mercoledì 22 dicembre 2021

Verba volant (805): soglia...

Soglia
, sost. f.

Qual è la soglia? Cento? Duecento? Mille? Quante persone possono morire in un giorno prima che scatti lo stato di emergenza? Quante persone devono morire in un giorno perché ciascuno di noi pensi che la situazione sta diventando davvero insostenibile? Ovviamente basta uno, se quell’uno è il nostro partner, uno dei nostri figli, o comunque una persona a cui vogliamo bene. E allo stesso modo non bastano mai se sono estranei. Se poi muoiono in qualche altra parte del mondo, in un paese che faremmo fatica a trovare su una carta geografica, quel numero diventa del tutto irrilevante, meno importante del numero di gol fatti dalla nostra squadra nell’ultima domenica di campionato e dei soldi che abbiamo speso per fare i regali a parenti che siamo costretti a vedere una volta all’anno.
Naturalmente so che le autorità hanno un loro numero, immagino rapportato con quello totale della popolazione, per decidere che una regione debba diventare gialla o arancione o rossa e di conseguenza le misure da adottare per contenere il contagio. E, visto che per qualche anno ho fatto quel lavoro, ho dovuto decidere – anche se per fortuna mai sulla vita e la morte delle persone – mi rendo conto che quel numero deve essere superiore a uno, molto superiore a uno. Non può bastare un morto di Covid al giorno per decretare lo stato di emergenza, come non basta un morto al giorno a causa degli incidenti stradali o un morto al giorno a causa dell’infarto o uno, anzi una morta al giorno a causa della violenza domestica per definire che questo o quella sia un’emergenza e così via, decidete voi la causa di morte che vi sta più a cuore. D’altra parte Aristotele ci ha insegnato da tempo che tutti gli uomini sono mortali: è qualcosa che abbiamo imparato ad accettare. Così come abbiamo conseguentemente accettato che Socrate, in ragione del suo essere uomo, sia mortale. Abbiamo qualche difficoltà in più ad accettare che noi siamo mortali: lo sappiamo, ma preferiamo far finta che non sia vero.
Fatto salvo che le autorità devono definire quella fatidica soglia, spero non troppo alta, ma comunque sufficiente per permettere a tutti noi di continuare a vivere, seppur con qualche limitazione, come se quelle morti non fossero affar nostro, io credo che ciascuno di noi dovrebbe comportarsi come se quel limite fosse uno. E non un uno che conosciamo, un uno a cui vogliamo bene, ma proprio uno, uno qualsiasi. Perché quelle morti sono anche affar nostro, soprattutto le morti delle persone che non conosciamo. E quindi dovremmo agire di conseguenza, ad esempio vaccinandoci e adottando tutte quelle precauzioni che ci possono permettere di non diffondere il contagio, ma anche lavorando affinché tutti, proprio tutti possano vaccinarsi. E non mi riferisco a quella triste e infima minoranza che, pur potendolo, decide di non vaccinarsi – francamente di loro mi importa assai poco – ma penso ai milioni di donne e uomini che, pur volendo, non possono vaccinarsi, perché vivono dalla parte sbagliata del mondo. E allo stesso modo credo che dovremmo comportarci come se la soglia non accettabile per i morti a causa di incidenti stradali o di infarto o di violenza domestica – o qualunque altra causa voi scegliate – sia uno, o una, facendo quello che possiamo per arrivare a quel risultato. Anche se ovviamente non ce la faremo mai. Tra l’altro credo che questo ci servirebbe a farci capire, finalmente, che siamo mortali.

martedì 19 ottobre 2021

Verba volant (804): rana...

Rana
, sost. f.

Mary e Susan, quando sentono che Burt Shevelove sta cercando studenti della Yale Drama School per mettere in scena una versione musicale delle Rane, decidono immediatamente di presentarsi al provino. Sono entrambe al quarto anno. Mary per pagarsi l'università fa la cameriera e la dattilografa, partecipa a decine di spettacoli, lavora tanto che soffre di ulcera, ha pensato persino di smettere di recitare e di iscriversi a legge. Anche Susan sta passando anni difficili, non riesce a ottenere parti da protagonista nei drammi messi in scena dalla scuola e alcuni dei suoi insegnanti la considerano senza talento. 
Quella però è un'occasione che nessuna di loro due vuole perdere: Shevelove dieci anni prima ha vinto il Tony per A Funny Thing Happened on the Way to the Forum, è un regista affermato, il suo revival di No, No, Nanette è rimasto in cartellone per due anni a Broadway, e quell'idea di mettere in scena Aristofane nella grande piscina di Yale è davvero fantastica. 
Mary e Susan vengono entrambe scritturate: saranno due delle rane del coro.

Quando al liceo abbiamo tradotto, spesso maldestramente, alcuni passi di Sofocle o quando andiamo a teatro a vedere una tragedia di Euripide o una commedia di Aristofane, dimentichiamo sempre che stiamo leggendo o assistendo alla rappresentazione di quello che noi moderni definiamo un libretto. Come se andassimo a teatro a vedere il Rigoletto di Piave o Jesus Christ Superstar di Rice, Kiss Me, Kate di Samuel e Bella Spewack o la Turandot di Illica e Giacosa, il Barbiere di Siviglia di Sterbini o Porgy and Bess di DuBose Heyward e Ira Gershwin. Certamente potremmo assistere a drammi avvincenti e a trame divertenti, potremmo incontrare personaggi da amare e da odiare, potremmo ridere o piangere, ma non sarebbero mai le opere e i musical che amiamo, perché ci disperiamo per la morte di Violetta e ridiamo per i travestimenti di Reno Sweeney perché quelle due giovani donne cantano, cantano tutto il tempo. E anche Edipo e Strepsiade, Lisistrata ed Elettra cantavano, e il coro ballava, ma ovviamente non sapremo mai come erano quegli spettacoli che, sotto la protezione di Apollo e Dioniso, non per caso entrambi dei musicisti, si svolgevano nella Broadway dell'Acropoli.

A dire la verità a Burt l'idea di un adattamento delle Rane è venuta già nel 1941 - otto anni prima che Mary e Susan nascessero - quando lui, da poco laureatosi a Yale, era un giovane professore in quel corso di laurea. E i suoi colleghi più anziani hanno storto il naso per quella messa in scena della commedia di Aristofane nella piscina dell'università, con la partecipazione degli studenti del corso di teatro e i ragazzi e le ragazze della squadra di nuoto: qualcuno di loro ha pensato che quello spettacolo non fosse adatto per Yale, meglio lasciare le evoluzioni in piscina a quelli come Mark Sennett e Billy Rose, agli impresari del varietà, a quelli che fanno vedere le gambe delle ballerine. Adesso però Burt vuole fare qualcosa di più: vuole che ci sia la musica, vuole che Dioniso canti. E vuole che la musica sia quella di Stephen Sondheim. 
Hanno già lavorato insieme: Stephen ha scritto la musica e i testi delle canzoni di A Funny Thing Happened on the Way to the Forum. Anzi è stato proprio con quel musical che il paroliere di West Side Story e Gipsy ha fatto il suo esordio come compositore: un esordio non troppo fortunato, nonostante il successo del musical. I critici non sono stati particolarmente colpiti dalla musica, mentre hanno lodato i testi delle canzoni. Ma sono passati ormai dieci anni e Sondheim è diventato uno dei re di Broadway. Ha già vinto tre Tony per le musiche di Company, Follies e A Little Night Music. E quel progetto su Aristofane lo coinvolge molto, anche se in quel periodo è impegnato a riscrivere, su richiesta di Leonard Bernstein, i testi delle canzoni di Candide
Shevelove coinvolge nel progetto di The Frogs anche alcuni insegnanti. All'inglese Jeremy Geidt, che insegna recitazione ed è tra i fondatori della compagnia teatrale dell'università, viene dato il ruolo di Shakespeare, mentre Carmen de Lavallade deve preparare le coreografie. La ballerina creola, dopo una fortunata carriera sia nei teatri di Broadway che al Metropolitan, è dal 1970 una delle insegnanti di Yale. 
Robert Brustein, preside della Yale Drama School, è entusiasta del progetto. Nel 1941 era a Londra e non ha visto le Rane nella piscina, ma pensa che sia il momento di tentare di nuovo quell'esperimento, e questa volta tornando a dare la musica ad Aristofane. Brustein investe nel progetto 30mila dollari del bilancio della facoltà, mentre riesce a ottenerne altri 5mila dalla Connecticut Commission on the Arts. Il preside decide che i biglietti per i 1.600 posti a sedere dell'arena saranno venduti a cinque dollari e, calcolando che ci saranno otto rappresentazioni, si potrebbero anche guadagnare un po' di soldi per la scuola, ovviamente facendo ogni sera il tutto esaurito.

Aristofane non si deve preoccupare di riempire i 15mila posti del teatro di Dioniso: ogni sua commedia - come quelle dei suoi colleghi - è un sold out, anche perché ogni spettatore riceve due oboli per andare a teatro, come indennizzo della giornata di lavoro perduta. Però deve preoccuparsi che le sue commedie piacciano al pubblico. E Aristofane conosce tutti i trucchi per arrivare alla pancia dei suoi spettatori: infarcisce i suoi testi di allusioni sessuali e parolacce, non rinuncia neppure ai peti se questi servono a strappare una risata al pubblico. E poi è un maestro nel prendere in giro i potenti, anche partendo dai loro difetti fisici. Ma naturalmente Aristofane non è solo questo questo. 
Il commediografo ateniese mette in scena Le Rane nel 405 a.C., uno dei momenti più difficili per la sua città. La trentennale guerra del Peloponneso sta per finire e chiaramente Atene è destinata a soccombere. Certo la sua flotta sembra ancora potente e l'anno prima ha ottenuto un'importante vittoria presso le isole Arginuse. Ma una tempesta ha reso impossibile recuperare gli equipaggi delle navi affondate, circa cinquemila soldati, e quindi i comandanti quando sono tornati in città, nonostante la vittoria, sono stati processati e condannati a morte. Atene rende così vana la vittoria militare e dimostra che non è più capace di vincere, perché le divisioni all'interno della città sono sempre più evidenti e laceranti. Non c'è più uno spirito comune, le istituzioni della democrazia sono ormai screditate: è chiaro che il sogno pericleo è un gigante con i piedi d'argilla, perché la grandezza di Atene poggia unicamente su un duro imperialismo contro le città dell'Egeo. La democrazia ateniese - compresi i compensi per permettere ai cittadini di assistere agli spettacoli dei grandi tragici e comici - è possibile solo perché la città ha un comportamento tirannico verso le città a cui impone tributi ormai insostenibili. 
E nel 406 sono morti anche Sofocle ed Euripide. Aristofane dice ai suoi concittadini: ormai tutto è finito, perché è finito il teatro. Se è così, l'unica salvezza per Atene sta nel viaggio di Dioniso agli Inferi per riportare ad Atene uno dei suoi grandi poeti: "Statemi dunque a sentire: io sono sceso quaggiù a cercare un poeta. Per farne che, direte voi? Perché la nostra città possa salvarsi e mantenere il suo teatro." Le Rane, nonostante le trivialità - non manca nulla del repertorio, peti compresi - è uno dei testi che racconta con più forza l'importanza politica del teatro: la polis - dice con estrema chiarezza il vecchio Aristofane - non si salva senza teatro, senza cultura. Sembra di sentire quello che scrive, secoli dopo, un altro grande uomo di teatro, Giuseppe Verdi, in una lettera del dicembre 1872: "Ah il Governo è stato ben colpevole! Abbandonare le Arti in Italia, è come oscurare il Sole!" Un messaggio che abbiamo evidentemente dimenticato, visto lo stato miserabile in cui versano il teatro e la società di questo paese.

Anche questa volta Burt Shevelove vuole che gli atleti della squadra di nuoto di Yale partecipino alla commedia: saranno loro le rane che incontra Dioniso mentre traversa l'Acheronte sulla vecchia barca di Caronte. Per le altre parti si affida alle ragazze e ai ragazzi della Yale Drama School. Per il ruolo di Dioniso decide di coinvolgere un attore che conosce bene, perché ha interpretato il ruolo di Hysterium nel revival del 1972 di A Funny Thing Happened on the Way to the ForumLarry Blyden ha vinto il Tony per quella sua interpretazione ed è un volto popolare a teatro e soprattutto in televisione: in quegli anni è il presentatore di What's My Line?, uno dei quiz più seguiti degli Stati Uniti. Larry ha qualche dubbio sulla possibilità di interpretare Dioniso. "Sto invecchiando. Sono ebreo. Sono a dieta": non gli sembrano caratteristiche per un dio. Ma Burt lo convince: sarà divertente recitare a bordo della piscina di Yale. E tornare a cantare. 
Oltre a Larry, Burt Shevelove mette insieme un cast di ottantacinque persone tra attori, ballerini e nuotatori. Le prove procedono non senza difficoltà: Larry-Dioniso deve cantare uno dei suoi pezzi stando su una barca che "solca" la piscina, mentre intorno a lui ventiquattro "rane" nuotano sott'acqua al ritmo di un valzer dissonante, in una coreografia preparata da Carmen. Mettere insieme nuotatori e attori si rivela più complesso del previsto: prima di tutto bisogna spegnere le caldaie, perché i secondi sono vestiti e per loro la temperatura della piscina è decisamente troppo alta. E poi c'è il problema del fumo. Nella piscina ovviamente non si può fumare, ma per gli attori quel divieto è troppo faticoso da accettare: tra una pausa e l'altra delle prove devono poter accendersi una sigaretta. E quindi il divieto viene momentaneamente sospeso dalla autorità accademiche di Yale. Sondheim ha problemi a dirigere le prove di canto: l'acustica della piscina proprio non funziona, "come mettere in scena uno spettacolo in un orinatoio maschile". In qualche modo però le prove vanno avanti. 

Per come ce la racconta Aristofane, Dioniso va nell'Ade con l'idea di riportare sulla terra Euripide, l'autore che gli piace di più, l'autore del momento. Ma quando arriva laggiù questi sta disputando con Eschilo su quale sia il miglior tragediografo e Dioniso viene, suo malgrado, chiamato a essere il giudice di questa contesa. Si tratta di una parte della commedia, oltre che molto divertente, assai utile a capire come venivano considerati i due autori. 
Quando Euripide sostiene che il suo merito è aver dato la parola nei suoi drammi a tutti, anche alle donne e agli schiavi, il vecchio Eschilo gli risponde che per questo avrebbe meritato piuttosto la morte. Ma come - ribatte Euripide - io ho agito da democratico. E qui interviene Dioniso, che, nonostante la sua parzialità, gli dice: lascia stare la democrazia, non è roba per te. Aristofane - che invece è decisamente dalla parte di Eschilo - sembra dirci: attenzione, cari spettatori, non fate l'errore di questo autore, una cosa è la democrazia e un'altra l'uguaglianza, perché la democrazia funziona solo se ci sono gruppi, le donne e gli schiavi, che hanno meno diritti dei maschi liberi, se ci sono alcuni che sono meno uguali degli altri. Poi Aristofane, per denunciare quanto Euripide sia pericoloso per la loro città, cita una delle sue tragedie più controverse, Fedra. Euripide dice che egli ha raccontato la storia di Fedra in maniera veritiera, Eschilo gli risponde: "Ma un poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra." Aristofane sa benissimo che Euripide ha raccontato una storia vera, una storia in cui gli dei non hanno alcun ruolo, in cui le donne e gli uomini - e solo loro - devono rispondere di quello che hanno fatto o non fatto. Ma allo stesso tempo dice che un poeta ha il dovere di celare questa verità, che spaventa gli uomini. Lo scontro tra Aristofane ed Euripide è tutto qui: il primo vuole educare gli uomini con l'esempio, mentre il secondo lo fa con la verità. Una questione su cui noi moderni continuiamo a interrogarci, tanto più che oggi sono tante le opere in cui gli eroi sono i "cattivi".

La contesa è la parte in cui Shevelove "tradisce" maggiormente Aristofane. Il progetto di Dioniso è quello di riportare sulla terra George Bernard Shaw, ma quando arriva nell'Ade si sta svolgendo un banchetto a cui partecipano tutti i drammaturghi e nasce una contesa tra lo stesso Shaw e William Shakespeare, che non mancano di lanciare giudizi trancianti su alcuni loro colleghi. Brecht? Un piantagrane. Wilde? Cattivo, anche se simpatico. 
Dioniso si pone come arbitro e chiede a ciascuno dei due di affrontare le questioni più importanti per gli uomini, utilizzando solo le parole dei propri scritti. I due drammaturghi rispondono su ogni tema colpo su colpo, ma poi Dioniso li incalza su un ultimo argomento: la morte. Shaw risponde con un passaggio emozionante della sua Santa Giovanna e sembra abbia ottenuto la vittoria. Shakespeare parla della morte come la vede un vecchio, ma Dioniso gli chiede di parlarne dal punto di vista di un giovane. E allora il Bardo canta Fear No More, dal Cimbelino, perché "golden lads and girls all must,
as chimney-sweepers, come to dust". Molto colpito, Dioniso lo proclama vincitore, nonostante le proteste di Shaw e dei suoi accoliti. Siamo alla fine, Dioniso invita Shakespeare a parlare e il drammaturgo chiede che venga scritta una nuova opera teatrale per ispirare l'umanità. A questo punto, con tutta la compagnia schierata dietro di lui, il dio si rivolge al pubblico: svegliatevi, siete voi che dovete agire per risolvere i problemi che affliggono i nostri tempi.

Le Rane sono uno dei grandi successi di Aristofane. La commedia ottiene il primo premio alle Lenee del 405 e, cosa assolutamente inconsueta, viene replicata l'anno successivo, qualche settimana prima della resa definitiva di Atene. 
The Frogs non ottiene invece il successo sperato. Nonostante la bravura degli interpreti, il pubblico non apprezza quello che sembra ai più un gioco intellettuale, il passatempo per un grecista jazz. Ai critici il musical è piaciuto, in particolare le canzoni di Sondheim, ma l'incasso dei biglietti è bastato appena a coprire le spese. Successivamente ci sono state alcune produzioni - una anche nella piscina di Coventry - ma nessuna ha ottenuto particolare successo. 
Tra gli artisti a cui quel musical piace c'è Nathan Lane, una lunga carriera a Broadway - ma anche al cinema e in televisione - lo splendido Max Bialystock in The Producers, ma anche un ottimo Pseudolus in un'edizione di A Funny Thing Happened on the Way to the Forum. Lane è convinto che The Frogs sia perfetto per raccontare la crisi dell'America dopo l'11 settembre, riscrive il libretto, chiede alcune nuove canzoni a Sondheim e finalmente The Frogs: A New Broadway Musical debutta a Broadway il 22 luglio 2004 con lo stesso Lane nella parte di Dioniso e Roger Bart come Xantia. Cosa può salvare l'America? Il teatro. E non la guerra in Afghanistan voluta da George W. Bush. Vent'anni dopo sappiamo chi aveva ragione, ma ovviamente a nessuno viene in mente di investire sul teatro.

Non mi sono dimenticato di Mary e Susan, che per nostra fortuna, nonostante le difficoltà degli anni di Yale, non hanno smesso di recitare. Anzi quella storica edizione di The Frogs del 1974 rischia di essere ricordata quasi soltanto perché nel coro c'erano loro due. Meryl Streep e Sigourney Weaver, compagne di corso a Yale, hanno lavorato insieme solo quella volta. Ma nel 2017 hanno festeggiato insieme, quando la loro insegnante di danza ai tempi di Yale, Carmen de Lavallade, ha ricevuto il Kennedy Center Honor.

A differenza di Aristofane, che nella prima scena non risparmia le sue battute di spirito contro i suoi colleghi commediografi, Shevelove immagina che prima di cominciare la commedia i due attori che interpreteranno Dioniso e Xantia si rivolgano direttamente al pubblico. Il brano, a cui partecipa anche il coro, si intitola Invocation and Instructions to the Audience. Una canzone divertente, una sorta di carta dei doveri di noi spettatori, che le attrici e gli attori dovrebbero cantarci prima di ogni spettacolo: non tossite, non dite "cosa?" se non capite una battuta - magari perché siete arrabbiati e non avete l'attenzione di seguire la storia - non ridete se qualcuno sul palco si sbaglia, e applaudite. Spegnete i cellullari - questo ovviamente Shevelove non poteva saperlo, ma Lane lo sa bene - non dite "oh" quando vedete un attore che conoscete, non arrivate tardi, specialmente se avete il posto in mezzo alla fila e se proprio dovete mangiare una caramella, scartatela prima che cominci lo spettacolo. Ma soprattutto abbiate rispetto di chi ha scritto l'opera e di chi la sta mettendo in scena. Shevelove spiega al suo pubblico una cosa che probabilmente Aristofane non ha bisogno di dire al suo, che certamente era rumoroso, scomposto e partecipava a quegli spettacoli più come oggi noi assistiamo a un evento sportivo, ma aveva chiaro un punto: il teatro siamo anche noi. È una cosa che non dovremmo mai dimenticare. E poi "when everything's up-ended, we can all depart".

E le rane cosa c'entrano? Non molto a dire il vero. Compaiono in una sola scena, appunto quella del passaggio dell'Acheronte e i critici si chiedono da secoli come mai proprio loro diano il titolo a questa commedia. Credo che Shevelove abbia capito questa cosa meglio di tanti grecisti, proprio perché, come Aristofane, è un uomo di teatro: per questo ha voluto rappresentare la commedia in una piscina, una cosa che probabilmente sarebbe piaciuta moltissimo all'autore e che avrebbe fatto anche lui, se ne avesse avuto la possibilità e i soldi. Perché quella è la scena più coinvolgente della commedia, grazie ai costumi, alla musica, al balletto, al canto gracidante e senza senso delle rane. È, semplicemente, la magia del musical: βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοὰξ.

Forget your troubles
Wallow with us
Squat and take a mud bath!

giovedì 30 settembre 2021

Verba volant (803): dinamite...

Dinamite
, sost. f.

Domenica 15 settembre 1963: alle 10.22 una violenta esplosione scuote il cielo di Birmingham. A dire il vero gli abitanti di quella città dell'Alabama non ci fanno troppo caso: dal 4 di quello stesso mese ci sono già stati tre attentati dinamitardi e da tempo la loro città è conosciuta in tutta l'America come "Bombingham", visto l'alto numero di attacchi contro le case dei neri a opera di esponenti del Ku Klux Klan. Ma quella mattina quindici candelotti di dinamite piazzati sotto i gradini dell'ala est della Chiesa battista della 16esima Strada provocano la morte di quattro bambine afroamericane che insieme a molti altri loro coetanei si stavano preparando per la funzione delle undici: Addie Mae Collins, Carole Rosamond Robertson e Cynthia Dionne Wesley hanno quattordici anni, mentre Carol Denise McNair ne ha soltanto undici.
La Chiesa battista della 16esima Strada è un bersaglio perché quella è la chiesa in cui predicano e operano Ralph David Abernathy, Fred Shuttlesworth e Martin Luther King jr., è da lì che quegli uomini dirigono le proteste in quella che è una delle città più razziste di tutti gli Stati Uniti. A Birmingham nessun afroamericano è nella polizia o nei vigili del fuoco, ai cittadini di colore viene impedito di registrarsi per il voto, gli attentati contro i neri sono continui, perché gli uomini del Ku Klux Klan hanno a disposizione la dinamite che viene usata per estrarre il ferro nelle miniere che rappresentano la ricchezza della città, e dove i neri fanno i lavori più duri e pericolosi. Le proteste nella comunità nera sono sempre più frequenti e di conseguenza gli arresti: anche il reverendo King viene arrestato e il 16 aprile scrive una lettera aperta proprio dal carcere della città. La Lettera dalla prigione di Birmingham è uno dei suoi testi più conosciuti. Ma in quell'anno sono le ragazze e i ragazzi neri i veri protagonisti della protesta: il 2 maggio più di mille studenti lasciano le loro scuole segregate e si riuniscono proprio alla Chiesa battista della 16esima Strada, da lì marciano verso il centro della città, decisi a incontrare il sindaco. Quel giorno vengono effettuati seicento arresti, ma le manifestazioni continuano fino al 5. La polizia non sa più dove mettere gli arrestati e l'amministrazione comunale è costretta a cedere: a partire dal 4 settembre tre scuole della città saranno aperte anche agli studenti neri. La fine del sistema delle scuole segregate scatena la reazione violenta dei bianchi, che culmina appunto nell'attentato del 15 settembre.

Quel giorno a Birmingham sono morte quattro donne, quattro giovanissime donne. Alcuni mesi dopo Nina Simone scrive una canzone che decide di intitolare proprio Four Women. Sarebbe stato semplice raccontare la storia di quelle quattro bambine, il cui sacrificio aveva comunque accelerato l'approvazione del Civil Right Act. Ma questo a Nina non basta, decide di raccontare altre quattro donne, quattro donne afroamericane. C'è "zia" Sarah, la cui schiena è piegata alla fatica, la donna costretta a fare i lavori più pesanti e umili, che è così forte da riuscire a supportare tutti i dolori subiti da lei e dalle donne come lei, c'è Saffronia, sospesa tra due mondi con la sua pelle chiara, perché suo padre è un bianco, un uomo ricco e potente, che ha abusato di sua madre, c'è Sweet Thing, bella con i capelli lisci sempre a posto, che vende il proprio corpo e conosce bene gli orrori della vita, e infine c'è Peaches, la ribelle, la donna che non riesce più ad accettare quella loro condizione di donne nere e che urla il suo nome, che diventa, alla fine del brano, una sorta di grido di guerra, perché Nina vuol essere Peaches, non vuole più arrendersi.
Prevedibilmente le radio dei bianchi non fanno passare quella canzone, troppo violenta e provocatoria: quella ragazza della Carolina ha una splendida voce, perché non continua a cantare gli standard jazz? Perché si è messa in testa di scrivere le sue canzoni? Vuol fare politica? Non dalle nostre frequenze. Ma neppure le radio delle comunità nere accettano di trasmetterla: cosa è venuto in mente a Nina? Perché non canta della voglia di riscatto? Perché continua ad alimentare quegli stereotipi, la puttana nera, la serva nera, la mulatta? Non lo farà certo dalle nostre frequenze. 
Non sentire il suo brano nelle radio, vedere i suoi dischi distrutti addolora Nina, che però va avanti: sa che quella è la canzone che doveva scrivere. L'attentato di Birmingham, la morte di quelle quattro ragazzine ha scosso profondamente Nina che ha capito che la musica che ha interpretato fino a quel momento non bastava più: deve usare la sua voce per protestare, per cambiare quello stato di cose. 
E scrive questa canzone proprio perché non ne può più di come le donne nere vengono raccontate. Four Women è un atto d'accusa contro le immagini troppo semplificate con cui le donne nere sono descritte nella cultura popolare americana, nel cinema, nelle canzoni, in televisione. La rabbia di Nina vuole combattere una cultura che presentando le donne nere come stereotipi finisce per renderle invisibili: sono donne senza nome e, se sono così,  anche la tragedia della loro morte rischia di passare sotto silenzio. Le quattro giovani donne uccise dal Ku Klux Klan a Birmingham non sono stereotipi, e per questo dobbiamo continuare a ricordare il dramma della loro morte. Nina con questa canzone dice all'America - e lo dice ancora a noi - che ogni persona vale come essere umano: le quattro giovani donne la cui vita è stata spezzata dall'attentato di Birmingham, come le quattro donne di cui parla nella canzone, di cui ricorda ossessivamente i nomi.
Ma Four Women è anche di più - ed è per questo che viene "censurata" dalle radio dei neri - è soprattutto una canzone femminista, perché zia Sarah non è solo "schiava" dei suoi padroni, ma anche di un marito, di un padre, di un fratello, che sono neri come lei - e che magari lottano per i diritti dei neri, dei maschi neri, dimenticando quelli delle donne. Perché Saffronia, con quella pelle definita sprezzantemente "gialla", è emarginata prima di tutto dalla comunità nera. Perché sono neri i clienti di Sweet Thing, sono neri quelli che vogliono possedere quella "cosa" che deve avere i capelli come le donne dei bianchi. E Peaches urla la sua rabbia anche contro di loro, soprattutto contro di loro, contro la loro ipocrisia, contro la loro arroganza, contro la loro violenza.
Per questo dobbiamo continuare ad ascoltare questa canzone, dobbiamo pensare a quelle quattro donne, alla loro storia, dobbiamo continuare a cantare i loro nomi.

giovedì 23 settembre 2021

Verba volant (802): stella...

Stella
, sost. f.

Maxwell ha già cinquantatré anni: è troppo vecchio per potersi arruolare. Kurt ne ha solo quarantuno, ma non ha ancora la cittadinanza quando gli Stati Uniti entrano in guerra, anche se ormai lui e sua moglie vivono lì da quasi sei anni. E poi quei due non hanno proprio la stoffa dei soldati: probabilmente sarebbero ridicoli con un fucile tra le braccia. Però vogliono fare la loro parte e così si uniscono al servizio civile volontario e fanno molti turni di guardia sull'High Tor Mountain, per segnalare l'arrivo di eventuali raid aerei nemici. Gli americani temono che i tedeschi siano riusciti a progettare e costruire dei bombardieri in grado di attaccare New York e così quel servizio di sentinelle notturne che controlla la grande città sulle rive dell'Hudson viene mantenuto attivo per tutta la durata del conflitto. 
I servizi segreti probabilmente sanno che si tratta di timori infondati, ma anche quella paura serve a tenere vivo lo sforzo bellico del popolo americano. E infatti in quelle lunghe notti di attesa i due amici non avvisteranno mai un aereo mandato da Hitler. Ma hanno tutto il tempo di osservare il cielo e di raccontarsi delle storie, anche perché è questo quello che loro due sanno fare, rispettivamente con le parole e con la musica. Maxwell e Kurt, osservando il cielo stellato sopra l'oceano, immagino abbiano provato la stessa meraviglia che prova ciascuno di noi quando alza gli occhi verso l'alto durante una notte d'estate, perché non è necessario essere Kant per rimanere sopraffatti da questo incredibile spettacolo della natura. Sono tutti e due atei e vivono in un tempo in cui è sempre più difficile credere alla legge morale dentro di sé. Kurt è uno di quelli che è riuscito a fuggire, ma sa bene quello che sta succedendo agli ebrei come lui in Germania e in gran parte d'Europa. Maxwell ha scritto un dramma basato sulla storia di Sacco e Vanzetti, nelle sue opere teatrali e nei suoi articoli ha raccontato il razzismo e le ingiustizie sociali dell'America. In quel mondo, sconvolto dalle guerre, schiacciato tra Auschwitz e Hiroshima, è difficile credere in qualcosa. Forse si può credere soltanto alla bellezza delle stelle.

Credo sia proprio durante una di quelle notti che i due amici pensano di scrivere insieme un'opera sulle peregrinazioni di uno schiavo afroamericano che cerca di ritrovare la strada di casa durante la guerra di secessione. Maxwell comincia a scrivere il libretto e i testi delle canzoni, mentre Kurt abbozza le musiche di quello che nelle loro intenzioni dovrebbe intitolarsi Ulysses Africanus, perché nella storia ci sono molti riferimenti all'Odissea. Non sono soddisfatti di quel lavoro, anche se c'è una canzone che a entrambi piace molto. L'opera rimane incompiuta, ma nel 1946 la Chappell & Co. pubblica lo spartito di Lost in the Stars come canzone a sé stante, uno dei capolavori, insieme a September Song, della feconda, per quanto breve, collaborazione creativa tra il drammaturgo Maxwell Anderson e il compositore Kurt Weill.
Anche dopo che è finita la guerra, dopo aver smesso di fare le sentinelle sull'High Tor Mountain, Maxwell e Kurt continuano a raccontarsi storie e nel 1948 leggono un romanzo appena pubblicato dello scrittore sudafricano Alan Paton, intitolato Cry, the Beloved Country: è una storia di ingiustizie, in cui i buoni soccombono e vincono i cattivi, è una storia che Maxwell e Kurt conoscono bene, anche se non sono mai stati in Sudafrica. Forse non sanno esattamente cosa sia l'apartheid, ma conoscono bene l'America e il suo razzismo segregazionista, forse non sanno come può essere la condizione di un minatore nero in quel lontano paese africano, ma conoscono bene come vivono i neri nella città che hanno "protetto" durante quei lunghi turni di guardia. Così in poche settimane riescono a trarre da quel romanzo un musical che debutta al Music Box Theatre a Broadway il 30 ottobre 1949.
Il protagonista è Stephen Kumalo, un pastore anglicano di un piccolo villaggio sudafricano. Stephen è preoccupato per la sorte di suo figlio Absalom che vive a Johannesburg e decide di andare nella grande città, dove abita anche la sorella di Stephen, che vive facendo la prostituta. Il pastore vorrebbe salvare entrambi, ma arriva troppo tardi. Gertrude sta morendo e può solo affidare a Stephen suo figlio, il piccolo Alex. Absalom è in prigione, per aver ucciso durante una rapina Arthur Jarvis, un ricco bianco che si batte contro il nascente regime dell'apartheid e che è un vecchio amico di Stephen. L'uomo si rende conto che il suo arrivo è stato inutile. Alex, nella sua innocenza infantile, cerca di confortarlo: "Puoi chiedere a Dio di aiutarti. E sicuramente ti aiuterà.". Stephen ha ormai perso la fede, ha perso Gertrude, ha perso Arthur, ha perso Absalom, lui stesso si sente perduto; è convinto che Dio se ne sia andato e esprime tutta la sua amara disillusione cantando Lost in the Stars.
Todd Duncan è Stephen in quella produzione che rimane in cartellone fino a luglio del 1950. Todd era stato scelto da George Gershwin nel 1935 per interpretare Porgy ed è solo grazie alla sua resistenza che al National Theatre di Washington anche le persone di colore possono assistere allo spettacolo: Todd non accetta di salire su un palco di un teatro in cui le donne e gli uomini non possono sedere in platea. E finalmente nel 1945 è il primo cantante afroamericano a cantare alla New York Opera insieme a un cast di bianchi, quando interpreta Tonio nei Pagliacci di Leoncavallo. Todd è uno dei più grandi tenori della sua epoca, ma il colore della sua pelle è "sbagliato" e quindi la sua carriera non potrà mai essere come quella di un cantante bianco: è un altro che sa che quella piccola stella si è persa. Per sempre.
Nonostante sia stata scritta per un'altra opera, Lost in the Stars si adatta perfettamente, sia dal punto di vista musicale che da quello drammaturgico, al nuovo spettacolo. Nell'America che ha conosciuto la guerra, nonostante la soddisfazione per la vittoria, le ferite sono ancora vive, molte famiglie piangono per un soldato che è morto in Europa o sul Pacifico. I versi di quella canzone colpiscono la sensibilità del pubblico.
E continua a vivere anche fuori di quello spettacolo, che viene raramente riproposto a Broadway, perché tocca un tema, il razzismo, troppo sensibile per il pubblico americano. Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta sono tanti gli artisti che incidono la canzone di Anderson e Weill. Judy Garland la canta nel suo seguitissimo show televisivo sulla CBS, e poi i grandi crooner, da Frank Sinatra a Tony Bennett, e alcune delle regine del jazz, da Sarah Vaughan a Mahalia Jackson, e naturalmente Lotte Lenya che la incide in un album in cui interpreta i grandi successi del marito, morto il 3 aprile 1950, prima di vedere quanto la sua musica sia apprezzata in quello che alla fine è diventato, nonostante tutto, il suo paese.
Ma quei versi continuano a raccontare qualcosa anche all'America del Vietnam e perfino a quella degli anni di Reagan. La incidono nei loro dischi due attori che hanno una certa abitudine a stare in mezzo alle stelle: Leonard Nimoy e William Shatner; a dire il vero il capitano Kirk la recita, mentre Spock la canta con una bella voce blues. E poi cantanti lirici come Samuel Ramey e signore di Broadway come Patti LuPone. E molto intensa è la versione di Elvis Costello in un album del 1994 in cui tanti artisti rendono omaggio al genio di Kurt Weill.

Riascoltate Lost in the Stars, scegliete la versione che preferite - a me piace molto questa di Barbara Hannigan, accompagnata al pianoforte da Simon Rattle - fatevi trascinare dalla poesia della musica di Weill, e ascoltate con attenzione le parole di Maxwell Anderson, perché questa è anche la "nostra" canzone, persi tra la pandemia e le guerre, in mezzo a una imminente catastrofe ambientale. 
Può essere cantata come un inno o come una ninnananna. È come una specie di fiabesca cosmogonia: Dio, prima di creare l'acqua e la terra, tiene tra le mani le stelle, ma una di queste, una delle più piccole, scivola tra le sue dita. Il Creatore, dopo averla a lungo cercata, finalmente ritrova quella piccola stella e promette che se ne prenderà cura e che farà in modo che non possa perdersi di nuovo. Ma chi canta questa struggente canzone, che non offre la speranza di un inno né regala la tranquillità di una nenia, spiega che ormai Dio si è dimenticato di quella promessa e gli uomini se ne stanno persi tra le stelle, piccole e grandi, sparse nel vento della notte. 
È quello che noi sentiamo ogni momento, osservando le stelle del cielo, mentre aspettiamo un aereo che non arriverà.

sabato 7 agosto 2021

Verba volant (801): ritirarsi...

Ritirarsi
, v. int.

Nessun mortale corre più veloce di Atalanta, nessun mortale scaglia il giavellotto più lontano di lei, nessun mortale ha il suo coraggio e la sua abilità nella battute di caccia. Quando qualcuno le vuole fare un complimento, immancabilmente le dice che sa cacciare e combattere come un uomo. E lei si arrabbia, perché ad Atalanta non interessa essere come un uomo: vuole essere una donna, una donna libera di decidere della propria vita. 

Quando al re Iaso viene annunciato che la sua sposa ha dato alla luce una bambina, l'uomo si dispera. Tutte le sue speranze si sono infrante: vuole un maschio che possa dar lustro alla sua casata, magari ai giochi olimpici. Invece è arrivata quell'inutile bambina. Il re è furioso, non vuole avere quella femmina tra i piedi: una bocca in più da sfamare e soprattutto una dote principesca da pagare. Senza neppure essere lavata, la neonata viene consegnata a uno dei suoi servi affinché la porti in mezzo ai boschi del monte Pelio. Se vorranno gli dei potranno salvarla: quella bambina non è più un problema suo.
Un'orsa sente i vagiti della neonata, la raccoglie, la scalda, la lava, la allatta. Per qualche giorno l'animale si prende cura di quella strana cucciola senza peli, ma capisce che quella creatura non può crescere insieme a lei. C'è una coppia di vecchi pastori che vivono in mezzo al bosco: quella bambina è della loro stessa razza, sapranno cosa fare. E l'orsa sa che sono due brave persone, non hanno mai cercato di ucciderla, ma anzi le lasciano del cibo per l'inverno. L'uomo e la donna si meravigliano di trovare una neonata davanti alla porta della loro umile casa: è un dono del cielo e allevano quella bambina come fosse la loro figlia. E Atalanta cresce, bellissima, in mezzo a quei boschi, corre, va a caccia, diventa abilissima in questa attività. 
La fama di quella vergine cacciatrice comincia a diffondersi tra le città greche. E così quando Giasone raccoglie i migliori guerrieri per la sua spedizione contro la Colchide, chiama anche lei, l'unica donna tra i cinquanta guerrieri che salpano da Iolco sulla nave Argo. Molti di quei re arroganti guardano con malcelato fastidio a questa decisione di Giasone: le donne devono stare al loro posto, a casa, non possono mettersi in mente di combattere a fianco degli uomini. In una guerra le donne devono essere il bottino. Invece Atalanta è capace di combattere, anzi è brava più di molti di loro, e non sono poche le volte che il suo intervento è risolutivo. E questo non fa che accrescere la loro rabbia.
La spedizione dei guerrieri greci è un successo - peraltro solo grazie all'intervento di un'altra donna, Medea - e la fama di Atalanta comincia a diffondersi tra le città elleniche. I rapsodi raccontano le sue gesta, e non c'è neppure bisogno di inventarsi delle storie, come devono fare con gli altri eroi: con Atalanta è sufficiente dire la verità. La giovane cacciatrice è contenta di questa attenzioni, anche se si infastidisce quando dicono che sarà la prossima Teseo o la futura Eracle. "Io sono la prima Atalanta", ribatte con giustificato orgoglio.
Quando il re di Calidone deve organizzare una grande battuta di caccia per uccidere l'enorme cinghiale che terrorizza i contadini e devasta le campagne circostanti, anche Atalanta chiede di partecipare. E anche questa volta re e principi non vogliono che una femmina si intrometta: arrivano perfino a rifiutarsi di prendere parte alla caccia, se il principe Meleagro si ostina a volere che quella bastarda partecipi alla battuta. Lui però non cede. Altri due cacciatori tentano di violentare la ragazza - che impari a stare al suo posto - ma Atalanta sa difendersi, la sua vendetta è terribile e finiscono entrambi uccisi. Alla fine la caccia ha successo, grazie ad Atalanta che riesce a colpire per prima l'animale, indebolendolo abbastanza da farlo uccidere dagli altri partecipanti alla battuta. Meleagro riconosce che senza di lei non ce l'avrebbero fatta e così le assegna il premio più ambito: la pelle della bestia uccisa. Ma anche questo non fa che crescere il risentimento degli altri nobili cacciatori.
Ormai la fama di Atalanta non conosce confini e il re Iaso decide di riconoscere la figlia, perché le sue imprese possono portare lustro alla casata e al regno. Atalanta torna a casa e perdona la sua famiglia, ma la fiducia verso il padre si rivela mal riposta. Il re vuole che Atalanta si sposi: serve un uomo per continuare la dinastia. A lei gli uomini non interessano, vuole continuare a essere libera: il matrimonio non fa per lei. Il padre insiste. Atalanta cede, ma pone una condizione: sposerà il pretendente che riuscirà a sconfiggerla in una gara di corsa. Nonostante arrivino da tutta la Grecia per tentare l'impresa, allettati dalla ricca dote, dal trono e dalla gloria, nessuno riesce a sconfiggere Atalanta nella corsa. 
Un giorno arriva dalla Beozia il giovane Melanione che accetta la sfida perché è innamorato di Atalanta. E la ragazza rimane colpita dall'amore di quel pretendente. Comincia la gara, Atalanta si rende subito conto che può facilmente sconfiggerlo, e allora, inaspettatamente, decide di rallentare. Melanione corre più veloce che può e quando arriva al traguardo non riesce a credere di non trovare già lì Atalanta. Si gira ed eccola: corre piano, quasi cammina e, bella come non mai, lo raggiunge sulla linea d'arrivo. Il pubblico che assiste a quella sfida rumoreggia, la criticano per essersi ritirata, gli stessi che per anni l'hanno considerata una "diversa". I rapsodi sono i più accaniti contro di lei: doveva continuare a correre, doveva sconfiggere tutti i pretendenti, doveva dimostrare di essere la più forte. Ma cosa le è preso? Si vede che è una bastarda che non ha a cuore l'orgoglio della sua città. 
Ad Atalanta quelle critiche fanno male, anche se c'è ormai abituata: lei non è mai abbastanza, lei è sempre una donna. Ma in questo momento della sua vita lei sa che c'è qualcosa di più importante che vincere, e fa quello che ha sempre fatto: decide lei cosa fare, cosa diventare, cosa essere. Decide di essere Atalanta.

lunedì 26 luglio 2021

Considerazioni libere (428): a proposito di una sconfitta...

Riconosco di essere stato fortunato, ma devo dire una cosa che credo di aver già scritto e detto diverse volte: io ho conosciuto un mondo diverso. Eppure non sono così vecchio - anche se ho il vezzo di dire di essere un figlio del secolo scorso. Io ho conosciuto un mondo che di fronte a un'emergenza come quella che stiamo vivendo avrebbe reagito in una maniera completamente diversa. E soprattutto che di fronte alla riconosciuta necessità di avviare una campagna vaccinale di massa avrebbe dedicato ogni energia affinché questo risultato fosse raggiunto nel minor tempo possibile. Io ho conosciuto un mondo in cui i partiti, le associazioni, le parrocchie, i sindacati - insomma i corpi intermedi, come dicevamo una volta - si sarebbero mobilitati, anche in uno spirito di competizione, per fare in modo che tutti potessero vaccinarsi. Ho conosciuto un mondo in cui non sarebbe stato necessario il green pass, che non è un mezzo di schedatura nazista, come tanti cretini dicono, ma è certamente il segno di una sconfitta, perché l'unico modo che questo paese ha per costringere la persone a vaccinarsi è il ricatto: se non ti vaccini non vai allo stadio, se non ti vaccini non vai in vacanza, se non ti vaccini non vai in pizzeria. 
Ne avevo un sospetto, per quel poco che mi lascio raccontare da Zaira, ma dal momento che non ho praticamente nessuna vita sociale né leggo i giornali o vedo la televisione, né guardo le bacheche dei miei "amici" su Facebook, non mi ero reso conto fino in fondo del grado di abbruttimento sociale e civile che c'è attorno a questo tema. Che è tanto più sorprendente perché è una cosa che ci dovrebbe unire: perché uno non si vaccina per se stesso, ma lo fa inevitabilmente per gli altri, soprattutto per quelli che, per motivi di salute non possono farlo. L'immunità di gregge è proprio questo: vaccinarsi in moltissimi affinché chi non può farlo goda della stessa protezione che abbiamo noi che invece possiamo vaccinarci. Ed è il modo in cui abbiamo debellato tante malattie e l'unico modo in cui per ora possiamo combattere questa nuova, e le future che verranno. O che sono già arrivate. Quando ho scritto sui social, invece delle solite mie storie sui film in bianco e nero e sui musical di Broadway, che la vera libertà non è quella di non vaccinarsi, ma appunto quella di aiutare gli altri facendolo, si è scatenato un putiferio. Ho scritto che parlare di "dittatura sanitaria" è una castroneria, e l'ho voluto scrivere non a caso il 25 luglio, perché quella era una vera dittatura. Ammetto di essere stato anch'io cattivo, perché pensavo di parlare contro miei nemici storici, fascisti e compagnia cantante, con cui sapete che non ho pazienza né voglia di parlare, invece ho scoperto che c'è non solo una differenza politica, ma antropologica. E che la distinzione non è per forza di cose ideologica. Anzi. Ormai è così radicata la sfiducia verso tutti, è così entrato nelle viscere un individualismo violento, che non si è disposti a ascoltare una elementare regola di buon senso. 
Questo l'ho certamente già scritto, ma lo ripeto. Una cinquantina d'anni fa - ma sembra che sia passato molto più tempo - i miei genitori non si sono posti il tema se vaccinarmi o meno. Per quelli della loro generazione il vaccino non era solo un obbligo sanitario, ma in qualche modo una conquista sociale, il segno che il mondo stava cambiando, in meglio. La possibilità che tutti i bambini venissero vaccinati rappresentava una conquista, perché questo avrebbe significato debellare una serie di malattie, per cui molti, troppi, bambini loro coetanei erano morti. C'era probabilmente un'ingenuità eccessiva in questo affidarsi alla magnifiche sorti e progressive della scienza, così come era a volte mal riposta la fiducia che avevano comunque per il medico, che era uno che aveva studiato e quindi aveva più ragione di loro, che invece non avevano studiato. E infatti uno dei loro principali obiettivi era che noi studiassimo, che diventassimo anche noi dottori. E giustamente noi adesso siamo più attenti e critici, ma la possibilità che tutti i bambini - e gli adulti come in questo caso - siano vaccinati è ancora una conquista sociale e di progresso. 
Sconfiggere le malattie, così come il curare tutte le persone allo stesso modo, è un obiettivo socialista, se questa parola avesse ancora un senso. Ma mi sono accorto che ormai non l'ha più. E allora se il mondo in cui viviamo è questo, anch'io mi vaccino solo per proteggere me e mia moglie. Ma questa è una sconfitta.

domenica 11 luglio 2021

Verba volant (800): balletto...

Balletto, sost. m.

Nello studio della sua casa al 1260 di Wetherly Drive, in quel mattino di maggio, Igor Stravinsky legge per la seconda volta la lettera che gli è arrivata il giorno prima da New York: conosce molto meglio il francese rispetto all'inglese e vuole capire bene i termini di quella inusuale proposta di lavoro. L'ha scritta un tale che si firma Billy Rose e che il compositore russo non ha mai sentito nominare. Produce spettacoli a Broadway, ma Stravinsky non conosce nessuno dei titoli citati nella lunga missiva. Dice che nel suo prossimo musical vuole inserire una suite di balletto e chiede a lui di scriverne la musica. Non c'è un argomento, non c'è una storia, il Maestro sarà assolutamente libero: il signor Rose gli dice che può scrivere qualunque cosa voglia. Chiede solo che sia "musica classica". Scrive che nello spettacolo ci sarà sia la musica moderna che quella classica: e che ha già scritturato Cole Porter per la prima, adesso gli serve il meglio anche per la seconda. 
Stravinsky appoggia la lettera: è la prima volta che un produttore di Broadway gli fa una simile proposta. Naturalmente conosce le canzoni di Porter, le ascolta alla radio e gli piacciono molto. Ma fino a qual momento i suoi rapporti con quello che in America chiamano show business non sono andati molto bene. Certo la società di Disney gli ha dato cinquemila dollari per usare Le Sacre per Fantasia, facendogli capire che l'avrebbero usata comunque, perché negli Stati Uniti non vale il diritto di autore di un altro paese. Stravinsky pensa che il signor Disney sia a suo modo una persona affascinante, e forse quel film a tratti anche piacevole, ma che l'esecuzione del suo brano sia esecrabile. Anche il signor Welles è stato molto gentile con lui, quando gli ha chiesto di scrivere le musiche per Jane Eyre, ma con i produttori della 20th Century Fox non c'è stato modo di mettersi d'accordo. E anche per il film su Bernadette, dopo i primi incontri, non c'è stato nulla da fare: gli è rimasto solo l'abbozzo della musica per l'apparizione della Vergine.
E adesso c'è questo produttore di Broadway, questo Billy Rose, che ha già fatto uno spettacolo usando le musiche di Bizet, e che vuole un balletto scritto da lui. E il compenso è davvero ottimo. Stravinsky manda un telegramma al signor Rose: accetta quel lavoro. 

William Samuel Rosenberg è basso di statura, ed è dannatamente veloce. Nella sua scuola del Bronx nessuno corre come lui sulle cinquanta iarde, ma non ha certo il fisico per giocare a football. Però è anche il più veloce della sua classe di stenografia. Il suo professore è John Robert Gregg, l'inventore di un fortunato sistema per la notazione stenografica, uno dei più usati al mondo. In un concorso, usando proprio il Gregg System, riesce a scrivere sotto dettatura centocinquanta parole al minuto, usando entrambe le mani e andando avanti e indietro. E così a meno di vent'anni, questo ragazzo nato nel 1899, diventa uno dei più abili impiegati stenografici di Bernard Baruch, il "Lupo solitario" di Wall Street, ricco e temuto broker, diventato consigliere economico del presidente Wilson e capo del War Industries Board, l'organismo che deve gestire l'economia di guerra degli Stati Uniti, perché nessuno come Baruch è esperto di materie prime. William è un impiegato zelante e in breve diventa il responsabile di tutto il personale amministrativo dell'ufficio, ma ha un sogno che non si adatta alla routine di un travet: vuole sfondare a Broadway.
Durante la seconda metà dei Roaring Twenties scrive i testi di alcune canzoni di successo, ma lui vuole fare il produttore, vuole diventare come Ziegfeld. Si licenzia e diventa Billy Rose: meglio troncare quel cognome così smaccatamente ebreo. Non sarà come Ziegfeld, ma quel ragazzo dimostra subito un certo fiuto. Nel 1934 apre il suo primo locale a Broadway, la Billy Rose's Music Hall, e ingaggia una big band appena formata da un giovane clarinettista di Chicago, un tal Benny Goodman: è la prima in cui suonano insieme musicisti bianchi e neri. 
Il 16 novembre dell'anno dopo debutta all'Hippodrome il suo primo musical, Jumbo, scritto da Ben Hecht e Charles MacArthur con le canzoni di Richard Rodgers e Lorenz Hart. Il protagonista dello spettacolo è Jimmy Durante, mentre Paul Whitman, il "re del jazz", dirige l'orchestra. Solo all'Hippodrome si può fare uno spettacolo del genere, ambientato in un circo: e infatti sul palcoscenico viene montato un vero chapiteau e ci sono gli elefanti, i trapezisti, i leoni, i clown, i cavalli. Un vero e proprio circo, con Jimmy Durante che canta e che ogni sera fa un numero in cui l'elefante gli appoggia la zampa sulla testa. E Billy si gode lo spettacolo. Per sé riserva una poltrona in platea e anche il posto davanti: non vuole che qualcuno di quelli "alti" gli impedisca di vedere il suo varietà.
Ormai Billy è l'uomo dei grandi spettacoli, fatti per sorprendere il pubblico. Nel 1936, per festeggiare il centenario della nascita del Texas, organizza a Forth Worth uno spettacolo intitolato The Show of Shows al teatro Casa Mañana, che ha il palcoscenico girevole più grande del mondo. La star è la ballerina di burlesque Sally Rand. Nel '37 per l'Esposizione dei Grandi Laghi a Cleveland inventa il Billy Rose's Aquacade, in cui da un anfiteatro di undicimila posti a sedere si assiste a uno spettacolo che si svolge in un'enorme piscina e su un palco di sessanta metri che il pubblico vede attraverso una cortina d'acqua alta dodici, come una specie di enorme acquario. I protagonisti dello show sono Johnny Weismuller, il campione olimpico di nuoto a Parigi e Amsterdam e il Tarzan dei fortunati film della Metro, e la bellissima Eleonor Holm, anche lei campionessa olimpica di nuoto a Los Angeles e compagna di Tarzan nella versione decisamente meno popolare della 20th Century Fox, quella con Glenn Morris, medaglia d'oro nel decathlon a Berlino.
Il mondo di Broadway osserva con una certa aria di sufficienza questi successi in provincia di Billy Rose, che, proprio come Ziegfeld, vuole sempre che il suo nome sia nei titoli dei suoi spettacoli. A New York è più famoso per essere il marito di Fanny Brice. Fanny è, insieme a Lillian Lorraine, una delle indiscusse regine delle Ziegfeld Follies: partecipa alle riviste dal 1910 al '23. Fanny non è bella come Lillian, non ha il naso e la bocca di una Gibson Girl, ma ha una grande voce e soprattutto è molto simpatica, sa prendere in giro quel suo corpo lungo e con poche curve e quel naso troppo grosso: il pubblico la adora. Su Fanny negli anni Sessanta Jule Style e Bob Merrill scriveranno il musical Funny Girl con una strepitosa Barbra Streisand. Immagino ricorderete il film, ovviamente sempre con la Streisand, diretto nel '68 da William Wyler. Funny Girl racconta la prima parte della carriera di quella ragazza dall'aria buffa, con un impeccabile Walter Pidgeon nel ruolo di Florenz Ziegfeld. Meno riuscito è il sequel del 1975, diretto da Herbert Ross, intitolato Funny Lady, in cui si racconta la seconda parte della carriera della cantante, quella in cui la sua vita si intreccia con quella di Billy, interpretato dal decisamente troppo alto James Caan.
Billy continua comunque a fare i suoi spettacoli. Aquacade è una delle attrazioni della Fiera mondiale di New York del 1939, quella che ha come slogan: The World of Tomorrow. La Fiera viene inaugurata il 30 aprile: "domani" ci sarebbero state Danzica e Pearl Harbour. Il pubblico comunque fa la fila a Flushing Meadows per vedere le ballerine nuotatrici, tra cui la debuttante Esther Williams e Gertrude Ederle, del Queens, che è stata la prima donna a percorrere a nuoto il canale della Manica. 
Alla fine degli anni Trenta Billy gestisce un nuovo nightclub, il Billy Rose's Diamond Horseshoe, nel piano interrato del Paramount Hotel a Times Square. E continua a fare il vaudeville, anche se ormai i gusti del pubblico stanno cambiando, ma le ballerine di Billy sono sempre le più belle di tutta New York. E quelle con le gambe più lunghe. Ha bisogno di un coreografo e gli consigliano di scritturare un giovane ballerino di Pittsburgh. Billy ha qualche dubbio, quel ragazzo è troppo elegante, non gli sembra adatto a far ballare "tette e culi", ma poi capisce che si tratta di un grande talento: è così che Gene Kelly viene assunto al Diamond Horseshoe.
Nel 1943 Billy ha finalmente l'occasione per realizzare uno spettacolo diverso dalle riviste che ha allestito fino a quel momento. Il librettista Oscar Hammerstein II è affascinato dalla storia di Carmen e ha scritto un nuovo libretto, utilizzando le musiche composte da Georges Bizet. Carmen Jones, come si intitola l'opera, è ambientata durante la seconda guerra mondiale - Carmen lavora in una fabbrica di paracaduti - e dovrà essere interpretata da un cast composto solo da afroamericani. Hammerstein non trova un produttore e alla fine si rivolge, senza molte speranze, a Billy Rose. Si tratta evidentemente di una grande sfida, ma Billy capisce che è il suo momento, come è successo a Ziegfeld nel 1927 con Show Boat: è la sua occasione per entrare finalmente nella storia del teatro musicale. Billy ha ragione: Carmen Jones, con un cast tutto al debutto, è un successo. Finalmente i grandi giornali di New York parlano con rispetto del "piccolo" Billy, che nel frattempo ha divorziato da Fanny e si è sposato con Eleonor Holm. 
Però Billy ama la rivista e l'anno successivo vuole tornare a fare uno spettacolo che possa avere il suo nome. E poi adesso è lui che gestisce lo storico Ziegfeld Theater al 1341 della Sesta Avenue, il "tempio" delle Follies, che gli eredi di Ziegfeld, a causa della crisi del vaudeville e del burlesque, hanno trasformato in un cinema. Adesso è lui il "re della rivista". Billy ha un'idea: il suo prossimo spettacolo deve essere un omaggio alle sette arti. Ha già il titolo: The Billy Rose's Seven Lively Arts. Per il libretto chiama due tra i più prolifici e famosi autori di Broadway, George Kauffam e Ben Hecht. Le canzoni saranno di Cole Porter. Ma non basta. A Billy serve un brano di musica classica, una cosa come quelle che si ascoltano solo al Metropolitan: a Billy serve Stravinsky.

Stravinsky ha cinquantotto anni quando, alla fine di settembre del 1939, sbarca a New York per tenere un ciclo di conferenze ad Harvard. È il compositore che ha inventato la musica del nuovo secolo, il suo nome è conosciuto in tutto il mondo. Poi Hitler occupa Parigi e Stravinsky non può che rimanere in America, dove lo raggiunge anche Vera de Bosset. Dopo qualche mese la coppia si trasferisce in California, a Hollywood, perché Igor ha bisogno di caldo. E la sua casa diventa il centro di una rete di artisti e intellettuali. 
Ovviamente Billy conosce la musica di Stravinsky: anche lui è andato a vedere Fantasia. E se Stravinsky va bene per Disney, può andare bene anche per Billy Rose. E ha letto sui giornali quello che è successo al Maestro a Boston a metà di gennaio del '44. La polizia lo voleva addirittura arrestare perché avrebbe introdotto un accordo di settima dominante in un suo arrangiamento di Star-Splangled Banner. Poi si sono limitati a una multa e comunque si sono sbagliati, perché la legge vieta di usare l'inno come musica da ballo, non di cambiare l'arrangiamento. 
Comunque sia, Billy pensa che sia una fortuna che Stravinsky abbia accettato di scrivere un balletto per Seven Lively Arts.  

La composizione della suite procede veloce. Maurice Abravanel ha chiesto a Stravinsky di semplificare il più possibile la partitura: i musicisti che la suoneranno sono ottimi professionisti, ma sono abituati allo swing e non alla musica sinfonica. Il compositore russo è contento quando il signor Rose gli scrive che sarà proprio Maurice a dirigere l'orchestra durante il balletto. Lo ha conosciuto a Losanna, prima della Grande guerra, quando era poco più di un bambino, a casa degli Ansermet. Anche lui è in America dal '36: ormai loro possono vivere solo lì. 
Stravinsky conosce bene anche Alicia Markova e Anton Dolin, i ballerini inglesi ingaggiati dal signor Rose per eseguire il balletto. E Anton curerà anche la coreografia. Li ha incontrati entrambi a Parigi alla "corte" di Diaghilev, lei si chiamava ancora Lilian Alicia Marks. Sono tra i ballerini più famosi del mondo e adesso, emigrati anche loro in America, hanno ricreato lì la compagnia dei Ballets Russes. 

Billy Rose vuole davvero il meglio per il suo spettacolo. Certo adesso, a dieci anni da quel primo contratto alla Billy Rose's Music Hall, è molto più costoso ingaggiare la big band di Benny Goodman. Il 16 gennaio 1938 si è esibito alla Carnegie Hall, in un concerto che ha fatto la storia: la prima volta in cui lo swing entra in una delle grandi sale della musica classica. Nonostante tutto, Billy vuole tornare a lavorare con Goodman e sarà proprio il grande clarinettista a suonare le canzoni scritte da Cole Porter.
I protagonisti saranno Bert Lahr e Beatrice Lillie. Bert è un buon cantante, è un attore estremamente capace, ma soprattutto è un comico: una presenza costante nel vaudeville e nel teatro di varietà americano per almeno tre decenni. Anche se per il pubblico del 1944 - così come per noi - Bert Lahr è il Leone codardo della versione cinematografica del Mago di Oz, il film del 1939 diretto da Victor Fleming. E Lahr nel film è l'unico dei tre compagni d'avventura di Dorothy a cantare due canzoni da solista. E pensare che Bert non è stato la prima scelta della Metro: il produttore Mervyn LeRoy vorrebbe usare Leo, ossia il leone della Metro, quello che ruggisce prima di ogni loro film, doppiato da un attore per i dialoghi. Leo però non si dimostra particolarmente disposto ad accettare lunghe sedute di addestramento né gli altri attori sono contenti di recitare accanto a un vero leone. E così viene scelto Bert, anche se spesso la sua presenza costringe a girare più volte le scene perché i suoi colleghi, e specialmente Judy Garland, non resistono alla sua simpatia e scoppiano a ridere durante le riprese.
In The Show Is On, una divertente rivista che ha debuttato il 25 dicembre 1936 al Winter Garden Theater, con la regia di Vincente Minnelli, Bert Lahr ha già recitato a fianco di Beatrice Lillie: la coppia funziona. Beatrice è nata a Toronto e comincia la sua carriera, ancora bambina, nel West End. Partecipa, come la sua amica Gertrude Lawrence, alle riviste prodotte da André Charlot, che porta quelle due ragazze anche a Broadway. Beatrice è la protagonista di spettacoli teatrali a Londra, specialmente le commedie di Noel Coward, e di riviste a Broadway, anche se non è la classica bellezza alla Ziegfeld. Allo scoppio della seconda guerra mondiale è attivissima nell'organizzare spettacoli per le truppe, si esibisce di continuo, girando da una base all'altra, ovunque si combatta. Nel 1942 riceve la notizia che il figlio, ufficiale della marina britannica, è stato ucciso in azione a Ceylon: lei sta per cominciare uno dei suoi spettacoli per le truppe, le chiedono se vuole rinunciare. "Piangerò domani" risponde e regala canzoni e battute di spirito a quei ragazzi, come ha sempre fatto.
Poi naturalmente Billy ha bisogno di ballerine, le più belle in circolazione, perché nei suoi spettacoli non possono mai mancare. E sono splendide anche le tre cantanti principali, quelle a cui sono affidate le canzoni di Porter. Nam Wynn, oltre a essere spesso in radio e sui palcoscenici del vaudeville, negli anni Quaranta è la "voce" di Rita Hayworth, nei numeri in cui l'attrice deve cantare. Dolores Gray è una delle giovani che Billy Rose ha fatto debuttare, intuendone il talento: la sua lunga carriera tra Broadway e il West End culminerà con un Tony per Carnival in Flanders nel 1954. Anche per Mary LaRoche questo è uno dei primi ruoli importanti, anche se la sua carriera si svolgerà per lo più tra il cinema e la televisione: appare in ben cinque episodi delle serie storiche di Perry Mason, interpretando sempre ruoli diversi - e per due volte è l'assassina. Cole Porter non è particolarmente in vena quando scrive le canzoni per lo spettacolo di Billy. Solo una è memorabile e diventa uno standard, Ev'ry Time We Say Goodbye, ed è Nam che la canta, in un'interpretazione di cui purtroppo non ci rimane traccia.

Siamo ormai a metà agosto. Il signor Rose chiede a Stravinsky come sta procedendo il lavoro. Per debuttare a Broadway all'inizio di dicembre, come lui ha previsto, occorre fare le anteprime a novembre e preparare le coreografie e fare le prove. Il tempo ormai comincia a essere sempre meno. Stravinsky lavora alacremente, anche se non è del tutto soddisfatto di quello che ha scritto fino a quel momento. Il Maestro in quei giorni di agosto ascolta quello che sta succedendo in Francia. Il 15 comincia l'insurrezione dei lavoratori di Parigi, gli scioperi si susseguono giorno dopo giorno, il 19 i partigiani combattono contro i tedeschi all'interno della città, mentre le truppe americane avanzano sempre più velocemente da nord. I soldati tedeschi cominciano la ritirata. Il 23 agosto Stravinsky esultante conclude la nona parte della suite, intitolata Apoteosi. Sulla partitura scrive: Paris n'est plus aux allemands

Billy vuole proprio stupire il suo pubblico. In occasione della Fiera di New York ha conosciuto questo bizzarro pittore spagnolo, un surrealista, uno che in Francia ha lavorato anche per il cinema, e gli chiede di dipingere sette grandi tele che saranno esposte nel foyer. Salvador Dalì dipinge i sette quadri in una stanza dello Ziegfeld Theatre, dove sono poi rimasti esposti per dieci anni.

Il 24 novembre 1944, al Forest Theater di Philadelphia va in scena l'anteprima di Billy Rose's Seven Lively Arts. Il signor Rose invia al compositore un telegramma: your music great success stop could be sensational success if you would authorise robert russell bennett retouch orchestration stop bennett orchestrates even the works of cole porter. Stravinsky risponde immediatamente: satisfied with great success.

Il 7 dicembre lo spettacolo debutta finalmente a Broadway. 

Billy Rose aspetta con ansia l'edizione del New York Times. Il critico Lewis Nichols loda Bert Lahr e soprattutto Beatrice Lillie, finalmente tornata a Broadway. Appena è entrata in scena il pubblico ha cominciato ad applaudire in maniera entusiasta, non lasciandole neppure il tempo di pronunciare la sua prima battuta. Nichols dice che Benny Goodman è bravo come sempre, le ballerine sono molto belle e le cantanti seducenti, ma il suo giudizio sullo spettacolo è tranciante: "grande e sconclusionato". E aggiunge che Billy Rose ha ammucchiato tutto, manca solo il lavello della sua cucina, evidentemente perché non sa ballare e non ha belle gambe, altrimenti sarebbe stato nel cast.

Forse questa critica è ingenerosa con il povero Billy: dopo tutto il pubblico ha apprezzato Seven Lively Arts, rimasto in cartellone fino al 12 maggio del '45, per centottantatre repliche. Il problema è che il teatro musicale è ormai completamente cambiato: le riviste non funzionano più, il pubblico va a teatro a vedere una storia, in cui personaggi cantano e ballano, ma in cui deve esserci una storia. Nello stesso anno debuttano Mexican Hayride, con il libretto di Herbert e Dorothy Fields e la canzoni di Cole Porter, On the Town di Leonard Bernstein con il libretto di Betty Comden e Adolph Green, Sadie Thompson di Vernon Duke e Howard Dietz, basato su un racconto di William Somerset Maugham, Bloomer Girl con le musiche di Harold Arlen e i testi di Edgard "Yip" Harburg. Billy Rose è ormai un relitto del passato.

Anche Stravinsky a Hollywood aspetta l'edizione del più importante e influente giornale di New York. Il signor Rose gli ha scritto soltanto che c'è stato il tutto esaurito. Il compositore scorre veloce l'articolo, verso la fine legge questa frase: "Markova e Dolin hanno anche un paio di numeri, uno sulla musica di Stravinsky, che probabilmente non è il migliore che abbiano mai fatto". Nient'altro.

Billy non si arrende. Continua a produrre delle riviste. Nel 1959 divorzia dalla sua terza moglie - intanto ha divorziato anche da Eleonor - e finalmente apre il Billy Rose Theater, al 208 West della 41esima. Alla fine degli Sessanta è nel consiglio di amministrazione dell'American Society of Composers, Authors and Publisher. Nonostante il suo impegno, non può far nulla per impedire che in radio passi quella "spazzatura": a Billy proprio non piace il rock'n'roll.
Nel '46 pubblica la sua autobiografia, Wine, Women and Words, con la copertina disegnata dal suo amico Dalì. E il 2 giugno 1947 è sulla copertina di Time: intorno al suo ritratto ci sono, come una sorta di aureola, le gambe delle sue ballerine.

Stravinsky andrà sulla copertina di Time un anno dopo, il 26 luglio 1948. Lui e Vera, alla fine del 1945, sono diventati cittadini degli Stati Uniti. Il loro sponsor è l'attore Edward G. Robinson. Il 24 gennaio 1946 Stravinsky debutta alla Carnegie Hall, dirigendo la prima della sua Sinfonia in tre movimenti, in cui ha utilizzato anche quell'abbozzo sull'apparizione di Maria.
Probabilmente ciascuno di noi se deve associare Stravinsky a una città, pensa immediatamente a Parigi, anche perché ricordiamo le statue colorate della fontana a lui dedicata nella piazza di fronte al Beaubourg; invece è Los Angeles la città in cui è vissuto più a lungo e curiosamente non c'è una via o un monumento che lo ricordi. Bisogna andare al 6340 dell'Hollywood Boulevard e fermarsi sulla stella che il 2 agosto 1960 gli è stata dedicata nella categoria "Radio".

Scènes de ballet non è uno dei capolavori di Stravinsky, ma merita di essere ascoltato. Anni dopo dirà di questo suo lavoro: "È un pezzo d'epoca, un ritratto di Broadway negli ultimi anni della guerra. È leggerino e zuccheroso - allora potevo ancora mangiare dei dolci - ma non ne parlerò male, perfino della seconda pantomima, e comunque è tutto ben fatto".

sabato 26 giugno 2021

Storie (XXXI). "Quando facevamo le Feste dell'Unità"

Domenica 18 settembre 1977. Piove. Piove a dirotto. I miei genitori mi svegliano all’alba: dobbiamo andare a Modena, alla Festa nazionale dell’Unità. Saliamo tutti e tre sul Ford Transit grigio che di solito mio padre usa per andare al lavoro. I miei non hanno ancora comprato la Regata e quel camioncino è l’auto di famiglia. Ricordo il rumore della pioggia, amplificato dalla piccola cabina e l’odore dei sedili.

È il giorno del comizio finale, ma noi non andiamo a sentire Berlinguer. I miei genitori sono in servizio. La federazione del Pci di Modena ha chiesto aiuto a quella di Bologna e sono tanti i compagni che vanno a lavorare, per quella giornata straordinaria di mobilitazione.
Era una Festa nazionale importante, anche se naturalmente io non potevo saperlo.
Non ricordo nulla di quel giorno, se non la pioggia e i rimproveri di mia madre, che in quella confusione non voleva che mi allontanassi neppure un attimo dal carrello dove lei metteva velocemente i piatti sporchi che raccoglieva dai tavoli. Prima si sgombrava, prima altri compagni potevano mettersi a sedere. Questo è il ricordo del mio primo “nazionale”.

Martedì 3 luglio 1945. Stefano Schiapparelli, che per il partito ha l’incarico di amministratore dell’Unità, annuncia la nascita di una nuova associazione, che si chiama “Gli amici de l’Unità”, con lo scopo di sostenere, promuovere, diffondere il giornale in ogni parte d’Italia. A poche settimane dalla fine della guerra sono tante le preoccupazioni che incontrano i compagni impegnati a far vivere il giornale “che ha saputo durante tutto il periodo fascista, fra mille e mille difficoltà, nella sua veste clandestina, esercitare coraggiosamente la sua funzione nella battaglia per la liberazione del Paese”.
Come prima cosa il partito decide di organizzare le “Settimane de l’Unità”, a partire dalla fine del mese di luglio: avrebbero cominciato le compagne e i compagni del Veneto e del Friuli, per poi passare il testimone a quelli dell’Emilia-Romagna e infine a quelli della Lombardia. Il piemontese Schiapparelli, tra i primi ad aderire al Pci, esule in Francia, miliziano nella guerra civile spagnola, comandante partigiano, ha un’idea chiara, nata proprio dall’esempio dei comunisti francesi. Le Fêtes de l’Humanité sono già una tradizione del Pcf quando, con l’avvento del fascismo in Italia, tanti comunisti e antifascisti si rifugiano in quel paese. Anzi, all’interno delle Fêtes de l’Humanité, nella Parigi degli anni Trenta, vengono allestiti dagli italiani dei piccoli “stand dell’Unità”.

Le prime iniziative, in Veneto e in Friuli, le prime vere e proprie Feste dell’Unità, sono un successo. Particolarmente suggestiva è la “Parada de l’Unità” lungo il Canal Grande a Venezia. Il giornale comunista la descrive così: “Venezia ha visto per la prima volta, dopo cinque anni di scure notti tra un allarme aereo e l’altro, la sua prima notte luminosa sul Canal Grande seguendo la prima «parada» di una enorme galleggiante con una gran stella rossa, viva di luci e risuonante di musiche e canti”.
Sulla “galleggiante”, che avanza “lenta, sicura, maestosa” – il tono del giornale è un po’ enfatico – hanno preso posto un’orchestra e alcuni tra i più bei nomi della musica lirica, da Mario Del Monaco a Gina d’Este. Il concerto va avanti tutta la notte.

Dopo gli ottimi risultati in Emilia-Romagna, è la volta della Lombardia e della grandissima “Scampagnata de l’Unità”, che si svolge domenica 2 settembre 1945 a Mariano Comense.
Nel giornale si annunciano, con toni trionfalistici, “musiche, cori, danze, alberi della cuccagna, corse nei sacchi e una ricchissima tombola all’americana”. Le cronache non raccontano cosa abbia di particolare questa tombola per meritarsi l’aggettivo “americano”: i premi sono modesti, visto che – forse non è inutile ricordarlo – la guerra è finita da poco più di quattro mesi. Segno evidente della situazione di miseria, ancora diffusa in tutta Italia, è quest’altro annuncio che si può leggere sempre sul giornale di quei giorni: si precisa infatti che “per non infrangere le disposizioni annonarie attualmente vigenti, non si potrà organizzare sul luogo della scampagnata la vendita dei cibi” e si invitano i partecipanti “di provvedere personalmente per la propria colazione”.

Vengono organizzati cinque treni speciali da tutta la Lombardia. Nel giornale del martedì successivo, Elio Vittorini, allora caporedattore della redazione milanese, descrive con grande passione il “villaggio boschereccio” costruito a Mariano Comense con tutte le sue attrazioni. Si balla, si gioca sui prati, si prova a dimenticare quello che è successo negli ultimi due decenni. E si immagina la nuova Italia che sta per nascere.

E così nascono le Feste dell’Unità. Si tratta fin da subito di un successo, anche economico. Nell’edizione dell’Unità del 6 settembre si annuncia, con legittimo orgoglio, a dispetto della “ironia mal celata” dei detrattori, che la sottoscrizione per il giornale ha superato l’undicesimo milione di lire. Per avere un termine di paragone, il giornale allora ne costa tre.

Come ho detto, durante il mese di agosto del ’45 anche la Federazione del Pci di Bologna organizza la sua “Settimana de l’Unità”: piccoli incontri dentro e fuori porta culminati in una grande festa all’Ippodromo, domenica 12 agosto.

Giuseppe Dozza, anche lui miliziano in Spagna e comandante partigiano, eletto con una grande maggioranza sindaco della città, e Giancarlo Pajetta, allora direttore del giornale, sono i protagonisti di quella manifestazione, insieme a migliaia di persone arrivate da ogni parte della città e della provincia: tra valzer e mazurche, tra il tiro alla fune e la pentolaccia, la città cerca di riconquistare quella normalità che i durissimi anni del fascismo e della guerra hanno fatto dimenticare.

Il giornale riporta alcune notizie: “La gara di tiro alla fune, vinta dalla sezione comunista di Granarolo Emilia, ha visto impegnata una squadra della Federazione della quale faceva parte anche il Sindaco Dozza. La folla dei bambini presenti ha urlato per circa due ore seguendo il gioco della pentolaccia che ha divertito tutti. Benché alcune difficoltà tecniche, fra le quali la scarsa illuminazione ed il mancato funzionamento dei microfoni e la scarsa preparazione organizzativa, abbiano impedito alla strabocchevole folla accorsa la sera in parecchie decine di migliaia, di godere interamente delle manifestazioni approntate, la massa ha dimostrato di gradire il carattere veramente popolare della festa e siamo certi che la giornata di propaganda per il nostro giornale non sarà tanto presto dimenticata”.
In questo, l’anonimo cronista, forse troppo ingeneroso con gli organizzatori di quella festa, non si sbaglia: da questo appuntamento di fine estate all’Arcoveggio comincia la storia delle Feste dell’Unità a Bologna. Una storia di cui, nel mio piccolo, sento di far parte. E che mi fa piacere raccontarvi.

Le Feste dell’Unità diventano un appuntamento importante per il partito. Non è un caso che Togliatti scelga proprio la Festa dell’Unità di Roma, il 26 settembre del ’48, per tornare a parlare in pubblico dopo l’attentato. Il cinegiornale dimostra sia la grande folla accorsa quel giorno al Foro Italico sia l’affetto che i militanti provano per il “loro” Segretario.
In quell’anno, decisivo per la storia del secondo dopoguerra, le Feste nazionali sono due, una a Monza, come è stato nel ’47 e come sarà nel ’49, e appunto questa di Roma, per salutare il ritorno del Migliore.

Torniamo a Bologna. Nell’estate del ’46 le Feste dell’Unità si cominciano a diffondere per tutta la provincia: non c’è sezione che non organizzi un appuntamento di quello che viene chiamato “Il mese della stampa”. La conclusione di queste iniziative viene organizzata sabato 21 e domenica 22 agosto ai Giardini Margherita. Nonostante il divieto della Questura, i compagni “addobbano” la statua del Nettuno. Il Gigante – come lo chiamano con affetto i bolognesi – annuncia solenne la “Grandiosa Festa de l’Unità ai Giardini Margherita”.

Anche per quest’occasione ai Giardini arrivano compagne e compagni da ogni parte delle città e della provincia. Lungo i vialetti vengono allestiti i “bettolini” per vendere il vino: non si può preparare da mangiare, visto che tutto è ancora soggetto al razionamento. Le famiglie portano da casa i loro “cartocci”, con quel poco che si possono permettere: sono le feste della miseria.

Due sono le novità introdotte quell’anno: il concorso per preparare il miglior “giornale murale” e un concorso di bellezza. Le giovani compagne si contendono i titoli altisonanti di “Stella de l’Unità”, “Stella di Rinascita” e “Stella della Lotta” e una pelliccia del valore di quindicimila lire.

La Festa dell’Unità del ’47 vede per la prima volta la “Parata degli Amici de l’Unità”: per tre ore, dalla Montagnola ai Giardini Margherita sfilano carri allegorici, complessi ginnici, gruppi sportivi, bande musicali, trofei giganteschi sorretti da otto-dieci compagni che si danno il cambio ogni duecento metri, cartelloni colorati, tante bandiere. Enfatica e retorica la descrizione del giornale: “Se il ricordo della Parata potrà col tempo svanire, mai potremo dimenticare quella selva di drappi fiammeggianti simboli della nostra fede e delle nostre lotte”.

Nel corso degli anni la preparazione e la costruzione dei carri diventa sempre più complessa: ogni sezione realizza nel più assoluto segreto il proprio carro, come avviene nelle varie società e congreghe carnevalesche della provincia. Leggiamo ancora dalla cronaca del ’47: “Ammirata una grande conchiglia che ha al centro una perla (l’Unità) e ai lati due meravigliose sirene”. E in questo modo, tra una sfilata e un concorso di bellezza, al suono della “filuzzi”, la Festa dell’Unità diventa un appuntamento ricorrente per la città.

Il 1950 è l’anno in cui si comincia a chiamare Festival de l’Unità. Anche se il Nazionale viene organizzato a Genova – perché si deve mostrare il sostegno alla città ligure per l’affronto dei fascisti – a Bologna si fanno le cose in grande: la festa dura nove giorni, si costruisce ai Giardini Margherita una grande arena con diecimila posti a sedere. L’inaugurazione viene affidata all’orchestra e al coro del sindacato bolognese che si esibisce in un concerto di musiche verdiane. Nelle serate successive l’ormai tradizionale appuntamento con l’elezione della miss, e, tra le altre iniziative, una sfilata di moda e una riunione di boxe importante: Italia-Inghilterra, con l’incontro di cartello tra Duilio Loy e Johnny Hazel. Si tratta di un grande successo.

Anche grazie a questo risultato Bologna viene incaricata di organizzare la Festa nazionale dell’Unità del ’51, la prima di una lunga serie. “La scelta di Bologna – recita un comunicato della Federazione – quale sede della Festa Nazionale de l’Unità 1951 ha riempito di soddisfazione e di legittimo orgoglio i compagni e i lavoratori di tutta la nostra Provincia”.

Quel Nazionale del ’51 rimane per molti anni nella memoria delle compagne e dei compagni bolognesi. Il Prefetto, dopo una lunga serie di trattative e nonostante la protesta di tante associazioni democratiche e anche di tanti cittadini, nega il permesso per i Giardini Margherita: soltanto 23 giorni prima della prevista inaugurazione del 18 settembre viene concessa la Montagnola. Lo slancio dei compagni è incredibile, ingigantito, se possibile, proprio dal maldestro tentativo della Prefettura di vietare la manifestazione. Ma se la Festa dell’Unità non può essere fermata dal Prefetto, la pioggia non può essere “controllata” dalla tenacia dei compagni: comincia a piovere la sera del 17 e va avanti per tutto il giorno successivo. L’inaugurazione viene spostata al 19.

Di quella edizione è memorabile la manifestazione conclusiva. Merita citare alcuni passi dell’Unità: “La Sezione Chiarini apre la sua parata con grandi cartelloni con le parole d’ordine in difesa della pace. Gli operai della Casaralta portano il plastico della loro fabbrica […] Gli operai della Calzoni portano un grosso scarpone che spezza le armi della guerra, anche gli operai della Sabiem-Parenti hanno costruito un carro allegorico significativo: un colossale martello che schiaccia i carri armati e le fabbriche di armi”. Sono alcune delle grandi fabbriche metalmeccaniche della città, quelle che stanno facendo la ricchezza della regione e creando il boom economico. E l’enfasi sulla pace racconta bene il clima della Guerra fredda.

Alla parata seguono raffigurazioni ginniche e rappresentazioni in piazza VIII Agosto: “I ragazzi della Sezione Irma Bandiera hanno eseguito esercizi alla sbarra con agilità ed esperienza da ginnasti consumati. Medicina ha trasformato l’arena in una risaia: le betulle ai lati, un immenso cappello di paglia al centro, un coro di braccianti in sottofondo. Dal cappello sbocciano un bracciante e una mondina con una rossa bandiera. […] il grande complesso delle Sezioni Galanti e Busi ha formato successivamente e con movimenti ritmici e perfettamente eseguiti, i distintivi della Cgil, del Pci e del Psi”.

Finalmente segue il comizio di Palmiro Togliatti. Sono venuti compagni da tutta Italia. Le persone sono assiepate nella piazza e tutto intorno: da Porta Zamboni fino a piazza dei Martiri e su per via Marconi fino a piazza Malpigli; tutta via Indipendenza dal Nettuno alla stazione è piena. Togliatti parla per due ore.

Festa di partito, anzi Festa del Partito, ma anche festa popolare, una grande “fiera”. Il poeta Edoardo Sanguineti descrive lo spirito popolare di quelle Feste dell’Unità. “Il modello della «scampagnata» si è potuto risolvere nella Festa dell’Unità perché tale modello si è incrociato e saldato con quello della «fiera», […] nel riplasmarsi di fenomeni che rimescolarono, lungamente, etimi religiosi e sviluppi mercantili, tra scadenze calendariali e libero proliferare di innumerevoli forme frante e nomadi, più o meno carnevalizzabili e carnevalizzate in un secolare rimescolarsi di professionalità municipali e di abilità marginali e stravaganti, tra microcommercio ambulante e artigiano vagabondo, tra parco dei divertimenti e spettacolo viaggiante”.

In maniera forse meno poetica, ma altrettanto efficace, anni dopo il sociologo bolognese Fausto Anderlini dice che, al di là delle appartenenze, ci sono solo due cose che sono patrimonio comune della città di Bologna: la Madonna di San Luca e la Festa dell’Unità.

La Festa dell’Unità rimane in Montagnola anche nel ’52 – mentre il Nazionale si svolge a Torino – poi la Federazione decide di tornare ai Giardini Margherita.

Il ’53 il Nazionale è a Milano. In tutte le Feste si festeggia il buon esito delle elezioni politiche: è l’anno della “legge-truffa” e a Bologna la grande cancellata dei Giardini Margherita davanti a Porta Santo Stefano viene coperta da una struttura su cui campeggia la parola d’ordine: “L’Italia ha vinto, i truffatori respinti!”.

Nunzio Filogamo presenta uno spettacolo intitolato “Mezzo secolo di canzoni”.

Nel ’55 la scelta della Federazione di Bologna per la Festa provinciale cade definitivamente sulla Montagnola. Le Feste dell’Unità intanto dilagano su tutto il territorio della provincia. L’Unità riporta entusiasticamente alcuni dati riferiti al ’58: “276 Feste Sezionali, 1500 serate di Cellula, 28 milioni di sottoscrizione e un Festival Provinciale senza precedenti”.

Naturalmente ogni anno il Festival è “senza precedenti”.

Cresce e cambia l’Italia; la Festa dell’Unità cresce di anno in anno, aumentano i ristoranti, la Cinquecento sostituisce la moto Morini come premio finale della pesca. Il Nazionale si sposta tra le città dell’Italia centro-settentrionale.

Nell’aprile del ’61 l’Unione Sovietica lancia in orbita Jurij Gagarin, il primo cosmonauta. I compagni che organizzano il Festival di Bologna non vogliono far dimenticare l’evento che segna una tappa importante per il “primo paese socialista del mondo” e si mettono d’ingegno. Viene costruita una torre alta trenta metri con sopra una sfera luminosa di sei metri di diametro che rappresenta la terra e attorno, tenuto su da un’asta di metallo, lo Sputnik, “simbolo imperituro della tecnologia bolscevica”. Lo Sputnik di Bologna, come l’originale, emette a intervalli regolari il suo caratteristico “bi-bip”.

L’edizione del ’64 è segnata dal lutto: il 21 agosto muore Palmiro Togliatti. La Direzione nazionale del partito decide che, in quelle condizioni, il Nazionale può svolgersi soltanto a Bologna. Più di duecentomila compagni si ritrovano nella città emiliana da tutta Italia il 13 settembre per il comizio del nuovo segretario Luigi Longo, in ricordo del grande leader scomparso.

Nel ’68 c’è l’ultimo Nazionale alla Montagnola. “Per un socialismo giovane, aperto alle idee nuove, con l’Unità, per la sinistra unita” è la parola d’ordine che nell’anno della contestazione campeggia lungo tutta la scalinata davanti a piazza VIII Agosto.

Carmen Villani, Jimmy Fontana, Caterina Caselli e Johnny Dorelli sono gli ospiti musicali.

L’ultima domenica vengono serviti 60.000 pasti. Per costruire la Festa servono 55 chilometri di tubi Innocenti e 47 quintali di fili elettrici. Questo è l’ultimo anno in Montagnola. Il Comune deve avviare una serie di lavori di risistemazione del parco, che ormai è troppo piccolo per contenere la Festa: serve un’area più grande.

Dopo il Sessantotto la Festa dell’Unità a Bologna si sposta fuori dalle mura, prima in Fiera, poi all’Arcoveggio, quindi di nuovo in Fiera. Sono gli anni del Vietnam. Il 5 settembre del ’69 la Festa si ferma per manifestare il suo dolore per la morte di Ho Chi Min. Il lungo corteo si svolge sotto una fitta pioggia, come gran parte di quella Festa sfortunata, almeno dal punto di vista meteorologico.

Nel ’71 la Federazione di Bologna si “gemella” con la provincia vietnamita di Quang Tri: la Festa dell’Unità di quell’anno diventa l’occasione per organizzare una serie di sottoscrizioni straordinarie in favore del popolo vietnamita. Tra le altre iniziative, si monta all’interno della Festa una emoteca per donare il sangue da mandare in Vietnam.

Nel ’73 – mentre il Nazionale si svolge per la prima volta a Venezia – finalmente la Festa dell’Unità di Bologna trova la propria “casa” al Parco Nord, una grande area “vuota” a ridosso della tangenziale.

La Festa di quell’anno ospita il concerto dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretto da Zubin Metha, una grande “prima” che non manca di far nascere qualche polemica tra i “puristi”: si porta per la prima volta la musica classica fuori dalle mura cittadine, davvero tra il popolo.

Si tratta di un anno di rodaggio, in attesa del Nazionale del ’74, la “Festa del Cinquantesimo de l’Unità e del Cinquantesimo della morte di Lenin”.
E questa è davvero una grande Festa, a partire dall’inaugurazione: in piazza Maggiore il Balletto del Teatro dell’Accademia musicale di Mosca presenta Il lago dei cigni.

Anche la manifestazione di chiusura per il comizio di Enrico Berlinguer di domenica 15 settembre è imponente. Il corteo parte alla mattina dal centro della città per il Parco Nord, ma non sono pochi quelli che non arrivano in fondo. Diverse famiglie della Bolognina fanno scendere dalle loro finestre dei tubi di gomma attaccati ai rubinetti, perché quella domenica a Bologna fa un gran caldo. E in via Ferrarese, quando ormai si capisce che il corteo non sarebbe più andato avanti e tutte quelle persone, arrivate da ogni parte d’Italia, non sarebbero arrivate a sentire il comizio, non sono poche le case in cui si prepara qualcosa da mangiare per quelli del corteo. Si portano fuori tavole e sedie: anche lì c’è la Festa de l’Unità.

A Quarto Inferiore, la frazione di Granarolo dove io sono cresciuto, a metà degli anni Settanta non c’era praticamente nulla. Ma c’era, all’inizio dell’estate, la Festa dell’Unità. E c’era anche, qualche settimana prima, la Festa dell’Avanti!. Tenete conto che allora Quarto aveva poco meno di cinquecento abitanti, che però facevano due feste. E naturalmente c’erano anche i democristiani che organizzavano la festa della parrocchia. Erano davvero pochi quelli che a Quarto non avevano una festa da fare.
Per la precisione i socialisti organizzavano lì la loro festa comunale. C’era un accordo per la gestione delle strutture, acquistate in società diversi anni prima, e che, montate una volta sola, servivano a entrambe le manifestazioni. Non era insolito: anche negli anni di più forte contrapposizione tra i due partiti era attiva questa collaborazione in tante parti della provincia.
Io potevo andare anche alla festa dei socialisti, perché era praticamente sotto casa nostra, non c’era da attraversare la provinciale, e perché mio nonno Vincenzo, il padre di mia madre, era un vecchio socialista, uno di quelli che teneva l’amministrazione della sezione e della festa. Un tesoriere ligio e pignolissimo, come mi avrebbero detto anni dopo alcuni compagni del Psi. Naturalmente non potevo lavorare a quella festa, ma appena sono stato capace di tenere in mano un vassoio, potevo servire ai tavoli alla Festa dell’Unità. E non solo a quella di Quarto.
Mio padre veniva da Marano, un paese ancora più piccolo di Quarto, distante ben tre chilometri, ma sotto il comune di Castenaso. Per far vivere la Festa dell’Unità di Marano – famosa per il coniglio – era necessario che “tornassero” quelli che si erano trasferiti in un altro paese. E così noi Billi andavamo a lavorare anche lì, visto che quella festa si faceva prima di quella di Quarto.
Costruire il calendario affinché gli appuntamenti non si accavallassero era difficile, perché le feste erano davvero tante. Bastava che per qualche motivo si dovessero spostare le date di una festa per creare il caos.
Quando io ho cominciato a lavorare nelle Festa dell’Unità – dopo poco quell’epico viaggio a Modena – la sezione del Pci di Quarto Inferiore faceva davvero una bella festa: c’era il ristorante tradizionale, poi è stato aggiunto quello del pesce e infine la pizzeria per i “giovani”, poi c’era la pesca e lo stand del libro. E naturalmente tutte le sere c’era l’orchestra di liscio. Anche nelle altre frazioni di Granarolo, anche se erano più piccole di Quarto, c’era la Festa dell’Unità: Cadriano, Lovoleto e Viadagola. A Granarolo centro se ne facevano due: quella di sezione e quella comunale, dove ovviamente lavoravano anche le compagne e i compagni delle altre sezioni del Comune. In buona sostanza il Pci a Granarolo – allora un Comune di circa seimila abitanti – faceva sei Feste dell’Unità.
 

Le Feste dell’Unità intanto cambiano. Nel ’76, prima dell’anno con cui ho iniziato questa storia, il Nazionale arriva finalmente al Sud. È la Festa di Napoli, la festa del sindaco Valenzi e la festa di Eduardo.

Sabato 2 agosto 1980 una bomba fascista squarcia la stazione di Bologna e uccide ottantadue persone: come per rispondere a quel lutto, Bologna ospita ancora una volta il Nazionale. All’ingresso della Festa un enorme quadrante segna le 10.25. “Festa Nazionale a Bologna – si legge sull’Unità – nella stessa città nella quale si continua a morire per la strage del 2 agosto. Bologna ha ripreso a vivere! In nessuno dei sedici giorni sarà possibile, visitando la Festa, guardando le fotografie, i manifesti, i disegni della stazione, delle vittime, della piazza «evadere» dal momento e dal luogo in cui stiamo vivendo”. Impossibile fare festa, ma è anche un dovere continuare a fare la Festa, dire che ci siamo.

Il Nazionale torna a Bologna nel 1987. L’ultima Festa nazionale in cui è segretario Alessandro Natta, un uomo perbene, un compagno che non abbiamo apprezzato per quello che valeva.

Io durante quel Nazionale lavoro in libreria. Anche nella Festa dell’Unità di Granarolo gestisco lo stand del libro: frequento il liceo classico, sono un compagno intellettuale.

A fine agosto del 1991 apre a Bologna la Festa nazionale dell’Unità. Apparentemente tutto normale: una bella festa, tanti ristoranti, tanti spettacoli, tanti dibattiti. Una festa come le altre, sempre un po’ più grande, perché la festa deve sempre essere “senza precedenti”. Sì, sembra proprio tutto uguale, ma una “cosa” diversa c’è: dopo un lungo e travagliato dibattito abbiamo deciso, a maggioranza, di sciogliere il Pci e abbiamo fondato il Pds.

Il Nazionale viene organizzato a Bologna anche nel 1993: sarà l’ultimo di Achille Occhetto. Ripensandoci forse portiamo un po’ “sfiga”.

Io intanto a Granarolo sono stato eletto in Consiglio comunale, nelle elezioni del 1990, le ultime in cui si presenta il simbolo del Pci e faccio anche l’assessore. A Granarolo alle amministrative di quell’anno vengono eletti consiglieri del Pci, del Psi e della Dc. Cinque anni dopo nessuno di questi partiti esisterà più. Faccio anche il segretario di sezione a Quarto: la sezione c’è ancora, ma naturalmente non facciamo più la Festa dell’Unità. Ne facciamo solo una, bella e comunale, a Cadriano e come sezioni di Granarolo gestiamo un ristorante al Parco Nord. Sono tornato a servire ai tavoli.

A Bologna viene assegnato il Nazionale nel 1998. Nel frattempo abbiamo sciolto anche il Pds e abbiamo fondato i Ds. Una bella edizione quella del ’98: organizziamo il concerto di Michel Petrucciani.

Non ho usato per sbaglio quel “noi”. La Federazione mi ha chiamato a collaborare all’organizzazione della Festa: ho una specie di ufficio alla “palazzina rossa” del Parco Nord e un incarico non ben definito, che però mi permette di fare molte cose. Studio la Festa “dall’interno”.

Domenica 27 giugno 1999: Giorgio Guazzaloca diventa sindaco. È caduto il muro di Bologna: titolano con scarsa fantasia i giornali. La Federazione è travolta. Viene commissariata da Roma e Mauro Zani diventa Segretario.

Però bisogna organizzare la Festa dell’Unità al Parco Nord. Inaspettatamente divento il Responsabile delle Feste, comincio a fare il funzionario di partito.

A suo modo quella Festa dell’Unità è “senza precedenti”: la prima volta che siamo all’opposizione. I primi giorni vengono i giornalisti delle testate nazionali per vedere come ce la stiamo cavando: e nonostante tutto facciamo una bella festa.

Ovviamente io non alcun merito per la buona riuscita di quella Festa dell’Unità. Nessuno di quelli che ha svolto, più o meno bene, quell’incarico può in coscienza pensare di avere dei meriti particolari. Quando abbiamo fatto bene è perché ci siamo messi al servizio di una ”macchina”, provando a non fare troppi danni con le nostre idee, con la voglia di fare qualcosa di diverso. Perché la Festa è davvero uno sforzo collettivo, il mettere insieme passioni, intelligenze, caratteri di donne e uomini anche molto diversi che però hanno quell’obiettivo comune.
Almeno è così che io ho vissuto gli anni in cui ho fatto quel lavoro, dal 1999 al 2005, l’anno del sessantesimo delle Feste; anche cercando di tornare a fare piccole Feste dell’Unità sia in città che in provincia. E in mezzo ci sono stati anche due Nazionali, quello del 2000 – la prima Festa dell’Unità senza il quotidiano in edicola – e quello del 2003 – la Festa in cui abbiamo lanciato la candidatura di Sergio Cofferati, che avrebbe vinto le comunali dell’anno successivo.
E se chiedete a chi ha fatto tante feste cosa si ricorda, a parte la fatica, le arrabbiature, lo sconforto, vi dirà sempre il piacere di stare insieme, di fare qualcosa insieme agli altri. E questo, anche se le Feste dell’Unità non ci sono più – o sono pallide imitazioni – nessuno ce lo toglierà.


Le Feste dell’Unità sono un bel modo di fare politica. Non si capisce cos’è una Festa de l’Unità se non si coglie la passione dei volontari che la fanno vivere giorno per giorno. Queste sono le parole con cui Enrico Berlinguer ha ringraziato le compagne e i compagni che hanno organizzato la Festa nazionale di Reggio Emilia del 1983, l’ultima Festa a cui ha partecipato.

“Un nuovo motivo del successo delle nostre feste, e di questa nazionale, è che esse sono frutto di quell’immensa mano operosa che è costituita dal lavoro indefesso, certosino, entusiasta di migliaia e migliaia di compagni e di compagne che, senza alcun tornaconto personale, ma mossi solo da spirito di dedizione e da una grande carica ideale, si sono prodigati con intelligenza e passione in tutte le incombenze e in tutti i mestieri dei quali c’è bisogno di mettere in piedi e far funzionare questa realizzazione davvero formidabile. È forse questo il patrimonio inestimabile di cui più siamo ricchi. E la cosa più significativa, e vorrei dire meritoria, è che questo nostro patrimonio noi non lo spendiamo solo per le cose del nostro partito, ma lo mettiamo a disposizione del paese in ogni circostanza, specialmente in quelle più drammatiche e dolorose”.