prendono in affitto per 45 dollari al mese un minuscolo appartamento nel seminterrato del numero 14 di Gay Street nel Greenwich Village. Se volete sapere com'è quella strada potete riguardare il video di Girls just want to have fun di Cindy Lauper, un "classico" degli anni Ottanta. Quelle due stanze dalle pareti ammuffite non sono il massimo, anche perché proprio lì sotto stanno costruendo una linea della metropolitana, e il Greenwich non è ancora un quartiere alla moda di Manhattan, ma quel piccolo appartamento di New York sembra un sogno per quelle due ragazze che vogliono to be the one to walk in the sun. Ruth vuole fare la giornalista, mentre Eileen sogna di sfondare a Broadway.
Le disavventure di due ragazze di ventiquattro e ventidue anni arrivate dall'Ohio in quell'appartamento del Greenwich diventano l'argomento per una serie di articoli che Ruth riesce a pubblicare sul New Yorker alla fine degli anni Trenta e che nel 1938 escono come un romanzo con il titolo My Sister Eileen. Quegli articoli permettono alle due sorelle di lasciare l'appartamento rumoroso e ammuffito, ma non il Greenwich, perché Ruth è comunista e in quelle strade "disordinate" - che non rispettano il disegno rigidamente ortogonale del resto di Manhattan - e in quei locali in cui bianchi e neri stanno facendo crescere la musica jazz, pulsa la rivolta dell'America. E Ruth deve stare lì.
Ruth non vuole essere ricordata solo per quelle divertenti storie di colore. Nel 1939 pubblica quello che considera il suo lavoro migliore, Industrial Valley, un libro-inchiesta sul grande sciopero degli operai della Goodyear ad Akron nel 1936. Nel 1943 pubblica un altro romanzo, Jake Home, la storia di un sindacalista dell'Ohio all'inizio del Novecento. Ruth ha deciso presto da che parte del mondo stare, quella che guarda con speranza a ciò che succede in Unione Sovietica, dalla parte degli operai delle grandi fabbriche, dalla parte dei neri che lottano contro la discriminazione razziale. Anche quando, nel 1946, viene espulsa dal Partito comunista d'America perché le sue posizioni non sono in linea con quelle "ufficiali" del partito: ma in fondo Ruth non è mai riuscita a stare in linea, anche quando giocava come prima base nella squadra di baseball di East Cleveland, l'unica ragazza in un gruppo di maschi.
Eileen non ha la stessa fortuna della sorella. Nel 1939 sposa lo scrittore Nathanael West, l'autore del romanzo Il giorno della locusta. Il 22 dicembre 1940 sono entrambi vittime di un tragico incidente stradale: Eileen ha solo ventisette anni. Ruth sarà molto colpita da questa perdita che condizionerà tutta la sua carriera negli anni successivi.
Le avventure di Ruth ed Eileen nell'appartamento del Greenwich sono un successo e due giovani commediografi, Joseph Fields e Jerome Chodorov, decidono di ricavarne una commedia per Broadway. My Sister Eileen debutta al Biltmore Theatre giovedì 26 dicembre 1940, appena quattro giorni dopo la morte della vera Eileen. Shirley Booth e Jo Ann Sayers interpretano le due sorelle. La prima è una delle grandi dello spettacolo americano, una delle poche a poter indossare la cosiddetta "tripla corona", ossia ad aver vinto un Tony, un Oscar e un Emmy nel corso della loro carriera. Probabilmente il suo ruolo più conosciuto è quello della moglie di Burt Lancaster in Torna, piccola Sheba, uno dei primi film ad affrontare il tema dell'abuso di alcol e delle sue conseguenze sulla vita familiare. Lo spettacolo, grazie anche alla verve di Shirley, ottiene un grande successo e rimane in cartellone fino al gennaio del 1943, per 864 repliche.
Naturalmente Hollywood si accorge di questo successo e decide di sfruttarlo. La Columbia chiede a Fields e Chodorov di adattare la commedia per il grande schermo, mentre Alexander Hall viene chiamato per la regia. Il film esce nella sale americane mercoledì 30 settembre 1942 ed è il più grande successo della Columbia di quell'anno. In Italia arriverà poco dopo con il titolo Mia sorella Evelina. Il film è divertente, Fields e Chodorov accentuano gli episodi da commedia e alla fine compaiono - anche se non accreditati nei titoli - i tre Stooges come gli operai che scavando il tunnel della metro sbucano nella camera delle ragazze. Il film finisce con Curly che dice: "Hey, Moe. Penso tu abbia fatto una svolta sbagliata!".
In quel film Ruth ed Eileen sono rispettivamente Rosalind Russell e Janet Blair. Janet è una brava cantante, ha imparato nella chiesa della sua città, Altoona in Pennsylvania, dove la madre suona l'organo e il padre dirige il coro. Fa la cantante in alcune big band dell'età dello swing, ma Hollywood nota ben presto la sua bellezza e la Columbia la mette sotto contratto. Non ha il successo che merita e non riesce mai ad avere una parte da protagonista: dopo My Sister Eilenn è l'amica di Rita Hayworth in Stanotte e ogni notte e torna finalmente a cantare in The Fabulous Dorseys. 
Rosalind - nata nel 1907 in Connecticut da una numerosa famiglia irlandese - invece è già un'attrice affermata. È molto bella, ma non diventerà mai un sex symbol: dirà in seguito che questo le ha permesso di avere una carriera molto più lunga di altre sue colleghe. Il suo ruolo è quella della donna elegante e sofisticata, anche se soffre di essere considerata una sorta di "appendiabiti". Negli anni Trenta appare in molti film, alternando drammi e commedie, ma è in queste ultime che offre le sue interpretazioni migliori. Nel 1940 è la giornalista Hildy Johnson nel film di Howard Hawks His Girl Friday - in Italia La signora del venerdì - in coppia con Cary Grant. Il film è una delle migliori trasposizioni cinematografiche della commedia Prima pagina, che nel 1974 diventerà una film con due protagonisti maschili, Jack Lemmon e Walter Matthau, in uno dei loro capolavori come coppia. Rosalind è la quindicesima scelta di Hawks, ma tutte le altre, dalla Hepburn alla Colbert, da Jean Arthur a Ginger Rogers, hanno rifiutato quella parte e così Rosalind scopre di essere nel cast leggendo in treno un articolo del New York Times in cui c'è l'elenco di quei famosi rifiuti. Il film è un successo e anche Hawks si deve ricredere sulle capacità di Rosalind Russell. L'attrice ottiene una nomination agli Oscar, la prima della sua carriera; ne avrà una seconda nel '46 per L'angelo del dolore - la biografia dell'infermiera Elizabeth Kenny - e una terza l'anno successivo per il ruolo di Lavinia nel film di Dudley Nichols Il lutto si addice ad Elettra, dal dramma di Eugene O'Neill.     
Nell'autunno del 1952 il produttore di Broadway Robert Fryer pensa che My Sister Eileen possa diventare un musical. Fields e Chodorov - che intanto viene indagato dal Comitato per le attività antiamericane - ci mettono davvero poco per scrivere il libretto. Adesso mancano solo le canzoni. In appena quattro settimane Bernstein e i suoi vecchi amici Betty Comden e Adolph Green scrivono la musica e i versi. In fondo quella è anche la loro storia. Leonard e Adolph condividevano un piccolo appartamento nel Greenwich e nei locali di quel quartiere si esibivano The Revuers, il gruppo formato da Comden e Green con Judy Holliday, spesso accompagnati al piano proprio dal giovane Bernstein. In uno di quei locali del Greenwich, il Village Vanguard, le pareti erano tappezzate di manifesti in cui si esprimeva il sostegno alla Repubblica Spagnola attaccata dai fascisti. Anche Leonard, Adolph e Betty hanno presto deciso da che parte stare.  
Fryer sa che Rosalind Russell è brava a cantare quanto a recitare: il ruolo di Ruth è suo. E questa volta è assolutamente la prima scelta. Ed è proprio il sorriso di Rosalind che i lettori di Time Magazine trovano in copertina il 30 marzo 1953, a un mese dal debutto. 
Wonderful Town è un successo che rimane in scena per 559 repliche. Forse non è uno dei capolavori di Bernstein, non ci sono canzoni diventate standard, ma, anche se non raggiunge le vette di Candide e West Side Story, questo musical rimane ancora oggi godibilissimo, uno dei frutti migliori della maturità artistica di Bernstein e della musica di Broadway degli anni Cinquanta. E Rosalind ottiene giustamente il Tony per la sua interpretazione della forte e determinata Ruth. Curiosamente la conservatrice Rosalind - sostiene tutte le campagne elettorali di Nixon, compresa quella per lui sfortunata contro il giovane Kennedy - la fervente cattolica Rosalind, è nelle proprie scelte artistiche una convinta sostenitrice dei diritti delle donne. Vuole interpretare donne forti, indipendenti, capaci di realizzare se stesse. E nel 1955 sempre a Broadway interpreterà il suo ruolo più celebre, quello di Mame Dennis, la Auntie Mame che dà il titolo alla pièce scritta da Jerome Lawrence e Robert E. Lee, basata sul romanzo autobiografico di Patrick Dennis. La commedia rimane in cartellone per quasi due anni e nel 1958 la Warner produce il film con lo stesso titolo, con la sceneggiatura della "ditta" Comden e Green. Rosalind Russell sarà nominata sia al Tony che all'Oscar per la sua interpretazione di questa donna esuberante e indipendente, sfortunatamente non vincendo alcun premio. Nel 1966 questa storia diventerà un musical, Mame, uno dei grandi successi di Angela Lansbury.
Nel 1955 la Columbia vorrebbe girare un musical basato sulla storia di My Sister Eileen, ma i diritti di Wonderful Town sono giudicati troppo costosi dai produttori. E poi i testi di Comden e Green sono molto espliciti e Ruth è una figura troppo indipendente e forte per la Hollywood del Codice Hays. La Columbia assume due specialisti del genere come Jule Styne e Leo Robin per scrivere una nuova colonna sonora e Bob Fosse per le coreografie. Eileen - che in questa versione diventa la protagonista - è interpretata da Janet Leigh, mentre Betty Garrett interpreta Ruth. Per Betty questo film segna finalmente la possibilità di tornare a lavorare a Hollywood. Nel 1949 la sua interpretazione in Un giorno a New York - con le canzoni scritte da Bernstein per la musica e da Comden e Green per i testi - sembra destinarle una carriera promettente, fermata, come per tanti altri, dalla indagini del Comitato per le attività antiamericane. Dopo Mia sorella Evelina - questo, come nel '42, il titolo in italiano - Betty potrà lavorare quasi solo in televisione. Sarà, tra molti altri ruoli, la signora Edna DeFazio, la madre di Laverne nella fortunata sit-com Laverne & Shirley. Il film non è il successo sperato dalla Columbia. E francamente, anche per il suo tono decisamente maschilista, inferiore al film del 1942 che ci appare molto più "moderno".
A parte l'inossidabile Lizzie sono tutti morti quelli che hanno goduto di una copertina di Time Magazine nel 1953. Anche il comunismo è morto. Continua a vivere, per fortuna, la musica di Bernstein e soprattutto la forza delle donne che - con il sorriso di Ruth - non seguono la "linea" e scelgono la parte giusta del mondo.

sabato 12 settembre 2020

Verba volant (787): cattiva...


Cattiva
, sost. f.

La crisi del '29 ha messo sul lastrico i Romero, una ricca famiglia di New York di origini cubane, che ha mantenuto forti legami con l'isola caraibica - la madre, Maria, si dice sia una figlia naturale dell'eroe nazionale Josè Martì - grazie all'attività di commercio dello zucchero. Per fortuna uno dei figli, Cesar, nato nel 1907 nella città americana, è affascinante, ha un'aria spavalda ed elegante, e sa ballare molto bene; e così riesce a mantenere la famiglia, anche dopo il crollo di Wall Street. Cesar fa qualche parte a Broadway, ma ben presto è attratto da Hollywood e qui troverà la sua fortuna. Negli anni Trenta e Quaranta, quando serve un gangster italiano o un principe indiano, un latin lover dall'aria scanzonata o un cow-boy dai tratti decisi, un affascinante truffatore o un seducente ballerino, Cesar Romero - sempre con i suoi baffi perfettamente curati - risponde alla chiamata: in questi anni interpreta decine di film e lavora con tutti i grandi. E, pur rimanendo uno scapolo incallito, viene fotografato nei locali più eleganti di New York e di Los Angeles con le più belle attrici di Hollywood, da Joan Crawford a Ginger Rogers, da Barbara Stanwyck ad Ann Sheridan. Poi, quando il cinema sembra aver meno bisogno di lui, e dei suoi baffetti, arriva la televisione: è lo zio donnaiolo di Zorro, nella serie degli anni Cinquanta che abbiamo amato per il povero sergente Garcia, interpretato dal bravo Henry Calvin. E comunque quando serve un playboy un po' in disarmo, Cesar c'è.

Burgess Meredith, nato anche lui nel 1907, a Cleveland, a differenza di Romero, non è uno dei belli di Hollywood; anche se ha sposato la splendida Paulette Goddard. Ma per almeno sessant'anni Burgess, membro a vita dell'Actor's Studio, uno dei pochissimi su invito, è stato un grande protagonista del teatro e del cinema americani. A Broadway ha interpretato moltissimi personaggi, dai classici shakespeariani a Beckett, passando per Eugene O'Neill, che porta anche a Londra. A teatro è anche un apprezzato regista: nel 1974 la sua regia di Ulysses in Nighttown, un adattamento di un episodio dell'Ulisse di Joyce, con Zero Mostel e Fionnula Flanagan, ottiene una nomination ai Tony. E sempre negli anni Settanta ottiene le due nomination agli Oscar come attore non protagonista della sua lunga carriera a Hollywood: per il ruolo di Harry Greener, un vecchio attore del vaudeville caduto in disgrazia in Il giorno della locusta, di John Schlesinger, e per quello di Mickey Goldmill, l'allenatore di Rocky. Anche se la sua interpretazione più importante rimane quella del personaggio di George nella versione cinematografica di Uomini e topi di John Steinbeck, diretta nel 1939 da Lewis Milestone. Uno dei pochi film in cui è il protagonista. Come nel suo, molto significativo, esordio cinematografico. Nell'autunno del 1935 Burgess è il protagonista a Broadway di Winterset, una delle opere più importanti del noto drammaturgo americano Maxwell Anderson. Burgess Meredith interpreta Mio Romagna che cerca di provare l'innocenza di suo padre, condannato a morte per una rapina e un omicidio che non ha commesso, una storia in cui sono ben chiari i riferimenti alla vicenda di Bartolomeo Vanzetti e di Nicola Sacco, uccisi dalla giustizia americana solo otto anni prima. Nel 1936 il dramma diventa un film, diretto da Alfred Santell, conosciuto in Italia con il titolo Sotto i ponti di New York: Burgess e gran parte degli altri attori che hanno portato in scena quello spettacolo sono chiamati a interpretare anche il film: un fatto abbastanza inusuale, ma siamo ancora nella Pre-Code Hollywood. E questo esordio sarà una delle ragioni per cui Burgess finirà nel mirino della Commissione per le attività antiamericane, con un inevitabile riflesso sulla sua carriera: negli anni Cinquanta e Sessanta potrà interpretare meno film, proprio a causa di queste accuse. Avrà comunque la sua rivincita: Burgess nel 1977 vince uno dei molti Emmy della sua carriera interpretando l'avvocato Joseph Nye Welch in un film per la televisione dedicato alla storia del senatore McCarthy. Welch è stato uno degli uomini che si è battuto in aula con più coraggio e determinazione contro McCarthy, contribuendo alla sua sconfitta.

Nonostante tutte queste storie, per noi ragazzini degli anni Settanta, cresciuti prima dei film di Tim Burton, Joel Schumacher e Christopher Nolan, Cesar Romero e Burgess Meredith saranno sempre Joker e il Pinguino nella serie televisiva degli anni Sessanta, arrivata in Italia all'inizio degli anni Ottanta nelle prime televisioni commerciali. 
So che i film sono filologicamente molto più aderenti all'originale rispetto a quella serie con il suo stile decisamente camp, così esagerato e teatrale, ostentatamente kitsch, con gli spari sottolineati dalla scritta BAM! e i pugni da quella ZONK!. So che Batman è un eroe tormentato rispetto ad Adam West che in ogni puntata spiega l'importanza di bere latte e mangiare verdure e che non sale mai in auto senza prima allacciarsi le cinture di sicurezza. E in quei mesi Adam West-Batman promuove in televisione l'appello del presidente Lyndon B. Johnson affinché gli americani acquistino i buoni di risparmio per sostenere la guerra in Vietnam. Eppure per me e per quelli della mia generazione Batman è quello lì, e soprattutto quelli sono i "cattivi", con buona pace dei Joker di Jack Nicholson, Heath Ledger e Joaquin Phoenix.
Special guest villain annunciano i titoli di testa: ed effettivamente in quei telefilm dalle trame per molti aspetti improbabili e sempre uguali, la cosa migliore sono i "cattivi", interpretati da alcuni grandissimi del cinema e del teatro americani. Con sedici apparizioni a testa Cesar Romero e Burgess Meredith fanno la parte del leone. E Cesar neppure per interpretare Joker ha accettato di tagliarsi i baffi, che sono coperti dal cerone bianco, ma comunque visibili. 
Ma devono essere citati altri grandi. Il Cappellaio Matto è David Wayne, due Tony e una grande carriera cinematografica e televisiva, e per noi il padre di Ellery Queen nella bellissima serie degli anni Settanta. Testa d'Uovo è Vincent Price, attore dalla dizione perfetta e carismatico interprete dei film horror che hanno fatto la fortuna del genere. Il Menestrello è Van Johnson, con Gene Kelly il protagonista di Brigadoon. Nella seconda serie l'Enigmista è John Astin, che certo ricordate come Gomez Addams in un'altra celeberrima serie televisiva, ma che è anche nel cast della famosa edizione del 1956 di The Threepenny Opera con Lotte Lenya, Edward Asner, Bea Arthur e Jerry Orbach. E poi c'è Mister Freeze, che è interpretato da George Sanders nella prima stagione, e da Otto Preminger e da Eli Wallach nella seconda. L'inglese Sanders è l'amante di Rebecca nel film di Hitchcock, ma anche la voce della tigre Shere Khan nel Libro della giungla della Disney, il velenoso critico teatrale in Eva contro Eva - ruolo per cui vincerà l'Oscar - e il raffinato pianista omosessuale di Lettera al Kremlino e il marito di Ingrid Bergman in Viaggio in Italia di Rossellini. Preminger è l'autore di Seduzione mortale, La magnifica preda, Carmen Jones e di molti altri film. Wallach è il "brutto" e uno dei volti degli spaghetti western. Anche Clint Eastwood è stato in predicato per entrare nel cast: per lui era pronto il ruolo di Due Facce, ma siccome il personaggio era considerato troppo cruento e non poteva essere facilmente caricaturizzato non se n'è fatto nulla. 
E poi c'è un quartetto di "cattive" che non posso non citare: Anne Baxter e Shelley Winters, che hanno vinto un'Oscar, e Joan Collins e Carolyn Jones, che abbiamo amato come Morticia Addams. Come vedete, con i "cattivi" di Batman posso raccontare vecchie storie di Hollywood ancora per un po'. 

A questo punto devo rassicurare i miei "colleghi" maschi. Non mi sono dimenticato di lei. Perché noi guardavamo Batman soprattutto per spiare le forme di Catwoman, fasciata da quella seducente tuta di pelle che oggi è conservata - giustamente - nelle sale dello Smithsonian a Washington. Peraltro quel costume è stato modificato proprio da Julie Newmar: ha voluto spostare la cintura dalla vita ai fianchi, in modo da enfatizzare la sua figura, rendendola ancora più sexy. 
Julie è nata a Los Angeles il 16 agosto 1933 e ha dimostrato fin da bambina un talento per la danza. A quindici anni è nella compagnia della Los Angeles Opera, ma con quelle gambe e quel sorriso così seducente il suo destino è naturalmente a Hollywood. Nella prima metà degli anni Cinquanta partecipa come ballerina - senza che il suo nome appaia nei titoli - a molti film musicali, compreso un classico come The Bandwagon di Vincente Minnelli. In Gli amori di Cleopatra è la ragazza completamente rivestita d'oro nella corte della regina d'Egitto. Finalmente nel 1954 è - anche se il nome nei titoli è ancora Julie Newmeyer - Dorcas Gaylen, una delle Sette spose per sette fratelli, quella che sposa il secondogenito Benjamin. E così Julie - ormai Newmar - può debuttare anche a Broadway. In The Marriage-Go-Round della commediografa Leslie Stevens, Julie è Katrin, la figlia di un professore universitario svedese che viene ospitata da una coppia di colleghi della New York University, Paul e Content, interpretati da due grandi come Charles Boyer e Claudette Colbert. La vita dei due professori è sconvolta dall'arrivo della giovane donna che si dimostra molto più disinibita delle sue coetanee americane, tanto da chiedere loro di poter fare un figlio con Paul, in modo che il bambino sia intelligente come lui e bello come lei. E visto che lei è Julie questa proposta - che naturalmente alla fine non sarà accettata - riesce a innescare tutta una serie di reazioni. Julie dimostra una grande capacità in questo spettacolo e ottiene un Tony. E così quando nel 1961 viene tratto un film - in Italia arrivato con il titolo Carosello matrimoniale - a Julie viene affidata ancora una volta la parte di Katrin, a fianco di James Mason e Susan Hayward.
La carriera di Julie prosegue tra Broadway - è Lola in una ripresa di Damn Yankees! e Irma in una di Irma La Douce - e Hollywood, dove recita in film non memorabili. Poi arriva Batman. Julie è Catwoman nella prima e nella seconda stagione, in cui le sue apparizioni, proprio per la crescente popolarità dell'attrice, diventano più frequenti rispetto alla prima. A causa degli impegni dell'attrice, nel film tratto dalla serie Catwoman è Lee Meriwether, mentre nella terza e ultima stagione - quando ormai la popolarità della serie è in netto declino - è l'attrice e cantante nera Eartha Kitt. E così, anche se Michelle Pfeiffer, Halle Berry e Anne Hathaway saranno splendide nel ruolo, Julie rimane Catwoman per un'intera generazione.
Nel 1995 esce una bella commedia che racconta il viaggio di tre drag-queen attraverso l'America. Hanno con loro una foto autografata proprio da Julie Newmar che hanno trovato in un bar. E il titolo del film è proprio questa dedica: To Wong Foo, Thanks for Everything! Julie Newmar. Perché Julie, nonostante una carriera probabilmente meno fortunata di quella che si poteva aspettare e che avrebbe meritato, è un mito. Anche per il suo impegno continuo a sostegno dei diritti della comunità LGBT.
E quindi, nel mio piccolo, anche io voglio dirle, thanks for everything, Julie Newmar!

mercoledì 9 settembre 2020

Verba volant (786): folletto...

Folletto, sost. m.

Quando lo hanno chiamato dalla Warner per proporgli quel film, Fred ha finto di credere alle bugie che gli hanno raccontato: sapeva di non essere la loro prima scelta. Lo avevano già chiesto a Dick Van Dyke. Ma poi sono mancati i soldi, il progetto è stato rimandato di alcuni mesi e così Dick ha preso altri impegni. Fred invece non ha altri impegni: ha settant'anni e sono lontani i tempi in cui era uno dei re di Hollywood, uno dei pochissimi che si poteva permettere di non essere sotto contratto con uno dei grandi studios.
Il suo ultimo film musicale è uscito undici anni prima, nel 1957: Silk Stockings - che in Italia conosciamo con il titolo La bella di Mosca - è una sorta di remake in musica di Ninotchka. Per Fred è stata l'occasione per ballare ancora una volta con la splendida Cyd Charisse e di cantare le canzoni di Cole Porter: Silk Stockings è stato infatti l'ultimo spettacolo che l'autore di Night and day ha scritto per Broadway. Anzi proprio per il film tratto dal musical il vecchio Cole ha composto per il suo amico Fred una nuova canzone: The Ritz Rock and Roll. Fred appare in scena indossando il frac e il cappello a cilindro - proprio come in Puttin' on the Ritz - ma balla sulle note della musica nuova che quel ragazzo di Memphis, con la sua aria sfacciata, sta facendo conoscere a tutta l'America. E quando ha finito di ballare Fred schiaccia il cilindro. La musica è cambiata: per sempre. E comunque Silk Stockings è stato un fiasco, al botteghino non ha incassato neppure i soldi che è costato.
E adesso gli chiedono di fare il protagonista di un film tratto da un musical che è andato in scena a Broadway vent'anni prima. Fred lo ha visto a teatro. Le canzoni sono molto belle e la storia è divertente: comunque è un'azzardo, il gusto del pubblico in vent'anni è molto cambiato. Gli hanno detto che la protagonista sarà Petula Clark, che è nata negli anni in cui lui ballava con Ginger. Con Downtown ha avuto un incredibile successo: quella è la musica nuova. Fred è preoccupato di dover cantare con lei. E poi non conosce il regista, praticamente un esordiente. Francis Ford Coppola ha appena trent'anni, ha fatto qualche corto con Roger Corman e You're a Big Boy Now: un film bizzarro, ma che è arrivato a vincere un Oscar grazie all'interpretazione di Geraldine Page. Questo Coppola, con quella barba e quei capelli lunghi, deve essere un hippy. Nonostante tutto questo ha accettato quella proposta: vuol far vedere di cosa è ancora capace il vecchio Fred Astaire e poi Finian's Rainbow è un musical dei suoi tempi, quando a Broadway c'erano ancora tutti i grandi.

Il 10 gennaio 1947 debutta al 46th Street Theater il musical Finian's Rainbow, con il libretto di Edgar Yipsel Harburg e Fred Saidy e le canzoni scritte dallo stesso Harburg per i testi e da Burton Lane per le musiche. Quella sala - che esiste ancora e si chiama Richard Rodgers Theatre - è stata la prima a presentare la disposizione dei posti "democratica" dell'architetto Irwin Chanin: tutti gli spettatori entravano in teatro attraverso le stesse porte, mentre in tutti gli altri di Broadway quelli che sedevano nei posti più economici e nel mezzanino usavano ingressi separati da quelli dei "signori" della platea. Per Yip Harburg quello è il teatro perfetto in cui far debuttare quel suo spettacolo in odor di socialismo.
Yip è nato l'8 aprile 1896 nel Lower East Side. Alle superiori conosce un ragazzo che, come lui, è figlio di ebrei emigrati dalla Russia, è bravo a scrivere e ama i musical. Yip e Ira Gershwin rimarranno amici per tutta la vita. È proprio Ira che lo convince a scrivere testi delle canzoni e Yip si rivela particolarmente dotato. Come i Gershwin, come Berlin, come tutti gli altri di questa "diaspora" di musicisti ebrei di New York, vola a Hollywood e qui ha l'occasione della vita: nel 1939 compone Over the Rainbow e tutti i testi delle canzoni di Il Mago di Oz. E anche se questo suo sforzo non è accreditato, coordina il lavoro della squadra degli sceneggiatori, scrive o riscrive intere scene, perché quello è uno dei primi film in cui le canzoni sono pienamente integrate e sono tutt'uno con i dialoghi.
Ateo, socialista, difensore dei diritti civili, Yip è convinto che con il musical si possa raccontare tutto, anche quello che l'America non vuol sentirsi dire. E così, alla fine della seconda guerra mondiale, nel momento in cui gli Stati Uniti, dopo aver sconfitto il mostro fascista, si sentono investiti del ruolo di guida del mondo "libero", nascondendo tutte le contraddizioni di una società in cui la segregazione razziale è ancora fortissima e in cui le ingiustizie sociali sono sempre più nette, scrive Finian's Rainbow, apparentemente una favola, in cui si intrecciano due storie d'amore, quella principale, inizialmente tormentata e poi a lieto fine, tra Sharon e Woody - che culmina nella dolcissima Old Devil Moon - e quella secondaria in cui un "vero" folletto irlandese, un leprecauno, accetta di diventare uomo per amore di Susan the Silent, una ragazza muta che si esprime solo danzando.
Ma Yip non si limita a scrivere una favola. Sharon è la figlia di Finian, un vecchio irlandese che decide di lasciare il suo paese - ricordato con nostalgia dalla ragazza nella celebre How Are Things in Glocca Morra - alla ricerca della felicità nella Rainbow Valley. Crede di aver trovato quel posto favoloso in America, nel Missitucky, perché lì c'è Fort Knox, dove i ricchi americani riescono a "moltiplicare" il loro oro. E anche Finian ha un piccolo gruzzolo che spera di far crescere in quel lontano paese. Quello che Sharon non sa è che il padre ha rubato quell'oro a un giovane leprecauno di nome Og, che si è messo in viaggio alla ricerca di Finian: se non riesce a recuperare la sua magica pentola è destinato a diventare un mortale. Ma in quella terra Finian, Sharon e Og trovano una comunità di agricoltori che coltivano tabacco, guidata da Woody, una comunità in cui bianchi e neri lavorano insieme, senza alcuna tensione, ma che soffre per la prepotenza dello sceriffo e delle autorità e per lo sfruttamento dei padroni delle terre. E contro quei coltivatori c'è anche il vecchio senatore bianco del Missitucky, bigotto e razzista, a cui nel corso della storia succederà di diventare nero, di provare, letteralmente sulla propria pelle, il razzismo della polizia e dei "benpensanti". E tutti, in una girandola di equivoci e di magie, cominciano a cercare quell'oro, convinti che possa risolvere ogni loro problema. Ma alla fine, quando scoprono che quell'oro non c'è più, capiscono che quella non è la cosa davvero importante, perché, come dice la canzone che chiude lo spettacolo If This Isn't Love. Sharon e Woody si sposano, Og accetta di diventare un mortale perché è l'unico modo per vivere insieme alla sua amata Susan, che comincia a parlare, e anche il senatore Rawkins, tornato bianco, diventa se non proprio socialista, almeno un po' più progressista e non trova più scandaloso che bianchi e neri vivano insieme. Forse il vecchio Finian ha davvero trovato un posto magico, ma lui deve continuare a cercare il suo arcobaleno, perché alla fine forse non c'è una pentola d'oro, ma c'è certamente un bellissimo mondo nuovo.
Al suo pubblico Yip racconta che in fondo il tanto decantato american dream non è che una fantasia irrealistica, irraggiungibile per la maggioranza, ottenuta solo da qualcuno con mezzi tutt'altro che leciti. Finian's Rainbow è apparentemente una favola ricca di magia e di romanticismo, ma è soprattutto un'atto d'accusa contro l'ipocrisia dell'America ricca e bianca e un manifesto di ideali socialisti. E, forse al di là delle speranze dello stesso Yip, quel musical è un successo, che rimane in cartellone per settecentoventicinque repliche. Merito soprattutto delle canzoni di Harburg e di Lane.
Per inciso anche il compositore Burton Lane - pure lui nato a New York da una famiglia di origine ebraica - ha un qualche legame con Il Mago di Oz. Nel 1935 a Hollywood sta facendo dei provini. Si presentano due sorelle, Virginia e Mary Jane Gumm: bravine, ma nulla di più. Con loro c'è la sorella più piccola - ha solo tredici anni - Frances, che canta una canzone, così per gioco. Burton capisce subito che quella ragazzina ha una voce incredibile. Il giorno dopo accompagna Frances alla MGM e suona il piano mentre lei canta per Jack Robbins, il capo del dipartimento musicale dello studio, e poi per Louis B. Mayer e infine per tutti i registi che ci sono in giro per i teatri di posa. Quel provino, iniziato alle nove del mattino, finirà solo alle sette e mezza di sera: quel giorno, grazie all'intuizione di Burton Lane, "nasce" Judy Garland.

Ma l'America degli anni Cinquanta non vuole sentirsi raccontare, anche se attraverso tante belle canzoni, quelle scomode verità. Yip Harburg già nel 1950 viene inserito nella "lista nera". Non è comunista, ma il suo coinvolgimento con l'Hollywood Democratic Committee, il suo rifiuto di identificare comunisti tra i suoi colleghi di Broadway e soprattutto le sue canzoni, sono per i suoi accusatori prove sufficienti: per dodici anni, fino al 1962, gli viene impedito di lavorare per il cinema, la televisione e la radio. E anche Broadway sbarra le porte a uno dei suoi più geniali talenti.
Anche per la protagonista femminile, Ella Logan, una brava attrice e un'ottima cantante nata a Glascow, Finian's Rainbow è la fine della carriera a Broadway: l'Fbi sospetta che sia un "corriere" dell'Unione Sovietica e non potrà mai più lavorare.
Il musical è invece il trampolino di lancio per il giovane attore del Michigan che interpreta Og, il folletto: David Wayne ottiene infatti il primo dei due Tony della sua ricca carriera teatrale. Forse il nome non vi dice nulla, ma il suo viso lo conoscete senz'altro, perché questo attore ha interpretato decine di film, anche se quasi mai da protagonista, è uno dei grandi caratteristi di Hollywood, presente in veri cult, da La costola di Adamo a Prima pagina, passando per Come sposare un milionario. Ed è un protagonista della televisione: se Ellery Queen per noi sarà sempre e solo l'allampanato e distratto Jim Hutton, è altrettanto vero che Wayne è perfetto nei panni del burbero ispettore Queen.

Nonostante il successo, Finian's Rainbow diventa di fatto "irrappresentabile". Solo nel 1955 un teatro di Broadway ne oserà una ripresa, con scarso successo. E cinque anni dopo Herbert Ross, all'inizio della sua carriera, è il regista e il coreografo di una nuova edizione che rimane in scena per poche repliche.
Nel 1954 il regista e disegnatore John Hubley progetta di realizzare un film d'animazione basato sulla storia del musical. Hubley da giovane ha lavorato per la Disney e ha collaborato ai grandi film di quello studio, da Biancaneve e i sette nani a Fantasia, poi ha fondato la propria compagnia e ha inventato il personaggio di Mr Magoo. Per realizzare questo film John riunisce un gruppo di animatori di grande talento, a partire da Art Babbit, artisti che hanno partecipato allo sciopero degli animatori contro la Disney, e chiama, oltre a Ella Logan e David Wayne, artisti come Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Oscar Peterson e Louis Armostrong per la colonna sonora. Quando esce la notizia di questo progetto, Hubley viene inserito nella "lista nera" e i finanziamenti per il film vengono frettolosamente ritirati. Rimangono schizzi dallo storyboard, pezzi di sceneggiatura, studi dei personaggi e diverse registrazioni di canzoni.
I diritti passano per diverse mani prima di arrivare alla Warner che nel 1967 decide finalmente di realizzare il film. Scrittura il vecchio Fred Astaire, che rimane, nonostante gli anni passati, un nome di richiamo al botteghino, e due idoli del rock del Regno Unito, come Petula Clarke e Tommy Steele. Petula confesserà in seguito di aver avuto paura di dover fare qualche numero di danza insieme a un mito come Astaire. Le premesse sembrano buone, ma Finian's Rainbow non è il successo su cui la Warner sperava. Le riprese sono complicate dal fatto che Coppola vorrebbe darne una versione realistica e quindi chiede che il film venga girato tutti in esterni, mentre Astaire non concepisce di cantare e danzare fuori da un teatro di posa. Sinceramente non è il film di Coppola e non sarà certo ricordato per questo. Ma il problema del film è che arriva ormai troppo tardi. Il cinema ormai viaggia su altre strade. Nel 1968 escono 2001: Odissea nello spazio, Rosemary's Baby, C'era una volta il West, Hollywood Party. In quello stesso anno esce un altro film musicale, The Producers, scritto e diretto da Mel Brooks, lontanissimo per struttura e musica da Finian's Rainbow. Non c'è davvero più spazio per la favola di Yip, che è figlia di un'altra epoca.
Ma soprattutto nell'anno in cui vengono uccisi Martin Luther King e Robert Kennedy quel messaggio non riesce più ad arrivare. Non è che il razzismo in America non esista più: l'omicidio di Memphis di un leader come il reverendo King racconta che c'è ancora tanto da fare, ma i giovani neri che vogliono cambiare la società pensano che ormai sia tempo di combattere con altre armi. E poi nell'America impantanata nel Vietnam dove può trovare il vecchio Finian l'inizio dell'arcobaleno?

Come canta Maude, una delle donne di quella comunità di agricoltori, la vita è ingiusta perché ci sono gli sfruttati e gli sfruttatori, quelli che sono costretti a piegarsi per necessità e quelli che se ne approfittano.
My feet want to dance in the sun
My head wants to rest in the shade
The Lord says go out and have fun
But the landlord says, "Your rent ain't paid"
E, nonostante la poesia di Yip Harburg e l'eleganza di Fred Astaire, non c'è magia che possa cambiare questo stato di cose. 

sabato 5 settembre 2020

Verba volant (785): clacson...

Clacson, sost. m.

Splende il sole quella mattina di inizio aprile a Parigi: Jacob capisce finalmente cosa deve aver provato suo padre quando ha visto per la prima volta New York.

volete sapere come va avanti questa storia? dovrete aspettare il libro in cui ho raccolto tutte queste storie...

martedì 1 settembre 2020

Verba volant (784): fucile...

Fucile, sost. m.

Mercoledì 11 maggio 1887: questo pomeriggio Alexandrina Victoria vedova Saxe-Coburg assisterà finalmente al grande spettacolo che ha debuttato due giorni prima a Londra, nell'arena costruita a Earl's Court proprio per questo evento. È molto curiosa: i quotidiani della capitale inglese ne parlano da giorni. I giornalisti che hanno assistito a quel primo spettacolo raccontano che è stato un successo, tutti i trentamila posti sono stati occupati. Quello spettacolo arrivato dall'America è davvero singolare: mai vista a Londra una cosa del genere, un avvenimento degno del giubileo d'oro della Regina. La vedova, dopo aver letto quegli articoli entusiasti, ne ha parlato con il figlio, e ha deciso di assistere allo spettacolo. Ha sessantotto anni, è una vecchia signora inglese, nata a meno di cinquant'anni dalla guerra d'indipendenza, ma desidera ancora conoscere tutto quello che succede nel mondo e quello spettacolo promette di raccontare come è avvenuta la conquista dei grandi territori dell'ovest di quelle che un tempo erano le Tredici Colonie delle Indie occidentali.
Le aspettative della signora Alexandrina non vengono certo deluse. Duecento artisti, tra cowboy e indiani d'America, tiratori scelti e musicisti, cavallerizzi e acrobati, e poi centottanta cavalli, diciotto bisonti, dieci alci, cinque grandi manzi; tutti arrivati dall'America con il piroscafo State of Nebraska, insieme a un'autentica diligenza e ai pali e alle tende per costruire alcuni tepee. Il colonnello William Frederick Cody ha fatto davvero le cose in grande per la sua prima tournée europea. I cowboy, montando i loro cavalli, hanno mostrato come radunano i bisonti e i manzi in quelle vaste praterie. Poi gli indiani hanno attaccato una diligenza - anzi la vera diligenza di Deadwood, come ha detto il colonnello nella presentazione di quel numero - finché non sono arrivati in soccorso i suoi uomini a mettere in fuga i "cattivi". A dire la verità a Deadwood quella diligenza è stata attaccata non dagli indiani, ma da banditi, ovviamente bianchi, ma a questo punto poco importa. Annie Oakley ha colpito la punta di un sigaro tenuto in bocca da suo marito. Mustang Jack è saltato su un cavallo, atterrando in piedi e ci è riuscito anche una seconda volta, tenendo in mano due manubri da dieci libbre. Gli indiani hanno costruito un villaggio e si sono esibiti in una loro danza di guerra, guidati da quello che dicono essere un loro grande capo, chiamato Toro Seduto. Ancora Annie da trenta passi con il suo fucile è riuscita a colpire diverse volte una carta da gioco prima che cadesse a terra e alcune monete da dieci centesimi, riesce a sparare anche voltata, tenendo la canna del fucile sulla spalla e guardando il suo obiettivo attraverso un piccolo specchio. E infine gli indiani hanno attaccato alcune capanne di tronchi fino a che il colonnello e i suoi cowboy li hanno sconfitti. La signora Alexandrina si è divertita moltissimo: quel Cody sarà anche americano, ma è proprio bravo a organizzare quegli spettacoli.
A dire la verità quel mercoledì pomeriggio sono solo ventisei gli spettatori di quello spettacolo che dura novanta minuti: se Sua Maestà Alexandrina Victoria di Hannover, Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e Imperatrice dell'India, chiede una rappresentazione privata del Buffalo Bill's Wild West Show, non le si può certo dire di no. Quella speciale rappresentazione inizia con un cavaliere che porta una grande bandiera a stelle e strisce, segno di pace e di amicizia, come annuncia il direttore del circo, e, inaspettatamente, la regina Vittoria si alza e fa un leggero inchino: la prima volta che un sovrano inglese rende un tale omaggio alla bandiera degli Stati Uniti. Poi il colonnello Cody si avvicina al palco, con eleganza si leva il cappello, fa un inchino e dice: "Benvenuta, Sua Maestà, nel profondo west d'America.". E a questo punto lo spettacolo può davvero cominciare.
La regina lo ha apprezzato molto. Il colonnello Cody le ha fatto un'ottima impressione: un vero gentiluomo, per essere un cowboy delle colonie. In cinquant'anni di regno Vittoria ha già visto i rappresentanti di tanti popoli "selvaggi", considerando che il suo regno va dalla Nuova Zelanda alla Nigeria, dal Canada all'India: è la regina di un quarto della popolazione mondiale e del 40% della superficie del globo. Quegli "indiani", con le loro piume e i loro gridi di guerra, non la colpiscono molto. Probabilmente trova bizzarro che un loro grande capo come Toro Seduto, l'uomo che ha guidato le sue tribù in una battaglia in cui le truppe americane sono state massacrate e dopo è stato duramente sconfitto, decida di partecipare a uno spettacolo di quel genere: una cosa forse troppo "moderna" per Vittoria, una donna dell'Ottocento, che non capisce che sta nascendo un nuovo mondo in cui there's no business like show business.
Tra gli indiani che prendono parte allo spettacolo c'è anche Alce Nero, che da giovanissimo ha partecipato, con Toro Seduto, alla battaglia di Little Bighorn, e che nel 1890 rimarrà ferito nell'eccidio di Wounded Knee. Molti anni dopo Alce Nero ricorderà di aver stretto la mano a quella che lui chiama Grandmother England: la mano piccola e morbida di una grande donna, il capo di una immensa tribù, una grande sciamana.
Alla regina piace in particolare quella donna giovane e minuta - è alta solo un metro e cinquanta - che è così brava a tirare con il fucile. Le fa molte domande: sulla sua età, sulla sua famiglia, su come ha cominciato a sparare, sul suo futuro. 

Phoebe Ann Mosey è nata lunedì 13 agosto 1860, in una contea rurale dell'Ohio, ai confini con l'Indiana. Non esiste ancora il Regno d'Italia, ma Alexandrina Victoria è già regina da ventitré anni, anche se non ha ancora il titolo di imperatrice dell'India e non è ancora vedova di Alberto. La piccola impara a sparare molto presto, perché l'unico modo di mantenere la sua famiglia, poverissima, anche perché il padre è morto e i figli sono in tutto nove, è quello di andare a caccia. Quando ha solo quindici anni nella sua cittadina arriva un immigrato irlandese che si guadagna da vivere facendo spettacoli di tiro a segno nelle campagne americane. Di solito arriva in una cittadina e sfida gli abitanti: scommette cento dollari che nessuno di loro riuscirà a batterlo. E per lo più è così, perché Frank Butler è un tiratore davvero eccellente. Ma quando arriva in quella parte dell'Ohio dicono che c'è qualcuno che può batterlo. Frank non riesce a crederci: quella ragazzina alta un soldo di cacio spara meglio di lui. E Frank perde i cento dollari. Ma trova una moglie e una compagna di lavoro. È stato un lungo matrimonio: e quando Annie morirà a 66 anni, alla fine del 1926, Frank smetterà di mangiare e si spegnerà diciotto giorni dopo. Buffalo Bill, quando fonda a metà degli anni Ottanta il Wild West Show, ingaggia subito Frank e Annie, che nel frattempo ha cominciato a usare il cognome Oakley. William Cody ha fiuto per lo show business e quei due, una coppia nella vita e nell'arte, diventano una delle attrazioni più importanti del suo spettacolo. Con buona pace di Frank, che ha ormai accettato che sua moglie è più brava di lui, Annie diventa una vedette. Durante uno spettacolo a Berlino, il principe di Prussia le lancia una sfida: deve riuscire a far saltare la cenere dalla sigaretta che egli tiene in bocca. Naturalmente Annie riesce: se avesse sbagliato la mira, Guglielmo non sarebbe diventato Kaiser e forse non sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale.

A differenza di Annie, Dorothy Fields è una "figlia" di New York. Nasce venerdì 15 luglio 1904: la regina Vittoria è morta solo tre anni prima, Buffalo Bill porta ancora in giro il suo spettacolo, che però ha ormai più fortuna in Europa che in America. Annie non ne fa più parte. Nel 1901 il treno che porta gli artisti e il materiale del Wild West Show deraglia per un grave incidente, Annie rimane paralizzata e subisce cinque operazioni spinali. Ricomincia a camminare e a sparare, con la stessa precisione di prima, ma ormai non riesce più a sostenere la fatica di quelle lunghissime tournée. Scrivono per lei lo spettacolo The Western Girl: Annie interpreta il ruolo di Nancy Berry, una donna della frontiera che sconfigge un gruppo di fuorilegge. In provincia lo spettacolo funziona, ma non può arrivare a Broadway.
Invece Dorothy cresce proprio a Broadway. Suo padre è Lew Fields, un immigrato ebreo polacco che, insieme a Joe Weber, costituisce il duo comico più famoso del teatro americano della fine del diciannovesimo secolo e, pur continuando a recitare, diventa, all'inizio del Novecento, uno dei più geniali e produttori di musical: è Lew che fa debuttare il diciannovenne Richards Rodgers. Il vecchio Lew non ne vuole sapere che la figlia intraprenda la carriera teatrale, ma Dorothy è irresistibilmente attratta da quel mondo, there's no business like show business. Recita in qualche rivista, ma capisce presto che il suo talento è un altro: quello di scrivere i testi delle canzoni. In quasi cinquant'anni di carriera Fields ne ha scritte più di quattrocento e ha lavorato a quindici musical e ventisei film, ha collaborato con tutti i grandi musicisti, è stata una delle regine di Broadway.
Nel '45 Dorothy sente che vuole fare qualcosa di più e decide di scrivere il libretto di un musical. È convinta che questo sia il vero contributo degli Stati Uniti alla storia del teatro, il genere veramente americano, e con Oklahoma! Rodgers e Hammerstein hanno dimostrato che con il musical si può raccontare anche l'epopea del west, ossia l'unica storia di quel paese così giovane. E lei decide che farà lo stesso, raccontando però la storia di una donna, la più grande donna del west, e comincia a immaginare il libretto di Annie Get Your Gun.
Il produttore Mike Todd boccia l'idea, ma Richards Rodgers e Oscar Hammerstein II, che nel frattempo hanno deciso di diventare anche produttori, la sostengono: lei e suo fratello Herbert scriveranno il libretto, mentre le canzoni le scriveranno Herbert e il compositore Jerome Kern. Ma alla fine del '45 Kern muore. Hammerstein crede nel progetto e chiama Irving Berlin, che all'inizio rifiuta: pensa di non riuscire a scrivere canzoni che debbano anche raccontare una storia, è una cosa di cui non si sente pronto. E poi lui scrive sia i testi che le musiche. Herbert si ritira e Hammerstein riesce a convincerlo. In pochi giorni Berlin compone le prime canzoni. E si convince che dopo tutto può accettare quella sfida.
Annie Get Your Gun debutta a Broadway, all'Imperial Theatre, il 16 maggio 1946 e rimane in cartellone per 1.147 repliche. Nell'ottobre del '47 parte la tournée negli Stati Uniti che dura fino alla metà dell'anno successivo. Il 7 giugno 1947 debutta anche nel West End e rimane in cartellone al London Coliseum per 1.304 repliche. Ha successo perfino in Francia: Annie du Far-West rimane in cartellone per oltre un anno al Théâtre du Châtelet di Parigi, dopo il debutto del 19 febbraio 1950.
Anche il film prodotto dalla MGM nel 1950 ha avuto buoni incassi, nonostante non sia il capolavoro che avrebbe potuto essere. Rischiamo di ricordarlo più come un'occasione perduta per Judy Garland nella fase più drammatica della sua vita. E non è stato il trampolino per il successo della pur brava Betty Hutton.
Questo musical è certamente il più grande successo di Dorothy Fields e di Irving Berlin, anche per merito delle prime interpreti, perché Annie è una delle più belle parti femminili del genere. Per Ethel Merman, che pure aveva già interpretato tanti successi dei fratelli Gershwin e di Cole Porter, questo sarà il ruolo della vita, quello che la consacrerà come la più grande tra le regine di Broadway.

Irving Berlin, poco prima delle prove, sta per togliere dallo spettacolo la canzone che diventerà più famosa: crede, sbagliando, che a Rodgers non piaccia. Per fortuna cambia idea. Non la canta Annie, ma la interpretano insieme, in una scena davvero divertente, Frank, il colonnello Cody e Charlie Davenport, il manager dello spettacolo. Devono convincere quella ragazzina cresciuta tra i boschi e le praterie, che non sa leggere e scrivere, ma solo sparare, a unirsi allo spettacolo, perché there's no business like show business. Annie lo capisce immediatamente: e così quella "selvaggia" ragazza delle praterie un giorno potrà incontrare la più grande regina del mondo.