L'indomani, all'ora di cena, Lamia si recò a casa di Pozio Pilato. Soltanto due letti erano stati preparati per il convito. Senza fasto ma decorosamente, sulla tavola erano piatti d'argento con beccafichi cotti nel miele, tordi, ostriche del Lucrino e lamprede di Sicilia. Ponzio e Lamia, mangiando, si domandavano reciprocamente dei loro mali: ne descrissero minuziosamanete i sintomi, mutualmente si comunicarono i diversi rimedi che erano stati loro prescritti. Poi, rallegrandosi d'essersi incontrati a Baia, esaltarono a gara la bellezza di quella spiaggia e la dolcezza dell'aria che vi si respirava. Lamia celebrò la grazia delle cortigiane che passavano lungo la spiaggia, cariche d'oro e circonfuse di veli ricamati dai barbari. Ma il vecchio procuratore deplorava un'ostentazione che, per delle inutili pietre e per delle ragnatele tessute dalla mano dell'uomo, faceva passare il denaro dei romani a popoli stranieri quando non addirittura a nemici dell'impero. Vennero poi a parlare dei grandi lavori che erano stati fatti nella regione: del ponte prodigioso fatto costruire da Caio tra Pozzuoli e Baia e dei canali tracciati da Augusto per far sì che le acque del mare di versassero nei laghi Averno e Lucrino.
"Anch'io" disse Ponzio sospirando "ho voluto intraprendere grandi lavori d'utilità pubblica. Quand'ebbi, per mia disgrazia, il governo della Giudea, disegnai il piano d'un acquedotto di duecento stadi che doveva portare a Gerusalemme acque abbondanti e pure. Altezza dei livelli, portata media, inclinazione dei calici di bronzo a cui adattare i tubi di distribuzione: tutto avevo studiato e, con l'aiuto dei tecnici, risolto. Avevo anche preparato un regolamento per la polizia delle acque, affinché nessun privato potesse illecitamente attaccare delle prese. Gli architetti e gli operai erano pronti. Ordinai si cominciassero i lavori. Ma, invece d'essere contenti nel vedere levarsi su archi potenti la via che doveva portare, con l'acqua, salute alla loro città, gli abitanti di Gerusalemme si diedero ad urlare protesta. Riuniti in tumultuose assemblee, gridando al sacrilegio e all'empietà, si gettavano sugli operai e disperdevano le pietre delle fondamenta. Sai di barbari, Lamia, più di costoro immondi? Eppure Vitellio diede loro ragione ed io ebbi l'ordine di interrompere i lavori".
"E' un grave problema" disse Lamia "quello di sapere se agli uomini si deve imporre una felicità che non vogliono".
Senza aver sentito, Ponzio Pilato continuò: "Rifiutare un acquedotto è follia! Ma tutto quello che viene dai romani è odioso ai giudei. Noi siamo per loro degli esseri impuri e la nostra sola presenza la considerano una profanazione. Tu sai che rifiutavano di entrare nel pretorio per paura di contaminarsi e che mi costringevano ad esercitare la magistratura pubblica all'aperto, su quel lastricato di marmo su cui tu spesso hai messo piede".
"Ci temono e ci disprezzano. Eppure Roma non è madre e protrettice di tutti i popoli; tutti i popoli, come bambini, non riposano sorridendo sul suo seno venerabile? Le nostre aquile hanno portato fino ai confini dell'universo la pace e la libertà. Trattiamo i vinti come amici, lasciamo ed assicuriamo ai popoli conquistati i loro costumi e la loro legge. Non è da quando Pompeo l'ha sottomessa che la Siria, prima lacerata dalla discordia di una moltitudine di re, ha cominciato a godere di tranquillità e benessere? E, mentre poteva vendere a peso d'oro i suoi benefici, Roma ha portato via nulla dei tesori di cui traboccavano i templi barbari? Ha spogliato la dea madre a Pessinunte, Giove nella Morimena e nella Cilicia, il dio dei giudei a Gerusalemme? Antiochia, Palmira, Apamea, tranquille nonostante le loro ricchezze, e senza più il timore degli arabi del deserto, innalzano templi al Genio di Roma e alla Divinità di Cesare. Soltanto i giudei ci odiano e ci sfidano. Il tributo bisogna strapparglielo, e ostinatamente rifiutano il servizio militare".
"I giudei" rispose Lamia "sono molto attaccati alle loro antiche usanze. Sospettavano, a torto, ne convengo, che tu volessi abolire le loro leggi e cambiare i loro costumi. Consentimi, Ponzio, di dirti che tu non hai mai fatto nulla per dissipare il loro sciagurato errore. Tu ti sei compiaciuto, magari senza esserne cosciente, di eccitare le loro inquietudini; e più di una volta ti ho visto davanti a loro tradire il disprezzo che ti ispiravano le loro credenze e le loro cerimonie religiose. Tu particolarmente li vessavi col far custodire dai legionari, nella torre Antonia, gli abiti e gli ornamenti del loro gran sacerdote. Bisogna riconoscere che, anche se non si sono elevati come noi alla contemplazione delle cose divine, i giudei celebrano misteri venerabili per antichità".
Ponzio Pilato alzò le spalle.
"Non hanno" disse "una esatta conoscenza della natura degli dei. Adorano Giove, ma non gli danno nome, né figura. Non lo adorano nemmeno sotto forma di pietra, come certi popoli dell'Asia. Nulla sanno di Apollo, di Nettuno, di Marte, di Plutone; né delle dee. Ma credo che anticamente abbiano adorato Venere, se ancora oggi le donne portano colombe all'altare del sacrificio; e tu come me hai visto che sotto i portici del tempio ci sono dei mercanti che vendono questi volatili a coppie. Anzi, mi fu riferito un giorno che un pazzo furioso aveva gettato a terra quei mercanti e le loro gabbie. I sacerdoti se ne lamentavano come di un sacrilegio. Credo che l'uso di sacrificare tortorelle sia nato in onore di Venere. Ma perché ridi, Lamia?".
"Rido" disse Lamia "per un'idea piuttosto amena che mi è passata per la mente: che un giorno il Giove degli ebrei potrebbe fare il suo ingresso a Roma e perseguitarti col suo odio. Perché no? L'Asia e l'Africa ci hanno già dato tanti dei. Abbiamo visto sorgere in Roma templi dedicati a Iside e al lattante Anubi. Agli incroci e lungo le strade maestre ci imbattiamo nella Buona Dea dei siriani, portata da un asino. E non sai che, sotto il principato di Tiberio, un giovane cavaliere si fece passare per il Giove cornuto degli egiziani ed ottenne, sotto quel travestimento, i favori di una dama illustre, troppo virtuosa per rifiutare qualcosa agli dei? Guardati, Ponzio: che il Giove invisibile degli ebrei non sbarchi un giorno ad Ostia!".
All'idea che un dio potesse venire dalla Giudea, un rapido sorriso passò sul volto severo del procuratore. Poi gravemente rispose: "Come potrebbero i giudei imporre la loro legge santa agli altri popoli, se tra loro si dilaniano per l'interpretazione della legge stessa? Divisi in venti sette rivali, sulle pubbliche piazze, coi loro rotoli in mano, stanno ad ingiuriarsi e a tirarsi l'un l'altro per la barba: li hai visti anche tu, Lamia; e li hai visti tra le colonne del tempio stracciarsi le sudice vesti, in segno di desolazione, intorno a un qualche miserabile in preda a delirio profetico. Non concepiscono che si possa disputare in pace, con animo sereno, delle cose divine: che peraltro sono celate da veli e piene d'incertezza. La natura delle cose immortali resta sempre nascosta, né ci è dato conoscerla. E tuttavia, è da saggi credere alla provvidenza degli dei. Ma i giudei ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni. Al contrario, giudicano degni dell'estremo supplizio coloro che professano sulla divinità dei sentimenti contrari alla loro legge. E poiché, da quando il Genio di Roma li sovrasta, le sentenze capitali dei loro tribunali non possono essere eseguite senza la sanzione del proconsole o del procuratore, continuamente pressano sul magistrato romano affinché sottoscriva le loro funeste sentenze, ossessionando il pretorio con grida che chiedono morte. Cento volte li ho visti, in folla, ricchi e poveri d'accordo intorno ai loro preti, circondare come in preda a follia la mia sedia d'avorio, tirarmi per i lembi della toga e i lacci dei sandali, per invocare, per esigere da me la morte di un qualche infelice di cui io non potevo discernere il delitto e che giudicavo fosse soltanto non meno e non più folle dei suoi accusatori. Ma che dico, cento volte! Tutti i giorni, tutte le ore. Ed ero tenuto, purtroppo, a fare eseguire la loro legge come la nostra: poiché Roma mi impegnava a sostenere le loro usanze, non a distruggerle; a stare su loro con le verghe e la scure. E nei primi tempi, mi provai a far intendere loro ragione; tentai di sottrarre le loro miserabili vittime al supplizio. Ma la mia mitezza ancor più li irritava; reclamavano la loro preda battendo intorno a me d'ala e di becco, come avvoltoi. I loro preti scrivevano a Cesare che io violavo la loro legge; e queste suppliche, appoggiate da Vitellio, mi attiravano un biasimo severo. Quante volte mi venne voglia di mandare ai corvi, come dicono i greci, gli accusati e i giudici insieme!
Non credere, Lamia, che io nutra rancori impotenti e astiosità senili contro questo popolo che ha vinto dentro di me Roma e la pace. Sto semplicemente prevedendo le decisioni estreme cui presto o tardi ci costringerà. Non potendo governarlo, bisognerà distruggerlo. Non c'è da dubitare: ancora non sottomessi, covando la rivolta nei loro animi accesi, essi faranno esplodere un giorno contro di noi un furore di fronte al quale la collera dei numidi e le minacce dei parti appariranno come capricci di bambini. Nell'ombra, nutrono insensate speranze e follemente preparano la nostra rovina. Non può essere altrimenti, se aspettano, sulla fede di un oracolo, il principe del loro sangue che dovrà regnare sul mondo. Non si riuscirà mai a domare un popolo simile. Bisogna non farlo più esistere. Bisogna distruggere Gerusalemme dale fondamenta. Ed è possibile che, per quanto vecchio, mi sarà dato di vedere il giorno in cui le sue mura crolleranno, in cui le fiamme divoreranno le sue case, in cui gli abitanti saranno passati a fil di spada e il sale sarà sparso sulla piazza dove il tempio sorgeva. E in quel giorno, mi sarà infine resa giustizia".
Lamia si sforzò di riportare il discorso a un tono più dolce.
"Ponzio" disse "io capisco senza difficoltà i tuoi vecchi risentimenti e i tuoi sinistri presagi. Certo, quello che tu hai conosciuto del carattere degli ebrei è da riprovare. Ma io, che vivevo a Gerusalemme da curioso e che mi intramavo nel popolo, ho avuto modo di scoprire in quegli uomini oscure virtù, che a te non si rivelarono. Ho conosciuto ebrei pieni di dolcezza, di costumi semplici e di cuore fedele: da ricordarmi quello che i nostri poeti hanno detto del vecchio di Ebalia. Tu stesso, Ponzio, hai visto morire sotto il bastone dei tuoi legionari degli uomini semplici che, senza dire il loro nome, si sacrificavano a una causa che credevano giusta. Uomini simili non meritano il nostro disprezzo. E parlo così perché in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità, poiché confesso di non aver mai sentito viva simpatia per gli ebrei. Le ebree, invece, mi piacevano molto. Ero giovane, allora: le donne di Siria mi davano un gran turbamento dei sensi. Le loro labbra rosse, i loro occhi umidi e nell'ombra splendenti, il loro sguardo intenso mi penetravano fino al midollo. Imbellettate e dipinte, odorose di nardo e di mirra, macerate negli aromi, la loro carne dà un raro e delizioso godimento".
Ponzio ascoltò quelle lodi con impazienza.
"Non ero uomo da cadere nelle reti delle ebree" disse "e, poiché tu mi ci provochi, ti dirò, Lamia, che non ho mai approvato la tua incontinenza. Se non ti ho fatto ben capire, allora, che ti consideravo in gran colpa per aver sedotto, a Roma, la moglie di un consolare, è stato perché mi pareva tu stessi duramente espiando. Il matrimonio è sacro tra i patrizi; è l'istituzione su cui Roma si regge. Quanto alle donne schiave o straniere, le relazioni che si possono annodare con loro avrebbero poca importanza, se il corpo non si abituasse a vergognose mollezze. Consentimi di dirti che hai troppo sacrificato alla Venere dei trivi; e ciò che soprattutto ti rimprovero è il non aver dato dei figli alla repubblica, come ogni buon cittadino ha il dovere".
Ma l'esiliato di Tiberio non ascoltava più il vecchio magistrato. Vuotata la sua coppa di Falerno, sorrideva a una qualche immagine invisibile.
"Danzano con tanto languore, le donne di Siria! Ho conosciuto un'ebrea di Gerusalemme che in una bettola, nell'avara luce di una lucerna fumosa, su un logoro tappeto, danzava levando le braccia e agitandole a far suonare i cimbali. Le reni inarcate, la testa rovesciata e come tirata dal peso della sua folta chioma rossa, gli occhi annegati di voluttà, ardente e languente, flessuosa, avrebbe fatto impallidire d'invidia Cleopatra stessa. Amavo le sue danze barbare, il suo canto un po' rauco e insieme dolce, il suo odore d'incenso, il suo vivere trasognato. La seguivo ovunque. Mi confondevo alla vile ciurmaglia dei soldati, dei saltimbanchi e dei pubblicani da cui era circondata. Un giorno disparve, e non la rividi più. La cercai lungamente nei vicoli malfamati e nelle taverne. Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco. Qualche mese dopo che l'avevo perduta, seppi, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e di donne che seguivano un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocefisso non ricordo per quale delitto. Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?".
Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: "Gesù?" mormorò "Gesù il Nazareno? No, non ricordo".
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