sabato 26 giugno 2021

Storie (XXXI). "Quando facevamo le Feste dell'Unità"

Domenica 18 settembre 1977. Piove. Piove a dirotto. I miei genitori mi svegliano all’alba: dobbiamo andare a Modena, alla Festa nazionale dell’Unità. Saliamo tutti e tre sul Ford Transit grigio che di solito mio padre usa per andare al lavoro. I miei non hanno ancora comprato la Regata e quel camioncino è l’auto di famiglia. Ricordo il rumore della pioggia, amplificato dalla piccola cabina e l’odore dei sedili.

È il giorno del comizio finale, ma noi non andiamo a sentire Berlinguer. I miei genitori sono in servizio. La federazione del Pci di Modena ha chiesto aiuto a quella di Bologna e sono tanti i compagni che vanno a lavorare, per quella giornata straordinaria di mobilitazione.
Era una Festa nazionale importante, anche se naturalmente io non potevo saperlo.
Non ricordo nulla di quel giorno, se non la pioggia e i rimproveri di mia madre, che in quella confusione non voleva che mi allontanassi neppure un attimo dal carrello dove lei metteva velocemente i piatti sporchi che raccoglieva dai tavoli. Prima si sgombrava, prima altri compagni potevano mettersi a sedere. Questo è il ricordo del mio primo “nazionale”.

Martedì 3 luglio 1945. Stefano Schiapparelli, che per il partito ha l’incarico di amministratore dell’Unità, annuncia la nascita di una nuova associazione, che si chiama “Gli amici de l’Unità”, con lo scopo di sostenere, promuovere, diffondere il giornale in ogni parte d’Italia. A poche settimane dalla fine della guerra sono tante le preoccupazioni che incontrano i compagni impegnati a far vivere il giornale “che ha saputo durante tutto il periodo fascista, fra mille e mille difficoltà, nella sua veste clandestina, esercitare coraggiosamente la sua funzione nella battaglia per la liberazione del Paese”.
Come prima cosa il partito decide di organizzare le “Settimane de l’Unità”, a partire dalla fine del mese di luglio: avrebbero cominciato le compagne e i compagni del Veneto e del Friuli, per poi passare il testimone a quelli dell’Emilia-Romagna e infine a quelli della Lombardia. Il piemontese Schiapparelli, tra i primi ad aderire al Pci, esule in Francia, miliziano nella guerra civile spagnola, comandante partigiano, ha un’idea chiara, nata proprio dall’esempio dei comunisti francesi. Le Fêtes de l’Humanité sono già una tradizione del Pcf quando, con l’avvento del fascismo in Italia, tanti comunisti e antifascisti si rifugiano in quel paese. Anzi, all’interno delle Fêtes de l’Humanité, nella Parigi degli anni Trenta, vengono allestiti dagli italiani dei piccoli “stand dell’Unità”.

Le prime iniziative, in Veneto e in Friuli, le prime vere e proprie Feste dell’Unità, sono un successo. Particolarmente suggestiva è la “Parada de l’Unità” lungo il Canal Grande a Venezia. Il giornale comunista la descrive così: “Venezia ha visto per la prima volta, dopo cinque anni di scure notti tra un allarme aereo e l’altro, la sua prima notte luminosa sul Canal Grande seguendo la prima «parada» di una enorme galleggiante con una gran stella rossa, viva di luci e risuonante di musiche e canti”.
Sulla “galleggiante”, che avanza “lenta, sicura, maestosa” – il tono del giornale è un po’ enfatico – hanno preso posto un’orchestra e alcuni tra i più bei nomi della musica lirica, da Mario Del Monaco a Gina d’Este. Il concerto va avanti tutta la notte.

Dopo gli ottimi risultati in Emilia-Romagna, è la volta della Lombardia e della grandissima “Scampagnata de l’Unità”, che si svolge domenica 2 settembre 1945 a Mariano Comense.
Nel giornale si annunciano, con toni trionfalistici, “musiche, cori, danze, alberi della cuccagna, corse nei sacchi e una ricchissima tombola all’americana”. Le cronache non raccontano cosa abbia di particolare questa tombola per meritarsi l’aggettivo “americano”: i premi sono modesti, visto che – forse non è inutile ricordarlo – la guerra è finita da poco più di quattro mesi. Segno evidente della situazione di miseria, ancora diffusa in tutta Italia, è quest’altro annuncio che si può leggere sempre sul giornale di quei giorni: si precisa infatti che “per non infrangere le disposizioni annonarie attualmente vigenti, non si potrà organizzare sul luogo della scampagnata la vendita dei cibi” e si invitano i partecipanti “di provvedere personalmente per la propria colazione”.

Vengono organizzati cinque treni speciali da tutta la Lombardia. Nel giornale del martedì successivo, Elio Vittorini, allora caporedattore della redazione milanese, descrive con grande passione il “villaggio boschereccio” costruito a Mariano Comense con tutte le sue attrazioni. Si balla, si gioca sui prati, si prova a dimenticare quello che è successo negli ultimi due decenni. E si immagina la nuova Italia che sta per nascere.

E così nascono le Feste dell’Unità. Si tratta fin da subito di un successo, anche economico. Nell’edizione dell’Unità del 6 settembre si annuncia, con legittimo orgoglio, a dispetto della “ironia mal celata” dei detrattori, che la sottoscrizione per il giornale ha superato l’undicesimo milione di lire. Per avere un termine di paragone, il giornale allora ne costa tre.

Come ho detto, durante il mese di agosto del ’45 anche la Federazione del Pci di Bologna organizza la sua “Settimana de l’Unità”: piccoli incontri dentro e fuori porta culminati in una grande festa all’Ippodromo, domenica 12 agosto.

Giuseppe Dozza, anche lui miliziano in Spagna e comandante partigiano, eletto con una grande maggioranza sindaco della città, e Giancarlo Pajetta, allora direttore del giornale, sono i protagonisti di quella manifestazione, insieme a migliaia di persone arrivate da ogni parte della città e della provincia: tra valzer e mazurche, tra il tiro alla fune e la pentolaccia, la città cerca di riconquistare quella normalità che i durissimi anni del fascismo e della guerra hanno fatto dimenticare.

Il giornale riporta alcune notizie: “La gara di tiro alla fune, vinta dalla sezione comunista di Granarolo Emilia, ha visto impegnata una squadra della Federazione della quale faceva parte anche il Sindaco Dozza. La folla dei bambini presenti ha urlato per circa due ore seguendo il gioco della pentolaccia che ha divertito tutti. Benché alcune difficoltà tecniche, fra le quali la scarsa illuminazione ed il mancato funzionamento dei microfoni e la scarsa preparazione organizzativa, abbiano impedito alla strabocchevole folla accorsa la sera in parecchie decine di migliaia, di godere interamente delle manifestazioni approntate, la massa ha dimostrato di gradire il carattere veramente popolare della festa e siamo certi che la giornata di propaganda per il nostro giornale non sarà tanto presto dimenticata”.
In questo, l’anonimo cronista, forse troppo ingeneroso con gli organizzatori di quella festa, non si sbaglia: da questo appuntamento di fine estate all’Arcoveggio comincia la storia delle Feste dell’Unità a Bologna. Una storia di cui, nel mio piccolo, sento di far parte. E che mi fa piacere raccontarvi.

Le Feste dell’Unità diventano un appuntamento importante per il partito. Non è un caso che Togliatti scelga proprio la Festa dell’Unità di Roma, il 26 settembre del ’48, per tornare a parlare in pubblico dopo l’attentato. Il cinegiornale dimostra sia la grande folla accorsa quel giorno al Foro Italico sia l’affetto che i militanti provano per il “loro” Segretario.
In quell’anno, decisivo per la storia del secondo dopoguerra, le Feste nazionali sono due, una a Monza, come è stato nel ’47 e come sarà nel ’49, e appunto questa di Roma, per salutare il ritorno del Migliore.

Torniamo a Bologna. Nell’estate del ’46 le Feste dell’Unità si cominciano a diffondere per tutta la provincia: non c’è sezione che non organizzi un appuntamento di quello che viene chiamato “Il mese della stampa”. La conclusione di queste iniziative viene organizzata sabato 21 e domenica 22 agosto ai Giardini Margherita. Nonostante il divieto della Questura, i compagni “addobbano” la statua del Nettuno. Il Gigante – come lo chiamano con affetto i bolognesi – annuncia solenne la “Grandiosa Festa de l’Unità ai Giardini Margherita”.

Anche per quest’occasione ai Giardini arrivano compagne e compagni da ogni parte delle città e della provincia. Lungo i vialetti vengono allestiti i “bettolini” per vendere il vino: non si può preparare da mangiare, visto che tutto è ancora soggetto al razionamento. Le famiglie portano da casa i loro “cartocci”, con quel poco che si possono permettere: sono le feste della miseria.

Due sono le novità introdotte quell’anno: il concorso per preparare il miglior “giornale murale” e un concorso di bellezza. Le giovani compagne si contendono i titoli altisonanti di “Stella de l’Unità”, “Stella di Rinascita” e “Stella della Lotta” e una pelliccia del valore di quindicimila lire.

La Festa dell’Unità del ’47 vede per la prima volta la “Parata degli Amici de l’Unità”: per tre ore, dalla Montagnola ai Giardini Margherita sfilano carri allegorici, complessi ginnici, gruppi sportivi, bande musicali, trofei giganteschi sorretti da otto-dieci compagni che si danno il cambio ogni duecento metri, cartelloni colorati, tante bandiere. Enfatica e retorica la descrizione del giornale: “Se il ricordo della Parata potrà col tempo svanire, mai potremo dimenticare quella selva di drappi fiammeggianti simboli della nostra fede e delle nostre lotte”.

Nel corso degli anni la preparazione e la costruzione dei carri diventa sempre più complessa: ogni sezione realizza nel più assoluto segreto il proprio carro, come avviene nelle varie società e congreghe carnevalesche della provincia. Leggiamo ancora dalla cronaca del ’47: “Ammirata una grande conchiglia che ha al centro una perla (l’Unità) e ai lati due meravigliose sirene”. E in questo modo, tra una sfilata e un concorso di bellezza, al suono della “filuzzi”, la Festa dell’Unità diventa un appuntamento ricorrente per la città.

Il 1950 è l’anno in cui si comincia a chiamare Festival de l’Unità. Anche se il Nazionale viene organizzato a Genova – perché si deve mostrare il sostegno alla città ligure per l’affronto dei fascisti – a Bologna si fanno le cose in grande: la festa dura nove giorni, si costruisce ai Giardini Margherita una grande arena con diecimila posti a sedere. L’inaugurazione viene affidata all’orchestra e al coro del sindacato bolognese che si esibisce in un concerto di musiche verdiane. Nelle serate successive l’ormai tradizionale appuntamento con l’elezione della miss, e, tra le altre iniziative, una sfilata di moda e una riunione di boxe importante: Italia-Inghilterra, con l’incontro di cartello tra Duilio Loy e Johnny Hazel. Si tratta di un grande successo.

Anche grazie a questo risultato Bologna viene incaricata di organizzare la Festa nazionale dell’Unità del ’51, la prima di una lunga serie. “La scelta di Bologna – recita un comunicato della Federazione – quale sede della Festa Nazionale de l’Unità 1951 ha riempito di soddisfazione e di legittimo orgoglio i compagni e i lavoratori di tutta la nostra Provincia”.

Quel Nazionale del ’51 rimane per molti anni nella memoria delle compagne e dei compagni bolognesi. Il Prefetto, dopo una lunga serie di trattative e nonostante la protesta di tante associazioni democratiche e anche di tanti cittadini, nega il permesso per i Giardini Margherita: soltanto 23 giorni prima della prevista inaugurazione del 18 settembre viene concessa la Montagnola. Lo slancio dei compagni è incredibile, ingigantito, se possibile, proprio dal maldestro tentativo della Prefettura di vietare la manifestazione. Ma se la Festa dell’Unità non può essere fermata dal Prefetto, la pioggia non può essere “controllata” dalla tenacia dei compagni: comincia a piovere la sera del 17 e va avanti per tutto il giorno successivo. L’inaugurazione viene spostata al 19.

Di quella edizione è memorabile la manifestazione conclusiva. Merita citare alcuni passi dell’Unità: “La Sezione Chiarini apre la sua parata con grandi cartelloni con le parole d’ordine in difesa della pace. Gli operai della Casaralta portano il plastico della loro fabbrica […] Gli operai della Calzoni portano un grosso scarpone che spezza le armi della guerra, anche gli operai della Sabiem-Parenti hanno costruito un carro allegorico significativo: un colossale martello che schiaccia i carri armati e le fabbriche di armi”. Sono alcune delle grandi fabbriche metalmeccaniche della città, quelle che stanno facendo la ricchezza della regione e creando il boom economico. E l’enfasi sulla pace racconta bene il clima della Guerra fredda.

Alla parata seguono raffigurazioni ginniche e rappresentazioni in piazza VIII Agosto: “I ragazzi della Sezione Irma Bandiera hanno eseguito esercizi alla sbarra con agilità ed esperienza da ginnasti consumati. Medicina ha trasformato l’arena in una risaia: le betulle ai lati, un immenso cappello di paglia al centro, un coro di braccianti in sottofondo. Dal cappello sbocciano un bracciante e una mondina con una rossa bandiera. […] il grande complesso delle Sezioni Galanti e Busi ha formato successivamente e con movimenti ritmici e perfettamente eseguiti, i distintivi della Cgil, del Pci e del Psi”.

Finalmente segue il comizio di Palmiro Togliatti. Sono venuti compagni da tutta Italia. Le persone sono assiepate nella piazza e tutto intorno: da Porta Zamboni fino a piazza dei Martiri e su per via Marconi fino a piazza Malpigli; tutta via Indipendenza dal Nettuno alla stazione è piena. Togliatti parla per due ore.

Festa di partito, anzi Festa del Partito, ma anche festa popolare, una grande “fiera”. Il poeta Edoardo Sanguineti descrive lo spirito popolare di quelle Feste dell’Unità. “Il modello della «scampagnata» si è potuto risolvere nella Festa dell’Unità perché tale modello si è incrociato e saldato con quello della «fiera», […] nel riplasmarsi di fenomeni che rimescolarono, lungamente, etimi religiosi e sviluppi mercantili, tra scadenze calendariali e libero proliferare di innumerevoli forme frante e nomadi, più o meno carnevalizzabili e carnevalizzate in un secolare rimescolarsi di professionalità municipali e di abilità marginali e stravaganti, tra microcommercio ambulante e artigiano vagabondo, tra parco dei divertimenti e spettacolo viaggiante”.

In maniera forse meno poetica, ma altrettanto efficace, anni dopo il sociologo bolognese Fausto Anderlini dice che, al di là delle appartenenze, ci sono solo due cose che sono patrimonio comune della città di Bologna: la Madonna di San Luca e la Festa dell’Unità.

La Festa dell’Unità rimane in Montagnola anche nel ’52 – mentre il Nazionale si svolge a Torino – poi la Federazione decide di tornare ai Giardini Margherita.

Il ’53 il Nazionale è a Milano. In tutte le Feste si festeggia il buon esito delle elezioni politiche: è l’anno della “legge-truffa” e a Bologna la grande cancellata dei Giardini Margherita davanti a Porta Santo Stefano viene coperta da una struttura su cui campeggia la parola d’ordine: “L’Italia ha vinto, i truffatori respinti!”.

Nunzio Filogamo presenta uno spettacolo intitolato “Mezzo secolo di canzoni”.

Nel ’55 la scelta della Federazione di Bologna per la Festa provinciale cade definitivamente sulla Montagnola. Le Feste dell’Unità intanto dilagano su tutto il territorio della provincia. L’Unità riporta entusiasticamente alcuni dati riferiti al ’58: “276 Feste Sezionali, 1500 serate di Cellula, 28 milioni di sottoscrizione e un Festival Provinciale senza precedenti”.

Naturalmente ogni anno il Festival è “senza precedenti”.

Cresce e cambia l’Italia; la Festa dell’Unità cresce di anno in anno, aumentano i ristoranti, la Cinquecento sostituisce la moto Morini come premio finale della pesca. Il Nazionale si sposta tra le città dell’Italia centro-settentrionale.

Nell’aprile del ’61 l’Unione Sovietica lancia in orbita Jurij Gagarin, il primo cosmonauta. I compagni che organizzano il Festival di Bologna non vogliono far dimenticare l’evento che segna una tappa importante per il “primo paese socialista del mondo” e si mettono d’ingegno. Viene costruita una torre alta trenta metri con sopra una sfera luminosa di sei metri di diametro che rappresenta la terra e attorno, tenuto su da un’asta di metallo, lo Sputnik, “simbolo imperituro della tecnologia bolscevica”. Lo Sputnik di Bologna, come l’originale, emette a intervalli regolari il suo caratteristico “bi-bip”.

L’edizione del ’64 è segnata dal lutto: il 21 agosto muore Palmiro Togliatti. La Direzione nazionale del partito decide che, in quelle condizioni, il Nazionale può svolgersi soltanto a Bologna. Più di duecentomila compagni si ritrovano nella città emiliana da tutta Italia il 13 settembre per il comizio del nuovo segretario Luigi Longo, in ricordo del grande leader scomparso.

Nel ’68 c’è l’ultimo Nazionale alla Montagnola. “Per un socialismo giovane, aperto alle idee nuove, con l’Unità, per la sinistra unita” è la parola d’ordine che nell’anno della contestazione campeggia lungo tutta la scalinata davanti a piazza VIII Agosto.

Carmen Villani, Jimmy Fontana, Caterina Caselli e Johnny Dorelli sono gli ospiti musicali.

L’ultima domenica vengono serviti 60.000 pasti. Per costruire la Festa servono 55 chilometri di tubi Innocenti e 47 quintali di fili elettrici. Questo è l’ultimo anno in Montagnola. Il Comune deve avviare una serie di lavori di risistemazione del parco, che ormai è troppo piccolo per contenere la Festa: serve un’area più grande.

Dopo il Sessantotto la Festa dell’Unità a Bologna si sposta fuori dalle mura, prima in Fiera, poi all’Arcoveggio, quindi di nuovo in Fiera. Sono gli anni del Vietnam. Il 5 settembre del ’69 la Festa si ferma per manifestare il suo dolore per la morte di Ho Chi Min. Il lungo corteo si svolge sotto una fitta pioggia, come gran parte di quella Festa sfortunata, almeno dal punto di vista meteorologico.

Nel ’71 la Federazione di Bologna si “gemella” con la provincia vietnamita di Quang Tri: la Festa dell’Unità di quell’anno diventa l’occasione per organizzare una serie di sottoscrizioni straordinarie in favore del popolo vietnamita. Tra le altre iniziative, si monta all’interno della Festa una emoteca per donare il sangue da mandare in Vietnam.

Nel ’73 – mentre il Nazionale si svolge per la prima volta a Venezia – finalmente la Festa dell’Unità di Bologna trova la propria “casa” al Parco Nord, una grande area “vuota” a ridosso della tangenziale.

La Festa di quell’anno ospita il concerto dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretto da Zubin Metha, una grande “prima” che non manca di far nascere qualche polemica tra i “puristi”: si porta per la prima volta la musica classica fuori dalle mura cittadine, davvero tra il popolo.

Si tratta di un anno di rodaggio, in attesa del Nazionale del ’74, la “Festa del Cinquantesimo de l’Unità e del Cinquantesimo della morte di Lenin”.
E questa è davvero una grande Festa, a partire dall’inaugurazione: in piazza Maggiore il Balletto del Teatro dell’Accademia musicale di Mosca presenta Il lago dei cigni.

Anche la manifestazione di chiusura per il comizio di Enrico Berlinguer di domenica 15 settembre è imponente. Il corteo parte alla mattina dal centro della città per il Parco Nord, ma non sono pochi quelli che non arrivano in fondo. Diverse famiglie della Bolognina fanno scendere dalle loro finestre dei tubi di gomma attaccati ai rubinetti, perché quella domenica a Bologna fa un gran caldo. E in via Ferrarese, quando ormai si capisce che il corteo non sarebbe più andato avanti e tutte quelle persone, arrivate da ogni parte d’Italia, non sarebbero arrivate a sentire il comizio, non sono poche le case in cui si prepara qualcosa da mangiare per quelli del corteo. Si portano fuori tavole e sedie: anche lì c’è la Festa de l’Unità.

A Quarto Inferiore, la frazione di Granarolo dove io sono cresciuto, a metà degli anni Settanta non c’era praticamente nulla. Ma c’era, all’inizio dell’estate, la Festa dell’Unità. E c’era anche, qualche settimana prima, la Festa dell’Avanti!. Tenete conto che allora Quarto aveva poco meno di cinquecento abitanti, che però facevano due feste. E naturalmente c’erano anche i democristiani che organizzavano la festa della parrocchia. Erano davvero pochi quelli che a Quarto non avevano una festa da fare.
Per la precisione i socialisti organizzavano lì la loro festa comunale. C’era un accordo per la gestione delle strutture, acquistate in società diversi anni prima, e che, montate una volta sola, servivano a entrambe le manifestazioni. Non era insolito: anche negli anni di più forte contrapposizione tra i due partiti era attiva questa collaborazione in tante parti della provincia.
Io potevo andare anche alla festa dei socialisti, perché era praticamente sotto casa nostra, non c’era da attraversare la provinciale, e perché mio nonno Vincenzo, il padre di mia madre, era un vecchio socialista, uno di quelli che teneva l’amministrazione della sezione e della festa. Un tesoriere ligio e pignolissimo, come mi avrebbero detto anni dopo alcuni compagni del Psi. Naturalmente non potevo lavorare a quella festa, ma appena sono stato capace di tenere in mano un vassoio, potevo servire ai tavoli alla Festa dell’Unità. E non solo a quella di Quarto.
Mio padre veniva da Marano, un paese ancora più piccolo di Quarto, distante ben tre chilometri, ma sotto il comune di Castenaso. Per far vivere la Festa dell’Unità di Marano – famosa per il coniglio – era necessario che “tornassero” quelli che si erano trasferiti in un altro paese. E così noi Billi andavamo a lavorare anche lì, visto che quella festa si faceva prima di quella di Quarto.
Costruire il calendario affinché gli appuntamenti non si accavallassero era difficile, perché le feste erano davvero tante. Bastava che per qualche motivo si dovessero spostare le date di una festa per creare il caos.
Quando io ho cominciato a lavorare nelle Festa dell’Unità – dopo poco quell’epico viaggio a Modena – la sezione del Pci di Quarto Inferiore faceva davvero una bella festa: c’era il ristorante tradizionale, poi è stato aggiunto quello del pesce e infine la pizzeria per i “giovani”, poi c’era la pesca e lo stand del libro. E naturalmente tutte le sere c’era l’orchestra di liscio. Anche nelle altre frazioni di Granarolo, anche se erano più piccole di Quarto, c’era la Festa dell’Unità: Cadriano, Lovoleto e Viadagola. A Granarolo centro se ne facevano due: quella di sezione e quella comunale, dove ovviamente lavoravano anche le compagne e i compagni delle altre sezioni del Comune. In buona sostanza il Pci a Granarolo – allora un Comune di circa seimila abitanti – faceva sei Feste dell’Unità.
 

Le Feste dell’Unità intanto cambiano. Nel ’76, prima dell’anno con cui ho iniziato questa storia, il Nazionale arriva finalmente al Sud. È la Festa di Napoli, la festa del sindaco Valenzi e la festa di Eduardo.

Sabato 2 agosto 1980 una bomba fascista squarcia la stazione di Bologna e uccide ottantadue persone: come per rispondere a quel lutto, Bologna ospita ancora una volta il Nazionale. All’ingresso della Festa un enorme quadrante segna le 10.25. “Festa Nazionale a Bologna – si legge sull’Unità – nella stessa città nella quale si continua a morire per la strage del 2 agosto. Bologna ha ripreso a vivere! In nessuno dei sedici giorni sarà possibile, visitando la Festa, guardando le fotografie, i manifesti, i disegni della stazione, delle vittime, della piazza «evadere» dal momento e dal luogo in cui stiamo vivendo”. Impossibile fare festa, ma è anche un dovere continuare a fare la Festa, dire che ci siamo.

Il Nazionale torna a Bologna nel 1987. L’ultima Festa nazionale in cui è segretario Alessandro Natta, un uomo perbene, un compagno che non abbiamo apprezzato per quello che valeva.

Io durante quel Nazionale lavoro in libreria. Anche nella Festa dell’Unità di Granarolo gestisco lo stand del libro: frequento il liceo classico, sono un compagno intellettuale.

A fine agosto del 1991 apre a Bologna la Festa nazionale dell’Unità. Apparentemente tutto normale: una bella festa, tanti ristoranti, tanti spettacoli, tanti dibattiti. Una festa come le altre, sempre un po’ più grande, perché la festa deve sempre essere “senza precedenti”. Sì, sembra proprio tutto uguale, ma una “cosa” diversa c’è: dopo un lungo e travagliato dibattito abbiamo deciso, a maggioranza, di sciogliere il Pci e abbiamo fondato il Pds.

Il Nazionale viene organizzato a Bologna anche nel 1993: sarà l’ultimo di Achille Occhetto. Ripensandoci forse portiamo un po’ “sfiga”.

Io intanto a Granarolo sono stato eletto in Consiglio comunale, nelle elezioni del 1990, le ultime in cui si presenta il simbolo del Pci e faccio anche l’assessore. A Granarolo alle amministrative di quell’anno vengono eletti consiglieri del Pci, del Psi e della Dc. Cinque anni dopo nessuno di questi partiti esisterà più. Faccio anche il segretario di sezione a Quarto: la sezione c’è ancora, ma naturalmente non facciamo più la Festa dell’Unità. Ne facciamo solo una, bella e comunale, a Cadriano e come sezioni di Granarolo gestiamo un ristorante al Parco Nord. Sono tornato a servire ai tavoli.

A Bologna viene assegnato il Nazionale nel 1998. Nel frattempo abbiamo sciolto anche il Pds e abbiamo fondato i Ds. Una bella edizione quella del ’98: organizziamo il concerto di Michel Petrucciani.

Non ho usato per sbaglio quel “noi”. La Federazione mi ha chiamato a collaborare all’organizzazione della Festa: ho una specie di ufficio alla “palazzina rossa” del Parco Nord e un incarico non ben definito, che però mi permette di fare molte cose. Studio la Festa “dall’interno”.

Domenica 27 giugno 1999: Giorgio Guazzaloca diventa sindaco. È caduto il muro di Bologna: titolano con scarsa fantasia i giornali. La Federazione è travolta. Viene commissariata da Roma e Mauro Zani diventa Segretario.

Però bisogna organizzare la Festa dell’Unità al Parco Nord. Inaspettatamente divento il Responsabile delle Feste, comincio a fare il funzionario di partito.

A suo modo quella Festa dell’Unità è “senza precedenti”: la prima volta che siamo all’opposizione. I primi giorni vengono i giornalisti delle testate nazionali per vedere come ce la stiamo cavando: e nonostante tutto facciamo una bella festa.

Ovviamente io non alcun merito per la buona riuscita di quella Festa dell’Unità. Nessuno di quelli che ha svolto, più o meno bene, quell’incarico può in coscienza pensare di avere dei meriti particolari. Quando abbiamo fatto bene è perché ci siamo messi al servizio di una ”macchina”, provando a non fare troppi danni con le nostre idee, con la voglia di fare qualcosa di diverso. Perché la Festa è davvero uno sforzo collettivo, il mettere insieme passioni, intelligenze, caratteri di donne e uomini anche molto diversi che però hanno quell’obiettivo comune.
Almeno è così che io ho vissuto gli anni in cui ho fatto quel lavoro, dal 1999 al 2005, l’anno del sessantesimo delle Feste; anche cercando di tornare a fare piccole Feste dell’Unità sia in città che in provincia. E in mezzo ci sono stati anche due Nazionali, quello del 2000 – la prima Festa dell’Unità senza il quotidiano in edicola – e quello del 2003 – la Festa in cui abbiamo lanciato la candidatura di Sergio Cofferati, che avrebbe vinto le comunali dell’anno successivo.
E se chiedete a chi ha fatto tante feste cosa si ricorda, a parte la fatica, le arrabbiature, lo sconforto, vi dirà sempre il piacere di stare insieme, di fare qualcosa insieme agli altri. E questo, anche se le Feste dell’Unità non ci sono più – o sono pallide imitazioni – nessuno ce lo toglierà.


Le Feste dell’Unità sono un bel modo di fare politica. Non si capisce cos’è una Festa de l’Unità se non si coglie la passione dei volontari che la fanno vivere giorno per giorno. Queste sono le parole con cui Enrico Berlinguer ha ringraziato le compagne e i compagni che hanno organizzato la Festa nazionale di Reggio Emilia del 1983, l’ultima Festa a cui ha partecipato.

“Un nuovo motivo del successo delle nostre feste, e di questa nazionale, è che esse sono frutto di quell’immensa mano operosa che è costituita dal lavoro indefesso, certosino, entusiasta di migliaia e migliaia di compagni e di compagne che, senza alcun tornaconto personale, ma mossi solo da spirito di dedizione e da una grande carica ideale, si sono prodigati con intelligenza e passione in tutte le incombenze e in tutti i mestieri dei quali c’è bisogno di mettere in piedi e far funzionare questa realizzazione davvero formidabile. È forse questo il patrimonio inestimabile di cui più siamo ricchi. E la cosa più significativa, e vorrei dire meritoria, è che questo nostro patrimonio noi non lo spendiamo solo per le cose del nostro partito, ma lo mettiamo a disposizione del paese in ogni circostanza, specialmente in quelle più drammatiche e dolorose”.

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