mercoledì 29 settembre 2010

"Scrivi, scrivi" di Giorgio Manganelli


I
Scrivi, scrivi;
se soffri, adopera il tuo dolore:
prendilo in mano, toccalo,
maneggialo come un mattone,
un martello, un chiodo,
una corda, una lama;
un utensile, insomma.
Se sei pazzo, come certamente sei,
usa la tua pazzia: i fantasmi
che affollano la tua strada
usali come piume per farne materassi;
o come lenzuoli pregiati
per notti d’amore;
o come bandiere di sterminati
reggimenti di bersaglieri.

II
Usa le allucinazioni: un
ectoplasma serve ad illuminare
un cerchio del tavolo di legno
quanto basta per scrivere una cosa egregia -
usa le elettriche fulgurazioni
di una mente malata
cuoci il tuo cibo sul fuoco del tuo cuore
insaporiscilo della tua anima piagata
l’insalata, il tuo vino
rosso come sangue, o bianco
come la linfa d’una pianta tagliata e moribonda.

III
Usa la tua morte: la gentilezza
grafica gotica dei tuoi vermi,
le pause elette del nulla
che scandiscono le tue parole
rantolanti e cerimoniose;
usa il sudario, usa i candelabri,
e delle litanie puoi fare
un bordone alla melodia - improbabile -
delle sfere.

IV
Usa il tuo inferno totale:
scalda i moncherini del tuo nulla;
gela i tuoi ardori genitali;
con l’unghia scrivi sul tuo nulla:
a capo.

martedì 28 settembre 2010

Considerazioni libere (167): a proposito di parti e di ticket sanitari...

Partiamo da alcuni numeri. La Sierra Leone è un paese con circa cinque milioni di abitanti; è il primo paese al mondo per mortalità infantile sotto i cinque anni (282 ogni mille nati vivi) e per mortalità materna (2.100 ogni centomila nascite). In tutto il paese, per circa tre milioni di donne, ci sono cinque ginecologi e 95 ostetriche. Negli ultimi tre anni la Sierra Leone ha ricevuto più di 250 milioni di dollari per sostenere la sanità pubblica dall'Unicef, dal governo inglese e dalla Banca mondiale. C'è un evidente sproporzione tra queste risorse e il dramma, che continua, della mortalità infantile e femminile. In particolare bisogna cercare le cause del fatto che tante donne e tanti bambini continuano a morire per le conseguenze del parto.
C'è prima di tutto la mancanza di capacità e di strumenti da parte delle autorità del paese africano per gestire un tale flusso di denaro; questa mancanza è fonte di sprechi, ma soprattutto di di fenomeni di clientelismo e corruzione. Non è un caso che proprio l'ex ministro della sanità di Freetown sia in attesa di giudizio in un processo per corruzione.
Un'altra gravissima causa di queste morti è la scarsa considerazione di cui godono le donne in quella società. La poligamia porta a svalutare il valore della vita della donna; a volte un travaglio ostruito è considerato come il segno dell'infedeltà della moglie; l'infibulazione fa aumentare i rischi per le donne, in particolare al primo parto. Sono tutti aspetti di pregiudizi e di imposizioni culturali che, svilendo il valore della donna, fanno sì che una famiglia decida con riluttanza di impiegare risorse per curare una donna incinta o che ha appena partorito quando stia male. Gli aiuti internazionali dovrebbero essere indirizzati anche a investimenti su questi aspetti, troppo spesso trascurati.
C'è infine un terzo ordine di ragioni, che investe le linee di fondo che stanno dietro agli aiuti dei paesi occidentali, alle scelte ideologiche dei paesi donatori. Anche qui ci sono tre elementi da considerare. Il primo è la scelta di voler favorire sempre e comunque i metodi di parto tradizionali; per fare questo sono state investite ingenti risorse per educare e formare le anziane dei villaggi come levatrici. In molte - troppe occasioni - queste donne non sono state in grado di affrontare le emergenze, perché erano impreparate e comunque diffidenti a chiedere aiuti e consigli a medici e ostetriche, nei casi di parti difficili e con complicazioni. Inoltre le anziane dei villaggi sono loro stesse protagoniste e vittime di quei pregiudizi che minano il valore delle donne.
Il secondo elemento riguarda la riduzione dei finanziamenti per la pianificazione familiare; negli otto anni della presidenza di George W. Bush il governo statunitense, sollecitato da influenti gruppi di pressione della destra religiosa, ha ritirato tutti i fondi destinati allo sviluppo della contraccezione. In Sierra Leone i contraccettivi sono usati da meno del 4% delle donne.
C'è infine la questione dei ticket sanitari. Le autorità internazionali, prima di tutto la Banca mondiale, hanno imposto ai paesi africani di introdurre una serie di tariffe per i servizi sanitari, per partecipare alla copertura delle spese ed evitare gli sprechi e l'uso indiscriminato dei farmaci. La Banca mondiale e i paesi donatori hanno condizionato l'erogazione degli aiuti all'introduzione di questi ticket. In Sierra Leone una visita all'ospedale costa 5.000 leoni, pari a 98 centesimi di euro, una cifra considerevole per una popolazione che al 70% vive con meno di un dollaro al giorno; la prima visita ginecologica costa 25.000 leoni, il guadagno di circa due settimane di lavoro, un "lusso" che le donne di quel paese non si possono permettere e che le loro famiglie a volte non vogliono pagare. Così, paradossalmente nel paese con più alta mortalità infantile del mondo, l'unica clinica ostetrica della capitale Freetown è decisamente sottoutilizzata, perché sono pochissimi quelli che sono in grado di pagare i ticket richiesti. L'introduzione dei ticket in Africa ha di fatto provocato un aumento della mortalità, perché le persone preferiscono rinunciare alle cure ospedaliere; la copertura delle spese sanitarie è soltanto del 5%, ben al di sotto di quello previsto dagli analisti della Banca mondiale. In Africa si sta fortunatamente tornando indietro da questa decisione. In Uganda è stata varata una legge che istituisce il sistema sanitario gratuito: il ricorso agli ospedali è raddoppiato, venendo utilizzato in particolare dalle fasce più povere della popolazione. Altri paesi hanno seguito l'esempio dell'Uganda e da ultimo anche il governo della Sierra Leone ha deciso di abolire i ticket per le donne incinta e i bambini con meno di cinque anni. Vedremo i risultati.
Gli esperti della Banca mondiale però non demordono e chiedono che, al posto dei ticket, vengano introdotte forme di assicurazione medica, una strategia che può funzionare soltanto in paesi in cui il sistema sanitario funziona, e non è questo certo il caso. Ancora una volta si vede come i nostri schemi di intervento possano essere dannosi per i paesi più poveri del mondo. E soprattutto inefficaci.

p.s. devo questa storia al giornalista inglese Alex Renton, autore di un articolo su Prospect, tradotto e pubblicato nel nr. 864 di Internazionale; ve ne consiglio la lettura

sabato 25 settembre 2010

Filippo Turati parla il 19 gennaio 1921 al Congresso del Partito socialista

Compagni amici e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici.
[...]
Se il nostro Partito è un Partito di classe, se la nostra azione è veramente un’azione di storia, gli errori, fossero pure tali, dei singoli uomini, comunque si chiamino, non possono che scalfirne appena l’epidermide.
Amici e compagni, abbattiamo tutti gli idoli, tutte le idolatrie, anche questa idolatria a rovescio che consiste nel sopravalutare gli atti e le parole dei singoli uomini, si chiamino Turati, Serrati, anche Marx o Lenin, come se la forza, la coscienza, l’azione fossero in determinati uomini che potessero tutto compromettere, e non fossero nella vostra grande coscienza, nella forza grande di tutto il Partito socialista.
Dunque alla pattumiera tutte le misere quisquilie personali. Leviamoci più alto, al di sopra di queste miserie, e soprattutto degli uomini e delle persone.
[...]
Ecco in che senso, pur constatando un dissenso che non giova attenuare con foglie di fico compiacenti, che giova analizzare, che giova denudare, perché la critica è la vita del pensiero, anche nei Partiti, ecco perché, pur constatando un dissenso, noi rimaniamo fermamente unitari. Ecco perché io stesso, che passo per essere – sarà giusta o no questa topografia – il più destro dei destri, io stesso mi unisco con tutto il cuore alla mozione votata a Reggio Emilia – che vi sarà presentata qui con la stessa sostanza, mutata solo la forma, per renderla adatta al Congresso – mi vi associo, malgrado certe concezioni, certe transazioni, certe – se vogliamo dirlo – ambiguità che essa sostiene, dovute ad un onesto opportunismo di Partito, dovute al desiderio di venire incontro a tutti i compagni per fare la reale, la leale unità.
[...]
Nella dottrina, sul terreno dottrinale, io rivendico, noi rivendichiamo solennemente il nostro diritto di cittadinanza nel socialismo, che è il comunismo, che non è per noi il socialismo comunista e il comunismo socialista, perché in queste denominazioni artificiose, ibride, evidentemente l’aggettivo scredita il sostantivo, e il sostantivo rinnega l’aggettivo.
Il comunismo ebbe due sensi – voi tutti lo sapete – nella storia del moderno movimento proletario. O fu il comunismo critico di Engels e di Marx, il comunismo classico, opposto per ragioni tutte tedesche e transeunti ai falsi socialismi che prevalevano un quarto di secolo fa, socialismi filantropici falsi, a tutti i socialismi antirivoluzionari di quel tempo – e tutto questo è superato in Germania, come in Italia, come dovunque – oppure si chiamò comunismo in senso ideologico, nella previsione della forma della futura società socialista, che fosse più in là del collettivismo, che al concetto del sistema collettivista: "a ciascuno secondo il proprio lavoro, salvo gli invalidi, i bambini, ecc.", sostituiva il concetto più vasto: "a ciascuno secondo i propri bisogni" – prendere nel mucchio, come si diceva sinteticamente – che più che due concetti opposti significavano due fasi successive di evoluzione. La prima applicabile ad una società in periodo classico capitalistico, la seconda in una società di abbondanza, di esuberanza in cui le condizioni sociali permettano il grande consumo, la grande distribuzione ugualitaria di tutte le ricchezze.
Compagni, questo comunismo, in un senso o nell’altro, questo comunismo che è il socialismo, può anche espellermi dalle file di un Partito, ma non mi espellerà mai da sé stesso.
Perché io ho detto che quando si fa testamento si può essere un po’ orgogliosi, perché, francamente, compagni, è un diritto di anzianità, niente altro, non è un merito. Questo comunismo, questo socialismo e questo comunismo non solo noi lo abbiamo imparato negli anni della giovinezza sui testi sacri – direi quasi – della nostra dottrina, ma lo abbiamo in Italia, per solo merito di anzianità, ripeto, insegnato alla massa, al Partito nostro, ai Partiti che precedettero il nostro nella evoluzione del socialismo, quando questi lo ignoravano, quando lo temevano, quando lo sospettavano, quando lo avversavano.
[...]
Io posso dunque amichevolmente sorridere di questa novità e di questa scoperta, che furono l’anima della nostra intelligenza e della nostra vita da che cominciammo a pensare. Non è questo che ci distingue oggi. Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista, la questione dei fini, e neppure quella dei mezzi, ma una pura e semplice valutazione della maturità delle cose e del proletariato a prendere determinate posizioni in un dato momento; è unicamente la valutazione della convenienza di determinati mezzi episodici della lotta.
La violenza, che per noi non è un programma, non può e non deve essere un programma, che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare – i cosiddetti comunisti puri, chiamateli come volete – che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere in sé, noi, come programma, la rifiutiamo.
La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana.
[...]
Tutte forme queste – violenza, culto della violenza, dittatura del proletariato, persecuzione dell’eresia – che si risolvono in una sola: nel culto della violenza interna, dirò così, e esterna, e che hanno un solo presupposto – semplifichiamo la questione nella quale è il vero punto di ogni divergenza – e cioè quello – che per noi è l’illusione – che la rivoluzione sociale, intendiamoci, non una rivoluzione politica, che abbatte e cambia sistema, sia il fatto volontario di un giorno o di un mese o di qualche mese, sia l’improvviso alzarsi di un sipario, il calare di uno scenario nuovo, sia il domani di un posdomani di un calendario, mentre il fatto di ieri, di oggi, di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalistica, di cui noi creiamo soltanto la consapevolezza, che noi possiamo soltanto agevolare nei molteplici adattamenti della vita politica, ma non possiamo né creare, né apprestare, né precipitare, che dura da decenni, che si avvererà tanto più presto quanto meno lo sforzo della violenza, quanto meno il culto della violenza provocante, bruta, prematura, e quindi destinata al fallimento, esasperando resistenze avversarie e provocando reazioni e contro rivoluzioni, le ritarderanno il cammino e l’obbligheranno di ritornare su se stessa.
Onde è che per noi la via vera, quella dell’evoluzione, è la più breve.
[...]
La violenza è propria del capitalismo e delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare le maggioranze, e non può essere il principio delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali, redimersi ed imporsi. La violenza è il contrapposto della forza, la violenza è anche la paura, la poca fede nell’idea, la paura delle idee altrui, il rinnegamento della propria idea. E rimane tale anche se trionfa per un’ora, se per un’ora sembra trionfare, seminando dietro di sé la reazione della insopprimibile libertà della coscienza umana, che diventa controrivoluzione, che diventa vittoria, ad un punto dato, dei comuni nemici.
Ma, soprattutto, questa è verità profonda, che voi riconoscerete un giorno: in regime di suffragio universale, ancora non saputo adoperare, ancora incosciente, che dovremmo rendere cosciente, ma che vuol dire: "siete i sovrani, i dominatori", potete fare tutto quello che volete, senza versare una stilla di sangue umano, vostro ed altrui, se con la violenza, che desta la reazione, non metterete il mondo intero contro di voi.
[...]
Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti! Soltanto noi siamo i figli di quel Manifesto, che accettiamo come una cosa che non si accetta come un dogma religioso, ma nel suo spirito, ponendolo nel suo tempo, integrandolo colle revisioni, i perfezionamenti, gli sviluppi che i tempi consigliano e che gli stessi autori e i più autorizzati interpreti del loro pensiero hanno solennemente consacrato nella dottrina. Io citai a Bologna la celebre prefazione alle Lotte di classe in Francia di Marx, prefazione del suo continuatore più autorizzato, del suo, non dico braccio destro, ma cervello destro, di Federico Engels, in cui, dopo quasi mezzo secolo dal Manifesto dei comunisti, se ne faceva dai più autentici interpreti la revisione confessando come, non per gioventù di uomini, ma per la giovinezza del Partito nel tempo essi avessero sopravalutata la possibilità insurrezionale, avessero creduto a ciò che non volevano più. E la potete vedere, questa citazione, negli opuscoli che l’hanno diffusa: è una vera sconfessione del culto della violenza; ed essi confessano che si erano ingannati, che la storia li ha completamente smentiti, e che essa dimostra come le classi che detengono il potere hanno più paura dell’azione legale del proletariato che dell’azione illegale e dell’insurrezione. La légalité nous tue. Per cui essi ci provocano sulle piazze, dove sanno che saremo sconfitti, mentre sanno che nell’esercizio dei mezzi legali essi stessi dovranno rompere la legalità, non noi, la legalità che li uccide, veramente, definitivamente.
[...]
Tutti i Partiti giovani sono caduti nello stesso errore, rovinando così la causa che pretendono di servire, il che vi dimostra che noi abbiamo qualche ragione di ritenerci gli eredi più fedeli del marxismo più puro e più completo. Il culto di qualche frase, la famosa violenza che fa tutto nella storia, e via via, parole da comizio, che per accidia intellettuale si affacciano al cervello dei meno colti, che per loro sono come le chiavi che aprono tutti i chiavistelli della storia, e velano il vero fondo della dottrina.
Quel culto delle frasi isolate, dei periodi isolati, per cui Marx dichiarava volentieri e spesso – lui di non essere marxista, come io – uomo di cento cubiti più sotto, si capisce – ho avuto tante volte, di fronte a certi pettegoli, da dichiarare che non sono punto turatiano.
Perché nessuna formula, fossero anche i 21 punti di Mosca, nessuna formula scritta ci dispensa dall’avere un cervello pensante, sostituendosi all’azione del cervello che, al cimento dei fatti che mutano, si serve bensì di certe leggi intellettuali, di certi punti di orientamento acquisiti, ma modifica continuamente le proprie vedute a seconda del le necessità della storia e dell’ora.
[...]
Il nucleo solito quindi che rimane di tutte queste lotte, che sono sempre le stesse nelle diverse forme transitorie e caduche, il nucleo solido è nell’azione. Nell’azione che non è l’illusione, che non è il miracolo, la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma è la abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve.
E l’azione è la grande pacificatrice, è la grande unificatrice; essa creerà l’unità di fatto, che noi non troviamo nelle formule, che non troveremo mai nelle parole né negli ordini del giorno, per quanto abilmente ponzati con dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione perenne, azione fatale, prima e dopo quella tale rivoluzione che si avvera sempre, nella quale siamo dentro, perché essa stessa, questa azione è la rivoluzione.
[...]
Dovete fare questa azione graduale, e dovendo fare questa azione, che non può essere che quella, non ce n’è altre e tutto il resto è clamore, è sangue, è orrore, è reazione, è delusione, dovendo fare questa opera voi dovrete poi anche fare da oggi un’opera di ricostruzione sociale.
Io sono già imputato, e dovrei essere oggi alla sbarra, con le guardie rosse accanto, di un discorso pronunziato alla Camera il 20 giugno: Rifare l’Italia, in cui cercavo di delineare, co me lo penso io, il programma di ricostruzione sociale del nostro paese, perché abbiamo parecchio da fare nel nostro paese.
Leggetelo. Probabilmente non lo avete letto ed avete fatto male! Leggetelo e vedrete altre profezie e vi accorgerete che questo corpo di reato è il comune programma.
Voi temete oggi di costruire per la borghesia.
Preferite lasciar crollare la casa comune al conquistarla per voi. Fate vostro il "tanto peggio tanto meglio" degli anarchici. Credete o sperate che dalla miseria crescente possa nascere la rivendicazione sociale: non nascono che le guardie regie e il fascismo, la miseria, l’ignoranza, lo sfacelo.
Voi non intendete ancora che questa rivoluzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, sarà il maggior passo, il maggior slancio, il maggior fondamento per la rivoluzione proletaria completa di un giorno. E allora, in quel giorno, noi trionferemo insieme!
Io forse non vedrò quel giorno. Troppa gente nuova è venuta per forza di cose, che renderà più aspra e difficile la nostra via, ma indubbiamente si trionferà in quella via; maggioranza, minoranza, non conta niente, non si tratta di numeri, frazione scacciata o frazione tenuta, alleanza di frazione o non, collaborazione di frazioni o non, fortuna di uomini scacciati via o tenuti, tutto questo è ridicolo di fronte alle necessità della storia, tutto questo non ha importanza, ciò che ha importanza è la forza operante, per cui io vissi, nella cui fede onestamente morrò, con voi o senza di voi, uguale sempre a me stesso, e combattendo io resto, e credo nel suo trionfo, con voi, perché questa forza operante è il socialismo.
Ebbene: Viva il socialismo!

venerdì 24 settembre 2010

"Si può trovare" di Giorgio Manganelli


Si può trovare
una frammentaria divinità
anche in una scatola di sigarette,
in un giro di danza
in un denso bicchiere di malvasia;
e ci si può suicidare
nella gioia di vivere improvvisa
d'un lunapark
nei battiti dei fucilini
ed in ogni gesto del corpo
che muova solamente il corpo
senza moto dell'anima nel corpo -
trascurando con un sorriso imprevisto
il calcolo demente dei problemi
e con elusivo gesto della mano
allontanare la disperazione.
Non per questo si riposerà
la lunga solitudine,
né l'inganno della musica
ci porrà una mano su una spalla
contro l'uragano dell'assenza;
ma si tratta solo di ingannare
di mentire con placida umiltà
di gustare un corpo perituro
educare al nulla
una mano elegante,
abbandonarsi al dolce
amichevole vino -
gustare la joie de vivre,
dimenticare il corpo perituro
la solitudine essenziale,
- incenso di incenso devoto
offrire un fumo di sigarette
alla nostra distratta, frammentaria
divinità.

domenica 19 settembre 2010

Considerazioni libere (166): a proposito di zingari...

In questi giorni tanti amici di Facebook hanno messo nelle loro bacheche questa famosa poesia di Bertolt Brecht. E hanno fatto bene.
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.

E' un modo civile per protestare contro la decisione del governo francese, prontamente sostenuto da quello italiano, di avviare una campagna di espulsioni dalla Francia di cittadini di etnia rom. Ho già affrontato il tema - nella "considerazione" nr. 154, per la precisione - si tratta evidentemente di un provvedimento, oltre che ingiusto, non efficace dal punto di vista della sicurezza, ma necessario a Sarkozy per cercare di riguadagnare popolarità presso l'opinione pubblica. Come è già stato detto in più occasioni e da voci ben più autorevoli della mia si tratta di una decisione profondamente ingiusta perché prevede l'espulsione di persone dal suolo francese non su base di provati motivi di ordine pubblico a carattere individuale, ma in base unicamente all'appartenenza a un gruppo etnico.
In Europa i pregiudizi contro gli zingari ci sono sempre stati, come ci sono sempre stati verso gli ebrei e le minoranze, ma nelle società contadine la loro capacità di allevare i cavalli e di lavorare i metalli faceva sì che i rom avessero un loro posto nell'ordine economico e sociale - uno degli ultimi certo, ma comunque un posto. Quando queste loro capacità non sono più servite, sono rimasti i pregiudizi, aggravati dal fatto che per molti di loro l'unica forma di sussistenza è stata la beneficienza e l'elemosina e per troppi la delinquenza e la prostituzione. Quindi sono nati ai margini delle grandi città - ma non in tutta Europa, perché esempi migliori ci sono - in maniera più o meno tollerata dalle amministrazioni, campi nomadi, che da un lato hanno esasperato chi già abitava in quei luoghi, spesso appartanenti alle fasce più deboli della popolazione, e dall'altro lato hanno favorito i criminali che ci sono tra gli zingari, dando loro l'occasione di poter reclutare sempre nuovi giovani nelle loro bande. E' oggettivamente molto probabile che un giovane rom che è stato sempre respinto dalla società accetti di far parte di una banda per trafugare il rame o per spacciare droga o per commettere furti negli appartamenti.
Non in tutti i paesi è avvenuto questo. In Grecia ad esempio, anche con l'aiuto delle amministrazioni pubbliche, i rom sono diventati commercianti ambulanti, garantendo la fornitura di generi alimentari e di prima necessità ai villaggi e alle case sparse in quel territorio montuoso, dove i trasporti sono difficoltosi e la mobilità delle persone, specialmente anziane, molto complicata. Queste famiglie non vivono nei campi; certo esistono ancora pregiudizi nei loro riguardi, ma non è un problema sociale così diffuso, come in Francia, in Italia o in Spagna.
Il problema degli zingari è molto complesso e francamente non basta scandalizzarsi, non bastano i buoni sentimenti. Anzi i buoni sentimenti, gli appelli all'integrazione non servono né alla causa dei rom né a convincere la maggioranza delle persone che, al di là delle proprie convinzioni politiche, ritiene giusto agire con durezza verso gli zingari. Per troppi anni in Italia, per l'influenza della dottrina cattolica da un lato e delle idee di sinistra dall'altro, è stato prevalente un atteggiamento che possiamo definire buonista - benché questa parola non mi piaccia molto, mi pare renda abbastanza bene l'idea. Pubblicamente si difendevano i diritti degli zingari, trovando giustificazioni anche per chi tra loro commetteva reati, privatamente si continuavano a coltivare dei pregiudizi. Questo atteggiamento ha portato a cercare di nascondere il problema, delegando di fatto al volontariato e alle reti delle parrocchie l'aiuto delle famiglie degli zingari e sperimentando l'integrazione unicamente nelle scuole, con insegnanti spesso impreparati a questo compito. E gli amministratori hanno, un po' furbescamente, cercato di assecondare la maggioranza dei loro concittadini, cercando di non avere il "problema" sul loro territorio, magari scaricandolo su quello vicino.
Non esistono "ricette" per affrontare il problema, ma sicuramente né le false e ipocrite politiche di inclusione né le semplici politiche di repressione servono ad affrontare il problema. Bisognerebbe davvero perseguire chi commette reati, agendo con durezza, ma allo stesso tempo bisognerebbere togliere a chi delinque la possibilità di reclutare nuovi delinquenti; per questo occorre chiudere i campi rom e dare occasioni ai ragazzi che lo chiedono di fare una vita diversa, dignitosa. Loro ce lo chiedono, se abbiamo la voglia di ascoltarli.

sabato 18 settembre 2010

"Funes, o della memoria" di Jorge Luis Borges

Lo ricordo (io non ho il diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva in mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti d’indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d’intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da matè, con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell’orillero antico, senza le sibilanti italiane di oggi. Non l’ho visto più di tre volte; l’ultima nel 1887… M’è parso un progetto felice quello di chiedere a tutti coloro che lo conobbero di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarà forse la più breve, certo la più povera, ma non la meno imparziale del volume che pubblicheranno. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirà di cadere nel ditirambo – genere obbligatorio in Uruguay quando il tema è un uruguayano. Letterato, persona colta, bonaerense; Funes non pronunciò queste parole ingiuriose, ma sono abbastanza sicuro che io rappresentavo per lui queste sventure. Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvatico e vernacolare”; non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.
Il mio primo ricordo di Funes è assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o febbraio del 1884. Mio padre, quell’anno, m’aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernando Haedo dalla tenuta di San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e questa non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, una enorme tempesta colore ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento da sud, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una stretta che affondava tra due altissimi marciapiedi di mattoni. D’un colpo si era fatto buio; udii in alto passi rapidi, quasi segreti; alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernando gli gridò, imprevedutamente: - Che ore sono, Ireneo? - Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: - Mancano quattro minuti alle 8, ragazzo Bernando Juan Francisco -. La voce era acuta, burlesca.
Sono così distratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non ve l’avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro. Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di sapere sempre l’ora, come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una stiratrice del paese, Marìa Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, era un inglese O’Connor, medico agli stabilimenti; secondo altri, un ranchero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.
Le estati dell’85 e dell’86 le passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, com’è naturale, di tutti quelli che conoscevo, e da ultimo, del “cronometrico Funes”. Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San
Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernando, aveva molto d’un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o sua una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto di simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato benefico… Due volte lo vidi dietro all’inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina. Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato da quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo nella valigia il De viris illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modiche virtù di latinista. In un piccolo paese, tutto si viene a sapere; Ireneo, nel suo rancho sulla costa, non tardò a sapere dell’arrivo di questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, disgraziatamente fugace, “del giorno sette febbraio dell’anno ottantaquattro”, esaltava i brillanti servizi che don Gregorio Haedo, mio zio, deceduto in quello stesso anno, “rese alle nostre due patrie nella gloriosa giornata di Ituzaingò”, e mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario “per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino”. Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata; l’ortografia, del tipo auspicato da Andrés Bello: i per y, j per g. Lì per lì, naturalmente, temetti una burla.
I miei cugini mi assicurarono che no, che erano cose da Ireneo. Non seppi se attribuire a trascuraggine, a ignoranza o a stupidità l’idea che per l’arduo latino bastasse, come solo strumento, un dizionario; per disingannarlo interamente gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.
Il 14 febbraio mi telegrafarono da Buenos Aires che tornassi immediatamente, perché mio padre non stava “niente bene”. Dio mi perdoni; il prestigio che mi valeva d’esser destinatario d’un telegramma urgente, il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma negativa della notizia e la perentorietà dell’avverbio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, tutto questo, forse, mi tolse ogni possibilità di dolore. Nel far la valigia, notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia. Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m’incamminai verso la casa di Funes.
Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, poiché soleva passare le ore morte senza accendere la candela. Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C’era una pergola; l’oscurità potè sembrarmi totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili; poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi che erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia.
L’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum.
Senza il minimo cambiamento di voce, Ireneo mi disse di entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all’alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente di umidità. Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.
Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurre le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; lascio al lettore d’immaginare i frastagliati periodi che m’incantarono quella notte.
Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito: Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonie, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m’ascoltò).
Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battagli di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: - Ho più ricordi io da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini messi insieme, da che mondo è mondo -. Anche disse: - I miei sogni, sono come la vostra veglia -. E anche: - La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti -. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandra innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo.
Queste cose che mi disse, né allora né mai le posi in dubbio. Non c’era a quel tempo cinematografo né fonografo; è tuttavia inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto.
Dall’oscurità, Funes continuava a parlare. Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemila tredici diceva (per esempio) Maximo Perez; in luogo di settemilaquattordici, La Ferrovia; altri numeri erano Luis Meliàn Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustìn de Vedia. In luogo di cinquecento, diceva nove. A ogni parole corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molti complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 365 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con i “numeri” Il Negro Timoteo o Mantello di carne. Funes non mi sentì o non volle sentirmi.
Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes, aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita e immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
I due progetti che ho detto (un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto
assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Inereo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era il più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente.
Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel modo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.
Il chiarore esistente dell’alba entrò per il patio di terra.
Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1886; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l’ Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.
Ireneo Funes morì nel 1889, d’una congestione polmonare.

Considerazioni libere (165): ancora a proposito di mense scolastiche...

Voglio tornare un momento sulla vicenda della scuola di Adro, di cui mi sono già occupato diffusamente in una mia precedente "considerazione" (la nr. 162, per la precisione).
Come ho detto, per valutare la qualità dell'offerta formativa di una scuola sono importanti gli spazi e le attrezzature, ma ancora più importanti sono la professionalità, l'impegno, la coscienza civile di chi nella scuola ci lavora, a partire dalle insegnanti e dagli insegnanti. Per questo considero un grave errore la decisione di quella famiglia che ha deciso di non iscrivere le proprie figlie alla scuola media di Adro fino a quando continueranno a esserci esposti i simboli leghisti. I bambini e i ragazzi dovrebbero il più possibile essere tenuti fuori da questa vicenda, di cui comunque dobbiamo continuare a occuparci.
Da Adro in questi giorni sono venuti due segnali, uno positivo e uno negativo. Il segnale positivo è la decisione unanime degli insegnanti di richiedere la rimozione dei simboli; chi lavora in quelle scuole ha espresso in maniera chiara la propria voce e questo è un elemento di tutela per tutti, specialmente per chi frequenterà quell'istituto.
Il segnale negativo è ancora una volta legato a una decisione dell'amministrazione comunale e riguarda la mensa. Il sindaco nel corso dell'estate ha deciso di chiudere l'Associazione promotori delle attività parascolastiche, ossia l'associazione dei genitori che da 36 anni gestiva il servizio della mensa nelle scuole del comune bresciano, per passare alla gestione diretta di questo servizio. Si tratta di una decisione assai poco lungimirante e certo non in linea con l'asserita volontà di buongoverno dell'amministrazione leghista di Adro. In quel comune da quasi quarant'anni funzionava un esempio interessante di quella che adesso chiamiamo sussidarietà e davvero non si capisce per quale motivo proprio un sindaco del centrodestra avrebbe dovuto interrompere questa esperienza. Purtroppo stavolta il sindaco Lancini non ha ragionato da buon amministratore, ma da capetto locale desideroso di tenere sotto controllo tutto quello che avviene nel suo territorio. La mensa gestita direttamente dal Comune sarà sicuramente più costosa e probabilmente anche di peggior qualità di quella gestita dall'associazione dei genitori.
Nella mensa gestita dal Comune il sindaco riuscirà a far passare due principi che non sarebbe riuscito a imporre all'associazione: quello di negare il pasto ai bambini delle famiglie che non riescono a pagare la retta e quello di imporre una sorta di menù autarchico, che non si traduce in una lodevole intenzione di privilegiare prodotti a "chilometro"; Lancini infatti ha affermato: "chi non può mangiare i nostri piatti per motivi religiosi è libero di pranzare a casa". Si tratta di una sparata propagandistica; chi lavora nella ristorazione collettiva per l'infanzia sa bene che è molto più difficile gestire le diete per i bambini che soffrono di intolleranze che sostituire le pietanze a base di maiale per i bambini di religione musulmana. Non è questione di introdurre il cous cous o piatti di altre culture - che pure potrebbe essere un interessante esperienza formativa - ma solo di usare un po' di buonsenso, quello usato finora dai genitori di Adro e di cui invece non pare dotato il sindaco, almeno in questa occasione, in cui evidentemente l'ideologia ha fatto leva su ogni altra considerazione.
Il sindaco sbaglia perché non considera che anche il momento della refezione rientra nel percorso formativo, perché si impara a mangiare con altri. Come avviene poi nella vita. Credo che peraltro questo sia anche previsto nella scuola privata a cui il sindaco ha deciso di iscrivere il proprio figlio.

venerdì 17 settembre 2010

Considerazioni libere (164): a proposito di quello che sta avvendo nel Pd...

"Non è mai troppo tardi", come recita il titolo di un'antica trasmissione della Rai. Non è mai troppo tardi per riparare a un errore, se c'è l'onestà intellettuale di ammettere che è stato commesso. Come i miei sparuti lettori ormai sanno, io ho ritenuto un errore la decisione di far nascere il Partito Democratico e quello che sta accadendo in questi giorni credo mi stia dando ragione. Purtroppo.
I fatti sono noti: Walter Veltroni ha deciso di presentare un documento - di cui ci sono ampie anticipazioni in rete - per criticare l'attuale gestione del partito, rivendicando la necessità di tornare all'idea originaria che ha spinto i gruppi dirigenti dei Democratici di Sinistra e della Margherita a chiudere l'esperienza di quei partiti per fondare una forza politica che si voleva nuova, nel panorama italiano ed europeo. In sostanza Veltroni richiama il cosiddetto "spirito del Lingotto", ricordando che quel Pd raggiunse quasi il 34% alle elezioni politiche del 2008, in cui comunque fu sconfitto dal centrodestra. La decisione di Veltroni di richiedere un'adesione a quel documento, formalizzando di fatto la nascita di una nuova corrente nel partito, ha provocato la reazione stizzita e assolutamente prevedibile della maggioranza e di parte della stessa minoranza. Di fatto con Veltroni si sono schierati gli ex popolari e quei rutelliani che non hanno seguito Rutelli nell'Api.
Analizzando la questione dal suo punto di vista, credo che Veltroni abbia fatto bene a prendere questa decisione. Le critiche che gli vengono rivolte in queste ore, ossia la necessità di preservare l'unità del partito e l'inopportunità di indebolire il Pd in una fase di crisi del centrodestra, sono pretestuose. Trovare elementi di unità nel Pd è francamente un'impresa: un partito che nella sua breve storia ha cambiato tre segretari, ha subito defezioni, si è diviso su questioni fondamentali, non può davvero rivendicare il valore dell'unità. Riguardo al tema dell'inopportunità del momento, è evidente che la fine dell'età di Berlusconi, che, per quanto lenta, è innegabilmente cominciata, porta il quadro politico italiano a ridefinirsi. Al di là del giudizio di merito sulla sua azione di governo, Berlusconi ha dominato questi venti anni della vita politica, a destra quanto a sinistra e, come stanno facendo tutti i leader del centrodestra, da Fini a Casini, passando per Bossi, che cercano di essere pronti per quando Berlusconi cederà, è inevitabile che nel campo del centrosinistra avvenga qualcosa del genere.
Nel merito del documento, io credo che a Veltroni debba essere riconosciuta la coerenza delle proprie idee; da diversi anni egli immagina che debba essere superata l'esperienza storica della socialdemocrazia, per realizzare un soggetto riformista di nuovo tipo. Il problema è che questa ricerca non ha portato a un risultato concreto, ma è rimasta indefinita. Il discorso del Lingotto conteneva indubbiamente tante suggestioni, ma pochissima concretezza; il fatto stesso che il Pd come lo immagina Veltroni non riesca a inserirsi in nessuna famiglia politica europea è un segnale inequivocabile. Di fatto il Pd, sostenendo il superamento dei cosiddetti schemi del secolo scorso, ha finito per accettare la vulgata secondo cui nel mercato si trovano tutte le virtù, a scapito delle tutele dei lavoratori. Per semplificare il Pd di Veltroni è dalla parte di Marchionne pittosto che da quella della Cgil, perché il primo sarebbe l'alfiere della modernità e di un nuovo rapporto tra capitale e lavoro, mentre la seconda rimarrebbe ancorata a schemi vecchi. Veltroni ritiene legittimamente che il pensiero socialista non abbia più nulla da dire. Altrettanto legittimamente io credo non sia così, come ho cercato di dire in qualche altra mia "considerazione", ad esempio la nr. 157.
Il problema del Pd è che questa posizione, che - lo ripeto - io considero assolutamente legittima per quanto non la condivida, era ed è del solo Veltroni e di pochissimi altri. I gruppi dirigenti dei Democratici di Sinistra e della Margherita, nella loro grande maggioranza, hanno partecipato al percorso fondativo del Pd senza una vera adesione al progetto veltroniano e anzi con la segreta aspirazione di riuscire a imporre negli anni successivi i propri valori fondanti, che legittimamente ciascuno di loro ha continuato a coltivare. Schematicamente D'Alema e Bersani pensavano che il Pd alla fine sarebbe diventato il partito riformista e socialista, capace in Italia di diventare il perno di un'alleanza riformista, finalmente svincolato dalla necessità di avere la "benedizione" di un uomo di centro, cone è avvenuto nel 1996 con Prodi, mentre i cattolici del Ppi e i rutelliani pensavano che il Pd sarebbe diventato un partito di centro, dal profilo moderato, capace di attrarre la maggioranza di quel voto democristiano che ha finito negli anni per accasarsi a destra. Evidentemente le prospettive erano molte diverse ed era inevitabile che i nodi venissero al pettine; con Veltroni che si è trovato in mezzo a queste spinte contraddittorie.
E' indicativa di questo clima la proposta di Bersani, che ha ripetuto in questi giorni e che evidentemente riveste per lui un'importanza fondamentale, di costituire il nuovo Ulivo. Ora l'Ulivo è stata l'alleanza tra le due principali tradizioni riformiste di questo paese, quella socialista e quella cattolica, capace poi di attrarre altre culture politiche, come le forze ambientaliste; l'Ulivo aveva una vocazione maggioritaria, anche se allora non si usava questa formula. Ora non è molto chiaro cosa sia il nuovo Ulivo di Bersani e soprattutto non è chiaro quali siano i suoi interlocutori: teoricamente il Pd dovrebbe già essere l'alleanza tra i riformismi socialista e cattolico, anzi dovrebbe essere il luogo in cui questi riformismi sono stati superati per unirsi in un nuovo soggetto politico; in questo è naturale la vocazione maggioritaria di cui continua a parlare Veltroni. Il nuovo Ulivo di Bersani invece, includendo l'alleanza con Di Pietro e con i comunisti di Ferrero e Diliberto è molto più simile all'Unione, che pure tutti dicono di voler superare.
Personalmente continuo a pensare che i dirigenti del centrosinistra dovrebbero avere il coraggio di ammettere gli errori che sono stati fatti in questi anni, accettando che l'esperienza del Pd è stato un fallimento e decidendo di aggregarsi in forme diverse da quelle che sono state sperimentate in questi anni e che hanno portato a una sconfitta dietro l'altra. Tra l'altro questa confusione favorisce una tendenza centrifuga nei territori: caso eclatante è quello che sta succedendo in questi stessi giorni nell'assemblea regionale della Sicilia, dove il Pd si appresta a sostenere, insieme a un'improbabile coalizione di centrodestra, una nuova giunta guidata da Raffaele Lombardo. Naturalmente questo processo non esclude - anzi lo dovrebbe espressamente prevedere - che si ricostituisca un'alleanza tra tutte queste nuove forze, che hanno comunque dimostrato, durante il primo governo di Romano Prodi, di offrire una prospettiva riformista a questo paese.

giovedì 16 settembre 2010

Considerazioni libere (163): a proposito della vergognosa politica estera italiana...

Leggo oggi sui giornali che l'Unione europea ha nominato ventinove propri rappresentanti in altrettanti paesi, una sorta di ambasciatori dell'Unione, il primo nucleo di una futura diplomazia europea. Al di là dell'effettiva capacità di queste persone di riuscire a rappresentare le istituzioni comunitarie, ma soprattutto al di là dell'attuale incapacità di queste stesse istituzioni di elaborare una qualche linea coerente di politica estera, si tratta di un fatto importante, che merita attenzione.
C'è però un particolare risvolto che adesso mi sembra necessario sottolineare. All'Italia sono state assegnate le rappresentanze in Albania e in Uganda, due sedi oggettivamente non tra le più importanti tra quelle oggetto delle nomine; per fare qualche esempio, negli Stati Uniti andrà un portoghese, in Cina andrà un tedesco, in Giappone un austriaco, in Sudafrica un olandese, alla Spagna sono state assegnate quattro sedi, alla Francia e all'Irlanda tre. Non ci sarà nessun italiano neppure nella struttura di "governo" della diplomazia europea, guidata dall'inglese Ashton: il segretario generale sarà francese, i due vice tedesca e polacco, il responsabile dell'amministrazione irlandese. Non è una questione di partigianeria nazionale - non cambia molto che l'ambasciatore europeo in Cina sia tedesco o italiano - ma non è comunque un bel segnale per il nostro paese.
Il nostro Presidente del Consiglio ha di fatto "privatizzato" la politica estera italiana, che specialmente in questi ultimi due anni è diventata appunto un affare privato di Berlusconi e dei suoi soci in affari. Il ministro degli esteri ufficiale è uno dei più incapaci esponenti di questo esecutivo, molto più impegnato nella sua attività di sciatore che in quella di capo della diplomazia; si ricordano ancora le sue dichiarazioni in tuta da sci da una baita in occasione degli attentati a Gaza della fine dell'anno scorso.
Al di là del folklore del ministro Frattini, i due capisaldi della politica estera italiana sono i rapporti fraterni che Berlusconi intrattiene con Putin e con Gheddafi. I viaggi in Russia del nostro Presidente del Consiglio cominciano ormai a essere sospetti: quali sono esattamente gli interessi italiani che va a tutelare in quel paese? Altrettanto imbarazzanti sono i viaggi sempre più frequenti che il dittatore libico fa nel nostro paese. Nell'ultimo di questi, con l'aggiunta delle lezioni di Corano a una platea di hostess, abbiamo raggiunto apparentemente raggiunto il fondo, ma dalla coppia Berlusconi e Gheddafi - che hanno interessi finanziari comuni, mediati dall'impreditore tunisino Ben Ammar - dobbiamo aspettarci sempre peggio. Non è una colpa né l'essere ricchi né l'essere degli imprenditori e non può essere vietato a una persona ricca di fare politica, però esistono dei limiti, che Berlusconi ha ampiamente superato, mettendo in ridicolo la credibilità di tutto il nostro paese.
In politica, e in particolare in politica estera, bisogna accettare dei compromessi che in altre circostanze difficilmente si potrebbero giustificare: non si possono interrompere le relazioni diplomatiche con tutti gli stati in cui si violano i diritti umani. Per l'Italia - per la sua storia, per la sua posizione geografica, per i suoi interessi nel Mediterraneo - è giusto avere rapporti con la Libia, anche se in quel paese c'è un governo che nega i più elementari diritti umani ed è corrotto, perché sfrutta le ricchezze del paese per l'arricchimento della famiglia del dittatore. Ma un conto è avere rapporti politici, un conto è "appaltare" a quel governo la difesa delle coste meridionali del nostro paese.
E' stato vergognoso il modo in cui il nostro governo ha reagito all'attacco che una motovedetta libica ha sferrato contro un peschereccio italiano, sparando ad altezza d'uomo. Si sono cercate giustificazioni improbabili: il ministro Frattini ha detto che i libici hanno sparato in aria, mentre passavano le immagini in cui si vedevano gli spari sulla cabina di guida, mentre il ministro Maroni ha detto che i libici credevano che sul peschereccio ci fossero clandestini. Il problema è che la motovedetta è stata donata dall'Italia alla Libia, che su quell'imbarcazione c'erano militari italiani, con compiti nebulosi, e soprattutto che l'Italia ha demandato al governo libico il compito di impedire gli sbarchi di immigrati in Sicilia, peraltro senza risolvere l'annoso problema dell'ingiusta rivendicazione da parte della Libia di parte delle acque internazionali. Gheddafi ha avuto mano libera e ne ha approfittata e Berlusconi è stato zitto, perché ha interessi, più o meno confessabili, a cui non vuole rinunciare. Solitamente un governo di destra avrebbe approfittato di un incidente come questo, per fare un po' di nazionalismo a buon mercato, per lanciare proclami, per difendere la dignità nazionale; Berlusconi non l'ha fatto, immaginiamo il perché. E lo immagina anche il resto d'Europa.

martedì 14 settembre 2010

Considerazioni libere (162): a proposito di scuole e simboli...

Se abitassi ad Adro, in provincia di Brescia, non voterei per la Lega, sicuramente sarei parte di quella esigua minoranza che vota Pd o comunque a sinistra, anche solo per testimonianza. Se abitassi ad Adro e avessi una figlia o un figlio dai 3 ai 14 anni mi sarei molto arrabbiato, partecipando all'inaugurazione del nuovo polo scolastico, intitolato al sedicente ideologo della Lega - quel Gianfranco Miglio, che si ricorda più per il ghigno nelle apparizioni televisive che per le analisi sulla fine della società moderna e il ritorno al medioevo - vedendo ovunque il simbolo della Lega - la stella delle alpi - dai banchi ai cestini dei rifiuti, dagli zerbini ai posacenere, impresso sui vetri, sulle porte, nei cartelli. Avrei notato, più con ironia che con rabbia, quei crocifissi imbullonati alle pareti, contro ogni tentazione laicista di rimozione: un Cristo inchiodato due volte, prima dai soldati romani e poi dall'ignoranza e dall'intolleranza di piccoli amministratori leghisti.
Se vivessi ad Adro protesterei, firmerei petizioni, chiederei che la scuola fosse intitolata a Giorgio Ambrosoli e che venissero rimossi i più o meno subliminali simboli leghisti. Soprattutto vigilerei che all'interno della scuola non avvengano fenomeni, più o meno mascherati, di emarginazione verso gli stranieri e verso i poveri, che troppo spesso tendono a essere le stesse persone.
Se vivessi ad Adro e avessi una figlia o un figlio che frequenta il polo scolastico "Gianfranco Miglio" proverei a spiegargli perché ritengo sbagliata l'idea della società sostenuta dalla Lega e dalla destra e cercherei di educarlo secondo quei valori su cui io sono stato educato. Se vivessi ad Adro avrei sostenuto, contro il Sindaco e contro la maggioranza dei miei concittadini, la decisione della presidente dell'associazione dei genitori che gestiva la mensa di non sospendere il servizio ai bambini i cui genitori non pagavano regolarmente la retta e avrei applaudito, sempre contro il Sindaco e contro la maggioranza dei miei concittadini, la scelta di quell'imprenditore che ha deciso di pagare di tasca propria le rette, per assicurare a tutti il servizio, ritenendo che il benessere dei bambini debba sempre essere considerato prevalente, al di là di ogni altra considerazione.
Ma se vivessi ad Adro e avessi una figlia o un figlio dai 3 ai 14 anni sarei contento del fatto che mia figlia o mio figlio possano frequentare la scuola in un edificio nuovo, in regola con le norme di sicurezza e gli standard previsti dalle normative, con spazi verdi e laboratori, con le lavagne elettroniche. Probabilmente avrei anche dato il mio contributo, come hanno fatto gran parte dei cittadini di Adro, per dotare la scuola degli arredi e delle attrezzature, e avrei pensato - e anche detto pubblicamente - che quell'amministrazione, che io non avrei mai votato, ha fatto un buon lavoro, cedendo il vecchio edificio scolastico e facendosi costruire questo nuovo plesso, senza gravare sul bilancio comunale, strozzato dai vincoli finanziari imposti dagli stessi leghisti del governo di Roma. In troppi comuni italiani le bambine e i bambini vanno a scuola in edifici non a norma, con aule troppo piccole, con spazi per le attività sportive e di laboratorio inesistenti o molto carenti, senza spazi verdi.
Di Adro avevo già parlato in una mia precedente "considerazione" (la nr. 101, per la precisione) e non voglio tornare su quello che avevo già scritto. Ho letto diversi commenti sull'inagurazione della nuova scuola a marcata impronta leghista e li condivido tutti, a partire da quello di Michele Serra su Repubblica. Però mi pare che nessuno abbia affrontato la questione che a me sembra invece centrale: come mai la maggioranza dei cittadini di Adro è leghista ed è contenta della propria amministrazione? Probabilmente perché quegli amministratori hanno individuato un problema e l'hanno risolto bene, senza avere il timore di chiedere un sacrificio ai propri cittadini. I cittadini di Adro sono stati abbastanza intelligenti da capire che l'educazione dei loro figli è importante e che un'educazione efficace passa anche attraverso dei locali e delle strutture idonei: certo questi da soli non sono sufficienti, ma è importante che ci siano. Ora gli stessi cittadini mostrano anche una certa tendenza egoistica, ossia io penso ai miei figli, ai vostri pensateci voi. E siccome Adro è una realtà ricca dell'Italia può permettersi cose che nella gran parte del nostro paese sarebbero impossibili da realizzare, ma non per questo dobbiamo colpevolizzare i cittadini di Adro.
Di fronte a quello che è successo, che - lo ripeto - io considero molto grave, dobbiamo evitare due atteggiamenti: la condanna dagli accenti retorici e la sottovalutazione, come ha fatto la Gelmini parlando di folklore leghista. La comunità di Adro ha espresso un bisogno, un bisogno alto, e ha trovato il modo di soddisfare questo bisogno; i suoi leader hanno approfittato di questo per metterci il loro cappello, per esasperare la loro propaganda, ma non possiamo condannare una comunità perché vuole una scuola migliore per i propri figli.
Il problema che dovremmo porci è di garantire a tutte le bambine e tutti i bambini scuole pubbliche come quella di Adro, naturalmente senza simboli.

lunedì 13 settembre 2010

"Aspetto chiunque voglia venire da me, per parlarmi" di Pier Paolo Pasolini


Aspetto chiunque voglia venire da me, per parlarmi.
Come sarei contento di starlo a sentire.
Purché io possa avere in mano delle armi
anche le più inutili e inoffensive
sarei capace di qualsiasi bassezza, magari anche di farmi
spia, fascista o sacrestano: all'idea di morire,
è vero, ci si abitua, ma qualcosa che intanto calmi
è ciò che più si desidera, in queste rive
che riappaiono come per un improvviso risveglio.
Che cosa mi calma? Qualche piccola e logica illusione.
Pur di non sapere di averVi perso, è meglio
sperare in un miracolo, mio Signore e Padrone;
"Oh, sventura come sei verbosa", è, se volete saperlo,
un verso di Shakespeare; per non parlare di Platone.

domenica 12 settembre 2010

"La piccola gloria" di Raymond Queneau

A M.G., gli fu piuttosto difficile ottenere una tessera d'ingresso alla Bibliothèque Nationale, nessun titolo avvalorava la sua domanda, nessuna ricerca legittimava la sua richiesta, e tuttavia era proprio quello il solo posto dove potesse raggiungere il suo scopo. Ogni altro modo di operare sarebbe stato vano e senza efficacia, esposto a troppi rischi. M.G. passò dunque tutta un'estate senza riuscire ad avallare la sua domanda, quando un giorno d'autunno passando davanti a un'area di affissioni ufficiali scorse una pubblicità per l'Ecole du Louvre. Capì, ne divenne l'allievo sebbene sino ad allora non si fosse mai interessato a quel genere di studi, studiò l'arte del medioevo e l'epigrafia, infine, diplomato, poté ottenere una tessera di lettore, quella che dà diritto alla Sala di Studio.
Il primo giorno che vi si recò, si sedette un poco a caso; era prima della guerra, in un tempo in cui si poteva ancora scegliere il proprio posto. Poi si guardò intorno, si orientò, imparò il funzionamento di questa grande macchina. C'erano in particolare i cataloghi, di cui bisognava conoscere l'uso, dei numerosi cataloghi, alcuni a stampa, altri manoscritti, altri ancora fotografici, alcuni su schede altri no, in ordine alfabetico o in ordine di soggetto: insomma tutto un tirocinio da fare. Quando ebbe un poco capito, il primo pensiero di M.G. fu di cercare il proprio nome nel catalogo generale; ce lo trovò; e fu per lui una così grande emozione, una gioia vivissima. Tenendo aperto con la mano alla pagina il tomo 48, alzando gli occhi verso il soffitto, sognò, per qualche attimo, e sorrideva. Vi erano le tre opere che aveva pubblicato, ben descritte, con la loro segnatura: il Rinnovamento della Terra mediante l'esclusione di Newton, Lione, Lenglumé, 1841, in-8°, pp. VIII-246, R. 24111, l'Estremità dei cieli ridotta alla sua giusta espressione, Lione, Lenglumé, 1843, in-8°, pp. IX-351, R. 24112 e la Notte Newtoniana sin qui sparsa sulla terra e oramai annientata dal pieno giorno della Verità, Caen, Ledoyen, 1859, in-8°, pp. XL-674, R. 26700.
M.G. non si stancava di leggere e rileggere queste poche righe bibliografiche - tutto ciò che restava di lui su questa terra come gloria, poiché in tutti i dizionari e reportori che poté compulsare non trovò alcuna traccia del suo nome e della sua opera, come neppure in alcun trattato, in alcuna storia.
La seconda parte del suo programma fu realizzata nel modo seguente: riempì le tre schede necessarie e richiese in lettura i suoi tre libri. Di lì ad un'ora circa, un impiegato a questo scopo venne a portarglieli. Erano neri di polvere; M.G. la scosse quindi constatò che non erano stati consultati, mai; le loro pagine non erano tagliate. M.G. abbassò pesantemente la testa maneggiando distrattamente le sue opere; così, non era mai stato letto - perlomeno qui. Ma a che pro sperare di essere stato letto altrove. Nessuno si era mai chinato sulle sue elucubrazioni - e tuttavia ricordava i momenti di genio che illuminarono i suoi soggiorni a Lione poi a Caen, l'ardore con cui scriveva, l'entusiasmo che lo bruciava. Poi, dopo la pubblicazione, l'insuccesso completo, il silenzio. Allora M.G. era morto sperando almeno qualcosa dalla posterità. Vedeva adesso che la posterità non si era mai curata di lui.
Uscì qual giorno dalla Nationale, gonfio di delusioni e disperazioni. Vagò tutta la notte, riflettendo a quello che doveva fare. Le tenebre di Parigi lo videro in diversi quartieri a mormorare l'esame del suo problema. Al mattino, all'ora di apertura, era lì, entrò, si mise a osservare. Le sue osservazioni furono condotte metodicamente per parecchi giorni, parecchie settimane, parecchi mesi. Mostrava una tale discrezione che nessuno si accorse della sua inchiesta. A che cosa s'interessava quel vecchio signore barbuto? alla morte di Luigi XVI. E quella ragazza bionda? al giansenismo. E quell'altro? quell'altro? quell'altro? Nessun erudito, nessuna erudita sembrava avesse concepito un progetto dove potesse appigliarsi o collocarsi la letteratura M.G.-iana. Passarono dei mesi. M.G. continuava a sorvegliare con un occhio sagace la vita intellettuale della sala di studio.
In lettore però finì per incuriosirlo, poiché non scorgeva alcun legame tra i diversi autori di cui gli vedeva cercare le segnature. Non poteva prenderlo per uno che potesse scegliere a caso, nelle risorse del catalogo, poiché sembrava proprio perseguire una ricerca determinata. Dopo un certo tempo, M.G. poté constatare che quegli autori erano tutti francesi, del XIX secolo e, per quel tanto che era in grado di giudicare, completamente sconosciuti. Esitò ancora qualche tempo, continuò a osservare, e frattanto dovette concludere che, lui stesso, era nella condizione di interessare lo sconosciuto lettore, in quanto francese, undevigintico e per giunta, ahimé! sconosciuto. Quanto all'argomento delle sue opere, esso era presentabile come quelli degli altri; nessuna scienza pareva disinteressare il personaggio.
Gli occorreva dunque farne adesso la conoscenza; e per questo, giocò d'astuzia.
Seguì il personaggio, osservò il suo comportamento, notò le sue abitudini, vagliò i suoi costumi, arguì i suoi gusti; lo pedinò. L'altro non aveva niente amici né quasi relazioni; egli s'impose presso una di queste, che, un giorno, lo presentò. Conversarono. M.G., forte della propria indagine, guidava la conversazione e presto il personaggio gli confessò la natura dei suoi lavori, un probabile in-quarto di circa seicento pagine, bibliografia e tutto, e che tratterebbe incompendiosamente dei francesi oscuri del XIX secolo, un tema vasto. M.G. allora, emozionato, gli disse:
- Lei conosce M.G.?
L'altro non lo conosceva.
- Ha scritto questa, quella e quell'altra opera, disse M.G. citando i titoli.
- No non conosco, disse l'altro, non conosco. E' molto interessante, mormorò.
E tirò fuori dalla tasca un taccuino per prendere delle note. Ci scrisse titoli e nome.
M.G., tutti i giorni che seguirono, fu felice. Ma, la seconda volta che incontrò l'erudito, questi gli disse:
- Come dunque si chiamava il suo uomo? Si figuri che avevo perso la scheda.
M.G., amaro, gli diede di nuovo le indicazioni.
La volta seguente che incontrò l'erudito, questi gli disse:
- Interessante il suo uomo, interessante. Gli dedicherò dalle quattro alle cinque pagine circa del mio volume.
E M.G. fu di nuovo felice. Così non morirebbe completamente! Il suo nome resterebbe fra gli uomini non soltanto sotto il semplice e puro aspetto di un'iscrizione al catalogo della Bibliotèque Nationale, ma anche sotto la forma eminente di una notizia a lui dedicata da un erudito emerito in un in-quarto magistrale. Fu felice. Vivrebbe in eterno, o perlomeno molto a lungo - molto, molto a lungo. Non voleva pensare tanto lontano. A ogni modo poteva protrarre così la sua vita postuma di centinaia di anni, di migliaia forse. La fatalità dei cataloghi non consentiva ancora oggi di citare scrittori greci dei quali non resta più una riga? Allora lui, perché no? Supponiamo che tutta questa civiltà scompaia, e che non ne resti più, per pura sorte, che un frammento strappato della compilazione dell'erudito, e che questo frammento, per l'appunto, sia quello che lo concerne. Allora, egli sopravviverebbe, unico e solo. Perché no? Fu felice.
Le volte seguenti che incontrò l'erudito, gli chiedeva notizie del libro. Il libro andava avanti, presto fu quasi terminato, poi non ci fu che qualche messa a punto da fare. Stava per essere stampato, allorché il suo autore ne perse il manoscritto. Disgustato, questi abbandonò le sue ricerch e si ritirò un una campagna che aveva nei dintorni di Parigi.
M.G. gli fece numerose visite, per incoraggiarlo. Sperava sempre che l'altro stesse per ricominciare. Ma no, l'altro non voleva, non voleva sapere niente. M.G. vedendo sfumare ogni possibilità di sopravvivere nello spirito degli uomini si sentì a poco a poco indebolire e disgregarsi. Nella rabbia suprema della sua morte totale prossima, concentrò le poche forze che gli restavano per strozzare l'erudito. Che morì. Quanto a lui, andò a disperdersi a poco a poco, si dissolse, niente restò di lui, i fantasmi non hanno più fantasmi. (E' proprio sicuro?)

sabato 11 settembre 2010

Considerazioni libere (161): a proposito di colpevoli disattenzioni...

Tra il 30 luglio e il 3 agosto di quest'anno almeno 240 persone, donne e bambini, sono state violentate nel villaggio congolese di Luvungi, nella parte orientale del paese, da parte dei ribelli hutu ruandesi del Fronte democratico per la liberazione del Ruanda.
Non è una notizia. E' infatti l'ennesimo episodio del conflitto che, secondo diverse e autorevoli ong, ha fatto più vittime dai tempi della seconda guerra mondiale. Nel 1994, dopo la fine del genocidio ruandese operato dagli hutu, in cui sono morte 800mila persone, tra tutsi e hutu moderati, più di un milione di hutu si sono rifugiati nella Repubblica Democratica del Congo, per sfuggire alla vendetta degli stessi tutsi; nel 1997 il governo ruandese ha lanciato un'offensiva contro i ribelli hutu rimasti nella regione orientale del Congo. Questa è, in estrema sintesi, la cronaca delle cosiddette prima e seconda guerra del Congo, a cui hanno partecipato numerosi paesi africani e in cui sono morte, secondo alcune stime internazionali, almeno sei milioni di persone.
Il 27 agosto è stata pubblicata una bozza di un rapporto dell'Alto commissariato dell'Onu sui diritti umani che cerca finalmente di individuare i responsabili di questo vero e proprio genocidio. Credo valga la pena riportare un passo del rapporto, per far capire a che livello di violenza sia arrivato quel conflitto.
L'uso estensivo di armi bianche (per lo più martelli) e i massacri sistematici di sopravvissuti dopo l'occupazione delle campagne dimostrano che molti decessi non sono imputabili alle circostanze della guerra. Le vittime sono soprattutto bambini, donne e persone anziane o malate.

In questo quadro di terribili violenze, in cui non mancati neppure casi di cannibalismo, non stupisce l'uso sistematico dello stupro, come è successo, ancora una volta a Luvungi, poco più di un mese fa. Stupisce il fatto che le truppe dell'Onu fossero a soli 20 chilometri da quel villaggio e non siano stati in grado di intervenire per prevenire o almeno per fermare quell'attacco a popolazione civile inerme. Le truppe Onu sul campo in questa occasione - ma è già successo molte volte in quella sfortunata regione - si sono comportate come le proverbiali tre scimmiette.
Non è mancata la ferma condanna dei funzionari delle Nazioni Unite che stanno a New York, ma non è stato fatto nulla, a parte le parole di circostanze. Anzi l'Onu si prepara a rendere più "diplomatico" il rapporto di cui ho parlato prima, che accusa in maniera circostanziata l'attuale presidente del Ruanda Paul Kagame e l'ex presidente del Congo Laurent Désiré Kabila, padre dell'attuale presidente. Inutile sottolineare ancora una volta i grandi interessi economici che ruotano attorno alle risorse economiche di quel paese, ma di questo ho già parlato in due mie precedenti "considerazioni" (la nr. 83 e la nr. 92, per la precisione).
Ancora una volta la guerra si accanisce sul corpo delle donne. E ancora una volta noi guardiamo dall'altra parte.

giovedì 9 settembre 2010

"Stato d'assedio" di Mahmoud Darwish


Qui, sui pendii delle colline, dinanzi al crepuscolo e alla legge del tempo
vicino ai giardini dalle ombre spezzate,
facciamo come fanno i prigionieri,
facciamo come fanno i disoccupati:
coltiviamo la speranza.

Un paese che si prepara all’alba. Diventiamo meno intelligenti
perché spiamo l’ora della vittoria:
non c’è notte nella nostra notte illuminata
da una pioggia di bombe.
I nostri nemici vegliano,
i nostri nemici accendono per noi la luce
nell’oscurità dei sotterranei.

Qui, nessun “io”.
Qui, Adamo si ricorda che la sua argilla
è fatto di polvere.

In punto di morte, dice:
non posso più smarrire il sentiero:
libero sono a un passo dalla mia libertà.
Il mio futuro è nella mia mano.
Ben presto penetrerò nella mia vita,
nascerò libero, senza madre né padre,
e mi sceglierò un nome di lettere d’azzurro…

Qui, fra spirali di fumo, sui gradini di casa,
non c’è tempo per il tempo.
come chi s’innalza verso Dio,
dimentichiamo il dolore.

Nulla qui riecheggia Omero.
I miti bussano alla nostra porta, se vogliono.
Nulla riecheggia Omero. Qui, un generale
scava alla ricerca di uno stato addormentato
sotto le rovine di una Troia che verrà.

Voi, ritti in piedi sulla soglia, entrate,
bevete con noi il caffè arabo.
Sentirete che siete uomini come noi.

Voi, ritti in piedi sulla soglia delle case,
uscite dalla nostra alba.
Ci sentiremo sicuri di essere
uomini come voi!

Quando gli aerei scompaiono, spiccano il volo le colombe
bianchissime, lavano la gota del cielo
con ali libere, riprendono il bagliore e il possesso
dell’etere e del gioco. In alto, ancora più in alto volano via
le colombe bianchissime. Ah, se il cielo
fosse vero… (mi ha detto un uomo correndo fra due bombe).

I cipressi, dietro i soldati, minareti che s’innalzano
per non far crollare il cielo. Dietro la siepe di ferro
pisciano i soldati – al riparo di un tank –
e la giornata autunnale conclude la sua traiettoria dorata
in una strada vasta come una chiesa dopo la messa domenicale…

(A un assassino) Se avessi contemplato il volto della vittima
e riflettuto, ti saresti ricordato di tua madre nella camera
a gas, avresti buttato via le ragioni del fucile
e avresti cambiato idea: non è così che si ritrova un’identità.

L’assedio è attesa,
attesa su una scala inclinata
dove più infuria l’uragano.

Soli, siamo soli a bere l’amaro calice,
se non fosse per le visite dell’arcobaleno.

Abbiamo dei fratelli dietro quella spianata,
fratelli buoni, che ci amano. Ci guardano e piangono.
Poi si dicono in segreto:
“Ah! Se quest’assedio venisse dichiarato…”
Lasciano la frase incompiuta:
“Non lasciateci soli, non abbandonateci”.

Le nostre perdite: da due a otto martiri, giorno dopo giorno.
E dieci feriti.
E venti case.
E cinquanta ulivi…
Aggiungeteci la perdita intrinseca
che sarà il poema, l’opera teatrale, la tela incompiuta.

Una donna ha detto alla nube: copri il mio amato
perché ho le vesti grondanti del suo sangue.

Se non sei pioggia, amor mio
sii albero
colmo di fertilità, sii albero
se non sei albero, amor mio
sii pietra
satura d’umidità, sii pietra
se non sei pietra, amor mio
sii luna
nel sogno dell’amata, sii luna
(così una donna che dava sepoltura al figlio)

O ronde della notte! Non siete stanche
di spiare la luce nel nostro sale
e l’incandescenza della rosa nella nostra ferita,
non siete stanche, ronde della notte?

Un lembo di questo infinito assoluto azzurro
basterebbe
ad alleviare il fardello di questo tempo
e a spazzare via la melma di questo luogo.

Che l’anima scenda dalla sua cavalcatura
e cammini con passi di seta
al mio fianco, mano nella mano, come due amici
di vecchia data che condividono il pane secco
e un bicchiere di vino della vecchia vigna,
Per poter attraversare insieme questa strada.
Poi i nostri giorni seguiranno sentieri diversi:
io al di là della natura, e lei,
lei preferirà inerpicarsi su un’altra vetta.

Siamo lontani dal nostro destino come gli uccelli
che fanno il nido negli anfratti delle statue,
o nella cappa del camino, o nelle tende
dove riposava il principe andando a caccia.

Sulle mie macerie spunta verde l’ombra,
e il lupo sonnecchia sulla pelle della mia capra.
Sogna come me, come l’angelo,
che la vita sia qui… non laggiù.

Quando si è assediati, il tempo diventa spazio
pietrificato nella sua eternità
quando si è assediati, lo spazio diventa tempo
che ha fallito il suo ieri e il suo domani.

Questo martire mi assedia ogni volta che vedo spuntare un nuovo giorno
e mi chiede: Dov’eri? Annota sui dizionari
tutte le parole che mi hai offerto
e libera i dormienti dal ronzio dell’eco.
Il martire mi spiega: Non ho cercato al di là della spianata
le vergini dell’immortalità, perché amo la vita
sulla terra, fra i pini e gli alberi di fico,
ma era inaccessibile, così ho preso la mira
con l’ultima cosa che mi appartiene: il sangue
nel corpo dell’azzurro.

Il martire mi avverte: Non credere alle loro storie
credi a me, padre, quando osservi la mia foto e chiedi piangendo:
Come hai potuto scambiare le nostre vite, figlio mio,
perché mi hai preceduto? C’ero io, c’ero prima io!

Il martire non mi da tregua: mi sono solo spostato
con i miei mobili consunti.
Ho posato una gazzella sul mio letto,
e una falce di luna sul mio dito,
per alleviare la mia pena.
L’assedio continuerà, per convincerci a scegliere
una schiavitù che non fa male,
in piena libertà!

Resistere significa: accertarsi della forza
del cuore e dei testicoli, e del tuo male tenace:
il male della speranza.

In quel che resta dell’alba, cammino verso il mio involucro esterno
in quel che resta della notte, ascolto il rumore dei passi rimbombare al mio interno
saluto chi come me insegue
l’ebbrezza della luce, lo splendore della farfalla,
nell’oscurità di questo tunnel.

Saluto chi beve con me dal mio bicchiere
nelle tenebre di una notte che entrambi ci avvolge:
saluto il mio spettro.

Per me i miei amici preparano sempre una festa
da Dio, una sepoltura serena all’ombra delle querce
un epitaffio inciso nel marmo del tempo
e sempre ai funerali li precedo correndo:
chi è morto… chi?

La scrittura, un cucciolo che morde il nulla
la scrittura ferisce senza lasciar tracce di sangue.

Le nostre tazze di caffè. Gli uccelli, gli alberi verdi
nell’ombra azzurrina, il sole che scivola di muro
in muro con balzi di gazzella
l’acqua delle nubi dalla forma illimitata – tutto quel che ci resta.

Il cielo. E altre cose dai ricordi sospesi
rivelano che questo mattino è potente splendore,
e che noi siamo i convitati dell’eternità.

Considerazioni libere (160): a proposito di donne vittime delle guerre...

In qualunque guerra le prime vittime sono le persone più deboli, i poveri, gli ammalati, ma soprattutto le donne e i bambini. E naturalmente l'Iraq non fa eccezione. Da pochi giorni gran parte dei soldati statunitensi hanno lasciato il paese mediorientale, ma si continua ancora a combattere: come ho scritto in una mia precedente "considerazione" la guerra non è finita il 1 settembre, così come non era finita il 1 maggio del 2003.
Il periodico statunitense The Nation ha dedicato un articolo alle oltre 50 mila donne irachene che, a causa della guerra, sono intrappolate nella schiavitù sessuale: è un fenomeno di cui bisognerebbe parlare, ma di cui finora si occupati in pochissimi.
La guerra ha lasciato in Iraq moltissime donne vedove e orfane. Il conflitto tra etnie ha comportato l'aumento del numero di divorzi e la fine, più o meno ufficiale, di tanti matrimoni misti.
Molte di queste donne, rimaste all'improvviso sole, hanno deciso di continuare a vivere in quel paese, ma tante, a causa delle condizioni di vita sempre più dure, hanno deciso di cercare una situazione migliore in Siria e in Giordania. In questo viaggio della speranza vengono spesso irretite delle trappole dei trafficanti di sesso; a volte non hanno documenti e sono facili prede in paesi dove le burocrazie e le forze dell'ordine sono spesso corrotte. Alcune di loro sono costrette a fare le ballerine nei locali di Damasco, Amman, Beirut, moltissime, ormai alla mercé dei loro protettori, diventano prostitute.
Ancora più tragica è la sorte delle donne che sono vendute dalle loro famiglie, per pagare debiti o per risolvere dispute tribali: cadono immediatamente nel mercato del sesso, senza neppure la speranza di poter raggiungere un futuro diverso.
Gli Stati Uniti avrebbero potuto salvare molte di queste donne. Il Congresso nel 2008 ha approvato il Refugee crisis in Iraq Act, un programma speciale per i rifugiati iracheni, che però non è mai stato avviato. I rifugiati iracheni, in particolare le donne vittime del tratta, avrebbero dovuto essere qualificati con la cosiddetta "priorità 2". Si tratta di una misura che gli Stati Uniti hanno già utilizzato con successo ai tempi della guerra del Vietnam, per soccorrere gli amerasians, ossia i figli nati dai rapporti tra i soldati americani e le donne vietnamite e cambogiane. Secondo quanto stabilito dalla legge, il Dipartimento di Stato americano potrebbe occuparsi direttamente di queste donne - indicate appunto con la qualifica "priorità 2" - scavalcando le pratiche previste dall'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati e portandole nel territorio statunitense.
Purtroppo il Dipartimento di Stato non ha avviato il programma. Gli Stati Uniti inoltre non si stanno neppure impegnando per garantire che l’Unhcr, che finora ha gestito con scarsi mezzi la situazione, possa affrontare seriamente il problema delle rifugiate fra Iraq, Siria e Giordania.
Non dimentichiamoci delle donne irachene e non dimentichiamo che sono tra le vittime di questa guerra.

sabato 4 settembre 2010

Considerazioni libere (159): a proposito di concorsi e di bellezza....

Due giorni fa i giornali e i telegiornali hanno riportatato, con una certa evidenza, la notizia che un barista di Tezze sul Brenta ha cercato di organizzare un concorso di bellezza, mettendo in palio un posto di lavoro come cameriera, con contratto a chiamata. Giustamente la Cgil di Vicenza e del Veneto ha stigmatizzato questo comportamento. Riporto il comunicato del sindacato.
Fermatelo, perché questa iniziativa celebra, in un rito da osteria, la svalorizzazione delle persone e del lavoro, i cui segnali stanno emergendo sempre più frequenti nelle nostre comunità.
Fermatelo, perché toglie dignità alle donne, che per soddisfare l’aspirazione ad un lavoro devono passare per la mercificazione del proprio corpo, costrette a sottoporsi a cerimoniali avvilenti, tanto più se questo lavoro l’hanno perso, schiacciate della crisi.
Fermatelo perché il lavoro è cosa nobile e deve vedere prima di tutto premiate le professionalità e le competenze, anche di una ragazza che serve al bar.
Fermatelo perché non si può sbandierare, come fa il gestore del locale, il fatto che “ogni sei mesi si ripeterà il concorso” per assumere un’altra ragazza "in aggiunta" (il che non comporta particolari impegni per il titolare che, usando il lavoro a chiamata, può far lavorare il dipendente solo quando gli fa comodo) "o in sostituzione dell’altra", che può essere tranquillamente mollata (magari vox populi, se non è compiacente coi clienti?) alla stregua di una lavoratrice usa e getta.

Concordo pienamente con queste parole, ma ho trovato francamente ipocriti molti dei commenti che hanno accompagnato la notizia, i giudizi dei vari opinionisti che hanno ripetuto che la bellezza non è tutto. Chi si sdegna così a buon mercato evidentemente non ha mai scorso - o almeno non l'ha fatto recentemente - gli annunci delle offerte di lavoro. Chi lo fa tutti i giorni, come succede a me da qualche tempo, vede che la realtà del mondo del lavoro è molto simile a quel concorso di Tezze. Il requisito della "bella presenza" e la richiesta di inviare, insieme al curriculum, una fotografia - magari due, una del viso e una a figura intera - accompagnano moltissime offerte, al di là di quello che è il profilo richiesto.
Ho già avuto modo di parlare - nella "considerazione" nr. 9, per la precisione, scritta quasi un anno fa - di un annuncio in cui si ricercava per uno studio professionale di Bologna un'architetto o un'ingegnere "bella presenza", senza ulteriori specifiche su specializzazioni o esperienza.
I telegiornali hanno giustamente criticato il barista di Tezze, ma quali criteri utilizza un qualsiasi direttore di testata per scegliere le giornaliste che conducono gli stessi telegiornali?
Io non ho nessun pregiudizio verso le donne belle, ho lavorato con donne capaci e intelligenti belle e meno belle, così come ho lavorato con donne capaci e intelligenti bionde e brune. Trovo profondamente ingiusto valutare una donna per il suo aspetto, eppure il barista di Tezze non è certo l'unico a comportarsi in questa maniera. C'è un malcostume prevalente, nel mondo dello spettacolo, nella politica, perfino nello sport, per cui una donna bella ha maggiori occasioni di emergere, di far vedere quello che vale.
Non è una bella società quella che ragiona in questo modo.

p.s. Vi invito a leggere l'intervista che la Presidente della Repubblica finlandese ha rilasciato al Corriere, in vista del suo prossimo viaggio in Italia. Newsweek ha stilato una classifica, secondo cui la Finlandia è il paese al mondo in cui si vive meglio. Sarà un caso, ma in Finlandia le donne votano dal 1906 e attualmente sono donne, oltre alla Presidente, il premier e 11 dei 20 ministri.

giovedì 2 settembre 2010

"Tutto cambia e niente cambia" di Lawrence Ferlinghetti


Tutto cambia e niente cambia
Finiscono secoli
e tutto continua
come nulla finisse
Come le nubi ancora s’arrestano a mezzovolo come dirigibili presi tra venti contrari
E la febbre dell’efferata vita di città ancora strozza le strade

Ma ancora io sento cantare
ancora le voci dei poeti
mischiate agli schiamazzi delle troie
nell’antica Manhattan
o nella Parigi di Baudelaire
echeggiare richiami d’uccelli
lungo i vicoli della storia
ora coi nomi cambiati
E ora siamo nel Novecento
e la Borsa è di nuovo crollata
E mio padre vagabonda qui vicino con il fedora in testa
occhi sui marciapiedi
un’unica lira italiana
e un centesimo che raffigura la testa di un indiano in tasca
Trafficanti di liquori e carri funebri passano al rallentatore
Risuona la campana di ferro di una chiesa
frammista agli allarmi delle macchine nell’anno duemila

Mentre abiti nuovi corrono al lavoro in grattacieli oscillanti
mentre gli strilloni ancora strillano annunciando l’ultima follia

E risate s’alzano
sul mare lontano