I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz'aver finito d'estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s'affierò contr'essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
- Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all'alba, o faccio fuoco!
- Bum! - fece uno dal fondo della buca. - Bum! - echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.
Chi? Zi' Scarda, si sa, quel povero cieco d'un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:
- Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!
Zi' Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com'era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri... eccoli là, s'allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:
- Ecco, sì! Tienti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!
- Gioventù! - sospirò con uno squallido sorriso d'indulgenza zi' Scarda a Cacciagallina.
E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.
Era una smorfia a Cacciagallina? O si burlava della gioventù di quei compagni là?
Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d'erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.
Ma no: zi' Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall'altro occhio, da quello buono.
Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.
Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi' Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l'occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell'antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l'acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.
Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi' Scarda, quando, quattr'anni addietro, gli era morto l'unico figliolo, per lo scoppio d'una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:
- Calicchio.
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell'occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:
- Dio gliene renda merito.
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.
Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi' Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent'anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com'era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:
- Tè, pà! tè, pà!
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.
Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l'unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a' suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell'ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: - Quanto sei bello! - egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d'una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s'avvolgeva in un cappottello d'albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia - cràh! cràh! - (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s'avviava al paese.
- Cràh! cràh! - rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
- Va', va' a rispogliarti, - gli disse zi' Scarda. - Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte.
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:
- Gna bonu! (Va bene).
E andò a levarsi il panciotto.
Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi' Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mozzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n'avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d'acqua sulfurea: sapeva sempre dov'era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall'imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.
Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi' Scarda; e là, appena finito d'ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell'alba, soleva riscuoterlo un noto piede.
La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi' Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi' Scarda stesso era stato preso in un occhio.
Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s'era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.
Nella furia di cacciarsi là, gli s'era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall'antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell'uscir dalla buca nella notte nera, vana.
S'era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l'anima smarrita, che Ciàula s'era all'improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.
Ora, ritornato giù nella buca con zi' Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.
Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s'intercalava il ruglio sordo di zi' Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.
Alla fine il carico fu pronto, e zi' Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi' Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:
- Basta! basta!
- Che basta, carogna! - gli rispose zi' Scarda.
E seguitò a caricare.
Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.
Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d'equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all'ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore
sabato 30 aprile 2011
venerdì 29 aprile 2011
da "La vera storia dell'ultimo re socialista" di Roy Lewis
1776-1789-1848-1949. Le date storiche, normalmente, non eccitano il matematico. Ma queste hanno un potere evocativo, al pari degli ideogrammi cinesi, per noi come per chiunque altro. Le Quattro Grandi Rivoluzione! Più esattamente, tre grandi rivoluzioni e una gran controrivoluzione. Si possono ignorare tutte le altre date, ma queste si sanno.
Prima della rivoluzione del 1848 gli scolaretti dovevano imparare a memoria le date riguardanti i re della Gran Bretagna. Ma oggi chi sa più cos'è successo il 4 agosto 1914? Provate a chiederlo in un quiz televisivo... Vi arrendete? E' il giorno in cui sono nato: il genetliaco di un re. Una volta, in queste occasioni, si sparavano cannonate. Non però il 4 agosto 1914: tutti i cannoni tacquero quel giorno.
Proviamo con qualcosa di più facile: 7 ottobre 1929. Quel giorno... io, Giorgio Akbar I, ereditai il trono britannico insieme al gadi dell'Impero Mogol, e diventai Re-Imperatore.
Adesso vi ricordate di me, eh? Giorgio Eguaglianza, ultimo re Ludd, l'uomo del '49.
Ciao ciao!
Sì, non sono più re d'Inghilterra dal 1979, ma ccontinuo a essere imperatore dell'India. Finché non mi assassinerà qualche estremista indù. Re d'Inghilterra è Edward Buckley - Edoardo VIII - e morirà nel suo letto. Comunque, verso il Duemila non ci saremo più né lui né io, probabilmente: come il vecchio zar Nicky, altro fantasma di quei remoti tempi precapitalistici. Ma Otto d'Asburgo continuerà a adornare la Hofburg con la modestia di sempre. Io frattanto do lustro al mio palazzo di Delhi, dove i fregi in persiano della Sala del Consiglio mi ripetono: "Se esiste un paradiso in terra, è qui, è qui, è qui!". Adesso c'è l'aria condizionata, è un po' più vero. Indubbiamente il motto non si attaglierebbe affatto a Buckingham Palace. M'è toccato sopportare quell'orrendo posto per più di venticinque anni. Lasciarlo mi consolò di aver abdicato in favore di Ed.
Ma che vado scribacchiando? Dovrei scrivere le mie memorie! Il mio amato babu, Narasimhan, me lo ripete da un pezzo. Ma io non faccio che rimandare, le casse di documenti che dovrei consultare mi disgustano soltanto a guardarle. Semmai mi inducono a tornare subito alla matematica! Se dovrò proprio scrivere qualcosa, meglio ignorarle. Coverrà lasciar correre i pensieri liberamente: poi, Narasimhan potrà aggiungere da sé tutte le date e le note che vuole. Provo a adoperare questa nuova macchina per dettare che mi hanno dato. Non si può fermare il progresso. Non più!
Sì, sarebbe facile dettare a Babuji. Ma mi distrarrebbe, con la sua mania di controllare sempre tutto. Ci ho provato, e ho dovuto rinunciare. Quell'uomo è un tiranno, come il primo ministro. Ho sempre aborrito i miei primi ministri, inglesi o indiani che fossero. ma ormai è tempo che cominci a buttar giù qualcosa. Prima che mi sparino un'altra volta. A momenti mi beccavano l'anno scorso, alle rovine dell'Osservatorio, che tanto mi piacciono. Adesso mi sono vietate. Così vanno le cose qui.
L'odiosità dei primi ministri. Sì, questo mi riporta al 1929. Facevo la quarta alla Scuola Superiore Unificata di Slough (adesso ricominciano a chiamarla Eton, ma io mi attengo al vecchio nome socialista) e stavo risolvendo un sistema di equazioni, quando il compagno preside entrò in classe, zittì con un cenno il professor Hardy e in tono molto strano mi convocò nel suo ufficio. Quando ci arrivammo il primo ministro, il compagno Lloyd George, stava bevendo tè e corteggiando la compagna del compagno preside. Si alzò, mi fece un breve inchino e disse: "Sir (già, così mi chiamò in quell'occasione,, molto speciale, lo ammetto), ho il dovere di informarla che a Delhi è morto suo nonno, sicché lei, a norma della Costituzione, diventa Re-Imperatore... ehilà... non vorrei fosse stato uno choc...".
Stavo piangendo. Amavo il nonno. Ma siccome sapevo bene che avrebbe disapprovato una simile perdita di controllo, repressi i singhiozzi. Il primo ministro continuò in fretta: "Per lei, compagno re... ehm ehm... ci sarà qualche mutamento. Certo in suo nome agirà un reggente, che son io: ma nella sua nuova... ehm... posizione non mancheranno incombenze ufficiali... dovrà seguire dei corsi di regno egualitario...".
In quella si aprì la porta e Alhaji Siddiq, l'alto commissario indiano, entrò impettito. Era furibondo. Fulminò con lo sguardo il primo ministro e si gettò in ginocchio ai miei piedi, ai quali, dopo averli, baciati, indirizzò un concitato e inteminabile saluto in urdu. Non riuscii a capire tutte le parole, ma più che altro si trattava di titoli altisonanti. Poi si alzò e rivolto a Lloyd George tuonò: "Questo è assolutamente irregolare! Dovevamo arrivare insieme. Lei non aveva il diritto di informarmi in ritardo. Sta comportandosi in modo sempre più intollerabile. Ha già parlato a Sua Altezza della reggenza? L'ha informato che il correggente sono io? No, eh? Figurarsi! Posso ricordarle che nel Commonwealth Socialista e Cooperativo Indobritannico l'India non è colonia? Se c'è una colonia nel Commonwealth, quella è l'Inghilterra! Il titolo di imperatore supera quello di re".
"Senta un po', Siddiq, cioè... compagno alto commissario," ringhiò Lloyd George "questo ragazzo... e va be', Sua Altezza... è il nostro re e quindi...".
"E' anche il Gran Mogol, nostro imperatore, in virtù del titolo...".
"Compagni ministri," interruppe un po' nervoso il preside "vi suggerirei di rimandare la...".
"Sì, ha ragione, preside" disse brusco il primo ministro. "Mai davanti agli innocenti, eh? Ora che lo sa, giovanotto, può tornare in classe. Ma non dica niente a nessuno finché non l'autorizzerò io...".
"Come si permette di rivolgersi al Gran Mogol..." tuonò Suddiq, ma io ero già fuori dalla porta e il resto non lo sentii.
Prima della rivoluzione del 1848 gli scolaretti dovevano imparare a memoria le date riguardanti i re della Gran Bretagna. Ma oggi chi sa più cos'è successo il 4 agosto 1914? Provate a chiederlo in un quiz televisivo... Vi arrendete? E' il giorno in cui sono nato: il genetliaco di un re. Una volta, in queste occasioni, si sparavano cannonate. Non però il 4 agosto 1914: tutti i cannoni tacquero quel giorno.
Proviamo con qualcosa di più facile: 7 ottobre 1929. Quel giorno... io, Giorgio Akbar I, ereditai il trono britannico insieme al gadi dell'Impero Mogol, e diventai Re-Imperatore.
Adesso vi ricordate di me, eh? Giorgio Eguaglianza, ultimo re Ludd, l'uomo del '49.
Ciao ciao!
Sì, non sono più re d'Inghilterra dal 1979, ma ccontinuo a essere imperatore dell'India. Finché non mi assassinerà qualche estremista indù. Re d'Inghilterra è Edward Buckley - Edoardo VIII - e morirà nel suo letto. Comunque, verso il Duemila non ci saremo più né lui né io, probabilmente: come il vecchio zar Nicky, altro fantasma di quei remoti tempi precapitalistici. Ma Otto d'Asburgo continuerà a adornare la Hofburg con la modestia di sempre. Io frattanto do lustro al mio palazzo di Delhi, dove i fregi in persiano della Sala del Consiglio mi ripetono: "Se esiste un paradiso in terra, è qui, è qui, è qui!". Adesso c'è l'aria condizionata, è un po' più vero. Indubbiamente il motto non si attaglierebbe affatto a Buckingham Palace. M'è toccato sopportare quell'orrendo posto per più di venticinque anni. Lasciarlo mi consolò di aver abdicato in favore di Ed.
Ma che vado scribacchiando? Dovrei scrivere le mie memorie! Il mio amato babu, Narasimhan, me lo ripete da un pezzo. Ma io non faccio che rimandare, le casse di documenti che dovrei consultare mi disgustano soltanto a guardarle. Semmai mi inducono a tornare subito alla matematica! Se dovrò proprio scrivere qualcosa, meglio ignorarle. Coverrà lasciar correre i pensieri liberamente: poi, Narasimhan potrà aggiungere da sé tutte le date e le note che vuole. Provo a adoperare questa nuova macchina per dettare che mi hanno dato. Non si può fermare il progresso. Non più!
Sì, sarebbe facile dettare a Babuji. Ma mi distrarrebbe, con la sua mania di controllare sempre tutto. Ci ho provato, e ho dovuto rinunciare. Quell'uomo è un tiranno, come il primo ministro. Ho sempre aborrito i miei primi ministri, inglesi o indiani che fossero. ma ormai è tempo che cominci a buttar giù qualcosa. Prima che mi sparino un'altra volta. A momenti mi beccavano l'anno scorso, alle rovine dell'Osservatorio, che tanto mi piacciono. Adesso mi sono vietate. Così vanno le cose qui.
L'odiosità dei primi ministri. Sì, questo mi riporta al 1929. Facevo la quarta alla Scuola Superiore Unificata di Slough (adesso ricominciano a chiamarla Eton, ma io mi attengo al vecchio nome socialista) e stavo risolvendo un sistema di equazioni, quando il compagno preside entrò in classe, zittì con un cenno il professor Hardy e in tono molto strano mi convocò nel suo ufficio. Quando ci arrivammo il primo ministro, il compagno Lloyd George, stava bevendo tè e corteggiando la compagna del compagno preside. Si alzò, mi fece un breve inchino e disse: "Sir (già, così mi chiamò in quell'occasione,, molto speciale, lo ammetto), ho il dovere di informarla che a Delhi è morto suo nonno, sicché lei, a norma della Costituzione, diventa Re-Imperatore... ehilà... non vorrei fosse stato uno choc...".
Stavo piangendo. Amavo il nonno. Ma siccome sapevo bene che avrebbe disapprovato una simile perdita di controllo, repressi i singhiozzi. Il primo ministro continuò in fretta: "Per lei, compagno re... ehm ehm... ci sarà qualche mutamento. Certo in suo nome agirà un reggente, che son io: ma nella sua nuova... ehm... posizione non mancheranno incombenze ufficiali... dovrà seguire dei corsi di regno egualitario...".
In quella si aprì la porta e Alhaji Siddiq, l'alto commissario indiano, entrò impettito. Era furibondo. Fulminò con lo sguardo il primo ministro e si gettò in ginocchio ai miei piedi, ai quali, dopo averli, baciati, indirizzò un concitato e inteminabile saluto in urdu. Non riuscii a capire tutte le parole, ma più che altro si trattava di titoli altisonanti. Poi si alzò e rivolto a Lloyd George tuonò: "Questo è assolutamente irregolare! Dovevamo arrivare insieme. Lei non aveva il diritto di informarmi in ritardo. Sta comportandosi in modo sempre più intollerabile. Ha già parlato a Sua Altezza della reggenza? L'ha informato che il correggente sono io? No, eh? Figurarsi! Posso ricordarle che nel Commonwealth Socialista e Cooperativo Indobritannico l'India non è colonia? Se c'è una colonia nel Commonwealth, quella è l'Inghilterra! Il titolo di imperatore supera quello di re".
"Senta un po', Siddiq, cioè... compagno alto commissario," ringhiò Lloyd George "questo ragazzo... e va be', Sua Altezza... è il nostro re e quindi...".
"E' anche il Gran Mogol, nostro imperatore, in virtù del titolo...".
"Compagni ministri," interruppe un po' nervoso il preside "vi suggerirei di rimandare la...".
"Sì, ha ragione, preside" disse brusco il primo ministro. "Mai davanti agli innocenti, eh? Ora che lo sa, giovanotto, può tornare in classe. Ma non dica niente a nessuno finché non l'autorizzerò io...".
"Come si permette di rivolgersi al Gran Mogol..." tuonò Suddiq, ma io ero già fuori dalla porta e il resto non lo sentii.
giovedì 28 aprile 2011
da "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters
Theodore, il poeta
Da ragazzo, Theodore, te ne stavi lunghe ore
sulla riva del torbido Spoon
a fissare con occhi incavati la tana del gambero,
in attesa di vederlo, mentre spinge avanti,
prima le antenne ondeggianti, come festuche,
e poi subito il corpo, color steatite,
gemmato con occhi di gaietto.
E ti chiedevi rapito nel pensiero
cosa sapesse, cosa desiderasse, e perché mai vivesse.
Ma poi il tuo sguardo si volse agli uomini e alle donne
che si nascondono nelle tane del destino in grandi città,
per veder uscire le loro anime,
e così capire
come vivessero, e per che cosa,
e perché s'affannassero tanto a strisciare
lungo la strada sabbiosa dove manca l'acqua
quando l'estate declina.
Considerazioni libere (225): a proposito della Festa del Lavoro...
Su L'Ordine nuovo del 5 maggio 1922 apparve un articolo, firmato da Antonio Gramsci, intitolato "Insegnamenti" e dedicato alle manifestazioni che si erano svolte il Primo maggio appena trascorso. Ne riporto soltanto il primo capoverso.
Questo breve brano dovrebbe essere sufficiente per ricordarci che il Primo maggio non è soltanto un giorno di vacanza, un giorno in cui stare a casa dal lavoro o da scuola, un giorno in più da trascorrere con la propria famiglia, da dedicare a se stessi e alle proprie passioni. Fotunatamente per noi, grazie anche alle lotte di chi è venuto prima di noi, il Primo maggio è anche questo, e dobbiamo imparare a godercelo. Se fosse soltanto un giorno di vacanza, la polemica sull'apertura dei negozi sarebbe assolutamente infondata: sarebbe sufficiente garantire ai lavoratori impegnati in quel giorno un altro momento di riposo, come avviene per la domenica, per garantire a tutti gli stessi diritti. Ma non stiamo parlando soltanto di un giorno di festa ed è quello che, con giusta ostinazione, prova a ricordare Susanna Camusso, a nome della Cgil, a un'Italia in cui il pensiero dominante cerca di convincerci di tutt'altro: Camusso dice semplicemente che non tutto è monetizzabile, mentre in questo paese ormai tutto tende a esserlo.
L'articolo di Gramsci ci ricorda che il Primo maggio è stato prima di tutto un giorno di lotta, un giorno di manifestazioni, un giorno in cui i lavoratori, scioperando e quindi rinunciando volontariamente al proprio salario, scendevano in piazza per chiedere i propri diritti. E' stato un giorno per esprimere la "solidarietà operaia", è stato un giorno in cui era rischioso, anche molto rischioso, scendere in piazza. Se dimentichiamo tutto questo, se dimentichiamo i morti di Portella della Ginestra in quel tragico Primo maggio del 1947, perdiamo di vista un elemento essenziale della nostra storia.
Il Primo maggio non è indispensabile andare in piazza, anche se ci sono tante ragioni per farlo e a volte è anche bello farlo, è confortante e liberatorio, perché la piazza segna davvero un momento di solidarietà. Io cerco di parlare spesso di lavoro nel mio blog, perché le condizioni del lavoro sono sempre più dure, specialmente per le donne e per i giovani, perché ci sono ancora troppe persone che muoiono sul lavoro e che muoiono perché non hanno o non hanno più un lavoro, perché anche qui, in un paese in cui il lavoro è citato nel primo articolo della Costituzione, sta diminuendo in maniera pericolosa la dignità del lavoro, soprattutto perché in troppi paesi del mondo il lavoro non è soltanto senza dignità, ma è senza diritti. Non si può parlare della condizione delle donne soltanto l'8 marzo e così non si può parlare solo dei diritti dei lavoratori il Primo maggio. Quel giorno possiamo davvero prenderci un giorno di vacanza, perfino dalle lotte, ma non possiamo dimenticare cosa c'è dietro quel giorno di vacanza.
E' molto difficile la posizione che in questo periodo sta cercando di tenere la Cgil - e devo dire, purtroppo, da sola, senza e anzi con l'opposizione delle altre confederazioni - contro modelli culturali ed etici, prima ancora che politici, che vanno in tutt'altra direzione. Probabilmente è vero che l'apertura dei negozi in un giorno di vacanza favorisce un aumento dei consumi, ma qualcuno deve riuscire a convincermi che un aumento generalizzato e utopisticamente senza fine dei consumi segni un aumento del benessere complessivo di una società. Ho già scritto un paio di "considerazioni" su questo tema - la nr. 48 e la nr. 176, per la precisione - sull'esasperazione con cui nelle nostre città si aumentano spazi e tempi dedicati esclusivamente all'uomo consumatore; non voglio tornarci sopra, ma francamente non mi pare che la proliferazione di centri commerciali e la loro tendenza a essere sempre e comunque aperti sia un segno di civiltà. Tutti, davvero tutti, perfino alcuni partiti della sinistra e i loro amministratori locali, definiscono questa posizione come antistorica, come figlia di un pensiero vecchio, legata a miti ormai superati e usurati. Io continuo a pensare, con ostinazione, che non ci sia nulla di vecchio e di usurato, in certi valori: uno di questi è ricordare il Primo maggio, per ricordare quello che è stato conquistato e per rivendicare quello che ancora dobbiamo conquistare.
p.s. dal momento che la condivido in toto, riporto la risposta che Susanna Camusso ha scritto al Corriere, giornale che è ovviamente favorevole all'apertura dei negozi...
ulteriore p.s. voglio fare un link al bellissimo articolo di Adriano Sofri apparso sulla Repubblica del 1 maggio...
Le conclusioni che si possono trarre dall'andamento di questa manifestazione di Primo Maggio sono confortanti. La manifestazione è riuscita come intervento di masse, come estensione di solidarietà operaia. Ha dimostrato come il proletariato italiano malgrado la reazione è sempre rosso. Ed è anche riuscita come prova di spirito di combattività che si risveglia nelle file dei lavoratori. I fascisti si sono preoccupati di dimostrare col loro contegno e colle loro stesse dichiarazioni che si trattava di una manifestazione antifascista. E tale è stato il significato della astensione dal lavoro e dell'intervento alle dimostrazioni di grandissime masse, da un capo all'altro d'Italia, e senza escludere le zone percosse dal fascismo. Se i cortei non si sono fatti si deve alla imposizione del governo: se si fossero potuti tenere, oggi conteremmo un maggior numero di morti operai, ma anche un maggior numero di morti fascisti.
Questo breve brano dovrebbe essere sufficiente per ricordarci che il Primo maggio non è soltanto un giorno di vacanza, un giorno in cui stare a casa dal lavoro o da scuola, un giorno in più da trascorrere con la propria famiglia, da dedicare a se stessi e alle proprie passioni. Fotunatamente per noi, grazie anche alle lotte di chi è venuto prima di noi, il Primo maggio è anche questo, e dobbiamo imparare a godercelo. Se fosse soltanto un giorno di vacanza, la polemica sull'apertura dei negozi sarebbe assolutamente infondata: sarebbe sufficiente garantire ai lavoratori impegnati in quel giorno un altro momento di riposo, come avviene per la domenica, per garantire a tutti gli stessi diritti. Ma non stiamo parlando soltanto di un giorno di festa ed è quello che, con giusta ostinazione, prova a ricordare Susanna Camusso, a nome della Cgil, a un'Italia in cui il pensiero dominante cerca di convincerci di tutt'altro: Camusso dice semplicemente che non tutto è monetizzabile, mentre in questo paese ormai tutto tende a esserlo.
L'articolo di Gramsci ci ricorda che il Primo maggio è stato prima di tutto un giorno di lotta, un giorno di manifestazioni, un giorno in cui i lavoratori, scioperando e quindi rinunciando volontariamente al proprio salario, scendevano in piazza per chiedere i propri diritti. E' stato un giorno per esprimere la "solidarietà operaia", è stato un giorno in cui era rischioso, anche molto rischioso, scendere in piazza. Se dimentichiamo tutto questo, se dimentichiamo i morti di Portella della Ginestra in quel tragico Primo maggio del 1947, perdiamo di vista un elemento essenziale della nostra storia.
Il Primo maggio non è indispensabile andare in piazza, anche se ci sono tante ragioni per farlo e a volte è anche bello farlo, è confortante e liberatorio, perché la piazza segna davvero un momento di solidarietà. Io cerco di parlare spesso di lavoro nel mio blog, perché le condizioni del lavoro sono sempre più dure, specialmente per le donne e per i giovani, perché ci sono ancora troppe persone che muoiono sul lavoro e che muoiono perché non hanno o non hanno più un lavoro, perché anche qui, in un paese in cui il lavoro è citato nel primo articolo della Costituzione, sta diminuendo in maniera pericolosa la dignità del lavoro, soprattutto perché in troppi paesi del mondo il lavoro non è soltanto senza dignità, ma è senza diritti. Non si può parlare della condizione delle donne soltanto l'8 marzo e così non si può parlare solo dei diritti dei lavoratori il Primo maggio. Quel giorno possiamo davvero prenderci un giorno di vacanza, perfino dalle lotte, ma non possiamo dimenticare cosa c'è dietro quel giorno di vacanza.
E' molto difficile la posizione che in questo periodo sta cercando di tenere la Cgil - e devo dire, purtroppo, da sola, senza e anzi con l'opposizione delle altre confederazioni - contro modelli culturali ed etici, prima ancora che politici, che vanno in tutt'altra direzione. Probabilmente è vero che l'apertura dei negozi in un giorno di vacanza favorisce un aumento dei consumi, ma qualcuno deve riuscire a convincermi che un aumento generalizzato e utopisticamente senza fine dei consumi segni un aumento del benessere complessivo di una società. Ho già scritto un paio di "considerazioni" su questo tema - la nr. 48 e la nr. 176, per la precisione - sull'esasperazione con cui nelle nostre città si aumentano spazi e tempi dedicati esclusivamente all'uomo consumatore; non voglio tornarci sopra, ma francamente non mi pare che la proliferazione di centri commerciali e la loro tendenza a essere sempre e comunque aperti sia un segno di civiltà. Tutti, davvero tutti, perfino alcuni partiti della sinistra e i loro amministratori locali, definiscono questa posizione come antistorica, come figlia di un pensiero vecchio, legata a miti ormai superati e usurati. Io continuo a pensare, con ostinazione, che non ci sia nulla di vecchio e di usurato, in certi valori: uno di questi è ricordare il Primo maggio, per ricordare quello che è stato conquistato e per rivendicare quello che ancora dobbiamo conquistare.
p.s. dal momento che la condivido in toto, riporto la risposta che Susanna Camusso ha scritto al Corriere, giornale che è ovviamente favorevole all'apertura dei negozi...
ulteriore p.s. voglio fare un link al bellissimo articolo di Adriano Sofri apparso sulla Repubblica del 1 maggio...
mercoledì 27 aprile 2011
"Chi deve pagare?" di Antonio Gramsci
articolo da "Ordine nuovo" del 20 marzo 1921
"Deve pagare il tedesco, perdio", dicono tutti i demagoghi del nazionalismo e i loro valletti al potere. "Deve pagare il capitalismo internazionale, il solo che possa farlo", rispondiamo noi. Ed ecco le nostre ragioni. Anzitutto è il capitalismo il responsabile. E' esso che ha fatto divampare l'incendio mondiale con la rivalità economica, con l'espansionismo coloniale e con gli eccitamenti sistematici di una nazione contro l'altra, di una razza contro l'altra, di un continente contro l'altro. E' esso il grande colpevole, l'assassino del mondo, il distruttore della prosperità economica. Lo zar, Guglielmo e Poincaré non sono stati che dei commessi malfattori del capitalismo nazionalista. E quando dico capitalismo, mi affretto, per essere giusto, a dire che non si tratta del capitalismo normale, regolare, quale è il capitalismo industriale, il produttore delle cose utili e necessarie alla vita. Questo capitalismo non ha il gusto del suicidio; non ha nel suo programma la distruzione e la rovina. Ma è un pezzo ormai che il capitalismo industriale ha perduto ogni indipendenza. Esso è alla mercé dell'alta banca, dei predoni della finanza. A lato del capitalismo industriale regolare e produttore (con le mani degli operai, però) esiste il capitalismo degli affari bacati, il capitalismo che specula sulla bestialità nazionalistica e che sa mirabilmente far rendere questa miniera inesauribile. Questo capitalismo sta all'origine delle imprese coloniali più losche e dei prestiti di Stato. Esso esporta il denaro in qualsiasi luogo, purché ne possa ritrarre grandi interessi. Esso vende la sua patria alle colonie. Esso impoverisce l'industria nazionale a profitto di quella dei paesi stranieri. Questo capitalismo di Stato compera lo Stato, il Parlamento, la stampa. Esso vuota le tasche dei combattenti. Esso vive della morte altrui. Esso si ingrassa del sangue delle sue vittime. Esso trasforma il fango delle trincee in montagne d'oro. Esso è, per dirla in una parola, specialista nel trarre redditi dalle guerre. Esso si chiama Loucheur e Marshall, in Francia; Stinnes, in Germania; Nitti, in Italia; è legione nell'Inghilterra e negli Stati Uniti. Esso fa scorrere fiotti di champagne in onore del soldato sconosciuto. Esso denunzia, perseguita, mette in carcere e uccide tutti coloro che dubitano, tutti i disfattisti, cioè tutti gli uomini i quali non confondono la vittoria dei pescecane con gli interessi generali della nazione. I pescecani della guerra sono al potere in Francia come in Germania, in Inghilterra come negli Stati Uniti, Ed essi hanno come loro mandatari al governo gli uomini del 1914. Sono gli incendiari che fanno la parte di pompieri. In Germania essi hanno messo i loro capitali al riparo da ogni tassazione facendo prendere loro la via dei paesi neutri: Svezia, Olanda, Svizzera. In questo modo il popolo, stremato di forze è due volte schiavo: dei capitalisti dell'interno e di quelli dell'estero. La formula: "Il tedesco pagherà", in realtà, vuoi dire che il proletariato tedesco assassinato, rovinato, affamato, ingannato e calpestato, deve pagare al proletariato francese, che si trova in una situazione identica, i delitti dei suoi padroni, la distruzione barbara delle miniere francesi, distruzione che ricorda quella delle sorgenti petrolifere romene compiuta dagli eserciti inglesi. Le tasche dei proletari tedeschi sono vuote. Eppure si fa credere alle folle ignoranti che dal trattato di Versailles si possono ricavare risorse vitali per gli altri paesi che sono, come la Germania, massacrati e in rovina. No, il proletariato tedesco non potrà mai essere chiamato responsabile dei delitti compiuti dai suoi padroni. E allora? Chi pagherà? E' il capitalismo che deve porre riparo alla sua opera di devastazione. Esso ha organizzato il massacro e la rovina. Esso deve sparire dalla faccia della terra. I popoli debbono a se stessi un serio esame di coscienza. Se la guerra al capitalismo porterà loro l'emancipazione dalla causa prima e fondamentale di tutte le guerre, essi debbono combattere questa guerra. Saranno largamente indennizzati delle perdite. Avranno ucciso il loro assassino. Avranno rovinato la fonte permanente di ogni loro rovina. Ecco quale è il nostro piano per le riparazioni. E non ne esiste nessun altro.
"Deve pagare il tedesco, perdio", dicono tutti i demagoghi del nazionalismo e i loro valletti al potere. "Deve pagare il capitalismo internazionale, il solo che possa farlo", rispondiamo noi. Ed ecco le nostre ragioni. Anzitutto è il capitalismo il responsabile. E' esso che ha fatto divampare l'incendio mondiale con la rivalità economica, con l'espansionismo coloniale e con gli eccitamenti sistematici di una nazione contro l'altra, di una razza contro l'altra, di un continente contro l'altro. E' esso il grande colpevole, l'assassino del mondo, il distruttore della prosperità economica. Lo zar, Guglielmo e Poincaré non sono stati che dei commessi malfattori del capitalismo nazionalista. E quando dico capitalismo, mi affretto, per essere giusto, a dire che non si tratta del capitalismo normale, regolare, quale è il capitalismo industriale, il produttore delle cose utili e necessarie alla vita. Questo capitalismo non ha il gusto del suicidio; non ha nel suo programma la distruzione e la rovina. Ma è un pezzo ormai che il capitalismo industriale ha perduto ogni indipendenza. Esso è alla mercé dell'alta banca, dei predoni della finanza. A lato del capitalismo industriale regolare e produttore (con le mani degli operai, però) esiste il capitalismo degli affari bacati, il capitalismo che specula sulla bestialità nazionalistica e che sa mirabilmente far rendere questa miniera inesauribile. Questo capitalismo sta all'origine delle imprese coloniali più losche e dei prestiti di Stato. Esso esporta il denaro in qualsiasi luogo, purché ne possa ritrarre grandi interessi. Esso vende la sua patria alle colonie. Esso impoverisce l'industria nazionale a profitto di quella dei paesi stranieri. Questo capitalismo di Stato compera lo Stato, il Parlamento, la stampa. Esso vuota le tasche dei combattenti. Esso vive della morte altrui. Esso si ingrassa del sangue delle sue vittime. Esso trasforma il fango delle trincee in montagne d'oro. Esso è, per dirla in una parola, specialista nel trarre redditi dalle guerre. Esso si chiama Loucheur e Marshall, in Francia; Stinnes, in Germania; Nitti, in Italia; è legione nell'Inghilterra e negli Stati Uniti. Esso fa scorrere fiotti di champagne in onore del soldato sconosciuto. Esso denunzia, perseguita, mette in carcere e uccide tutti coloro che dubitano, tutti i disfattisti, cioè tutti gli uomini i quali non confondono la vittoria dei pescecane con gli interessi generali della nazione. I pescecani della guerra sono al potere in Francia come in Germania, in Inghilterra come negli Stati Uniti, Ed essi hanno come loro mandatari al governo gli uomini del 1914. Sono gli incendiari che fanno la parte di pompieri. In Germania essi hanno messo i loro capitali al riparo da ogni tassazione facendo prendere loro la via dei paesi neutri: Svezia, Olanda, Svizzera. In questo modo il popolo, stremato di forze è due volte schiavo: dei capitalisti dell'interno e di quelli dell'estero. La formula: "Il tedesco pagherà", in realtà, vuoi dire che il proletariato tedesco assassinato, rovinato, affamato, ingannato e calpestato, deve pagare al proletariato francese, che si trova in una situazione identica, i delitti dei suoi padroni, la distruzione barbara delle miniere francesi, distruzione che ricorda quella delle sorgenti petrolifere romene compiuta dagli eserciti inglesi. Le tasche dei proletari tedeschi sono vuote. Eppure si fa credere alle folle ignoranti che dal trattato di Versailles si possono ricavare risorse vitali per gli altri paesi che sono, come la Germania, massacrati e in rovina. No, il proletariato tedesco non potrà mai essere chiamato responsabile dei delitti compiuti dai suoi padroni. E allora? Chi pagherà? E' il capitalismo che deve porre riparo alla sua opera di devastazione. Esso ha organizzato il massacro e la rovina. Esso deve sparire dalla faccia della terra. I popoli debbono a se stessi un serio esame di coscienza. Se la guerra al capitalismo porterà loro l'emancipazione dalla causa prima e fondamentale di tutte le guerre, essi debbono combattere questa guerra. Saranno largamente indennizzati delle perdite. Avranno ucciso il loro assassino. Avranno rovinato la fonte permanente di ogni loro rovina. Ecco quale è il nostro piano per le riparazioni. E non ne esiste nessun altro.
"Non ti arrendere" di Mario Benedetti
Non ti arrendere, ancora sei in tempo
di conseguire e cominciare di nuovo,
seppellire le tue paure,
liberare il buonsenso,
riprendere il volo.
Non ti arrendere perché la vita e così.
Continuare il viaggio,
perseguire i tuoi sogni,
sciogliere il tempo,
togliere le macerie
e scoperchiare il cielo.
Non ti arrendere per favore, non cedere
anche se il freddo brucia
anche se la paura morde
anche se il sole si nasconde
e taccia il vento
ancora c’è fuoco nella tua anima
ancora c’è vita nei tuoi sogni.
Perché la vita è tua e tuo anche il desiderio
perche lo hai voluto e perché ti amo.
Perché esiste il vino e l’amore, è certo.
Perché non vi sono ferite che non curi il tempo
aprire le porte, togliere i catenacci,
abbandonare le muraglie che ti protessero,
vivere la vita e accettare la sfida,
recuperare il sorriso,
provare un canto,
abbassare la guardia
e stendere le mani
dispiegare le ali
e tentare di nuovo.
Celebrare la vita e riprendere i cieli.
Non ti arrendere, per favore non cedere,
anche se il freddo brucia
anche se la paura morde,
anche se il sole tramonti e taccia il vento,
ancora c’e fuoco nella tua anima,
ancora c’è vita nei tuoi sogni
perché ogni giorno è un nuovo inizio,
perché questa è l’ora e il miglior momento.
Perché non sei sola, perché ti amo.
domenica 24 aprile 2011
per il 25 aprile...
"La Resistenza e la sua luce" di Pier Paolo Pasolini
Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio
perduto tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe di nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce divenne incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dell’eternità dello stile.
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
sabato 23 aprile 2011
Considerazioni libere (224): a proposito della Festa della Liberazione...
Sono molto preoccupato. Complice la pasquetta, la giornata tradizionalmente dedicata alle gite fuori porta, al primissimo scampolo di vacanze estive, da qualche anno allo shopping negli outlet e nei centri commerciali, temo che il prossimo 25 aprile - domani, lunedì dell'angelo - passerà tra l'indifferenza generale, che è molto più pericolosa delle polemiche. Negli ultimi vent'anni, in questa lunga ed estenuante fase della vita repubblicana dominata, nel bene e nel male, dalla figura di B., la Festa della Liberazione è stata costantemente attaccata come una festa di parte, come l'ultimo retaggio di un'epoca, la cosiddettta "prima repubblica", che si vorrebbe definitivamente archiviata, in nome di una riconciliazione in cui le differenze verrebbero di colpo annullate: vincitori e vinti di quel conflitto dovrebbero essere ricordati allo stesso modo e con gli stessi onori. Abbiamo ormai sentito così tante volte espressioni come "dobbiamo superare le categorie del Novecento" oppure " la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso" che ci hanno quasi convinto che la scelta degli italiani che aderirono alla Repubblica sociale sia stata altrettanto degna di quella degli italiani che scelsero la Resistenza. Non è vero, è una menzogna. Io voglio avere il diritto di essere antifascista e di dirlo con orgoglio; e di avere una giornata in cui celebrare le donne e gli uomini che hanno dato la libertà a questo paese. Io non voglio riconciliarmi con i fascisti, né vivi né morti.
Dopo gli anni delle polemiche, anche violente, contro la Resistenza, in cui si sono enfatizzati i drammi che accompagnano inevitabilmente ogni guerra civile, ho l'impressione che abbiano deciso di moderare i toni e di sostituire la polemica con l'oblio e così l'appuntamento di quest'anno pare segnare un ulteriore passaggio d'epoca. Il 25 aprile diventa sempre più una festa scolorita, innocua, un giorno di vacanza, utile al massimo per sollevare la declinante industria turistica del paese e animare il mercato interno dei consumi, sempre più stazionario. Per inciso quest'anno anche il 1° maggio perderà molta della sua forza evocativa, dal momento che tutta l'attenzione mediatica sarà concentrata inevitabilmente sulla beatificazione di Giovanni Paolo II. C'è un filo che tiene insieme queste due date, perché la nostra Repubblica, nata dalla Resistenza, fu voluta fondata sul lavoro. Questa primavera parleremo assai poco sia di Resistenza sia di lavoro.
Per me è naturale essere in piazza il 25 aprile. L'ho sempre fatto. L'anno scorso ho scelto, con mia moglie, di essere a Monte Sole, un luogo che non ti può lasciare indifferente. Quest'anno la concomitanza delle date e delle festività mi ha portato a essere in Lunigiana, presso i genitori di mia moglie. Anche in questa terra c'è una forte tradizione antifascista. Sarzana, città medaglia d'argento al valor militare, ha dato un grande contributo alla lotta partigiana; voglio ricordare che qui la resistenza al fascismo risale al 1921, per l'eroica reazione dei contadini e anche delle truppe del regio esercito - caso purtroppo isolato - contro le squadracce fasciste. Andrò a una delle manifestazioni che si svolgono qui, come sempre. Certi riti civili sono importanti.
Ci sono molti motivi per essere in piazza il 25 aprile. Vi dico perché io ci vado e voglio continuare ad andarci.
Prima di tutto vado come atto di ringraziamento per coloro che hanno combattuto e di omaggio per coloro che sono morti. La storia è fatta prima di tutto dalle scelte delle donne e degli uomini e quei giovani sentirono di fare una scelta giusta, mettendo in gioco tutto, compresa la loro stessa vita. Vado per ringraziare chi ha testimoniato che c'era un'altra Italia, democratica, contraria alla guerra di aggressione, alle leggi razziali, un'Italia che voleva rinascere libera e giusta, un'Italia che si sarebbe data, dopo pochi anni, una Costituzione di rara bellezza, di cui dovremmo essere fieri.
Vado per dire che quella battaglia non è stata vinta una volta per tutte, ma che è stata combattuta molte altre volte in questo Paese; è stata combattuta contro i tentativi di instaurare regimi autoritari, contro la strategia della tensione durante la stagione delle stragi, contro il terrorismo di matrici politiche opposte, è combattuta ancora contro la criminalità organizzata. E anche queste battaglie hanno lasciato sul campo molti, troppi, morti; altri partigiani.
Vado per dire che dobbiamo fare attenzione, perché la possibilità di un ritorno indietro è un pericolo sempre attuale, come ci insegna purtroppo quello che sta avvenendo in questi stessi giorni in Ungheria. E vado per dire che la lotta per la libertà è qualcosa che ci rende davvero tutti fratelli, perché i giovani che combattono nei paesi dell'Africa settentrionale e del Medio oriente, i pochi coraggiosi che sfidano il regime comunista cinese, quelli che lottano contro le dittature nei loro paesi, dall'Asia all'America latina, sono fratelli e sorelle di quei partigiani che hanno dato a noi la libertà di cui godiamo.
Vado infine per dire che io ci sono e che, con i limiti delle mie capacità e con le troppe debolezze del mio impegno, voglio continuare a esserci.
Dopo gli anni delle polemiche, anche violente, contro la Resistenza, in cui si sono enfatizzati i drammi che accompagnano inevitabilmente ogni guerra civile, ho l'impressione che abbiano deciso di moderare i toni e di sostituire la polemica con l'oblio e così l'appuntamento di quest'anno pare segnare un ulteriore passaggio d'epoca. Il 25 aprile diventa sempre più una festa scolorita, innocua, un giorno di vacanza, utile al massimo per sollevare la declinante industria turistica del paese e animare il mercato interno dei consumi, sempre più stazionario. Per inciso quest'anno anche il 1° maggio perderà molta della sua forza evocativa, dal momento che tutta l'attenzione mediatica sarà concentrata inevitabilmente sulla beatificazione di Giovanni Paolo II. C'è un filo che tiene insieme queste due date, perché la nostra Repubblica, nata dalla Resistenza, fu voluta fondata sul lavoro. Questa primavera parleremo assai poco sia di Resistenza sia di lavoro.
Per me è naturale essere in piazza il 25 aprile. L'ho sempre fatto. L'anno scorso ho scelto, con mia moglie, di essere a Monte Sole, un luogo che non ti può lasciare indifferente. Quest'anno la concomitanza delle date e delle festività mi ha portato a essere in Lunigiana, presso i genitori di mia moglie. Anche in questa terra c'è una forte tradizione antifascista. Sarzana, città medaglia d'argento al valor militare, ha dato un grande contributo alla lotta partigiana; voglio ricordare che qui la resistenza al fascismo risale al 1921, per l'eroica reazione dei contadini e anche delle truppe del regio esercito - caso purtroppo isolato - contro le squadracce fasciste. Andrò a una delle manifestazioni che si svolgono qui, come sempre. Certi riti civili sono importanti.
Ci sono molti motivi per essere in piazza il 25 aprile. Vi dico perché io ci vado e voglio continuare ad andarci.
Prima di tutto vado come atto di ringraziamento per coloro che hanno combattuto e di omaggio per coloro che sono morti. La storia è fatta prima di tutto dalle scelte delle donne e degli uomini e quei giovani sentirono di fare una scelta giusta, mettendo in gioco tutto, compresa la loro stessa vita. Vado per ringraziare chi ha testimoniato che c'era un'altra Italia, democratica, contraria alla guerra di aggressione, alle leggi razziali, un'Italia che voleva rinascere libera e giusta, un'Italia che si sarebbe data, dopo pochi anni, una Costituzione di rara bellezza, di cui dovremmo essere fieri.
Vado per dire che quella battaglia non è stata vinta una volta per tutte, ma che è stata combattuta molte altre volte in questo Paese; è stata combattuta contro i tentativi di instaurare regimi autoritari, contro la strategia della tensione durante la stagione delle stragi, contro il terrorismo di matrici politiche opposte, è combattuta ancora contro la criminalità organizzata. E anche queste battaglie hanno lasciato sul campo molti, troppi, morti; altri partigiani.
Vado per dire che dobbiamo fare attenzione, perché la possibilità di un ritorno indietro è un pericolo sempre attuale, come ci insegna purtroppo quello che sta avvenendo in questi stessi giorni in Ungheria. E vado per dire che la lotta per la libertà è qualcosa che ci rende davvero tutti fratelli, perché i giovani che combattono nei paesi dell'Africa settentrionale e del Medio oriente, i pochi coraggiosi che sfidano il regime comunista cinese, quelli che lottano contro le dittature nei loro paesi, dall'Asia all'America latina, sono fratelli e sorelle di quei partigiani che hanno dato a noi la libertà di cui godiamo.
Vado infine per dire che io ci sono e che, con i limiti delle mie capacità e con le troppe debolezze del mio impegno, voglio continuare a esserci.
da "Il procuratore di Giudea" di Anatole France
L'indomani, all'ora di cena, Lamia si recò a casa di Pozio Pilato. Soltanto due letti erano stati preparati per il convito. Senza fasto ma decorosamente, sulla tavola erano piatti d'argento con beccafichi cotti nel miele, tordi, ostriche del Lucrino e lamprede di Sicilia. Ponzio e Lamia, mangiando, si domandavano reciprocamente dei loro mali: ne descrissero minuziosamanete i sintomi, mutualmente si comunicarono i diversi rimedi che erano stati loro prescritti. Poi, rallegrandosi d'essersi incontrati a Baia, esaltarono a gara la bellezza di quella spiaggia e la dolcezza dell'aria che vi si respirava. Lamia celebrò la grazia delle cortigiane che passavano lungo la spiaggia, cariche d'oro e circonfuse di veli ricamati dai barbari. Ma il vecchio procuratore deplorava un'ostentazione che, per delle inutili pietre e per delle ragnatele tessute dalla mano dell'uomo, faceva passare il denaro dei romani a popoli stranieri quando non addirittura a nemici dell'impero. Vennero poi a parlare dei grandi lavori che erano stati fatti nella regione: del ponte prodigioso fatto costruire da Caio tra Pozzuoli e Baia e dei canali tracciati da Augusto per far sì che le acque del mare di versassero nei laghi Averno e Lucrino.
"Anch'io" disse Ponzio sospirando "ho voluto intraprendere grandi lavori d'utilità pubblica. Quand'ebbi, per mia disgrazia, il governo della Giudea, disegnai il piano d'un acquedotto di duecento stadi che doveva portare a Gerusalemme acque abbondanti e pure. Altezza dei livelli, portata media, inclinazione dei calici di bronzo a cui adattare i tubi di distribuzione: tutto avevo studiato e, con l'aiuto dei tecnici, risolto. Avevo anche preparato un regolamento per la polizia delle acque, affinché nessun privato potesse illecitamente attaccare delle prese. Gli architetti e gli operai erano pronti. Ordinai si cominciassero i lavori. Ma, invece d'essere contenti nel vedere levarsi su archi potenti la via che doveva portare, con l'acqua, salute alla loro città, gli abitanti di Gerusalemme si diedero ad urlare protesta. Riuniti in tumultuose assemblee, gridando al sacrilegio e all'empietà, si gettavano sugli operai e disperdevano le pietre delle fondamenta. Sai di barbari, Lamia, più di costoro immondi? Eppure Vitellio diede loro ragione ed io ebbi l'ordine di interrompere i lavori".
"E' un grave problema" disse Lamia "quello di sapere se agli uomini si deve imporre una felicità che non vogliono".
Senza aver sentito, Ponzio Pilato continuò: "Rifiutare un acquedotto è follia! Ma tutto quello che viene dai romani è odioso ai giudei. Noi siamo per loro degli esseri impuri e la nostra sola presenza la considerano una profanazione. Tu sai che rifiutavano di entrare nel pretorio per paura di contaminarsi e che mi costringevano ad esercitare la magistratura pubblica all'aperto, su quel lastricato di marmo su cui tu spesso hai messo piede".
"Ci temono e ci disprezzano. Eppure Roma non è madre e protrettice di tutti i popoli; tutti i popoli, come bambini, non riposano sorridendo sul suo seno venerabile? Le nostre aquile hanno portato fino ai confini dell'universo la pace e la libertà. Trattiamo i vinti come amici, lasciamo ed assicuriamo ai popoli conquistati i loro costumi e la loro legge. Non è da quando Pompeo l'ha sottomessa che la Siria, prima lacerata dalla discordia di una moltitudine di re, ha cominciato a godere di tranquillità e benessere? E, mentre poteva vendere a peso d'oro i suoi benefici, Roma ha portato via nulla dei tesori di cui traboccavano i templi barbari? Ha spogliato la dea madre a Pessinunte, Giove nella Morimena e nella Cilicia, il dio dei giudei a Gerusalemme? Antiochia, Palmira, Apamea, tranquille nonostante le loro ricchezze, e senza più il timore degli arabi del deserto, innalzano templi al Genio di Roma e alla Divinità di Cesare. Soltanto i giudei ci odiano e ci sfidano. Il tributo bisogna strapparglielo, e ostinatamente rifiutano il servizio militare".
"I giudei" rispose Lamia "sono molto attaccati alle loro antiche usanze. Sospettavano, a torto, ne convengo, che tu volessi abolire le loro leggi e cambiare i loro costumi. Consentimi, Ponzio, di dirti che tu non hai mai fatto nulla per dissipare il loro sciagurato errore. Tu ti sei compiaciuto, magari senza esserne cosciente, di eccitare le loro inquietudini; e più di una volta ti ho visto davanti a loro tradire il disprezzo che ti ispiravano le loro credenze e le loro cerimonie religiose. Tu particolarmente li vessavi col far custodire dai legionari, nella torre Antonia, gli abiti e gli ornamenti del loro gran sacerdote. Bisogna riconoscere che, anche se non si sono elevati come noi alla contemplazione delle cose divine, i giudei celebrano misteri venerabili per antichità".
Ponzio Pilato alzò le spalle.
"Non hanno" disse "una esatta conoscenza della natura degli dei. Adorano Giove, ma non gli danno nome, né figura. Non lo adorano nemmeno sotto forma di pietra, come certi popoli dell'Asia. Nulla sanno di Apollo, di Nettuno, di Marte, di Plutone; né delle dee. Ma credo che anticamente abbiano adorato Venere, se ancora oggi le donne portano colombe all'altare del sacrificio; e tu come me hai visto che sotto i portici del tempio ci sono dei mercanti che vendono questi volatili a coppie. Anzi, mi fu riferito un giorno che un pazzo furioso aveva gettato a terra quei mercanti e le loro gabbie. I sacerdoti se ne lamentavano come di un sacrilegio. Credo che l'uso di sacrificare tortorelle sia nato in onore di Venere. Ma perché ridi, Lamia?".
"Rido" disse Lamia "per un'idea piuttosto amena che mi è passata per la mente: che un giorno il Giove degli ebrei potrebbe fare il suo ingresso a Roma e perseguitarti col suo odio. Perché no? L'Asia e l'Africa ci hanno già dato tanti dei. Abbiamo visto sorgere in Roma templi dedicati a Iside e al lattante Anubi. Agli incroci e lungo le strade maestre ci imbattiamo nella Buona Dea dei siriani, portata da un asino. E non sai che, sotto il principato di Tiberio, un giovane cavaliere si fece passare per il Giove cornuto degli egiziani ed ottenne, sotto quel travestimento, i favori di una dama illustre, troppo virtuosa per rifiutare qualcosa agli dei? Guardati, Ponzio: che il Giove invisibile degli ebrei non sbarchi un giorno ad Ostia!".
All'idea che un dio potesse venire dalla Giudea, un rapido sorriso passò sul volto severo del procuratore. Poi gravemente rispose: "Come potrebbero i giudei imporre la loro legge santa agli altri popoli, se tra loro si dilaniano per l'interpretazione della legge stessa? Divisi in venti sette rivali, sulle pubbliche piazze, coi loro rotoli in mano, stanno ad ingiuriarsi e a tirarsi l'un l'altro per la barba: li hai visti anche tu, Lamia; e li hai visti tra le colonne del tempio stracciarsi le sudice vesti, in segno di desolazione, intorno a un qualche miserabile in preda a delirio profetico. Non concepiscono che si possa disputare in pace, con animo sereno, delle cose divine: che peraltro sono celate da veli e piene d'incertezza. La natura delle cose immortali resta sempre nascosta, né ci è dato conoscerla. E tuttavia, è da saggi credere alla provvidenza degli dei. Ma i giudei ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni. Al contrario, giudicano degni dell'estremo supplizio coloro che professano sulla divinità dei sentimenti contrari alla loro legge. E poiché, da quando il Genio di Roma li sovrasta, le sentenze capitali dei loro tribunali non possono essere eseguite senza la sanzione del proconsole o del procuratore, continuamente pressano sul magistrato romano affinché sottoscriva le loro funeste sentenze, ossessionando il pretorio con grida che chiedono morte. Cento volte li ho visti, in folla, ricchi e poveri d'accordo intorno ai loro preti, circondare come in preda a follia la mia sedia d'avorio, tirarmi per i lembi della toga e i lacci dei sandali, per invocare, per esigere da me la morte di un qualche infelice di cui io non potevo discernere il delitto e che giudicavo fosse soltanto non meno e non più folle dei suoi accusatori. Ma che dico, cento volte! Tutti i giorni, tutte le ore. Ed ero tenuto, purtroppo, a fare eseguire la loro legge come la nostra: poiché Roma mi impegnava a sostenere le loro usanze, non a distruggerle; a stare su loro con le verghe e la scure. E nei primi tempi, mi provai a far intendere loro ragione; tentai di sottrarre le loro miserabili vittime al supplizio. Ma la mia mitezza ancor più li irritava; reclamavano la loro preda battendo intorno a me d'ala e di becco, come avvoltoi. I loro preti scrivevano a Cesare che io violavo la loro legge; e queste suppliche, appoggiate da Vitellio, mi attiravano un biasimo severo. Quante volte mi venne voglia di mandare ai corvi, come dicono i greci, gli accusati e i giudici insieme!
Non credere, Lamia, che io nutra rancori impotenti e astiosità senili contro questo popolo che ha vinto dentro di me Roma e la pace. Sto semplicemente prevedendo le decisioni estreme cui presto o tardi ci costringerà. Non potendo governarlo, bisognerà distruggerlo. Non c'è da dubitare: ancora non sottomessi, covando la rivolta nei loro animi accesi, essi faranno esplodere un giorno contro di noi un furore di fronte al quale la collera dei numidi e le minacce dei parti appariranno come capricci di bambini. Nell'ombra, nutrono insensate speranze e follemente preparano la nostra rovina. Non può essere altrimenti, se aspettano, sulla fede di un oracolo, il principe del loro sangue che dovrà regnare sul mondo. Non si riuscirà mai a domare un popolo simile. Bisogna non farlo più esistere. Bisogna distruggere Gerusalemme dale fondamenta. Ed è possibile che, per quanto vecchio, mi sarà dato di vedere il giorno in cui le sue mura crolleranno, in cui le fiamme divoreranno le sue case, in cui gli abitanti saranno passati a fil di spada e il sale sarà sparso sulla piazza dove il tempio sorgeva. E in quel giorno, mi sarà infine resa giustizia".
Lamia si sforzò di riportare il discorso a un tono più dolce.
"Ponzio" disse "io capisco senza difficoltà i tuoi vecchi risentimenti e i tuoi sinistri presagi. Certo, quello che tu hai conosciuto del carattere degli ebrei è da riprovare. Ma io, che vivevo a Gerusalemme da curioso e che mi intramavo nel popolo, ho avuto modo di scoprire in quegli uomini oscure virtù, che a te non si rivelarono. Ho conosciuto ebrei pieni di dolcezza, di costumi semplici e di cuore fedele: da ricordarmi quello che i nostri poeti hanno detto del vecchio di Ebalia. Tu stesso, Ponzio, hai visto morire sotto il bastone dei tuoi legionari degli uomini semplici che, senza dire il loro nome, si sacrificavano a una causa che credevano giusta. Uomini simili non meritano il nostro disprezzo. E parlo così perché in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità, poiché confesso di non aver mai sentito viva simpatia per gli ebrei. Le ebree, invece, mi piacevano molto. Ero giovane, allora: le donne di Siria mi davano un gran turbamento dei sensi. Le loro labbra rosse, i loro occhi umidi e nell'ombra splendenti, il loro sguardo intenso mi penetravano fino al midollo. Imbellettate e dipinte, odorose di nardo e di mirra, macerate negli aromi, la loro carne dà un raro e delizioso godimento".
Ponzio ascoltò quelle lodi con impazienza.
"Non ero uomo da cadere nelle reti delle ebree" disse "e, poiché tu mi ci provochi, ti dirò, Lamia, che non ho mai approvato la tua incontinenza. Se non ti ho fatto ben capire, allora, che ti consideravo in gran colpa per aver sedotto, a Roma, la moglie di un consolare, è stato perché mi pareva tu stessi duramente espiando. Il matrimonio è sacro tra i patrizi; è l'istituzione su cui Roma si regge. Quanto alle donne schiave o straniere, le relazioni che si possono annodare con loro avrebbero poca importanza, se il corpo non si abituasse a vergognose mollezze. Consentimi di dirti che hai troppo sacrificato alla Venere dei trivi; e ciò che soprattutto ti rimprovero è il non aver dato dei figli alla repubblica, come ogni buon cittadino ha il dovere".
Ma l'esiliato di Tiberio non ascoltava più il vecchio magistrato. Vuotata la sua coppa di Falerno, sorrideva a una qualche immagine invisibile.
"Danzano con tanto languore, le donne di Siria! Ho conosciuto un'ebrea di Gerusalemme che in una bettola, nell'avara luce di una lucerna fumosa, su un logoro tappeto, danzava levando le braccia e agitandole a far suonare i cimbali. Le reni inarcate, la testa rovesciata e come tirata dal peso della sua folta chioma rossa, gli occhi annegati di voluttà, ardente e languente, flessuosa, avrebbe fatto impallidire d'invidia Cleopatra stessa. Amavo le sue danze barbare, il suo canto un po' rauco e insieme dolce, il suo odore d'incenso, il suo vivere trasognato. La seguivo ovunque. Mi confondevo alla vile ciurmaglia dei soldati, dei saltimbanchi e dei pubblicani da cui era circondata. Un giorno disparve, e non la rividi più. La cercai lungamente nei vicoli malfamati e nelle taverne. Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco. Qualche mese dopo che l'avevo perduta, seppi, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e di donne che seguivano un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocefisso non ricordo per quale delitto. Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?".
Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: "Gesù?" mormorò "Gesù il Nazareno? No, non ricordo".
"Anch'io" disse Ponzio sospirando "ho voluto intraprendere grandi lavori d'utilità pubblica. Quand'ebbi, per mia disgrazia, il governo della Giudea, disegnai il piano d'un acquedotto di duecento stadi che doveva portare a Gerusalemme acque abbondanti e pure. Altezza dei livelli, portata media, inclinazione dei calici di bronzo a cui adattare i tubi di distribuzione: tutto avevo studiato e, con l'aiuto dei tecnici, risolto. Avevo anche preparato un regolamento per la polizia delle acque, affinché nessun privato potesse illecitamente attaccare delle prese. Gli architetti e gli operai erano pronti. Ordinai si cominciassero i lavori. Ma, invece d'essere contenti nel vedere levarsi su archi potenti la via che doveva portare, con l'acqua, salute alla loro città, gli abitanti di Gerusalemme si diedero ad urlare protesta. Riuniti in tumultuose assemblee, gridando al sacrilegio e all'empietà, si gettavano sugli operai e disperdevano le pietre delle fondamenta. Sai di barbari, Lamia, più di costoro immondi? Eppure Vitellio diede loro ragione ed io ebbi l'ordine di interrompere i lavori".
"E' un grave problema" disse Lamia "quello di sapere se agli uomini si deve imporre una felicità che non vogliono".
Senza aver sentito, Ponzio Pilato continuò: "Rifiutare un acquedotto è follia! Ma tutto quello che viene dai romani è odioso ai giudei. Noi siamo per loro degli esseri impuri e la nostra sola presenza la considerano una profanazione. Tu sai che rifiutavano di entrare nel pretorio per paura di contaminarsi e che mi costringevano ad esercitare la magistratura pubblica all'aperto, su quel lastricato di marmo su cui tu spesso hai messo piede".
"Ci temono e ci disprezzano. Eppure Roma non è madre e protrettice di tutti i popoli; tutti i popoli, come bambini, non riposano sorridendo sul suo seno venerabile? Le nostre aquile hanno portato fino ai confini dell'universo la pace e la libertà. Trattiamo i vinti come amici, lasciamo ed assicuriamo ai popoli conquistati i loro costumi e la loro legge. Non è da quando Pompeo l'ha sottomessa che la Siria, prima lacerata dalla discordia di una moltitudine di re, ha cominciato a godere di tranquillità e benessere? E, mentre poteva vendere a peso d'oro i suoi benefici, Roma ha portato via nulla dei tesori di cui traboccavano i templi barbari? Ha spogliato la dea madre a Pessinunte, Giove nella Morimena e nella Cilicia, il dio dei giudei a Gerusalemme? Antiochia, Palmira, Apamea, tranquille nonostante le loro ricchezze, e senza più il timore degli arabi del deserto, innalzano templi al Genio di Roma e alla Divinità di Cesare. Soltanto i giudei ci odiano e ci sfidano. Il tributo bisogna strapparglielo, e ostinatamente rifiutano il servizio militare".
"I giudei" rispose Lamia "sono molto attaccati alle loro antiche usanze. Sospettavano, a torto, ne convengo, che tu volessi abolire le loro leggi e cambiare i loro costumi. Consentimi, Ponzio, di dirti che tu non hai mai fatto nulla per dissipare il loro sciagurato errore. Tu ti sei compiaciuto, magari senza esserne cosciente, di eccitare le loro inquietudini; e più di una volta ti ho visto davanti a loro tradire il disprezzo che ti ispiravano le loro credenze e le loro cerimonie religiose. Tu particolarmente li vessavi col far custodire dai legionari, nella torre Antonia, gli abiti e gli ornamenti del loro gran sacerdote. Bisogna riconoscere che, anche se non si sono elevati come noi alla contemplazione delle cose divine, i giudei celebrano misteri venerabili per antichità".
Ponzio Pilato alzò le spalle.
"Non hanno" disse "una esatta conoscenza della natura degli dei. Adorano Giove, ma non gli danno nome, né figura. Non lo adorano nemmeno sotto forma di pietra, come certi popoli dell'Asia. Nulla sanno di Apollo, di Nettuno, di Marte, di Plutone; né delle dee. Ma credo che anticamente abbiano adorato Venere, se ancora oggi le donne portano colombe all'altare del sacrificio; e tu come me hai visto che sotto i portici del tempio ci sono dei mercanti che vendono questi volatili a coppie. Anzi, mi fu riferito un giorno che un pazzo furioso aveva gettato a terra quei mercanti e le loro gabbie. I sacerdoti se ne lamentavano come di un sacrilegio. Credo che l'uso di sacrificare tortorelle sia nato in onore di Venere. Ma perché ridi, Lamia?".
"Rido" disse Lamia "per un'idea piuttosto amena che mi è passata per la mente: che un giorno il Giove degli ebrei potrebbe fare il suo ingresso a Roma e perseguitarti col suo odio. Perché no? L'Asia e l'Africa ci hanno già dato tanti dei. Abbiamo visto sorgere in Roma templi dedicati a Iside e al lattante Anubi. Agli incroci e lungo le strade maestre ci imbattiamo nella Buona Dea dei siriani, portata da un asino. E non sai che, sotto il principato di Tiberio, un giovane cavaliere si fece passare per il Giove cornuto degli egiziani ed ottenne, sotto quel travestimento, i favori di una dama illustre, troppo virtuosa per rifiutare qualcosa agli dei? Guardati, Ponzio: che il Giove invisibile degli ebrei non sbarchi un giorno ad Ostia!".
All'idea che un dio potesse venire dalla Giudea, un rapido sorriso passò sul volto severo del procuratore. Poi gravemente rispose: "Come potrebbero i giudei imporre la loro legge santa agli altri popoli, se tra loro si dilaniano per l'interpretazione della legge stessa? Divisi in venti sette rivali, sulle pubbliche piazze, coi loro rotoli in mano, stanno ad ingiuriarsi e a tirarsi l'un l'altro per la barba: li hai visti anche tu, Lamia; e li hai visti tra le colonne del tempio stracciarsi le sudice vesti, in segno di desolazione, intorno a un qualche miserabile in preda a delirio profetico. Non concepiscono che si possa disputare in pace, con animo sereno, delle cose divine: che peraltro sono celate da veli e piene d'incertezza. La natura delle cose immortali resta sempre nascosta, né ci è dato conoscerla. E tuttavia, è da saggi credere alla provvidenza degli dei. Ma i giudei ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni. Al contrario, giudicano degni dell'estremo supplizio coloro che professano sulla divinità dei sentimenti contrari alla loro legge. E poiché, da quando il Genio di Roma li sovrasta, le sentenze capitali dei loro tribunali non possono essere eseguite senza la sanzione del proconsole o del procuratore, continuamente pressano sul magistrato romano affinché sottoscriva le loro funeste sentenze, ossessionando il pretorio con grida che chiedono morte. Cento volte li ho visti, in folla, ricchi e poveri d'accordo intorno ai loro preti, circondare come in preda a follia la mia sedia d'avorio, tirarmi per i lembi della toga e i lacci dei sandali, per invocare, per esigere da me la morte di un qualche infelice di cui io non potevo discernere il delitto e che giudicavo fosse soltanto non meno e non più folle dei suoi accusatori. Ma che dico, cento volte! Tutti i giorni, tutte le ore. Ed ero tenuto, purtroppo, a fare eseguire la loro legge come la nostra: poiché Roma mi impegnava a sostenere le loro usanze, non a distruggerle; a stare su loro con le verghe e la scure. E nei primi tempi, mi provai a far intendere loro ragione; tentai di sottrarre le loro miserabili vittime al supplizio. Ma la mia mitezza ancor più li irritava; reclamavano la loro preda battendo intorno a me d'ala e di becco, come avvoltoi. I loro preti scrivevano a Cesare che io violavo la loro legge; e queste suppliche, appoggiate da Vitellio, mi attiravano un biasimo severo. Quante volte mi venne voglia di mandare ai corvi, come dicono i greci, gli accusati e i giudici insieme!
Non credere, Lamia, che io nutra rancori impotenti e astiosità senili contro questo popolo che ha vinto dentro di me Roma e la pace. Sto semplicemente prevedendo le decisioni estreme cui presto o tardi ci costringerà. Non potendo governarlo, bisognerà distruggerlo. Non c'è da dubitare: ancora non sottomessi, covando la rivolta nei loro animi accesi, essi faranno esplodere un giorno contro di noi un furore di fronte al quale la collera dei numidi e le minacce dei parti appariranno come capricci di bambini. Nell'ombra, nutrono insensate speranze e follemente preparano la nostra rovina. Non può essere altrimenti, se aspettano, sulla fede di un oracolo, il principe del loro sangue che dovrà regnare sul mondo. Non si riuscirà mai a domare un popolo simile. Bisogna non farlo più esistere. Bisogna distruggere Gerusalemme dale fondamenta. Ed è possibile che, per quanto vecchio, mi sarà dato di vedere il giorno in cui le sue mura crolleranno, in cui le fiamme divoreranno le sue case, in cui gli abitanti saranno passati a fil di spada e il sale sarà sparso sulla piazza dove il tempio sorgeva. E in quel giorno, mi sarà infine resa giustizia".
Lamia si sforzò di riportare il discorso a un tono più dolce.
"Ponzio" disse "io capisco senza difficoltà i tuoi vecchi risentimenti e i tuoi sinistri presagi. Certo, quello che tu hai conosciuto del carattere degli ebrei è da riprovare. Ma io, che vivevo a Gerusalemme da curioso e che mi intramavo nel popolo, ho avuto modo di scoprire in quegli uomini oscure virtù, che a te non si rivelarono. Ho conosciuto ebrei pieni di dolcezza, di costumi semplici e di cuore fedele: da ricordarmi quello che i nostri poeti hanno detto del vecchio di Ebalia. Tu stesso, Ponzio, hai visto morire sotto il bastone dei tuoi legionari degli uomini semplici che, senza dire il loro nome, si sacrificavano a una causa che credevano giusta. Uomini simili non meritano il nostro disprezzo. E parlo così perché in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità, poiché confesso di non aver mai sentito viva simpatia per gli ebrei. Le ebree, invece, mi piacevano molto. Ero giovane, allora: le donne di Siria mi davano un gran turbamento dei sensi. Le loro labbra rosse, i loro occhi umidi e nell'ombra splendenti, il loro sguardo intenso mi penetravano fino al midollo. Imbellettate e dipinte, odorose di nardo e di mirra, macerate negli aromi, la loro carne dà un raro e delizioso godimento".
Ponzio ascoltò quelle lodi con impazienza.
"Non ero uomo da cadere nelle reti delle ebree" disse "e, poiché tu mi ci provochi, ti dirò, Lamia, che non ho mai approvato la tua incontinenza. Se non ti ho fatto ben capire, allora, che ti consideravo in gran colpa per aver sedotto, a Roma, la moglie di un consolare, è stato perché mi pareva tu stessi duramente espiando. Il matrimonio è sacro tra i patrizi; è l'istituzione su cui Roma si regge. Quanto alle donne schiave o straniere, le relazioni che si possono annodare con loro avrebbero poca importanza, se il corpo non si abituasse a vergognose mollezze. Consentimi di dirti che hai troppo sacrificato alla Venere dei trivi; e ciò che soprattutto ti rimprovero è il non aver dato dei figli alla repubblica, come ogni buon cittadino ha il dovere".
Ma l'esiliato di Tiberio non ascoltava più il vecchio magistrato. Vuotata la sua coppa di Falerno, sorrideva a una qualche immagine invisibile.
"Danzano con tanto languore, le donne di Siria! Ho conosciuto un'ebrea di Gerusalemme che in una bettola, nell'avara luce di una lucerna fumosa, su un logoro tappeto, danzava levando le braccia e agitandole a far suonare i cimbali. Le reni inarcate, la testa rovesciata e come tirata dal peso della sua folta chioma rossa, gli occhi annegati di voluttà, ardente e languente, flessuosa, avrebbe fatto impallidire d'invidia Cleopatra stessa. Amavo le sue danze barbare, il suo canto un po' rauco e insieme dolce, il suo odore d'incenso, il suo vivere trasognato. La seguivo ovunque. Mi confondevo alla vile ciurmaglia dei soldati, dei saltimbanchi e dei pubblicani da cui era circondata. Un giorno disparve, e non la rividi più. La cercai lungamente nei vicoli malfamati e nelle taverne. Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco. Qualche mese dopo che l'avevo perduta, seppi, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e di donne che seguivano un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocefisso non ricordo per quale delitto. Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?".
Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: "Gesù?" mormorò "Gesù il Nazareno? No, non ricordo".
venerdì 22 aprile 2011
Considerazioni libere (223): a proposito di quello che succede nel cuore dell'Europa...
Il 20 aprile, mercoledì, alla mattina, dopo aver letto sul Corriere il preoccupato articolo del regista e drammaturgo di origine ungherese Giorgio Pressburger sulla nuova costituzione del suo paese, ho deciso di scrivere una "considerazione" su questa vicenda, che è stata gravemente e colpevolmente sottovalutata dall'opinione pubblica europea. Quello stesso giorno, tornato a casa nel tardo pomeriggio, ho letto in rete la notizia che un finora sconosciuto deputato a servizio di B. aveva presentato un progetto di legge per cambiare l'art. 1 della nostra Costituzione.
Non mi interessa più di tanto entrare nel merito della proposta di questo tizio, visto quanto è peregrina e paradossale: una delle caratteristiche essenziali e peculiari del berlusconismo è sempre stato ed è ancora lo svilimento delle assemblee parlamentari, a cui ora, tutto d'un tratto, si vorrebbero sottomettere tutti gli altri organi istituzionali, comprese presidenza della Repubblica e corte costituzionale. Mi interessa invece intervenire sul metodo. Come era facile prevedere, il poveretto è stato subito scaricato e si è detto che si è trattato di un'iniziativa isolata e non concordata, eppure "c'è del metodo in questa follia". Così oggi nell'editoriale del Corriere, pur criticando la stupidità della proposta dell'ignaro deputato, Angelo Panebianco, con argomentazioni ben più intelligenti e sottili, trova l'occasione per dire che probabilmente il riferimento al lavoro nell'art. 1 andrebbe sostituito con un richiamo alla libertà. Ogni giorno viene lanciato un piccolo sasso e temo che presto ci troveremo davanti un cumulo tale da non poter più essere spostato. Per questo dobbiamo far capire al maggior numero possibile di persone che difendere la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza, non è né l'esercizio retorico e un po' barboso di vecchi professori né il totem ideologico dell'estrema sinistra, ma qualcosa che riguarda tutti noi.
Torno così al tema, alla "considerazione" che avevo in mente lo scorso mercoledì. L'Ungheria non è un paese lontano, ma sta nel cuore dell'Europa. Fa parte dell'Unione e della Nato, ha una storia lunghissima che si è spesso intrecciata anche con la storia italiana, ha una grande tradizione culturale, come ci ricorda con giustificato orgoglio Pressburger. Eppure lunedì prossimo - il giorno non è scelto a caso, perché si vuole dare all'evento un forte connotato religioso - proprio in Ungheria entrerà in vigore una nuova costituzione di stampo fortemente reazionario, che porta indietro in maniera drammatica le lancette della storia, ai regimi fascisti degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Ogni democratico europeo dovrebbe sentire questa ferita, tanto più che avviene in un paese che per tutto il Novecento ha conosciuto e sofferto la durezza del totalitarismo: tra le due guerre il regime fascista dell'ammiraglio Horty, alleato di Hitler e Mussolini, e dopo la seconda guerra mondiale il regime comunista, normalizzato, dopo la troppo breve esperienza riformista di Imre Nagy, dalle truppe sovietiche nel '56.
La nuova costituzione è stata scritta e votata dal partito di maggioranza Fidesz, di impronta nazionalista e conservatrice, e da un partito della destra cattolica, i cui deputati insieme raggiungono i due terzi del parlamento. I partiti di sinistra, all'opposizione, hanno abbandonato l'aula in segno di protesta.
Dalla nuova costituzione scompare il nome Repubblica Ungherese per essere sostituito con quello di Paese Magiaro, identificando la struttura politica con la nazione etnica. Viene esteso il diritto di voto agli ungheresi che vivono nei paesi confinanti, prefigurando una sorta di Grande Ungheria, come la immaginava Horthy, ma non si fa alcun riferimento alle minoranze che vivono all'interno dei confini, ebrei e rom su tutti. la nuova costituzione mescola elementi di forte nazionalismo, di fondamentalismo cattolico e di ultraliberismo. Alcuni esempi. Il nuovo stato viene posto sotto la protezione della corona di santo Stefano e il testo è infarcito di riferimenti all'orgoglio magiaro. E' inserito il concetto di tutela della vita fin dal concepimento, in vista della prossima abolizione della legge sull'aborto, e non ci sono elementi di riconoscimento né per le minoranze religiose né per le coppie omosessuali. In nome della famiglia, i genitori esprimeranno il loro voto, alle elezioni politiche, anche a nome dei figli minorenni, un unicum nelle democrazie occidentali. Viene stabilita un'unica aliquota fiscale, pari al 16%, abolendo il criterio di progressività contributiva. Il fiorino è dichiarata moneta nazionale nella costituzione, così da rendere di fatto impossibile il passaggio all'euro. Il lavoro non è considerato un diritto, ma un obbligo - qui l'analogia è con la costituzione sovietica - per soddisfare coloro che pensano che gli zingari non lavorano perché non vogliono lavorare e quindi debbano essere puniti.
Rispetto all'ordinamento istituzionale la costituzione voluta da Fidesz prevede un netto rafforzamento del potere esecutivo, a scapito di quello legislativo e soprattutto di quello giudiziario. Viene limitata la sfera di intervento della corte costituzionale, che non potrà più occuparsi di temi riguardanti l'economia e la previdenza; la magistratura viene sottoposta al controllo del governo. A scanso di equivoci, ricordo ancora una volta che sto parlando della nuova costituzione ungherese, e non dei desiderata di B., anche se gli obiettivi tendono a sovrapporsi. La politica economica è sottratta al controllo parlamentare attraverso l'istituzione di un organo, il "consiglio del bilancio", nominato dal governo; tra i poteri di questo nuovo organo c'è anche quello di proporre lo scioglimento del parlamento, se il debito pubblico dovesse superare il 50% del pil.
La costituzione infine istituzionalizza la temuta Nmhh, ossia l'agenzia preposta al controllo sull'informazione, creata alla fine dell'anno scorso. Il governo ungherese infatti ha deciso di cancellare le redazioni giornalistiche di televisioni e radio pubbliche, sostituendolo con un unico centro d'informazioni statale, sotto il controllo della Nmhh. Inoltre a questa agenzia è stato assegnato il compito di comminare multe pesantissime per i mezzi di informazione che pubblichino articoli considerati "lesivi dell'interesse pubblico" o "politacamente non equilibrati".
Solo alcuni anni fa l'Austria subì una serie di sanzioni - peraltro pienamente giustificate - da parte dell'Unione europea, per il fatto che il partito di Haider era entrato nella coalizione di governo, senza comunque esprimere il cancelliere. Nonostante le dichiarate simpatie naziste di quel partito, non ci fu alcun emendamento alla costituzione e quella forza politica si è fortemente ridimensionata, anche prima della morte - che non rimpiangiamo - del suo leader. La nuova legge costituzionale ungherese è passata tra l'indifferenza delle cancellerie europee e degli intellettuali pronti a mobilitarsi per cause di paesi più lontani, eppure l'Ungheria in questo primo semestre del 2011 detiene la presidenza dell'Unione. L'Ungheria da lunedì prossimo non potrà essere considerata una democrazia. Preoccupa che questo lento scivolamento verso un regime di stampo e stile fascista sia avvenuto attraverso il consenso della grande maggioranza del popolo ungherese; è qualcosa su cui tutti noi europei democratici dovremmo interrogarci, perché i nostri paesi non sono certo immuni da questi germi, come dimostrano non solo B. e la Lega - che hanno fatto lunghi passi in quella direzione - ma anche certi atteggiamenti di Sarkozy.
Cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto per arrivare a questo punto? Cosa possiamo ancora fare? Il fascismo, sotto ogni nome si presenti, cresce grazie all'indifferenza e viene sconfitto dalla partecipazione e dall'impegno.
Non mi interessa più di tanto entrare nel merito della proposta di questo tizio, visto quanto è peregrina e paradossale: una delle caratteristiche essenziali e peculiari del berlusconismo è sempre stato ed è ancora lo svilimento delle assemblee parlamentari, a cui ora, tutto d'un tratto, si vorrebbero sottomettere tutti gli altri organi istituzionali, comprese presidenza della Repubblica e corte costituzionale. Mi interessa invece intervenire sul metodo. Come era facile prevedere, il poveretto è stato subito scaricato e si è detto che si è trattato di un'iniziativa isolata e non concordata, eppure "c'è del metodo in questa follia". Così oggi nell'editoriale del Corriere, pur criticando la stupidità della proposta dell'ignaro deputato, Angelo Panebianco, con argomentazioni ben più intelligenti e sottili, trova l'occasione per dire che probabilmente il riferimento al lavoro nell'art. 1 andrebbe sostituito con un richiamo alla libertà. Ogni giorno viene lanciato un piccolo sasso e temo che presto ci troveremo davanti un cumulo tale da non poter più essere spostato. Per questo dobbiamo far capire al maggior numero possibile di persone che difendere la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza, non è né l'esercizio retorico e un po' barboso di vecchi professori né il totem ideologico dell'estrema sinistra, ma qualcosa che riguarda tutti noi.
Torno così al tema, alla "considerazione" che avevo in mente lo scorso mercoledì. L'Ungheria non è un paese lontano, ma sta nel cuore dell'Europa. Fa parte dell'Unione e della Nato, ha una storia lunghissima che si è spesso intrecciata anche con la storia italiana, ha una grande tradizione culturale, come ci ricorda con giustificato orgoglio Pressburger. Eppure lunedì prossimo - il giorno non è scelto a caso, perché si vuole dare all'evento un forte connotato religioso - proprio in Ungheria entrerà in vigore una nuova costituzione di stampo fortemente reazionario, che porta indietro in maniera drammatica le lancette della storia, ai regimi fascisti degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Ogni democratico europeo dovrebbe sentire questa ferita, tanto più che avviene in un paese che per tutto il Novecento ha conosciuto e sofferto la durezza del totalitarismo: tra le due guerre il regime fascista dell'ammiraglio Horty, alleato di Hitler e Mussolini, e dopo la seconda guerra mondiale il regime comunista, normalizzato, dopo la troppo breve esperienza riformista di Imre Nagy, dalle truppe sovietiche nel '56.
La nuova costituzione è stata scritta e votata dal partito di maggioranza Fidesz, di impronta nazionalista e conservatrice, e da un partito della destra cattolica, i cui deputati insieme raggiungono i due terzi del parlamento. I partiti di sinistra, all'opposizione, hanno abbandonato l'aula in segno di protesta.
Dalla nuova costituzione scompare il nome Repubblica Ungherese per essere sostituito con quello di Paese Magiaro, identificando la struttura politica con la nazione etnica. Viene esteso il diritto di voto agli ungheresi che vivono nei paesi confinanti, prefigurando una sorta di Grande Ungheria, come la immaginava Horthy, ma non si fa alcun riferimento alle minoranze che vivono all'interno dei confini, ebrei e rom su tutti. la nuova costituzione mescola elementi di forte nazionalismo, di fondamentalismo cattolico e di ultraliberismo. Alcuni esempi. Il nuovo stato viene posto sotto la protezione della corona di santo Stefano e il testo è infarcito di riferimenti all'orgoglio magiaro. E' inserito il concetto di tutela della vita fin dal concepimento, in vista della prossima abolizione della legge sull'aborto, e non ci sono elementi di riconoscimento né per le minoranze religiose né per le coppie omosessuali. In nome della famiglia, i genitori esprimeranno il loro voto, alle elezioni politiche, anche a nome dei figli minorenni, un unicum nelle democrazie occidentali. Viene stabilita un'unica aliquota fiscale, pari al 16%, abolendo il criterio di progressività contributiva. Il fiorino è dichiarata moneta nazionale nella costituzione, così da rendere di fatto impossibile il passaggio all'euro. Il lavoro non è considerato un diritto, ma un obbligo - qui l'analogia è con la costituzione sovietica - per soddisfare coloro che pensano che gli zingari non lavorano perché non vogliono lavorare e quindi debbano essere puniti.
Rispetto all'ordinamento istituzionale la costituzione voluta da Fidesz prevede un netto rafforzamento del potere esecutivo, a scapito di quello legislativo e soprattutto di quello giudiziario. Viene limitata la sfera di intervento della corte costituzionale, che non potrà più occuparsi di temi riguardanti l'economia e la previdenza; la magistratura viene sottoposta al controllo del governo. A scanso di equivoci, ricordo ancora una volta che sto parlando della nuova costituzione ungherese, e non dei desiderata di B., anche se gli obiettivi tendono a sovrapporsi. La politica economica è sottratta al controllo parlamentare attraverso l'istituzione di un organo, il "consiglio del bilancio", nominato dal governo; tra i poteri di questo nuovo organo c'è anche quello di proporre lo scioglimento del parlamento, se il debito pubblico dovesse superare il 50% del pil.
La costituzione infine istituzionalizza la temuta Nmhh, ossia l'agenzia preposta al controllo sull'informazione, creata alla fine dell'anno scorso. Il governo ungherese infatti ha deciso di cancellare le redazioni giornalistiche di televisioni e radio pubbliche, sostituendolo con un unico centro d'informazioni statale, sotto il controllo della Nmhh. Inoltre a questa agenzia è stato assegnato il compito di comminare multe pesantissime per i mezzi di informazione che pubblichino articoli considerati "lesivi dell'interesse pubblico" o "politacamente non equilibrati".
Solo alcuni anni fa l'Austria subì una serie di sanzioni - peraltro pienamente giustificate - da parte dell'Unione europea, per il fatto che il partito di Haider era entrato nella coalizione di governo, senza comunque esprimere il cancelliere. Nonostante le dichiarate simpatie naziste di quel partito, non ci fu alcun emendamento alla costituzione e quella forza politica si è fortemente ridimensionata, anche prima della morte - che non rimpiangiamo - del suo leader. La nuova legge costituzionale ungherese è passata tra l'indifferenza delle cancellerie europee e degli intellettuali pronti a mobilitarsi per cause di paesi più lontani, eppure l'Ungheria in questo primo semestre del 2011 detiene la presidenza dell'Unione. L'Ungheria da lunedì prossimo non potrà essere considerata una democrazia. Preoccupa che questo lento scivolamento verso un regime di stampo e stile fascista sia avvenuto attraverso il consenso della grande maggioranza del popolo ungherese; è qualcosa su cui tutti noi europei democratici dovremmo interrogarci, perché i nostri paesi non sono certo immuni da questi germi, come dimostrano non solo B. e la Lega - che hanno fatto lunghi passi in quella direzione - ma anche certi atteggiamenti di Sarkozy.
Cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto per arrivare a questo punto? Cosa possiamo ancora fare? Il fascismo, sotto ogni nome si presenti, cresce grazie all'indifferenza e viene sconfitto dalla partecipazione e dall'impegno.
mercoledì 20 aprile 2011
Considerazioni libere (222): a proposito di cacao...
In queste settimane gli organi di informazione hanno parlato spesso della Costa d'Avorio, un paese in genere dimenticato, come avviene per gran parte degli altri stati africani. L'attenzione rivolta dall'opinione pubblica internazionale alle rivolte nei paesi dell'Africa settentrionale e alla guerra in Libia fortunatamente si è spostata anche su questa ex colonia francese, affacciata sul golfo di Guinea, che conta circa 21,5 milioni di abitanti.
A leggere i giornali le vicende di questi ultimi mesi sono piuttosto semplici: il presidente Laurent Gbagbo, sconfitto alle elezioni dello scorso novembre dallo sfidante Alassane Ouattara, si è rifiutato di riconoscere il risultato del voto e ha scatenato una guerra civile, combattuta da entrambe le parti con feroce accanimento, a tratti con crudeltà; di fronte a questa situazione di stallo, durata alcuni mesi, le truppe francesi, con un'incerta copertura diplomatica delle Nazioni Unite, hanno di fatto deposto Gbagbo, prendendolo prigioniero e consegnandolo nelle mani di Ouattara, diventato a tutti gli effetti presidente. Pare che abbia vinto la democrazia, seppur sulle punte delle baionette dell'ex potenza coloniale.
La situazione è un po' meno lineare e merita che si faccia una riflessione sulla partecipazione di altri attori, che, pur avendo avuto un ruolo molto influente, sono rimasti sostanzialmente nell'ombra. Quando un paese occidentale interviene, come in Libia, in un paese ricco di petrolio, si immagina sempre un secondo fine, mentre quando il paese è povero di risorse energetiche pare all'improvviso che questi interessi svaniscano. Ma non c'è solo il petrolio. La Costa d'Avorio è il maggior produttore mondiale di fave di cacao: il 33% della produzione mondiale, pari circa a 1,3 milioni di tonnellate all'anno, viene da questo paese, per un giro d'affari di oltre 4 miliardi di dollari. In sostanza un terzo della cioccolata che mangiamo tutti i giorni è di origine ivoriana. Le protagoniste di questo enorme e redditizio mercato sono quattro aziende: l'olandese Cargill, la statunitense Adm, la svizzera Barry Callebaut e la britannica Armajore. Queste aziende comprano il cacao dai coltivatori ivoriani per rivenderlo a Cadbury, ossia Kraft, Nestlé e Unilever, i colossi multinazionali dell'industria alimentare.
Per il governo di Gbagbo, al potere dal 2000, i 150 milioni di dollari di tasse dirette ricavate dal cacao e le risorse, inconffessabili e inconfessate, ottenute da queste grande aziende, hanno rappresentato il fondamento essenziale della propria stabilità politica. Tra dicembre e gennaio Ouattara, forte dell'appoggio internazionale, in quanto vincitore legittimo delle elezioni, ha chiesto ai grandi grossisti di sospendere l'esportazione delle fave di cacao e ha minacciato che avrebbe tolto loro le licenze, una volta entrato nel palazzo presidenziale, se non avessero obbedito. I quattro grandi esportatori, in parte perché avevano forti legami con Gbagbo e pensavano potesse vincere e soprattutto perché non volevano perdere l'intero raccolto della stagione, hanno continuato a vendere il cacao ivoriano in Europa. E naturalmente le grandi multinazionali continuavano a comprarlo. Il 18 gennaio però è entrata in gioco l'Unione Europea che, minacciando sanzioni, ha impedito alle navi europee di attraccare nei porti ivoriani. Così sono rimaste bloccate in Africa 400mila tonnellate di fave di cacao, facendo schizzare il prezzo di questa materia prima nelle principali piazze finanziare internazionali. A questo punto la situazione era insostenibile, sia per le grandi aziende dell'industria alimentare sia per il trust degli esportatori, e questi ultimi hanno deciso di staccare la spina al regime ivoriano, di abbandonare Gbagbo e di cambiare velocemente cavallo. le forze di Ouattara, ferme da settimane, hanno cominciato a guadagnare terreno, conquistando le aree dove viene coltivato il cacao e occupando il porto di San Pedro, snodo del mercato e base delle grandi aziende del cacao. L'Onu ha sbrigativamente approvato una risoluzione contro Gbagbo, che ha permesso al governo francese di intervenire contro l'ormai ex presidente, che nel frattempo ha commesso un errore che si è rivelato fatale: ha minacciato la nazionalizzazione dell'intera filiera del mercato delle fave di cacao, sostituendosi ai grossisti traditori. Intendiamoci: che Gbagbo sia stato deposto è una soluzione positiva, perché la sua decisione di scatenare un conflitto civile ha causato migliaia di vittime, ma non illudiamoci che Ouattara cambi le cose in maniera radicale. E' facile immaginare quanto abbiano pesato sulle decisioni internazionali le azioni e le reazioni del trust del mercato del cacao, nonostante il loro ruolo non sia ai emerso, e quanto peseranno ancora.
Bisogna ricordare che, nonostante il mercato del cacao sia molto fiorente, i coltivatori delle fave di cacao sono molto poveri. La Costa d'Avorio è la seconda economia dell'Africa occidentale, ma nella classifica del Pil pro capite è agli ultimi posti. I grandi grossisti pagano ai contadini meno della metà di quanto incassano dalle industrie alimentari; poi ci sono le tasse "ufficiali", che i coltivatori devono pagare al governo e le tasse "non ufficiali", sotto forma di tangenti da pagare alla polizia per superare i tanti posti di blocco di cui sono disseminate le strade ivoriane dalle grandi foreste fino ai porti del sud. Grazie alla complicità dei vari governi, i grandi grossisti sono diventati di fatto i veri regolatori del mercato, decidono i prezzi di acquisto e determinano anche le quantità, in modo che è impossibile per i contadini pianificare i guadagni per gli anni successivi. I piccoli coltivatori, che hanno bisogno di soldi per comprare le medicine o per pagare le rette scolastiche dei figli, accettano le condizioni imposte dai grossisti, pur essendo consapevoli di essere sfruttati. Le aziende inoltre scaricano sui coltivatori le oscillazioni del mercato, senza fare alcun investimento nel paese. Sono state costituite una quarantina di cooperative di produttori, ma gli intermediari dei grandi grossisti battono palmo a palmo i villaggi per trattare con i singoli coltivatori, che sono ovviamente più deboli quando sono divisi. E' chiaro quindi che la situazione non cambierà molto, in Costa d'Avorio, chiunque sia il presidente, fino a quando rimarrà questo vero e proprio sfruttamento.
Ricordiamolo quando mangiamo il cioccolato e anche quando leggiamo i giornali.
A leggere i giornali le vicende di questi ultimi mesi sono piuttosto semplici: il presidente Laurent Gbagbo, sconfitto alle elezioni dello scorso novembre dallo sfidante Alassane Ouattara, si è rifiutato di riconoscere il risultato del voto e ha scatenato una guerra civile, combattuta da entrambe le parti con feroce accanimento, a tratti con crudeltà; di fronte a questa situazione di stallo, durata alcuni mesi, le truppe francesi, con un'incerta copertura diplomatica delle Nazioni Unite, hanno di fatto deposto Gbagbo, prendendolo prigioniero e consegnandolo nelle mani di Ouattara, diventato a tutti gli effetti presidente. Pare che abbia vinto la democrazia, seppur sulle punte delle baionette dell'ex potenza coloniale.
La situazione è un po' meno lineare e merita che si faccia una riflessione sulla partecipazione di altri attori, che, pur avendo avuto un ruolo molto influente, sono rimasti sostanzialmente nell'ombra. Quando un paese occidentale interviene, come in Libia, in un paese ricco di petrolio, si immagina sempre un secondo fine, mentre quando il paese è povero di risorse energetiche pare all'improvviso che questi interessi svaniscano. Ma non c'è solo il petrolio. La Costa d'Avorio è il maggior produttore mondiale di fave di cacao: il 33% della produzione mondiale, pari circa a 1,3 milioni di tonnellate all'anno, viene da questo paese, per un giro d'affari di oltre 4 miliardi di dollari. In sostanza un terzo della cioccolata che mangiamo tutti i giorni è di origine ivoriana. Le protagoniste di questo enorme e redditizio mercato sono quattro aziende: l'olandese Cargill, la statunitense Adm, la svizzera Barry Callebaut e la britannica Armajore. Queste aziende comprano il cacao dai coltivatori ivoriani per rivenderlo a Cadbury, ossia Kraft, Nestlé e Unilever, i colossi multinazionali dell'industria alimentare.
Per il governo di Gbagbo, al potere dal 2000, i 150 milioni di dollari di tasse dirette ricavate dal cacao e le risorse, inconffessabili e inconfessate, ottenute da queste grande aziende, hanno rappresentato il fondamento essenziale della propria stabilità politica. Tra dicembre e gennaio Ouattara, forte dell'appoggio internazionale, in quanto vincitore legittimo delle elezioni, ha chiesto ai grandi grossisti di sospendere l'esportazione delle fave di cacao e ha minacciato che avrebbe tolto loro le licenze, una volta entrato nel palazzo presidenziale, se non avessero obbedito. I quattro grandi esportatori, in parte perché avevano forti legami con Gbagbo e pensavano potesse vincere e soprattutto perché non volevano perdere l'intero raccolto della stagione, hanno continuato a vendere il cacao ivoriano in Europa. E naturalmente le grandi multinazionali continuavano a comprarlo. Il 18 gennaio però è entrata in gioco l'Unione Europea che, minacciando sanzioni, ha impedito alle navi europee di attraccare nei porti ivoriani. Così sono rimaste bloccate in Africa 400mila tonnellate di fave di cacao, facendo schizzare il prezzo di questa materia prima nelle principali piazze finanziare internazionali. A questo punto la situazione era insostenibile, sia per le grandi aziende dell'industria alimentare sia per il trust degli esportatori, e questi ultimi hanno deciso di staccare la spina al regime ivoriano, di abbandonare Gbagbo e di cambiare velocemente cavallo. le forze di Ouattara, ferme da settimane, hanno cominciato a guadagnare terreno, conquistando le aree dove viene coltivato il cacao e occupando il porto di San Pedro, snodo del mercato e base delle grandi aziende del cacao. L'Onu ha sbrigativamente approvato una risoluzione contro Gbagbo, che ha permesso al governo francese di intervenire contro l'ormai ex presidente, che nel frattempo ha commesso un errore che si è rivelato fatale: ha minacciato la nazionalizzazione dell'intera filiera del mercato delle fave di cacao, sostituendosi ai grossisti traditori. Intendiamoci: che Gbagbo sia stato deposto è una soluzione positiva, perché la sua decisione di scatenare un conflitto civile ha causato migliaia di vittime, ma non illudiamoci che Ouattara cambi le cose in maniera radicale. E' facile immaginare quanto abbiano pesato sulle decisioni internazionali le azioni e le reazioni del trust del mercato del cacao, nonostante il loro ruolo non sia ai emerso, e quanto peseranno ancora.
Bisogna ricordare che, nonostante il mercato del cacao sia molto fiorente, i coltivatori delle fave di cacao sono molto poveri. La Costa d'Avorio è la seconda economia dell'Africa occidentale, ma nella classifica del Pil pro capite è agli ultimi posti. I grandi grossisti pagano ai contadini meno della metà di quanto incassano dalle industrie alimentari; poi ci sono le tasse "ufficiali", che i coltivatori devono pagare al governo e le tasse "non ufficiali", sotto forma di tangenti da pagare alla polizia per superare i tanti posti di blocco di cui sono disseminate le strade ivoriane dalle grandi foreste fino ai porti del sud. Grazie alla complicità dei vari governi, i grandi grossisti sono diventati di fatto i veri regolatori del mercato, decidono i prezzi di acquisto e determinano anche le quantità, in modo che è impossibile per i contadini pianificare i guadagni per gli anni successivi. I piccoli coltivatori, che hanno bisogno di soldi per comprare le medicine o per pagare le rette scolastiche dei figli, accettano le condizioni imposte dai grossisti, pur essendo consapevoli di essere sfruttati. Le aziende inoltre scaricano sui coltivatori le oscillazioni del mercato, senza fare alcun investimento nel paese. Sono state costituite una quarantina di cooperative di produttori, ma gli intermediari dei grandi grossisti battono palmo a palmo i villaggi per trattare con i singoli coltivatori, che sono ovviamente più deboli quando sono divisi. E' chiaro quindi che la situazione non cambierà molto, in Costa d'Avorio, chiunque sia il presidente, fino a quando rimarrà questo vero e proprio sfruttamento.
Ricordiamolo quando mangiamo il cioccolato e anche quando leggiamo i giornali.
lunedì 18 aprile 2011
"Le tre versioni di Giuda" di Jorge Luis Borges
Nell'Asia Minore o ad Alessandria, nel secolo II della nostra fede, quando Basilide annunciava che il cosmo è una temeraria o malvagia improvvisazione di angeli imperfetti, Nils Runeberg avrebbe diretto, con singolare passione intellettuale, una delle conventicole gnostiche. Dante gli avrebbe destinato, probabilmente, un sepolcro di fuoco; il suo nome arricchirebbe il catalogo degli eresiarchi minori, tra Satornice e Carpocrate; qualche frammento delle sue prediche, ornato d'ingiurie, durerebbe nell'apocrifo Liber adversus omnes haereses, o sarebbe perito quando l'incendio d'una biblioteca monastica divorò l'ultimo esemplare del Syntagma. Invece, Dio gli assegnò il secolo XX e la città universitaria di Lund. Qui, nel 1904, pubblicò la prima edizione di Kristus och Judas; e, nel 1909, la sua opera capitale Den hemlige Frälsaren (tradotta in tedesco da Emil Schering: Der heimliche Heiland, 1912).
Prima di tentare un esame di questi lavori, è necessario ripetere che Nils Runeberg, membro dell'Unione Evangelica Nazionale, era profondamente religioso. In un cenacolo di Parigi o anche di Buenos Aires, un letterato potrebbe benissimo riscoprire le tesi di Runeberg; queste tesi, così proposte in un cenacolo, sarebbero leggeri e inutili esercizi della negligenza e della bestemmia. Per Runeberg, furono la chiave che decifra un mistero centrale della teologia; furono materia di meditazione e di analisi, di controversia storica e filologica, di orgoglio, di giubilo e di terrore. Giustificarono e scompigliarono la sua vita. Chi leggerà quest'articolo, consideri che in esso non riferisco, di Runeberg, che le conclusioni, e non la dialettica e le prove. Alcuni osserveranno che le conclusioni precedettero senza dubbio, le prove. Ma chi si rassegnerebbe a cercar prove di cosa che già non creda, e di cui non gl'importi?
La prima edizione di Kristus och Judas porta questa categorica epigrafe, il cui senso, anni più tardi, sarebbe stato mostruosamente allargato dallo stesso Nils Runeberg: "Non una sola cosa, tutte le cose che la tradizione attribuisce a Giuda Iscariota sono false" (De Quincey, 1857). Alla maniera d'un suo predecessore tedesco, De Quincey stimò che Giuda avesse consegnato Gesù Cristo per forzarlo a dichiarare la sua divinità e ad accendere una vasta ribellione contro il giogo di Roma; Runeberg suggerisce una giustificazione d'indole metafisica. Abilmente, comincia col sottolineare la superfluità dell'atto di Giuda. Osserva (come Robertson) che per identificare un maestro che quotidianamente predicava nella sinagoga e che faceva miracoli dinanzi a migliaia di persone, non era necessario il tradimento d'un apostolo. Ciò appunto, tuttavia, avvenne. Supporre un errore nella Scrittura è intollerabile; non meno intollerabile ammettere un fatto casuale nel più prezioso avvenimento della storia del mondo. Ergo il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell'economia della redenzione. Incarnandosi - prosegue Runeberg - il Verbo passò dall'ubiquità allo spazio, dall'eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest'uomo. Giuda, unico tra gli apostoli, intuì la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù. Il Verbo s'era abbassato alla condizione di mortale; Giuda, discepolo del Verbo, poteva abbassarsi alla condizione di delatore (l'infamia peggiore tra tutte le infamie) e d'ospite del fuoco che non s'estingue. L'ordine inferiore è uno specchio dell'ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili; Giuda rispecchiava in qualche modo Gesù. Di qui i trenta denari e il bacio; di qui la morte volontaria, per meritare ancor più la Riprovazione. Cosi spiegò Nils Runeberg l'enigma di Giuda.
I teologi di tutte le confessioni lo sconfessarono. Lars Peter Engström l'accusò di ignorare, o di negligere, l'unione ipostatica; Axel Borelius, di rinnovare l'eresia degli gnostici, che negarono l'umanità di Gesù; l'inflessibile vescovo di Lund, di contraddire al terzo versetto del capitolo XXII del vangelo di san Luca.
Questi vari anatemi influirono su Runeberg, che parzialmente riscrisse il libro riprovato e modificò la propria dottrina. Abbandonò ai suoi avversari il terreno ideologico e propose oblique ragioni di ordine morale. Ammise che Gesù, che disponeva delle considerevoli risorse che può offrire l'Onnipotenza, non aveva bisogno d'un uomo per redimere tutti gli uomini. Confutò, poi, quanti affermano che nulla sappiamo dell'inesplicabile traditore; sappiamo, disse, che fu uno degli apostoli, uno di quelli che furono scelti per annunciare il regno dei cieli, per risanare infermi, per mondare lebbrosi, per risuscitare morti e per cacciare demoni (Matteo X 7-8; Luca X 1). Un uomo cui il Redentore ha così distinto merita che noi diamo dei suoi atti l'interpretazione migliore. Ascrivere il suo delitto alla cupidigia (come hanno fatto alcuni, sull'autorità di Giovanni XII 6) è rassegnarsi al movente più turpe. Nils Runeberg propone il movente contrario: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L'asceta, per la maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece la stessa cosa con lo spirito. Rinunciò all'onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. Premeditò con lucidità terribile le sue colpe. L'adulterio partecipa della tenerezza e dell'abnegazione; l'omicidio, del coraggio; le profanazioni e la bestemmia, d'un certo fulgore satanico. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l'abuso di fiducia (Giovanni XII 6) e la delazione. Agì con gigantesca umiltà; si stimò indegno d'essere buono. Paolo ha scritto: "Chi si gloria, si glorii nel Signore" (Ai Corinti I 31); Giuda cercò l'Inferno, perché la felicita del Signore gli bastava. Pensò che la felicità, come il bene, è un attributo divino, cui non debbono usurpare gli uomini.
Molti hanno scoperto, post factum, che le giustificabili premesse di Runeberg già prefigurano l'assurdità della conclusione e che Den hemlige Frälsaren è una semplice perversione o esasperazione di Kristus och Judas. Verso la fine del 1907 Runeberg terminò e rivide il testo manoscritto; quasi due anni passarono senza che lo desse alle stampe. Nell'ottobre 1909 il libro uscì con una prefazione (tepida fino all'enigmatico) dell'ebraista danese Erik Erfjord e con questa perfida epigrafe: "Nel mondo era, e il mondo fu fatto per lui, e il mondo non lo conobbe" (Giovanni I 10). Il tema generale non è complesso, ma la conclusione è mostruosa. Dio, argomenta Runeberg, s'abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciò che soffrì all'agonia d'un pomeriggio sulla croce, è bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. Kemnitz ammette che il Redentore poté sentire fatica, freddo, turbamento, fame e sete; è anche lecito ammettere che poté peccare e perdersi. Il famoso passo: "Salirà come radice da terra arida; non v'è in lui forma, ne bellezza alcuna... Disprezzato come l'ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni" (Isaia LIII 2-3) è per molti una profezia del crocifisso, nell'ora della sua morte; per alcuni (per Hans Lassen Martensen, ad esempio) una confutazione della bellezza che per volgare consenso s'attribuisce a Cristo; per Runeberg, la puntuale profezia non d'un momento solo, ma di tutto l'atroce avvenire, nel tempo e nell'eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all'infamia, uomo fino alla dannazione e all'abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.
Invano le librerie di Stoccolma e di Lund proposero questa rivelazione. Gli increduli la giudicarono, a priori, un insipido e laborioso gioco teologico; i teologi la disdegnarono. Runeberg intuì in questa indifferenza ecumenica una quasi miracolosa conferma. Dio ordinava quest'indifferenza; Dio non voleva che si propalasse sulla terra il suo terribile segreto. Runeberg comprese che l'ora non era giunta. Sentì che stavano convergendo su di lui antiche maledizioni divine; ricordò Elia e Mosè, che sulla montagna si coprirono il volto per non vedere Dio: Isaia, che atterrì quando i suoi occhi videro Colui la cui gloria riempie la terra; Saul, che restò cieco sulla via di Damasco; il rabbino Simeon ben Azal, che vide il Paradiso e morì; il famoso mago Giovanni da Viterbo, che impazzì quando poté vedere la Trinità; i Midrashim, che abominano gli empi che pronunciano il Shem Hamephorash, il Segreto Nome di Dio. Non era egli stesso, forse, colpevole di questo crimine oscuro? Non sarebbe questa la bestemmia contro lo Spirito, quella che non sarà perdonata (Matteo XII 31)? Valerio Sorano mori per aver divulgato l'occulto nome di Roma; quale infinito castigo sarebbe stato il suo, per aver scoperto e divulgato l'orrendo nome di Dio?
Ebbro d'insonnia e di vertiginosa dialettica, Nils Runeberg errò per le vie di Malmö, pregando a volte che gli fosse concessa la grazia di dividere l'Inferno col Redentore.
Morì della rottura d'un aneurisma, il primo marzo 1912. Gli eresiologi, forse, ne faranno cenno: aggiunse al concetto di Figlio, che sembrava esaurito, le complessità del male e della sventura.
Prima di tentare un esame di questi lavori, è necessario ripetere che Nils Runeberg, membro dell'Unione Evangelica Nazionale, era profondamente religioso. In un cenacolo di Parigi o anche di Buenos Aires, un letterato potrebbe benissimo riscoprire le tesi di Runeberg; queste tesi, così proposte in un cenacolo, sarebbero leggeri e inutili esercizi della negligenza e della bestemmia. Per Runeberg, furono la chiave che decifra un mistero centrale della teologia; furono materia di meditazione e di analisi, di controversia storica e filologica, di orgoglio, di giubilo e di terrore. Giustificarono e scompigliarono la sua vita. Chi leggerà quest'articolo, consideri che in esso non riferisco, di Runeberg, che le conclusioni, e non la dialettica e le prove. Alcuni osserveranno che le conclusioni precedettero senza dubbio, le prove. Ma chi si rassegnerebbe a cercar prove di cosa che già non creda, e di cui non gl'importi?
La prima edizione di Kristus och Judas porta questa categorica epigrafe, il cui senso, anni più tardi, sarebbe stato mostruosamente allargato dallo stesso Nils Runeberg: "Non una sola cosa, tutte le cose che la tradizione attribuisce a Giuda Iscariota sono false" (De Quincey, 1857). Alla maniera d'un suo predecessore tedesco, De Quincey stimò che Giuda avesse consegnato Gesù Cristo per forzarlo a dichiarare la sua divinità e ad accendere una vasta ribellione contro il giogo di Roma; Runeberg suggerisce una giustificazione d'indole metafisica. Abilmente, comincia col sottolineare la superfluità dell'atto di Giuda. Osserva (come Robertson) che per identificare un maestro che quotidianamente predicava nella sinagoga e che faceva miracoli dinanzi a migliaia di persone, non era necessario il tradimento d'un apostolo. Ciò appunto, tuttavia, avvenne. Supporre un errore nella Scrittura è intollerabile; non meno intollerabile ammettere un fatto casuale nel più prezioso avvenimento della storia del mondo. Ergo il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell'economia della redenzione. Incarnandosi - prosegue Runeberg - il Verbo passò dall'ubiquità allo spazio, dall'eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest'uomo. Giuda, unico tra gli apostoli, intuì la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù. Il Verbo s'era abbassato alla condizione di mortale; Giuda, discepolo del Verbo, poteva abbassarsi alla condizione di delatore (l'infamia peggiore tra tutte le infamie) e d'ospite del fuoco che non s'estingue. L'ordine inferiore è uno specchio dell'ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili; Giuda rispecchiava in qualche modo Gesù. Di qui i trenta denari e il bacio; di qui la morte volontaria, per meritare ancor più la Riprovazione. Cosi spiegò Nils Runeberg l'enigma di Giuda.
I teologi di tutte le confessioni lo sconfessarono. Lars Peter Engström l'accusò di ignorare, o di negligere, l'unione ipostatica; Axel Borelius, di rinnovare l'eresia degli gnostici, che negarono l'umanità di Gesù; l'inflessibile vescovo di Lund, di contraddire al terzo versetto del capitolo XXII del vangelo di san Luca.
Questi vari anatemi influirono su Runeberg, che parzialmente riscrisse il libro riprovato e modificò la propria dottrina. Abbandonò ai suoi avversari il terreno ideologico e propose oblique ragioni di ordine morale. Ammise che Gesù, che disponeva delle considerevoli risorse che può offrire l'Onnipotenza, non aveva bisogno d'un uomo per redimere tutti gli uomini. Confutò, poi, quanti affermano che nulla sappiamo dell'inesplicabile traditore; sappiamo, disse, che fu uno degli apostoli, uno di quelli che furono scelti per annunciare il regno dei cieli, per risanare infermi, per mondare lebbrosi, per risuscitare morti e per cacciare demoni (Matteo X 7-8; Luca X 1). Un uomo cui il Redentore ha così distinto merita che noi diamo dei suoi atti l'interpretazione migliore. Ascrivere il suo delitto alla cupidigia (come hanno fatto alcuni, sull'autorità di Giovanni XII 6) è rassegnarsi al movente più turpe. Nils Runeberg propone il movente contrario: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L'asceta, per la maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece la stessa cosa con lo spirito. Rinunciò all'onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. Premeditò con lucidità terribile le sue colpe. L'adulterio partecipa della tenerezza e dell'abnegazione; l'omicidio, del coraggio; le profanazioni e la bestemmia, d'un certo fulgore satanico. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l'abuso di fiducia (Giovanni XII 6) e la delazione. Agì con gigantesca umiltà; si stimò indegno d'essere buono. Paolo ha scritto: "Chi si gloria, si glorii nel Signore" (Ai Corinti I 31); Giuda cercò l'Inferno, perché la felicita del Signore gli bastava. Pensò che la felicità, come il bene, è un attributo divino, cui non debbono usurpare gli uomini.
Molti hanno scoperto, post factum, che le giustificabili premesse di Runeberg già prefigurano l'assurdità della conclusione e che Den hemlige Frälsaren è una semplice perversione o esasperazione di Kristus och Judas. Verso la fine del 1907 Runeberg terminò e rivide il testo manoscritto; quasi due anni passarono senza che lo desse alle stampe. Nell'ottobre 1909 il libro uscì con una prefazione (tepida fino all'enigmatico) dell'ebraista danese Erik Erfjord e con questa perfida epigrafe: "Nel mondo era, e il mondo fu fatto per lui, e il mondo non lo conobbe" (Giovanni I 10). Il tema generale non è complesso, ma la conclusione è mostruosa. Dio, argomenta Runeberg, s'abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciò che soffrì all'agonia d'un pomeriggio sulla croce, è bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. Kemnitz ammette che il Redentore poté sentire fatica, freddo, turbamento, fame e sete; è anche lecito ammettere che poté peccare e perdersi. Il famoso passo: "Salirà come radice da terra arida; non v'è in lui forma, ne bellezza alcuna... Disprezzato come l'ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni" (Isaia LIII 2-3) è per molti una profezia del crocifisso, nell'ora della sua morte; per alcuni (per Hans Lassen Martensen, ad esempio) una confutazione della bellezza che per volgare consenso s'attribuisce a Cristo; per Runeberg, la puntuale profezia non d'un momento solo, ma di tutto l'atroce avvenire, nel tempo e nell'eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all'infamia, uomo fino alla dannazione e all'abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.
Invano le librerie di Stoccolma e di Lund proposero questa rivelazione. Gli increduli la giudicarono, a priori, un insipido e laborioso gioco teologico; i teologi la disdegnarono. Runeberg intuì in questa indifferenza ecumenica una quasi miracolosa conferma. Dio ordinava quest'indifferenza; Dio non voleva che si propalasse sulla terra il suo terribile segreto. Runeberg comprese che l'ora non era giunta. Sentì che stavano convergendo su di lui antiche maledizioni divine; ricordò Elia e Mosè, che sulla montagna si coprirono il volto per non vedere Dio: Isaia, che atterrì quando i suoi occhi videro Colui la cui gloria riempie la terra; Saul, che restò cieco sulla via di Damasco; il rabbino Simeon ben Azal, che vide il Paradiso e morì; il famoso mago Giovanni da Viterbo, che impazzì quando poté vedere la Trinità; i Midrashim, che abominano gli empi che pronunciano il Shem Hamephorash, il Segreto Nome di Dio. Non era egli stesso, forse, colpevole di questo crimine oscuro? Non sarebbe questa la bestemmia contro lo Spirito, quella che non sarà perdonata (Matteo XII 31)? Valerio Sorano mori per aver divulgato l'occulto nome di Roma; quale infinito castigo sarebbe stato il suo, per aver scoperto e divulgato l'orrendo nome di Dio?
Ebbro d'insonnia e di vertiginosa dialettica, Nils Runeberg errò per le vie di Malmö, pregando a volte che gli fosse concessa la grazia di dividere l'Inferno col Redentore.
Morì della rottura d'un aneurisma, il primo marzo 1912. Gli eresiologi, forse, ne faranno cenno: aggiunse al concetto di Figlio, che sembrava esaurito, le complessità del male e della sventura.
sabato 16 aprile 2011
"È responsabilità" di Grace Paley
È responsabilità della società accettare che il poeta sia un poeta
È responsabilità del poeta essere una donna
È responsabilità del poeta stare agli angoli delle strade
consegnando poesie e volantini scritti mirabilmente
o volantini dalla retorica esasperata
inguardabili
È responsabilità del poeta essere pigro andare in giro a vaticinare
È responsabilità del poeta non pagare tasse destinate alla guerra
È responsabilità del poeta entrare e uscire da torri
d’avorio e bilocali in periferia
e campi di granoturco e accampamenti militari
È responsabilità del poeta maschio essere una donna
È responsabilità del poeta femmina essere una donna
È responsabilità di chi è poeta affermare la verità contro il potere come dicono
i Quaccheri
È responsabilità di chi è poeta imparare la verità da chi non ha potere
È responsabilità del poeta dire molte volte: non c’è
libertà senza giustizia e questo significa giustizia
economica e giustizia degli affetti
È responsabilità del poeta cantarlo in tutte le chiavi
originali e tradizionali in cui si cantano e dicono le poesie
È responsabilità del poeta ascoltare le chiacchiere e rimetterle
in giro come i cantastorie che travasano il racconto della vita
Non c’è libertà senza paura e coraggio. Non c’è
libertà se non continuano
la terra e l’aria e l’acqua e se non continuano
anche i bambini
È responsabilità del poeta essere una donna sorvegliare
il mondo e gridare come Cassandra ma stavolta
essere ascoltata.
"Mito" di Muriel Rukeyser
Molto tempo dopo Edipo, vecchio e accecato, camminava per le
strade. Sentì un odore familiare. Era
la Sfinge. Edipo disse, "Ho una domanda.
Perché non ho riconosciuto mia madre?" "La tua risposta
era sbagliata", disse la Sfinge. "Ma era quella che ha reso
tutto possibile", disse Edipo. "No", lei disse.
"Quando ho chiesto: che cos’è che cammina a quattro zampe la mattina,
due il giorno, e tre la sera, hai risposto:
l’Uomo. Non hai parlato della donna."
"Quando si dice Uomo", disse Edipo, "sono comprese anche
le donne. Lo sanno tutti."
Lei disse, "È quello che pensi tu."
Considerazioni libere (221): a proposito degli occhi delle donne...
Raccontano molto gli occhi delle donne. La "considerazione" di oggi parte proprio dagli occhi delle donne, da quegli occhi che rischiano di diventare oggetto di una contesa ideologica, in cui le donne non c'entrano proprio nulla.
Alcuni giorni fa in Francia è entrata in vigore la legge, fortemente voluta dal presidente Sarkozy, che vieta alle donne di religione musulmana di indossare vesti e veli che, lasciando vedere soltanto gli occhi, impediscono il riconoscimento della persona. Per inciso, quando ancora Sarkozy era un "amico", questa legge fu osannata dai quotidiani della destra clerical-legofascista, come Il Giornale, Libero e Il Foglio. Al di là delle urla della Santanché e di Ferrara, si tratta di un principio elementare, di convivenza democratica: tutti devono rendere conoscibili le proprie generalità in un luogo pubblico. Si tratta quindi di una legge giusta, anche se motivata in modo sbagliato. Infatti il presidente francese, nel tentativo - che per il momento, visti i sondaggi, sembra vano - di togliere voti al "Front national" della famiglia Le Pen e di assecondare la parte più retriva e conservatrice della società transalpina, ha puntato tutto sulla paura del diverso, sulla difesa dell'identità nazionale e dei valori cristiani, minacciati dall'islamismo, insomma su quello spirito di crociata che qui in Italia purtroppo conosciamo fin troppo bene. Il problema non è quello che sotto il burqa si potrebbe - condizionale, tempo della possibilità - nascondere una terrorista, ma quello che sotto quella veste tradizionale c'è - presente indicativo, tempo della realtà - una donna senza diritti. Ma questo interessa meno ai buoni e timorati padri di famiglia francesi e italiani. E figurarsi se i diritti delle donne possono interessare alla Santanché.
Naturalmente, con l'entrata in vigore della legge, Parigi si è riempita di manifestanti che hanno protestato contro una legge che hanno detto, di volta in volta, che è illiberale, che nega i diritti delle minoranze, che attenta alla libertà religiosa. Nei cortei parigini si sono distinte, per impeto e violenza degli slogan, le francesi convertite all'islam - bisogna sempre aver paura degli apostati, anche in politica - la cui esperienza, per quanto possa essere rispettabile sul piano intellettuale e spirituale, è ben lontana da quella delle donne che sono invece costrette a portare il velo integrale.
La cosa importante è non lasciare questa discussione alla mercé di due minoranze - io mi auguro che siano ancora tali - in una logica di contrapposizione simbolica, che ha poco da spartire con il sentimento religioso e che non si cura assolutamente di quello che pensano le donne. Non lasciamo che siano questi estremismi a decidere sul destino degli occhi delle donne. Nessuno, né tra coloro che alimentano la paura del diverso o, per restare in Italia, i teorici del "fora di bal", né tra i libertari senza se e senza ma, ha mai guardato negli occhi quelle donne, cercando di capire cosa pensano, come immaginano il futuro per sé, per i propri figli e per le generazioni che verranno molti anni dopo di loro.
Affinché queste minoranze non prevalgano, occorre che le maggioranze di buon senso, sia nei paesi cosiddetti occidentali sia in quelli cosiddetti islamici, facciano sentire con forza la propria voce. Coloro che si rendono conto che la nostra società sarà inevitabilmente multiculturale - o meglio interculturale, secondo la distinzione di cui ho parlato nella "considerazione" nr. 207 - devono denunciare senza riserve sia lo spirito di crociata sia le conseguenze di una pratica, quella di portare il velo appunto, che, vietando a una donna di mostrare la propria identità, viola la dignità della persona, prima ancora di quella della donna, negando ogni minimo criterio di civile convivenza. I musulmani che non si riconoscono nell'integralismo - verrà un Vaticano secondo anche per l'islam prima o poi - i laici arabi e mediorientali, sia che vivano ancora nei propri paesi sia che vivano in Europa, devono difendere la libertà e la dignità delle donne, di tutte le donne, orientali ed europee. E soprattutto di questo processo devono essere protagoniste le donne - loro sì sono maggioranza - per definire e sostenere insieme i propri diritti. E noi uomini dobbiamo essere al loro fianco.
Chi mi legge con un po' di costanza sa che in genere non sono ottimista, oggi vorrei fare un'eccezione. Ogni giorno, in treno, mentre vado al lavoro, mi capita di vedere ragazze e ragazzi che vanno a scuola. Tra di loro ci sono diversi stranieri. Indipendentemente dal nome che portano, dal luogo in cui sono nati, dal colore della loro pelle, sono davvero tutti uguali, forse perfino troppo omologati, visto che hanno identici modelli, gli stessi calciatori, le stesse popstar, le stesse stelle e stelline. Il cammino è lungo e avrà anche dei momenti drammatici - non possiamo dimenticare il tragico destino di Hina - ma il futuro è il loro e loro hanno già imparato, molto più di noi, ad avere compagni che si chiamano Mohamed e compagne che si chiamano Fatìma. E Fatìma non ha nessuna voglia di portare il velo e di nascondere il suo bel viso.
p.s.
non possiamo dimenticare che questa settimana gli occhi di due donne si sono chiusi per sempre, tentando di raggiungere l'Italia; a queste donne dovremmo pensare, ogni giorno...
p.s. 2
ho letto questa mattina una bella storia sul Corriere della sera, in cui le "maggioranze" di cui ho parlato prima hanno salvato una ragazza...
Alcuni giorni fa in Francia è entrata in vigore la legge, fortemente voluta dal presidente Sarkozy, che vieta alle donne di religione musulmana di indossare vesti e veli che, lasciando vedere soltanto gli occhi, impediscono il riconoscimento della persona. Per inciso, quando ancora Sarkozy era un "amico", questa legge fu osannata dai quotidiani della destra clerical-legofascista, come Il Giornale, Libero e Il Foglio. Al di là delle urla della Santanché e di Ferrara, si tratta di un principio elementare, di convivenza democratica: tutti devono rendere conoscibili le proprie generalità in un luogo pubblico. Si tratta quindi di una legge giusta, anche se motivata in modo sbagliato. Infatti il presidente francese, nel tentativo - che per il momento, visti i sondaggi, sembra vano - di togliere voti al "Front national" della famiglia Le Pen e di assecondare la parte più retriva e conservatrice della società transalpina, ha puntato tutto sulla paura del diverso, sulla difesa dell'identità nazionale e dei valori cristiani, minacciati dall'islamismo, insomma su quello spirito di crociata che qui in Italia purtroppo conosciamo fin troppo bene. Il problema non è quello che sotto il burqa si potrebbe - condizionale, tempo della possibilità - nascondere una terrorista, ma quello che sotto quella veste tradizionale c'è - presente indicativo, tempo della realtà - una donna senza diritti. Ma questo interessa meno ai buoni e timorati padri di famiglia francesi e italiani. E figurarsi se i diritti delle donne possono interessare alla Santanché.
Naturalmente, con l'entrata in vigore della legge, Parigi si è riempita di manifestanti che hanno protestato contro una legge che hanno detto, di volta in volta, che è illiberale, che nega i diritti delle minoranze, che attenta alla libertà religiosa. Nei cortei parigini si sono distinte, per impeto e violenza degli slogan, le francesi convertite all'islam - bisogna sempre aver paura degli apostati, anche in politica - la cui esperienza, per quanto possa essere rispettabile sul piano intellettuale e spirituale, è ben lontana da quella delle donne che sono invece costrette a portare il velo integrale.
La cosa importante è non lasciare questa discussione alla mercé di due minoranze - io mi auguro che siano ancora tali - in una logica di contrapposizione simbolica, che ha poco da spartire con il sentimento religioso e che non si cura assolutamente di quello che pensano le donne. Non lasciamo che siano questi estremismi a decidere sul destino degli occhi delle donne. Nessuno, né tra coloro che alimentano la paura del diverso o, per restare in Italia, i teorici del "fora di bal", né tra i libertari senza se e senza ma, ha mai guardato negli occhi quelle donne, cercando di capire cosa pensano, come immaginano il futuro per sé, per i propri figli e per le generazioni che verranno molti anni dopo di loro.
Affinché queste minoranze non prevalgano, occorre che le maggioranze di buon senso, sia nei paesi cosiddetti occidentali sia in quelli cosiddetti islamici, facciano sentire con forza la propria voce. Coloro che si rendono conto che la nostra società sarà inevitabilmente multiculturale - o meglio interculturale, secondo la distinzione di cui ho parlato nella "considerazione" nr. 207 - devono denunciare senza riserve sia lo spirito di crociata sia le conseguenze di una pratica, quella di portare il velo appunto, che, vietando a una donna di mostrare la propria identità, viola la dignità della persona, prima ancora di quella della donna, negando ogni minimo criterio di civile convivenza. I musulmani che non si riconoscono nell'integralismo - verrà un Vaticano secondo anche per l'islam prima o poi - i laici arabi e mediorientali, sia che vivano ancora nei propri paesi sia che vivano in Europa, devono difendere la libertà e la dignità delle donne, di tutte le donne, orientali ed europee. E soprattutto di questo processo devono essere protagoniste le donne - loro sì sono maggioranza - per definire e sostenere insieme i propri diritti. E noi uomini dobbiamo essere al loro fianco.
Chi mi legge con un po' di costanza sa che in genere non sono ottimista, oggi vorrei fare un'eccezione. Ogni giorno, in treno, mentre vado al lavoro, mi capita di vedere ragazze e ragazzi che vanno a scuola. Tra di loro ci sono diversi stranieri. Indipendentemente dal nome che portano, dal luogo in cui sono nati, dal colore della loro pelle, sono davvero tutti uguali, forse perfino troppo omologati, visto che hanno identici modelli, gli stessi calciatori, le stesse popstar, le stesse stelle e stelline. Il cammino è lungo e avrà anche dei momenti drammatici - non possiamo dimenticare il tragico destino di Hina - ma il futuro è il loro e loro hanno già imparato, molto più di noi, ad avere compagni che si chiamano Mohamed e compagne che si chiamano Fatìma. E Fatìma non ha nessuna voglia di portare il velo e di nascondere il suo bel viso.
p.s.
non possiamo dimenticare che questa settimana gli occhi di due donne si sono chiusi per sempre, tentando di raggiungere l'Italia; a queste donne dovremmo pensare, ogni giorno...
p.s. 2
ho letto questa mattina una bella storia sul Corriere della sera, in cui le "maggioranze" di cui ho parlato prima hanno salvato una ragazza...
mercoledì 13 aprile 2011
"La colpa è di uno" di Mario Benedetti
Forse è stata un’ecatombe di speranze
un crollo in qualche modo previsto
ah, però la mia tristezza ha avuto solo un senso
tutte le mie intuizioni si sono affacciate
per vedermi soffrire
e di sicuro m’hanno visto
fin qui avevo fatto e rifatto
i miei tragitti con te
fin qui avevo puntato
a inventare la verità
però tu hai trovato la maniera
una maniera così tenera
e insieme implacabile
di dare per spacciato il mio amore
con un solo auspicio l’hai tolto
dai sobborghi della tua vita possibile
l’hai avvolto in nostalgie
l’hai portato per strade e strade
e lentamente
senza che l’aria notturna lo avvertisse
semplicemente l’hai lasciato lì
da solo con la sua fortuna
che non è molta
credo che tu abbia ragione
la colpa è di uno quando non fa innamorare
e non dei pretesti
né del tempo è da tanto tantissimo
che non mi confrontavo
come stanotte con lo specchio
ed è stato implacabile come te
ma non è stato tenero
ora sono solo
francamente solo
si fa sempre un po’ di fatica
a iniziare a sentirsi disgraziato
prima di tornare
ai miei lugubri quartieri d’inverno
con gli occhi ben asciutti
casomai
guardo come vai addentrandoti nella nebbia
e comincio a ricordarti.
lunedì 11 aprile 2011
"Ode alla stupidità" di Hans Magnus Enzenberger
Potenza celeste che ti nascondi nelle pieghe dell'encefalo,
dote senza fondo elargita al genere umano in saecula saeculorum,
tu sei innumere come la via latteae molteplice come l'erba.
Potente gemella dell'intelligenza,mano nella mano
celebri con essa una triste tiritera.
Si, è forte, come tu ci ispiri in sempre nuove guise,
come scemenza femminile e come idiozia maschile,
come sprizzi dagli occhi iniettati di sangue del picchiatore
e muovi passetti con aristocratica boria tossicchiante,
come ci fiati addosso con l'alito cattivo di una musa sbronza
e come polisillabo delirare nel seminano filosofico.
Cosa sarebbe l'uomo d'azione senza di te, stupidità granitica, totale e idiota,
che corri ardente per le sue vene come una overdose di amfetamina,
e cosa il ricercatore senza l'idea fissa che insegue
per i bianchi corridoi del suo istituto come la pantegana nel labirinto?
Senza contare la storia universale: di chi mai si ricorderebbe,
se non dei vincitori, nella sua ottusità napoleonica?
Sicché a noi sarà trasmesso lo stolido orgoglio del vincitore
e il rancore sordo del perdente, solo di quando in quando addolcito
dallo sproloquio ispirato dei sacerdoti delle sette,
dei comici e dei bevitori coatti. Stupidità,
tu spesso diffamata, che nella tua scaltrezza
ti fingi più stupida di quello che sei, protettrice di tutti i menomati,
solo agli eletti concedi il tuo dono più raro,
la benedetta semplicioneria dei sempliciotti.
Essi sono le pagine bianche nel tuo grande libro
che a nessuno di noi tu dissigilli.
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