lunedì 26 febbraio 2018

Verba volant (493): scavo...

Scavo, sost. m.

"Occorre che i siciliani risolvano da soli i loro problemi e decidano se siano più importanti quelle pietre allineate o cento posti di lavoro nella provincia italiana in cui la disoccupazione giovanile è la più alta del paese", con queste parole il presidente della Fassa Bortolo ha commentato il parere negativo della Sovrintendenza regionale siciliana ai beni archeologici alla realizzazione di un nuovo impianto estrattivo ad Agira, in provincia di Enna, in quanto in quell'area è stato ritrovato un insediamento umano pre-ellenico.
Al di là dell'arroganza di questo padrone delle ferriere - a cui io, da comunista e da amante delle civiltà antiche, vorrei reagire di getto dicendo che la sua fabbrica se la può anche infilare su per il culo - la questione credo meriti di essere affrontata con più calma, perché questa domanda è stata posta molte volte nel nostro paese e lo sarà molte altre volte, magari senza questi toni ultimativi, chiedendoci di scegliere tra sviluppo e conservazione. Spesso è stato preferito salvaguardare quelle "pietre" e questo ha in qualche modo reso più aspro questo conflitto. Anche perché - e questo credo sia doveroso sottolinearlo - troppe volte il divieto di costruire una strada o una fabbrica o qualsiasi nuova infrastruttura in nome della salvaguardia dei beni archeologici e storici non è stato poi seguito da un lavoro serio su quei resti. Va bene che decidiamo di fermare una nuova costruzione perché lì ci sono dei reperti, ma poi occorre trovare le risorse per studiarli e valorizzarli, altrimenti avranno sempre ragione i padroni come Paolo Fassa e quelle persone che legittimamente speravano che quella fabbrica avrebbe portato nuovo lavoro e che vedono frustrate le loro aspettative in nome di qualche pietra che viene lasciata lì e alla fine dimenticata.
Agira è uno dei primi insediamenti umani in Sicilia, quando quella regione non era ancora un'isola ed era attaccata al resto della penisola. Fu scelto da quei popoli antichissimi perché era facilmente difendibile e perché in quei terreni c'erano ricchezze naturali. E per queste stesse ragioni quel luogo è sempre stato abitato, dai ciclopi e dai lestrigoni - come i greci chiamavano quei popoli antichi, che diventarono protagonisti della loro poesia - dai sicani, dai greci, dai romani e poi da tutti quelli che sono venuti dopo di loro. E per questa stessa ricchezza naturale è stato scelto come sito estrattivo dalla Fassa Bortolo. 
Agira è anche la città in cui nacque Diodoro Siculo, l'autore di una monumentale storia universale. E, anche attraverso l'opera di questo illustre figlio della Sicilia, sappiamo che nessuno di quei popoli si preoccupò di conservare ciò che avevano fatto quelli che li avevano preceduti, a meno che non servisse loro e, anche in quel caso, modificandolo in maniera sostanziale. Noi siamo i primi a pensare come conservare davvero il patrimonio lasciato da chi ci ha preceduto, lo facciamo spesso male, ma almeno siamo consapevoli che dobbiamo farlo, anche quando non ha un valore artistico, ma solo storico e documentale. Per questo quelle "pietre allineate" sono importanti, perché testimoniano qualcosa che sappiamo già, ossia che in quella terra gli uomini ci sono sempre stati e perché non sono state distrutte o riutilizzate da quelli che sono venuti dopo.
Se però la domanda continua a essere posta in questo modo, come un aut aut tra sviluppo e conservazione, continueremo a dare una riposta sbagliata, perché non si può dare una risposta corretta a una domanda errata. E alla lunga, una domanda così articolata, anche se apparentemente vince la conservazione, la memoria, la cultura - perché la Sovrintendenza ha il potere per fermare quei lavori e il giorno dopo perfino il padrone della fabbrica ha dovuto ridimensionare la propria stizzita dichiarazione - finisce per indebolire la necessità di conservare la memoria, perché il buon senso ci dice che garantire il lavoro a cento famiglie è meglio che tutelare un sito archeologico. Il buon senso ci dice che avevano ragione i sicani quando distrussero le povere case dei ciclopi e dei lestrigoni per costruirne di più solide e sicure e poi che ebbero ragione i greci a distruggere quelle dei sicani e poi i romani e così via tutti gli altri. 
La domanda è sbagliata perché non possiamo continuare a considerare la conservazione del patrimonio storico come un elemento che frena lo sviluppo. E credo che su questo dovrebbero fare una seria riflessione molte persone che questo lo fanno di mestiere, dai sovrintendenti agli archeologi, dagli storici agli esperti di restauro. Quell'impianto estrattivo secondo me andava realizzato e proprio lì, ma rispettando dei vincoli precisi. Io sono convinto che una soluzione poteva essere trovata, anche se ovviamente è più facile da una parte dire no e dall'altra prendere cappello e decidere di costruire da un'altra parte. 
Si poteva fare lì, perché non sta scritto da nessuna parte che una fabbrica o un sito industriale debba per forza essere brutto. Non è sempre stato così: c'è stato un tempo, non troppo lontano, in cui c'erano architetti e ingegneri che pensavano a come costruire fabbriche che fossero anche belle. Se abbiamo la pazienza di cercarle, ne possiamo trovare molti esempi nelle nostre città, anche se spesso, proprio perché erano in contesti densamente urbani, sono diventate altre cose. Ovviamente costa di più fare una fabbrica bella che uno "scatolone", ma se decidi di costruire in un luogo in cui ci sono cose belle - e la Sicilia è senz'altro uno di questi, perché è una terra dalla storia incredibile - ti devi adattare a seguire certi parametri. E' vero che noi siamo i primi a conservare quello che ci hanno lasciato i nostro progenitori, ma rischiamo di essere anche i primi che non lasciano nulla di bello a quelli che verranno dopo di noi.
Poi si poteva trovare il modo di salvare quelle pietre, ad esempio collocandole da un'altra parte. E' finito il tempo in cui le pietre degli edifici più antichi venivano usate per costruire quelli nuovi: immagino che la Fassa Bortolo non abbia bisogno di quelle pietre per costruire la propria fabbrica. E' importante sapere che quelle pietre sono state trovate lì e come erano collocate, ma non è fondamentale vederle in quel luogo. Anche in questo caso occorrevano risorse e persone capaci di spenderle. La Bibliotecha historica di Diodoro è un testo fondamentale per conoscere la storia antica, nonostante il suo autore - che pure millantava di aver fatto moltissimi viaggi in Europa e in Asia - non si sia mai mosso dalle biblioteche, da cui traeva spunto per la sua opera. Tante informazioni di libri più antichi sarebbero andate perdute se non ci fosse stato il lavoro paziente di Diodoro che spesso si limitò a copiarli. Pensate cosa farebbe oggi Diodoro, con le possibilità date dalle tecnologie moderne: basterebbe avere la pazienza e la passione di quello storico.
Per sopravvivere e per non fare la fine dei ciclopi e dei lestrigoni, la nostra società avrebbe bisogno di fabbriche, possibilmente ben costruite, e di scavi archeologici, possibilmente ben fatti. Il fatto che manchino le une e gli altri ci dice chiaramente a cosa siamo destinati.   

sabato 24 febbraio 2018

Verba volant (492): buriana...

Buriana, sost. f.

Sta arrivando la buriana. O meglio sta arrivando buran, come ci raccontano i giornalisti e gli esperti che invadono le nostre vite, perché usare una parola straniera - finanche russa - fa sempre più fine. Mia nonna diceva che arrivava la buriana, e un esperto non può certo parlare come mia nonna.
Sta venendo freddo, molto freddo: succede in inverno. Peraltro per noi che a casa guardiamo la televisione e gli esperti di meteorologia non è poi un gran problema: basta mettere un panno di più a letto, indossare un maglione più pesante, accendere un po' più a lungo il riscaldamento, e magari evitare di uscire per fare cose inutili. La buriana è un problema molto serio per chi non ha una casa e neppure un televisore su cui seguire ora dopo ora l'andamento delle temperature: ma tanto loro sono poveri, non è un nostro problema.
C'è stato un tempo - molto lontano - in cui i venti erano dei, come ogni altro fatto della natura. Ed erano dei antichissimi, non come quegli dei "moderni" - quelli della generazione di Zeus, per intenderci - che sarebbero venuti dopo a rappresentare la giustizia, la bellezza, l'amore e tutte quelle robe lì. No, quegli dei antichissimi erano la forza della natura, una forza che gli uomini dovevano temere, ma da cui sapevano anche di essere nutriti e protetti. Tra questi dei antichi c'era Borea, un uomo barbuto con due grandi ali e una coda di serpente al posto delle gambe, figlio, come i suoi fratelli Austro e Zefiro, del titano Astreo e di Eos, l'aurora. Borea, Austro e Zefiro erano rispettivamente i venti del nord, del sud e dell'ovest. Austro portava il caldo e la pioggia, Zefiro portava la primavera, mentre Borea portava il freddo. Tutti e tre erano a un tempo temuti e attesi, perché di tutti e tre gli uomini sapevano di aver bisogno.
Gli ateniesi avevano una particolare venerazione per Borea perché, anche grazie a lui, era stata sconfitta la flotta persiana nella battaglia del capo Artemisio. Ma c'era anche un più antico legame tra il dio e la città. Borea vide Orizia, la figlia del re di Atene Eretteo, mentre raccoglieva dei fiori lungo il corso dell'Ilisso e se ne innamorò. Era primavera, il poeta racconta che la ragazza scivolò nel fiume, ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella. Non so se, come ci assicura il poeta, questa è la storia vera, ma si sa che i poeti hanno il sacro diritto di raccontarci delle menzogne, per dirci delle verità che altrimenti non vorremmo ascoltare.
E Borea continua, nonostante tutta la nostra modernità, a portarci il freddo e troppe donne, come Orizia e come Marinella, continuano a vivere solo un giorno come le rose.

venerdì 23 febbraio 2018

Verba volant (491): arma...

Arma, sost. f.

Una cosa che ho sempre invidiato ai compagni socialisti è che loro nel simbolo avevano il libro. So bene che rappresentava, insieme alla falce e al martello, l'unione del lavoro intellettuale con quello manuale, ma io l'ho sempre considerato anche un simbolo di riscatto e di lotta: attraverso il libro - e quindi attraverso l'educazione, la cultura, la conoscenza - gli uomini possono emanciparsi, e quel libro deve diventare uno strumento per combattere la guerra di classe e per far nascere una nuova società. Il libro è un'arma in mano al popolo.
Ho pensato a questo leggendo che cresce negli Stati Uniti l'idea di fornire di armi gli insegnanti come misura contro le stragi nelle scuole. C'è qualcosa di folle in questa proposta: come mezzo per contrastare la diffusione delle armi si aumenta il numero delle armi in circolazione. Una volta che tutti gli insegnanti saranno dotati di armi, succederà che uno di loro, impazzito per qualsivoglia motivo, deciderà di uccidere i propri studenti: si tratta purtroppo di una facile previsione. Il paradosso è che proprio nel luogo in cui dovrebbero essere i libri a essere usati come armi, questi vengono sostituiti da armi vere e proprie. E gli insegnanti dovranno dedicare parte del loro tempo non per studiare, non per aggiornarsi, ma per imparare a usare una pistola o un fucile, per tenersi in esercizio nei poligoni.
Arma deriva, attraverso il latino, dal greco antico armos, che significa omero. Non so se Stanley Kubrick pensava a questo quando girò la celeberrima scena di 2001: Odissea nello spazio in cui un ominide di fronte a un mucchio di ossa, ne raccoglie una e la fa diventare la propria arma, la prima arma dell'umanità. La spiegazione etimologica è meno poetica: semplicemente l'arma si chiamò così perché si portava alla spalla e perché in qualche modo era un prolungamento del braccio umano, che in inglese si dice arm.
Leggo anche che questa proposta sta scatenando la protesta dei giovani americani: è una bella cosa, è un segno di una timida speranza. Credo che sia nostro compito accompagnare e sostenere questa protesta, proprio in nome di quell'antica idea che considera un libro un simbolo di emancipazione e di lotta. 

giovedì 22 febbraio 2018

Verba volant (490): saluto...

Saluto, sost. m.

Intanto credo sarebbe giusto chiamare le cose con il proprio nome. Quello che viene chiamato saluto romano è un saluto fascista, inventato dai fascisti all'inizio del Novecento. Non ci sono saluti con il braccio teso rappresentati nell'arte romana, né in scultura né in pittura né sulle monete: è una delle tante menzogne fasciste. Anzi nei fregi 122 e 123 della Colonna Traiana i soldati salutano l'imperatore senza stendere il braccio, con le mani sollevate e le dita aperte, come faremmo oggi.
Ma evidentemente non è questo il tema di oggi. Sono sempre più convinto che l'eredità peggiore che Berlusconi lascerà a questo sfortunato paese sia quella di aver trasformato la magistratura in una sorta di baluardo della democrazia: l'aver avuto per così tanti anni un pluripregiudicato alla guida del paese ci ha costretti a guardare al potere giudiziario con una sorta di fiduciosa speranza. Speranza assolutamente mal riposta.
Non dico che non ci siano stati e non ci siano ottimi magistrati - ci sono ottime persone in tutte le categorie, perfino tra quelli che hanno un blog - ma certamente la magistratura, specialmente nei suoi livelli più alti, è una struttura che tende alla conservazione del potere, del proprio prima di tutto e poi di quello della loro classe.
Una sentenza come quella pronunciata prima dalla corte d'assise di Milano e poi confermata dalla cassazione su fatto che il saluto fascista non è punibile quando viene fatto durante una commemorazione "smonta" di fatto la XII disposizione finale della Costituzione e la legislazione che da essa deriva. In un momento come questo si tratta di una precisa presa di posizione politica. Di fronte all'insorgere di sempre più agguerriti gruppi neofascisti, questa sentenza lancia un tana liberi tutti.
I giudici hanno affermato che un saluto fascista è una libera espressione del pensiero e come tale non può essere vietato. E' vero: una persona è liberissima di essere fascista, la forza della democrazia è anche questo, il concedere una libertà di pensiero che un regime totalitario, come quello fascista, non permetterebbe mai. Ma questa libertà di pensiero non può esprimersi in pubblico. Vuoi fare il saluto fascista? A casa tua, magari davanti a un altarino con la foto del duce. Ma non in strada, non in un luogo pubblico, insieme ad altre persone che fanno quel saluto insieme a te. Curiosa poi la tesi che un saluto fascista non costituisce reato se viene fatto durante una commemorazione. A parte il fatto che è un gesto che non puoi fare in pubblico, farlo durante un funerale o una commemorazione è ancora più grave, per la particolare implicazione che ha la morte per quella ideologia. I fascisti hanno il mito della "bella morte": fare il saluto con il braccio teso durante un funerale è un segno di questa ideologia violenta e del carattere eversivo che tale pensiero ha per le istituzioni. Un funerale non è mai importante per chi è morto - essendo appunto morto - ma per chi vive. Come a un morto non interessa affatto quanto sia pregiata la cassa in cui è riposto, ma questo è solo un segno di ostentazione che la famiglia getta in faccia ai vivi, così questi saluti fascisti a un funerale sono il segno che la lotta continuerà, anche in nome di quel bastardo che - fortunatamente dal mio punto di vista - è morto.
Ma siccome i fascisti a qualcuno servono, si trova sempre un giudice disposto a stravolgere la giustizia.

mercoledì 21 febbraio 2018

Verba volant (489): indifferenza...

Indifferenza, sost. f.

In questi giorni abbiamo finto che ci interessasse tutto, dalla campagna elettorale alle gare di slittino, pur di non parlare della strage del liceo di Parkland. Eppure è stata una "bella" strage: due vittime in più di Columbine. I morti sono quasi tutti adolescenti - le nostre vittime preferite - e in più un professore che si è comportato da eroe, morto per proteggere i suoi studenti. Ma niente: la notizia ha resistito un paio d'ore nelle home page, ma poi è arrivata la morte di Bibi Ballandi e la strage ha cominciato rapidamente a perdere interesse, fino a sparire.
Ci sono molte scusanti per questo repentino oblio. Ormai le stragi nelle scuole americane sono così frequenti che abbiamo perso il conto. E poi è colpa loro, visto che i politici di quel paese, pagati dai produttori di armi, si ostinano a non introdurre alcun limite alla loro vendita. E poi l'America è così lontana. E poi Trump ci sta anche antipatico; e Obama in fondo era un negro.
No, non ci sono scuse. Il motivo vero è che fondamentalmente siamo degli stronzi egoisti. Se ci rigano la fiancata dell'auto nel parcheggio del centro commerciale facciamo il diavolo a quattro, se un insegnante dà un brutto voto a nostro figlio, saremmo disposti a bruciare la scuola, se ci rubano in casa, chiediamo che venga introdotta la pena di morte per quel ladro, solo per quel ladro, ma di diciassette persone morte per colpa di un ragazzo che è impazzito e di un sistema che permette a un giovane fragile di avere a disposizione un'arma da guerra non ci importa nulla.
E non diamo la colpa al sistema dei media, siamo noi che siamo fatti così. Non ho un dato, ma credo di non sbagliarmi dicendo che in quelle stesse ore sul sito di un importante quotidiano sia stato visto di più il video della modella che, mentre si faceva fotografare mezza nuda sugli scogli di fronte all'oceano, è stata travolta da un'onda gigante. Questa sì che è la notizia perfetta: una bella donna che fa una figura fantozziana, un po' di sana pornografia e un po' di sberleffo per le disgrazie altrui.
Ci sono molte reazioni possibili di fronte a un fatto come la strage del liceo di Parkland. Io non capisco chi decide di pregare, sarà che sono ateo, ma almeno chi prega pensa che ci sia qualcosa da fare di fronte a una tragedia simile. Ci si può arrabbiare, ci si può mobilitare per chiedere che cambino le leggi che hanno permesso una strage così. Non ci si dovrebbe voltare dall'altra parte. E invece è quello che noi facciamo. Tutte le volte. E non ci vergogniamo di farlo.
Qualche anno fa - non molti, a dire il vero - pensavamo che questo pianeta fosse destinato a scomparire a seguito di una guerra nucleare. Non so se il pericolo ci sia realmente mai stato, ma noi lo vivevamo come tale. Ora nessuno credo che abbia più una tale paura, ma la morte che ci attende non è meno dura. E solo più infame.       

domenica 18 febbraio 2018

Verba volant (488): ritratto...

Ritratto, sost. m.

Una vita fa anche a me è capitato di parlare sotto quei ritratti, in quella sede di partito a Casalecchio di Reno, in cui giorni fa ha parlato Pier Ferdinando Casini. Era un altro partito e quella sede si chiamava sezione. A dire la verità, di immagini così ce n'erano in tutte le nostre sezioni, variavano la disposizione e l'ordine, a volte erano state messe un po' di lato per fare posto a una grande fotografia di Enrico Berlinguer, ma i ritratti di Gramsci e di Togliatti li potevi trovare dappertutto. A differenza degli altri funzionari di partito, per il mio lavoro, mi capitava spesso di frequentare anche i magazzini, quelli dove i compagni più anziani sistemavano, oltre ai materiali per fare le Feste dell'Unità, i cimeli del partito e quindi ho visto anche i ritratti che nel corso degli anni erano stati rimossi: quelli di Marx, di Engels, di Lenin, e, negli angoli più segreti, quelli di Stalin.
Si trattava spesso di ritratti fatti a carboncino appesi alle pareti con semplici e povere cornici. Un compagno di Corticella mi raccontò che all'indomani del XX congresso del Pcus i compagni di quella sezione decisero di rimuovere il ritratto di Stalin che campeggiava nella loro sede. Al momento di staccare il quadro - che si trovava sopra la stufa - si accorsero che il calore aveva fatto sì che sul muro rimanesse la presenza di quel ritratto, in particolari dei baffi, che ne erano - come noto - i tratti più marcati. Per compiere la definitiva destalinizzazione di Corticella fu necessario imbiancare le pareti.
Francamente mi importa poco di dove abbia parlato Casini, è qualcosa che non mi riguarda. Per me è sempre stato un avversario e continuerà a esserlo, perché sostanzialmente lui dice sempre le stesse cose, non ha cambiato idea, sono solo cambiate le sedi in cui le dice. Penso invece alle migliaia di volte che io ho visto quei ritratti.
Ritrarre deriva da retrahere, che significa etimologicamente tirare indetro. Il ritratto è l'atto con cui l'immagine è in qualche modo "tratta fuori" da una persona. Ma da quel verbo latino deriva anche l'italiano ritrattare. Penso a quante volte, io - e tanti come me - pur guardando quei ritratti abbiamo ritrattato, ossia abbiamo tradito, con le cose che dicevamo, con le cose che facevamo, la storia che quelle immagini avrebbero dovuto raccontarci. Se oggi Casini può tranquillamente parlare sotto i ritratti di Gramsci e di Togliatti, di Di Vittorio e di Matteotti, è perché noi per vent'anni abbiamo smesso di guardare quelle immagini. E anche quella di Berlinguer.
Lasciamo pure a Casini e ai suoi sodali quei ritratti, che loro usano per riempire le pareti che altrimenti rimarrebbero vuote in maniera desolante o forse sarebbero riempite con una pubblicità. Magari a qualcuno di loro verrà perfino la curiosità di sapere chi sono quei "vecchi" attaccati alle pareti: non diventeranno comunisti, ma almeno avranno imparato qualcosa. Noi invece, in nome dei nostri errori, proviamo a ricostruire, anche solo per uso personale, quelle gallerie di ritratti. E cominciamo a guardarli.

sabato 17 febbraio 2018

Verba volant (487): reazione...

Reazione, sost. f.

Per cercare di capire quello che sta avvenendo in queste settimane in Italia, credo sia indispensabile provare a riflettere sul nostro, tutto sommato recente, passato.
Nel nostro paese - e poi nel resto d'Europa - il fascismo è nato, dopo la fine del primo conflitto mondiale, come reazione del capitalismo alla rivoluzione comunista, che quello che era successo in Russia aveva reso - drammaticamente dal punto di vista dei padroni e dei conservatori - possibile anche da noi. La nascita del fascismo è incomprensibile se non si tiene conto del cosiddetto "biennio rosso", ossia della fase più autenticamente rivoluzionaria vissuta dal nostro paese nel corso del Novecento. Grazie alla crisi seguita alla fine della guerra, grazie alla profonda sfiducia che era cresciuta tra le classe popolari verso le istituzioni - in primis l'esercito - che le avevano costrette a combattere in quel drammatico conflitto, grazie a una crescita in quelle stesse classi di una nuova consapevolezza democratica, che quella stessa guerra - in maniera paradossale - aveva contribuito a sostenere, una rivoluzione comunista sembrò allora possibile in Italia. La paura della rivoluzione rese necessaria una reazione e così nacque il movimento fascista, che infatti, finanziato dagli agrari, dagli industriali, dai banchieri, sostenuto da tutte le forze della conservazione - dall'esercito alla chiesa cattolica - ebbe come primi e principali obiettivi proprio i fulcri della rivoluzione nascente e possibile: le camere del lavoro, i giornali della sinistra, i leader e gli intellettuali che erano le guide di quel movimento. E non fu un caso che le forze del capitale scelsero come capi di quel movimento uomini che erano stati tra i rivoluzionari, uomini che conoscevano bene le classi che dovevano guidare. Il fascismo rappresentò l'altra risposta possibile alla crisi e per questo, sgombrato il campo dall'opzione comunista, divenne un movimento popolare, anche perché, ottenuto il potere, seppe fornire risposte a quel popolo che chiedeva un futuro diverso. Il welfare corporativo e fascista creò una vasta area di consenso popolare, che solo la nuova guerra fece diminuire: se il regime non avesse deciso di scendere a fianco della Germania e avesse mantenuto una posizione simile a quella della Spagna franchista, la storia italiana sarebbe stata diversa, perché il fascismo sarebbe durato ben più a lungo.
Negli anni della repubblica i fascisti, pur non costituendo più un movimento popolare e di massa, come era avvenuto prima della guerra, rimasero uno strumento a disposizione delle forze della reazione. Quando secondo loro l'Italia si spostava troppo a sinistra, quando crescevano e si affermavano le idee progressiste, le forze del capitale usavano i fascisti per rimettere le cose in equilibrio, il loro equilibrio. Così l'ingresso dei socialisti al governo fu seguito dal tentato colpo di stato del generale De Lorenzo e al Sessantotto e alle riforme sociali di quegli anni fu risposto con la stagione delle stragi fasciste, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. I fascisti, ben presenti nelle istituzioni, nelle forze dell'ordine, nell'esercito, nei servizi segreti, erano sempre disponibili come strumento della reazione.
Ma adesso? A cosa stanno reagendo? In Italia non esistono partiti di sinistra - l'ultimo che c'era l'abbiamo distrutto noi qualche anno fa - ma soprattutto non esiste una cultura di sinistra, se non in una minoranza, che non può certo costituire per loro un pericolo. Le forze del capitale non sono mai state così forti, il capitalismo è l'unica ideologia che sia rimasta. Non siamo certo né al "biennio rosso" né alla stagione delle riforme dell'inizio dei Settanta. In un paese in cui non abbiamo paura di sfidare il ridicolo definendo "sinistra radicale" Grasso e D'Alema, a cosa serve una reazione fascista? Non può servire contro il Movimento Cinque stelle che, pur nella sua duttilità ideologica, non può certo definirsi di sinistra e certamente non è anticapitalista. E proprio la mancanza di altre risposte crea uno spazio inimmaginabile per quelle offerte dal fascismo. Se di fronte all'insicurezza di fasce crescenti di persone la sinistra non ha più voce, l'unica proposta che viene fatta - quella che individua negli "altri" i nemici, quella che chiede sicurezza e repressione - finisce per diventare maggioritaria. Se la sinistra non parla più alle classi più povere, stremate dalla crisi, o, se ci parla, usa parole troppo difficili, queste ascolteranno chi invece continua a parlare con loro, usando un linguaggio brutalmente semplice.
Sono molto preoccupato, perché vedo che è la prima volta che il fascismo viene usato non come reazione contro qualcosa che cresce nella società, ma come azione diretta. Vedo che il capitalismo non si accontenta di aver vinto, ma vuole stravincere e per questo ha deciso di tirare fuori dagli armadi il proprio vecchio armamentario fascista - che è servito così bene fino ad ora - con l'attiva complicità delle forze dell'ordine e delle istituzioni che si sono immediatamente messe al loro servizio. Lo schema è quello che conosciamo bene - la violenza verbale e fisica, l'ostentazione della forza - ma questa volta non risponde a qualcosa, è preventivo. 
La reazione questa volta toccherebbe a noi, ma francamente credo non ne avremo né la capacità né la forza.

mercoledì 14 febbraio 2018

"Sarà domani San Valentino" di William Shakespeare


Sarà domani San Valentino,
ci leveremo di buon mattino,
alla finestra tua busserò,
la Valentina tua diventerò.
Allora egli si alzò,
delle sue robe tutto si vestì,
la porta della camera le aprì,
ed ella non più vergine ne uscì.

Per Gesù, per la Santa Carità,
ahimè, quanta vergogna ci verrà!
I giovani lo fanno,
incuranti del danno,
e del biasimo che gliene verrà. 
Dice lei: "Promettesti di sposarmi,
prima di rovesciarmi."
Dice lui: "Avrei fatto quel che ho detto,
se non fossi venuta nel mio letto."

Così canta Ofelia, nella scena V dell'atto IV di Amleto, mentre vaga per le sale del castello di Elsinore, incontrando re Claudio, la regina e i cortigiani che la guardano con ipocrita compassione. Povera pazza: tutti sembrano dire ascoltando le parole senza senso della giovane figlia di Polonio. Eppure, nonostante questa sia follia, c'è ancora del metodo!
Per quante donne, ancora oggi, in ogni parte del mondo, sono vere queste parole. Per quante donne quell'atto di amore, quella passione, quella gioia, diventano colpa, vergogna, morte. E mentre i maschi non pagano mai per quel loro sfogo, anzi se ne possono vantare, sulle donne ricade il biasimo della società, perché in fondo se l'è cercata. E poi Ofelia è solo una povera pazza.

Verba volant (486): autovalutazione...

Autovalutazione, sost. 

Come immagino la stragrande maggioranza di voi che avete la pazienza di leggermi, sono cresciuto in un tempo in cui non esistevano forme così spinte di marketing scolastico.
Proviamo a immaginare la scena: c'è questo professore a cui il preside ha chiesto di scrivere una scheda di autovalutazione della loro scuola. Ci pensa un po', probabilmente non vuole metterci troppo tempo, perché ha cose più importanti da fare, ad esempio insegnare - e magari lo fa anche bene - e comincia a mettere in fila un po' di banalità in stile ministeriale. Poi pensa ai genitori che gli rompono le scatole durante le ore di ricevimento e comincia a scrivere quello che i padri e le madri dei suoi possibili futuri studenti vorrebbero leggere; e sono in grado di capire. In questa scuola - comincia - non ci sono stranieri - sottinteso non ci sono negri e musulmani - non ci sono ragazzi diversamente abili - sa che in questo genere di prosa non può usare la parola handicappato o spastico o mongoloide o scemo, ossia i termini che usano i genitori dei figli "sani" per parlare di quelli lì - ci sono solo i figli dei ricchi, di quelli che frequentano i posti giusti. Potesse dire che nella sua scuola c'è il cugino di uno che è andato al Grande fratello o la sorella di una velina di Striscia, lo scriverebbe senz'altro, perché darebbe molto più "prestigio" all'istituto. Compiuta questa fatica letteraria, fa leggere la scheda al preside, che lo loda per lo spirito imprenditoriale: questo farà senz'altro crescere il numero degli studenti. E magari quella scuola non sarà chiusa o accorpata a un altro istituto.
Poi salta fuori un giornalista che ha voglia di fare polemica e scrive un articolo per denunciare che quella scuola è classista. Nella stessa pagina in cui ha ampio spazio un lungo pezzo dedicato ai preparativi del matrimonio tra Harry e Meghan e nello stesso sito dove c'è una bella gallery dedicata ai ristoranti più chic e costosi della città, quelli frequentati dai genitori degli studenti del loro istituto, da quelli del Grande fratello e dalle veline. Così un funzionario del ministero richiama il preside, il preside richiama il professore e quella scheda viene frettolosamente riscritta in stile burocratico, dicendo in maniera ipocrita quello che adesso bisogna dire per far bella figura, ossia che in quella scuola ci possono andare i figli delle famiglie povere, sempre che abbiano i soldi per comprare i libri, i sussidi didattici, i vestiti e le scarpe per non far fare brutta figura ai loro ragazzi, che ci possono andare perfino i negri e i musulmani - dopo tutto ci sono anche i negri musulmani ricchi, non hanno tutti le pezze al culo - e ci possono andare anche gli handicappati: ci sono le rampe, i maniglioni nei bagni, cinque anni anni fa hanno fatto i lavori per adeguare la scuola - non ricordate - hanno anche arrestato l'imprenditore che li ha fatti per aver pagato una tangente all'assessore provinciale.
E così sono tutti contenti. Il professore è contento perché l'anno prossimo col cavolo che il preside gli rifilerà quel compito; il preside è contento perché sono aumentate le iscrizioni nel suo "prestigioso" istituto, quello dove va solo la "crema" della città; i genitori sono contenti perché i loro figli non dovranno dividere i banchi con i poveri; il giornalista è contento perché con quell'articolo ha avuto più visualizzazioni di quello stronzo che scrive solo su Masterchef; anche i genitori "democratici" sono contenti, perché hanno lanciato una bella petizione in rete e questa volta si sono fatti sentire. Gli unici a cui di questa cosa non frega nulla sono i ragazzi, sia quelli poveri, sia quelli ricchi, perfino quello che sua sorella è amica di una che doveva diventare velina. E non hanno neppure nulla di cui essere contenti, perché la scuola dove vanno continua a fare schifo, nonostante la splendida scheda di autovalutazione. 

martedì 13 febbraio 2018

Verba volant (485): carnevale...

Carnevale, sost. m.

La parola con cui indichiamo questa festa è relativamente recente: il primo testo scritto in cui viene citato il carnovale è una poesia del giullare del XIII secolo Matazone da Caligano. E si tratta già della festa cristiana, perché il termine indica chiaramente che in questo giorno viene "levata" - ossia viene tolta - la carne, in vista dei giorni di penitenza della quaresima. Si tratta però di una festa molto antica, forse la più antica tra quelle che noi ancora ricordiamo e celebriamo, perché è il momento dell'anno in cui il caos torna a prendere il sopravvento sull'ordine.
Nell'antica Babilonia, quando l'inverno stava per finire, si inscenava la lotta tra il dio Marduk e il drago Tiamat, tra l'ordine e il disordine, e ogni anno il dio, dopo una dura lotta, sconfiggeva il terribile drago e questa vittoria era celebrata con un lungo corteo che percorreva la via principale della città, una sorta di processione guidata da un carro su cui sedevano il sole e la luna che, vinto il mostro, potevano finalmente tornare nel tempio. In Grecia questi erano i giorni di Dioniso, il dio dell'ebrezza, della sfrenatezza sessuale, un dio - a differenza del Bacco latino - tutt'altro che rassicurante e bonario, le cui sacerdotesse erano assai temute. A Roma durante i saturnalia veniva sovvertito l'ordine sociale: gli schiavi si comportavano come uomini liberi e potevano perfino eleggere un proprio principe. Durante queste feste, richiamandosi al culto della dea egizia Iside - perché gli antichi romani avevano questa grande capacità di assimilare ogni religione, facendola diventare propria, un insegnamento che forse potrebbe tornare utile in questi tempi bui - si svolgevano cortei di uomini e donne in maschera, si facevano scherzi e si mangiava. Le nostre feste di carnevale, compresi i vestiti da Zorro della nostra infanzia e i dolci fritti che ogni paese chiama con un nome diverso, derivano da queste feste antichissime. Un tratto comune di queste tradizioni è che in questi giorni speciali dell'anno i confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti tendevano a scomparire: sono i giorni in cui dagli inferi esce un gruppo di creature terribili, la cosiddetta famila Herlechini, un corteo di anime morte guidate da un demone, che sarebbe diventato nelle campagne bergamasche Arlecchino.   
Semel in anno licet insanire, dicevano gli antichi, una volta all'anno è lecito "impazzire", non rispettare le regole e le convenzioni, ma - beninteso - ciò è permesso solo una volta all'anno, perché per il resto quelle regole devono essere rigorosamente osservate. Ogni anno si rinnova lo scontro tra l'ordine e il disordine, ma l'esito della lotta è scontato: il caos non può tornare a vincere. Nonostante tutto il carnevale è una festa fortemente conservatrice, perché, proprio nel momento in cui apparentemente scioglie i vincoli sociali, li rende ancora più forti. Come il carnevale esiste - anche dal punto di vista etimologico - in funzione della quaresima, così questa temporanea sospensione dell'autorità e della gerarchia viene progressivamente raccontata o come qualcosa di terribile - le sacerdotesse di Dioniso erano considerate pazze, e diventeranno nei secoli successivi streghe, un ruolo che le donne dovranno spesso interpretare nel corso della storia - o come uno scherzo - e il ghigno demoniaco di Arlecchino diventerà la maschera rassicurante e clownesca di un servo sciocco.
Il potere, che avrebbe dovuto avere paura del carnevale e di quello che rappresentava - e non a caso alla fine di questi giorni si faceva un rogo, un'altra terribile costante della storia - è riuscito a trasformarlo in una burla, in una festa assolutamente domestica, in cui fingendo di ribellarci, stringiamo ancora più forti le catene con cui siamo legati.
Nel 1559 Pieter Bruegel il Vecchio dipinge uno dei suoi quadri più famosi, La lotta tra Carnevale e Quaresima. L'artista non prende posizione, non sceglie nessuno dei due contendenti, entrambi caricature; in questo quadro così visionario i soli personaggi veri sono i poverissimi mendicanti, la cui condizione è descritta con crudo realismo. Per loro non c'era - e non c'è - carnevale, perché sono le vittime di questo ordine che abbiamo bisogno di sconfiggere.

venerdì 9 febbraio 2018

Considerazioni libere (422): a proposito di Pamela...


Sinceramente non credo che a Macerata si stesse meglio una volta, quando ci conoscevamo tutti, quando le famiglie erano tutte del posto, quando non c'erano gli immigrati, non si stava meglio quando si potevano tenere le chiavi attaccate alle porte e i bambini giocavano in strada e tutte le cose che di solito ci raccontiamo, fingendo di credere che fosse meglio allora di oggi. Mi perdoneranno gli amici di Macerata se uso come esempio la loro città; per qualche giorno, almeno fino al prossimo delitto, dovete rassegnarvi a essere citati di continuo. Parlo di Macerata, ma potrei parlare di qualsiasi altra realtà della provincia italiana, che sono più simili di quanto noi, così attaccati alle nostre radici, fino al campanilismo, vogliamo credere: tutta l'Italia è Macerata.
Si tenevano le chiavi attaccate alle porte, ma i ladri c'erano anche allora, solo che in gran parte delle case non c'era nulla da rubare. I bambini giocavano in strada, ma non andavano neppure a scuola, spesso lavoravano ed erano oggetto della violenza degli adulti. In quell'età dell'oro sempre vagheggiata era normale che i padri picchiassero le figlie e che i mariti facessero lo stesso con le mogli, solo che nessuno lo diceva, perché andava bene così. I preti erano ladri e predatori sessuali molto più di oggi, solo che nessuno lo avrebbe mai raccontato, i padroni potevano prendersi le donne che lavoravano per loro, perché a tutti, specialmente alle famiglie di quelle donne, andava bene così. Si conoscevano tutti, ma questo non vuol dire che si fidassero, anzi proprio perché si conoscevano tutti, non si fidavano, sapevano chi era cattivo e molti lo erano. Allora i poveri morivano come mosche: non si stava meglio. E non si stava meglio neppure se andiamo meno indietro, anche quelli della generazione, che hanno avuto modo di vedere da bambini la provincia prima - prima degli stranieri, prima di internet, prima dei telefonini - quando ci conoscevamo tutti, sanno che non era poi così idillica.
Non puoi riavvolgere il nastro, il mondo è cambiato e dobbiamo viverci così, ma senza accettare che continui a fare così schifo.
In questa storia c'è una vittima: Pamela, una giovane donna di appena diciotto anni.
Naturalmente è giusto che quelli che hanno dato l'eroina a Pamela, che ne hanno provocato la morte, che hanno smembrato e gettato il suo corpo, paghino per questi terribili reati, ma Pamela sapeva benissimo dove andare a procurarsi la droga a Macerata, come tutti noi sappiamo dove potremmo comprare droga nelle nostre città, se solo ci venisse voglia di farlo. Nelle nostre città, grandi e piccole, ci sono zone dedicate a questo, possiamo far finta che non ci siano, ma sappiamo che ci sono, tanto che diciamo ai nostri figli e alle nostre figlie di non andarci. E lo sanno le autorità, lo sanno le forze dell'ordine, perché sono consapevoli che si tratta di un fenomeno impossibile da debellare e in questo modo cercano di tenerlo sotto controllo: meglio sapere che gli spacciatori sono tutti intorno alla stazione piuttosto che averli sparsi per la città. Ovviamente non è colpa del questore di Macerata se Pamela è morta e non basterà una retata in quella città per risolvere il problema, ma non possiamo far finta di non sapere che Pamela è morta anche per questo.
Pamela è vittima ovviamente di quegli spacciatori, ma ci sono altre persone che hanno responsabilità per la sua morte. C'è chi l'ha caricata in auto e l'ha portata via dalla comunità, poi c'è l'uomo - per età poteva essere suo padre - che, probabilmente conoscendola, ha comprato il suo corpo per cinquanta euro, c'è il farmacista che le ha venduto una siringa, senza farsi neppure una domanda o forse avendo smesso di farsele, perché rimangono sempre senza risposta. Ci sono tutti quelli che hanno visto, ma non hanno guardato, perché Pamela era ormai ai nostri occhi una ragazza "persa", oggetto solo delle attenzioni di chi voleva un servizio veloce su una coperta in un garage o di chi aveva da vendere della droga. E poi c'è la storia di Pamela prima di questi due ultimi giorni di gennaio. Forse Pamela era una ragazza debole, forse non si sarebbe comunque salvata, ma non è solo colpa sua se è scivolata così in basso, se si è perduta fino a questo punto. E noi non siamo innocenti: Pamela aveva l'età per essere mia figlia e vorrei credere che se fosse stata mia figlia oggi sarebbe viva, ma non posso saperlo. Credo dovremmo pensare a lei come a una figlia che non abbiamo saputo proteggere. Pamela ci dice che siamo inadeguati.
E per paradosso oggi parliamo di lei, di questa vittima tra le vittime, perché un fascista ignorante ha deciso di sparare a caso sui "negri" di Macerata. Se non ci fosse stata quella tentata strage, se non ci fossero state le dichiarazioni dei politici in campagna elettorale, se non ci fosse stata la questione se andare o non andare a Macerata per una grande manifestazione, oggi non parleremmo di Pamela, che sarebbe al massimo un numero utile ad alimentare la statistica dei femminicidi. Ma in fondo neppure oggi parliamo di Pamela. 

giovedì 8 febbraio 2018

Verba volant (484): creatura...

Creatura, sost. f.

C'è uno scienziato geniale che compie una scoperta incredibile, ma quando riesce finalmente a metterla in pratica, non riesce a controllarne gli effetti e quello che poteva essere un beneficio per il genere umano si rivela una sciagura. Come avete capito si tratta, in estrema sintesi, della trama del romanzo di Mary Shelley Frankenstein, o il moderno Prometeo, pubblicato nel 1818, appena due secoli fa.
Ci ho pensato leggendo che un gruppo di ex dipendenti di Google e Facebook hanno creato un'associazione, chiamata Center for humane tecnology, che ha l'obiettivo di organizzare delle campagne educative per l'uso responsabile delle nuove tecnologie e di denunciare i rischi che queste comportano, specialmente per i più giovani. Si tratta di qualcosa che conoscono assai bene, perché sono gli stessi che hanno realizzato quegli strumenti da cui ora ci mettono in guardia. E che, per inciso, stanno usando anche adesso per questo fine che è senz'altro lodevole.
Credo che queste persone facciano un lavoro importante, perché ci descrivono meccanismi di condizionamento di cui siamo tutti vittime, per lo più inconsapevoli, i cui effetti ora non possiamo nemmeno immaginare. E che ci vorrebbe un'artista come Mary Shelley capace di raccontare. In questo gruppo c'è tra l'altro Justin Rosenstein, l'inventore del like su Facebook, che spiega come quel gesto apparentemente insignificante, che ripetiamo non so quante volte in un giorno, rischi di diventare una specie di dipendenza. Tutti noi che usiamo regolarmente i social - e non facciamo finta di non usarli, perché non saremmo qui, come quando diciamo di non guardare Sanremo mentre siamo davanti alla televisione a criticarne le canzoni - sappiamo che se mettiamo una foto accanto a quello che scriviamo avremo più like, che se in quella foto c'è un qualche ammiccamento sessuale i like aumenteranno sensibilmente, che se usiamo qualche parola "forte" sarà più facile essere letti e così via. Sono trucchi che usiamo, più o meno consapevolmente, e che hanno un rischio, perché quando tutti li useremo regolarmente dovremo trovarne altri, affinché i nostri post emergano, in una spirale in cui si alimenta la volgarità e la sensazione. E anche molte fake news nascono così, al di là di chi lo fa consapevolmente. Perché quei like in qualche modo ci gratificano, perché li aspettiamo, ce ne sono alcuni che aspettiamo più di altri, così come da adolescenti aspettavamo uno sguardo o un sorriso dalla nostra ragazzina dai capelli rossi. E quel riaggiornare continuamente la pagina diventa come passare il tempo a tirare la leva di una slot machine: diventiamo dipendenti, aspettiamo la "mano fortunata", apparentemente a rischio zero, perché non dobbiamo ogni volta mettere una monetina, ma c'è il piacere dell'attesa, che per lo più si traduce in una nuova pubblicità, magari la stessa pubblicità scientificamente ripetuta, che ci induce a comprare quel prodotto piuttosto che un altro o soprattutto quel prodotto di cui non abbiamo affatto bisogno.
Come due secoli fa, ai tempi del dottor Frankenstein e della sua creatura, non fu possibile fermare la scienza, anzi furono proprio gli anni in cui la scienza cominciò quella corsa senza freni di cui ora godiamo gli effetti, ora non ha senso fermare la tecnologia o vietarla, come pure qualcuno tenta di suggerire, magari sulla scorta di studi come quello portato avanti da questi cosiddetti "pentiti della Silicon valley". Non possiamo fermare qualcosa che è inarrestabile in natura e di cui conosciamo anche gli aspetti positivi. E poi non possiamo cambiare la natura umana, perché i social, come la scienza, non l'hanno modificata, ne hanno solo esasperato alcuni tratti, per alcuni aspetti l'hanno resa più fragile, ma noi siamo sempre quelli, che abbiamo paura della "creatura" di Frankenstein, ma non possiamo smettere di leggere il romanzo di Shelley, perché quella lettura ci regala piacere, che accettiamo i condizionamenti perché ne abbiamo bisogno. Siamo animali con degli istinti piuttosto elementari e con questi istinti dobbiamo imparare a convivere.
Ma accettare questa ineluttabilità della natura umana, non significa anche accettare che qualcuno possa sfruttarla per addomesticarci, per renderci mansueti, per farci fare quello che altri vogliono che facciamo. In fondo la nostra storia su questa terra sta in tutta in questo conflitto e quello che possiamo fare è offrire strumenti a chi verrà dopo di noi per combattere, senza dover ricominciare sempre dall'inizio. 

martedì 6 febbraio 2018

Verba volant (483): diplomazia

Diplomazia, sost. f.

E' una delle tante parole che derivano dal greco antico. Infatti in quella lingua diploma significa, come dice il Pianigiani con uno dei suoi termini desueti, cosa addoppiata: si trattava di uno scritto piegato in due, doppio appunto, emanato da un'autorità pubblica che determinava particolari privilegi o definiva particolari obblighi. Di questo significato antico rimane traccia nella nostra lingua nella diplomatica, uno dei dolci più tradizionali della pasticceria italiana - nato nel Mezzogiorno - che deriva il proprio nome dal fatto di essere farcito con una crema diplomatica, ossia doppia, metà crema pasticcera e metà chantilly. Solo alla fine del Settecento, e attraverso il francese, che allora era la lingua dei rapporti internazionali - ad esempio il Congresso di Vienna si svolgeva in questa lingua, che pure era quella del paese sconfitto - questa parola è passata a indicare l'arte di trattare, per conto dello stato, gli affari di politica internazionale, e quindi gli organi che di questi affari si occupano.
So bene che uno dei compiti della diplomazia è quello di parlare con i nemici e quindi non mi pare strano che i diplomatici di tutti i paesi, compreso il nostro, tengano relazioni stabili, attraverso i loro omologhi di quel paese, anche con uno stato come la Turchia, che per il suo ruolo e la sua forza non possiamo fare finta che non esista. Però è un altro conto organizzare una visita di stato del presidente turco in Italia, con tutto quello che comporta, anche da un punto di vista simbolico e cerimoniale.
Chi rappresenta oggi le istituzioni italiane ha fatto una scelta, immagino legittima da un punto di vista politico, anche se in aperto contrasto con lo spirito della Costituzione, decidendo di incontrare in questo modo il boia di Ankara e non basta rilasciare un comunicato dicendo che il colloquio tra lui e Mattarella è stato "franco". Questo non vi salverà la coscienza. Avete detto a Erdogan che il suo governo sta commettendo un crimine imprigionando migliaia di oppositori politici? Non ero in quella stanza e non so che parole franche abbiate usato, anche se fatico a immaginare Mattarella che urla contro Erdogan rinfacciandogli il colpo di stato dei mesi scorsi. Ma ammettiamo pure che per una volta don Abbondio si sia incazzato. Non si può dire, perché le regole della diplomazia vietano di dirlo e quindi di questa visita rimarranno le foto delle strette di mano e dei corazzieri sull'attenti davanti a un criminale.
Avere un'idea radicalmente diversa della politica è anche immaginare che, pur mantenendo un'ambasciata ad Ankara, nessun rappresentante delle istituzioni repubblicane dovrebbe dare la mano o parlare a uno come Erdogan. E magari incontrare, in forma ufficiale, le vittime della repressione, le famiglie dei prigionieri politici, i rappresentanti dell'opposizione e della stampa libera. Oppure, se Erdogan dovesse venire comunque a Roma, magari per incontrare il capo di un piccolo stato straniero che sta dentro i nostri confini, dedicare quella giornata a Nazim Hikmet, tappezzare i muri della città di sue poesie, per ricordare che esiste anche un'altra Turchia. Come vorremmo che esistesse davvero anche un'altra Italia.

venerdì 2 febbraio 2018

Verba volant (482): sfida...

Sfida, sost. f.

Non serve la palla di vetro per sapere cosa succederà nel nostro paese dopo il 4 marzo. Il Movimento Cinque stelle sarà il primo partito, ma - grazie a come è stata congegnata questa ennesima pessima legge elettorale - non avrà la maggioranza per formare un governo; toccherà quindi al pd e a Forza Italia - poco importa chi vincerà tra questi due la volata per la piazza d'onore - far nascere un nuovo esecutivo - anche se ci saranno poche differenze con quello che abbiamo adesso, a partire dal nome del presidente del consiglio - benedetto dal Quirinale, dall'Europa, dalla Cei, da Draghi, da Repubblica e dal Corriere, insomma dalla solita compagnia di giro. Ovviamente sarà un governo che imbarcherà molti "responsabili", compresi un po' di quelli di Liberi e Uguali, che, dietro alla promessa di escludere la Lega, saranno ben lieti di portare il loro soccorso "rosa pallido" a questa neonata coalizione. Mi dispiace per i tanti ex-compagni di buona volontà che voteranno convintamente per quel partito così poco utile, ma il 5 marzo Liberi e Uguali sarà già un ricordo e Grasso l'ennesimo magistrato prestato alla politica sul viale del tramonto, come un Ingroia qualsiasi.
Nel complesso quello del 4 marzo sarà tutto un voto sostanzialmente inutile, perché ci hanno già autorevolmente spiegato che il prossimo governo, al di là di chi lo guiderà, al di là della sua composizione, dovrà essere fedele alle linee scritte in altre sedi: privatizzazione dei servizi pubblici, precarizzazione del lavoro, riduzione al lumicino del welfare universale, a partire dalle pensioni, riduzione della tassazione diretta a favore di quella indiretta. Insomma il prossimo governo sarà, come tutti quelli che lo hanno preceduto, un governo di classe, della "loro" classe, un governo che favorirà i ricchi e i padroni. Grazie a Berlusconi e al ritorno in forza delle gerarchie cattoliche, non ci saranno neppure quei pochi diritti civili, che sono serviti in questi cinque anni a dare una parvenza progressista ai governi a guida pd. Di fronte all'inutilità del nostro voto la cosa migliore sarebbe stata annullare la scheda: io almeno pensavo di fare così. Fino alla nascita di Potere al popolo!.
Mi sto convincendo che un mio voto a questo partito sia utile. Ovviamente Potere al popolo! non vincerà le elezioni, né avrà la forza per sostenere la nascita di un governo progressista, e quindi apparentemente il nostro voto sarà solo di testimonianza, ma ci sono momenti storici in cui anche una testimonianza è importante. Questo mio voto sarà utile perché permetterà a Potere al popolo! di superare lo sbarramento del 3% e quindi di mandare una pattuglia di sinistra, per quanto numericamente esigua, in parlamento. Anche in questo caso credo dobbiamo essere chiari tra di noi, eletti ed elettori di Potere al popolo!, non dobbiamo aspettarci che questi pochi nostri parlamentari abbiano la forza di cambiare le cose, anche loro dovranno stare lì nei prossimi cinque anni a testimoniare che esiste un'altra Italia, un'altra sinistra. E lo dico ora per allora: anche se il 5 marzo scoprissimo che non ce l'abbiamo fatta, che i nostri voti sono stati troppo pochi per mandare quei nostri compagni in parlamento, non dobbiamo disperarci né considerarci sconfitti. Non è questa la battaglia che conta, non è questa la cosa davvero importante.
Se ci penso, trovo questo mio invito ai compagni di Potere al popolo! perfino un po' paradossale. Mi spiego. Io sono stato politicamente educato a credere nell'importanza delle istituzioni e che fosse necessario che noi di sinistra facessimo tutto il possibile per assumerci responsabilità all'interno di esse. Io sono uno di quelli che ha cominciato presto a governare, perché mi avevano insegnato che era giusto così. Nel corso di quella mia lunga e bella esperienza mi è capitato di trovarmi in contrapposizione con compagni che consideravano sbagliato questo nostro approccio, lo giudicavano troppo di "destra" e preferivano un'opposizione sociale, uno dei cui bersagli eravamo anche noi, quelli di sinistra che erano passati al "lato oscuro". Adesso sono quei compagni là che hanno messo in piedi questa forza politica per dare una rappresentanza parlamentare a un movimento che è sociale prima di essere politico, e io mi ritrovo invece dall'altra parte, a pensare che si tratti di uno sforzo non molto utile, che sosterrò comunque con il mio voto, ma che non considero essenziale. Probabilmente sono cambiato più io di quanto siano cambiati loro. E credo sia un bene, visti i danni che quelli come me hanno provocato.
Al di là di questa notazione, credo però che - al di là del risultato della lista, che speriamo sia migliore di quello che si immagina questo vecchio menagramo - tutto questo serva a far vedere cosa si muove nelle viscere della sinistra italiana. E' importante che sia nata Potere al popolo! - la declino così, perché vorrei fosse femmina - ma è ancora più vitale che continui a vivere a Napoli l'esperienza del centro sociale Je so' pazzo, nato nell'ex-ospedale psichiatrico del rione Materdei, dove funzionano un ambulatorio che offre visite mediche gratuite, un centro per i migranti, una squadra di calcio, un teatro, una palestra, tutto quello che una volta i nostri vecchi avrebbero ospitato in una casa del popolo. Quel centro sociale - come altre realtà simili che ci sono in giro per l'Italia, senza che nessuno ne parli - rappresenta qualcosa di più, perché è nato in uno spazio pubblico abbandonato, come ce ne sono tanti nel nostro paese, e che sarebbe diventato preda del mercato, è stato uno spazio sottratto al capitale, dove si fa opposizione quotidiana al capitale.
Noi perderemo le prossime elezioni, sappiamo che non possiamo vincerle, non ce le farebbero neppure vincere. Ma davvero non è importante adesso sedere nei loro parlamenti "borghesi", come si diceva una volta. Adesso abbiamo bisogno di fare opposizione, di essere noi stessi opposizione, di dire, fino allo sfinimento, che questo sistema non ci va bene, perché è ingiusto, perché è crudele, perché - anche questo si diceva una volta - è basato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, come sull'ambiente, perché quando crea ricchezza lo fa solo per pochissimi e per tutti gli altri crea solo miseria. Sarà un lavoro lunghissimo che non si farà in parlamento, ma solo nelle strade, anche in queste virtuali che percorriamo ogni giorno. Dobbiamo ricostruire una comunità prima ancora di ricominciare a fare politica o forse dobbiamo ricominciare a fare politica ricostruendo una comunità. Già questo sarà una rivoluzione.     

giovedì 1 febbraio 2018

"Il Nobel della lettura" di Nicanor Parra


Il Nobel della Lettura
dovrebbero darlo a me
che sono il lettore ideale
e leggo tutto ciò che trovo:
leggo i nomi delle strade
e le insegne luminose
e i muri dei bagni
e le nuove liste di prezzi
e la cronaca nera
e i pronostici del derby
e le targhe delle auto.