venerdì 30 dicembre 2011

"L'aeroplano di Capodanno" di Gianni Rodari

Comandante, un aeroplano sconosciuto chiede di atterrare.
Un aeroplano sconosciuto?
E come è arrivato fin qui?
Non so, comandante. Noi non abbiamo avuto alcuna comunicazione. Dice che sta per finire il carburante e che atterrerà anche se non glielo permettiamo. Uno strano personaggio, comandante.
Strano?
Un po' pazzo, direi. Un momento fa lo sentivo ridacchiare nella radio: “Tanto, nessuno mi può fermare...”
Ad ogni modo facciamolo scendere, prima che combini qualche guaio.
L'apparecchio atterrò sul piccolo campo d'aviazione, alla periferia della capitale, alle ventitré e ventisette precise. Mancavano trentatré minuti alla mezzanotte. Già, ma non a una mezzanotte qualunque, bensì alla mezzanotte più importante dell'anno. Era la sera del 31 dicembre e in tutto il mondo milioni di persone vegliavano in attesa dell'anno nuovo. L'aviatore sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: Scaricate i miei bauli. Sono dodici, fate attenzione. Mi occorreranno tre tassi per trasportarli. Qualcuno può fare una telefonata per me?
Forse si e forse no - rispose per tutti il comandante del campo. - Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare?
Non ne vedo la necessità - disse l'aviatore, sorridendo.
lo però la vedo - ribatté il comandante. La prego, intanto, di mostrarmi i suoi documenti personali e le carte di bordo.
Mi dispiace ma non farò niente del genere.
Il suo tono era cosi deciso che il comandante fu lì lì per perdere la calma. Come vuole - disse poi, - ma intanto abbia la cortesia di seguirmi.
L'aviatore si inchinò. Al comandante parve che l'inchino fosse piuttosto esagerato. “Che voglia prendermi in giro?” pensò. “Ad ogni buon conto, dal mio aeroporto non uscirà con quelle arie da padrone del vapor”.
Guardi - diceva intanto il misterioso viaggiatore - che sono atteso. Molto, molto atteso.
Per la festa di mezzanotte, immagino?
Appunto, comandante carissimo.
lo invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all'aeroporto. Se lei insisterà a non volermi mostrare i documenti, mi terrà compagnia.
Lo sconosciuto (erano intanto entrati insieme in una saletta del campo) si accomodò in una poltrona, si accese la pipa e rivolgeva intorno occhiate curiose e divertite. I miei, documenti? Ma lei ne è già in possesso, comandante.
Davvero? Me li ha infilati in tasca con un giochetto di prestigio? E adesso mi caverà un uovo dal naso e un orologio da un orecchio?
Per tutta risposta lo sconosciuto indicò il calendario dell'anno nuovo, che pendeva dalla parete dietro una scrivania, aperto alla prima pagina. Ecco i miei documenti, prego. Sono il Tempo. Nei miei dodici bauli ci sono i dodici mesi che dovrebbero avere inizio tra... vediamo un po'... tra venti nove minuti precisi.
Il comandante non si scompose. Se lei è il Tempo - disse - io sono un aviogetto. Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro. Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l'annuncio della mezzanotte.
Accenda, accenda. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene.
Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni e arte varia. Di quando in quando una graziosa presentatrice consultava un grande orologio appeso dietro l'orchestra, proprio sulla testa del batterista, e annunciava: - Mancano venticinque minuti all'anno nuovo... Mancano ventidue minuti…
L'aviatore sconosciuto pareva divertirsi un mondo allo spettacolo. Canterellava, batteva il piede a tempo con l'orchestra, rideva di cuore alle battute dei comici...
Un minuto a mezzanotte - sorrise il comandante, - mi dispiace di non poterle offrire lo spumante. In servizio io non bevo mai.
Grazie, ma lo spumante non serve. Da questo momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un'occhiata al suo orologio.
Il comandante obbedì meccanicamente. Guardò il quadrante, si accostò il polso all'orecchio. “Strano”, pensò, “l'orologio cammina, ma la sfera dei secondi si è guastata e non gira più”. Egli cominciò mentalmente a contare i secondi. Ne contò sessanta, poi tornò a guardare l'orologio: le sfere erano sempre ferme sulla mezzanotte meno un minuto. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L'annunciatrice, con un sorriso un po' imbarazzato, stava dicendo: Sembra che ci sia un piccolo guasto... Musicisti, cantanti, comici, spettatori, come per un segnale, cominciarono a scrutare i loro orologi, a scuoterli, ad accostarseli all'orecchio, con aria sorpresa. In breve tutti si convinsero che le sfere non si muovevano più. Il tempo si è fermato - gridò qualcuno, scherzando. - Forse ha bevuto troppo spumante e si è addormentato prima della mezzanotte.
Il comandante dell'aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale, dal canto suo, gli sorrise educatamente. Ha visto? Colpa sua.
Come sarebbe... colpa mia... - balbettò il comandante.
Non è ancora convinto che io sia il Tempo? Guardi quella rosa (ce n'era una, sulla scrivania, freschissima: al comandante piaceva tenere qualche fiore in ufficio).Vuol vedere che cosa le succede, se la tocco? Lo sconosciuto si avvicinò alla scrivania, soffiò delicatamente sulla rosa: i petali caddero tutti insieme, avvizziti, secchi, si sbriciolarono, non furono più che un mucchietto di polvere...
Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono... Pochi minuti dopo la telefonata del comandante al ministro, già tutti sapevano, in America come a Singapore, in Tanzania come a Novosibirsk, che il Tempo era stato fermato in un piccolo aeroporto, perché privo di documenti. Milioni di persone che aspettavano la mezzanotte per stappare lo spumante ruppero il collo alle bottiglie, per far prima, e si scambiarono brindisi entusiastici. Cortei festosi percorrevano le strade di Milano, Parigi, Ginevra, Varsavia, Londra, Eccetera: scrivendo Eccetera con la maiuscola vogliamo indicare tutte le città che non ci sarebbe possibile nominare una per una. Evviva! - gridava la gente, in tutte le lingue. Il tempo si è fermato! Non invecchieremo più! Non moriremo più!
Il comandante dell'aeroporto passava il tempo al telefono. Lo chiamavano da ogni parte del mondo per dirgli: Lo tenga stretto! Gli metta le manette! Gli tiri il collo! Gli metta un sonnifero nel bicchiere! Macché sonnifero: veleno per i topi, ci deve mettere!
Il ministro aveva avvertito i suoi colleghi. Una riunione del Consiglio dei ministri era in corso. L'ordine del giorno: “Misure da prendere. Bisogna tramutare il fermo del Tempo in arresto o liberarlo?”. Il ministro dell'Interno tuonava: - Liberarlo? Mai non sia! Se cominciamo a lasciar andare in giro la gente senza documenti, siamo fritti in padella. Questo signore ci deve dire nome, cognome, paternità, luogo di nascita, domicilio, residenza, cittadinanza, nazionalità, numero del passaporto, numero delle scarpe, numero del cappello; ci deve mostrare il certificato di vaccinazione, quello di buona condotta, il diploma di quinta elementare, la ricevuta delle tasse. E poi, ha ben dodici bauli: ha pagato dogana? Si rifiuta di aprirli: e se ci avesse dentro delle bombe? Il ministro aveva settantadue anni: capirete che aveva ogni interesse a tener fermo l'orologio...
I ministri decisero di chiedere il parere delle Nazioni Unite. Alle Nazioni Unite, a quell'ora, c'era soltanto il portiere: tutti i delegati erano in giro a far festa. Quanto ci vorrà per riunire l'assemblea? Una quindicina di giorni. Però, se il tempo non passa, non passano neanche i quindici giorni e l'assemblea non si può riunire. Anche questa notizia fece il giro del mondo, contribuendo ad accrescere l'allegria generale. Dopo un po'... Ecco, veramente questa frase non si potrebbe scrivere: se il tempo era fermo, la parola “dopo” non aveva più senso.
Diciamo che un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell'accaduto, sommò due più due e cominciò a protestare: - Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Devo prendere per tutta la vita gli scapaccioni del babbo? Devo continuare a risolvere problemi di pizzicagnoli che comprano l'olio e si fanno calcolare dai bambini delle scuole la spesa e il ricavo? Ah, no, grazie tante! lo non accetto. Anche lui si attaccò al telefono, per dare l'allarme ai suoi amici. I bambini non vollero sentir parole. Si infilarono il cappotto sul pigiama e scesero anche loro per le strade a fare il corteo. Ma le loro grida e i loro cartelli erano ben diversi da quelli degli altri cortei: Liberate il Tempo! - dicevano. Non vogliamo restare sempre dei marmocchi! Vogliamo crescere! Io voglio diventare ingegnere! Io voglio che venga l'estate per andare al mare!
Incoscienti - commentava un passante, in un momento storico come questo pensano ai bagni di mare. Però - rifletté un altro passante, - su un punto almeno hanno ragione: se il tempo non passa più, sarà sempre il trentun dicembre... Sarà sempre inverno... Sarà sempre mezzanotte meno un minuto! Non vedremo più spuntare il sole! Mio marito è in viaggio - sospirò una signora, - come farà a torna e a casa, se il tempo non passa? Un malato nel suo letto si lamentava: - Ahi, ahi! doveva fermare il tempo proprio mentre avevo il mal di testa?... Un carcerato, aggrappato alle sbarre della sua prigione, si domandava accorato: - Non riavrò mai più la mia libertà? I contadini borbottavano: - Qua, col raccolto, si mette male... Se non passa il tempo, se non torna la primavera, gelerà tutto... Non avremo niente da mangiare.
Insomma, il comandante dell'aeroporto cominciò a ricevere telefonate allarmate: Be', lo lasciate andare, si o no? lo aspetto un vaglia, me lo manda lei, se il tempo non può passare? Comandante, per favore, liberi il Tempo: abbiamo un rubinetto che perde, e se non viene domattina non possiamo chiamare l'idraulico. Il Tempo, allungato nella sua poltrona, continuava a fumare la sua pipa, sorridendo. Cosa devo fare? - protestava il comandante. Uno la vuole bianca, l'altro la vuole nera... lo me ne lavo le mani. lo la lascio andar via...
Bravo, grazie.
Ma cosi... senza ordini superiori... Capisce che ci rimetto il posto?
E allora mi tenga qui. lo ci sto benissimo.
Un'altra telefonata: È scoppiato un incendio! Se non passa il tempo non arrivano i pompieri! Brucerà tutto! Bruceremo tutti! Abbiamo in casa vecchi e bambini... Non può far niente, comandante? Il comandante, a questo punto, picchiò un pugno sulla scrivania. Bene, succeda quel che vuol succedere. Mi prenderò questa responsabilità. Se ne vada, lei è libero.
Il Tempo balzò in piedi: - Permetta che le stringa la mano, comandante. Conoscerla è stato un vero piacere.
Il comandante gli aperse la porta: - Se ne vada, presto, prima che io cambi idea!
Il Tempo usci dalla porta. Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte, scoppiarono i fuochi artificiali. Il nuovo anno era cominciato.

martedì 27 dicembre 2011

"La fucilazione dell'eco" di Vladimir Vysotsky


Nel silenzio del valico, dove le rocce non sono da ostacolo ai venti,
In questi anfratti, dove nessuno è mai penetrato,
Viveva una gioiosa eco dei monti.
Lei rispondeva alle grida, alle grida degli uomini.

Quando la solitudine salirà alla gola come un nodo
E un gemito soffocato, quasi senza rumore, scivolerà nell’abisso,
Agile, l’eco afferrerà il grido d’aiuto,
Lo rafforzerà e lo porterà via con cura nelle sue mani.

Non dovevano essere uomini, gonfi di veleni e di oppio,
Quelli che giunsero per uccidere e ammutolire la gola viva,
Se nessuno ne sentì il calpestio e il grugnito.
Legarono l’eco e sulla sua bocca misero un bavaglio.

Per tutta la notte continuò la farsa sanguinosa e crudele,
L’eco venne calpestata, ma nessuno sentì alcun suono.
All’alba l’eco dei monti, ammutolita, venne fucilata,
E pietre sprizzarono, come lacrime dalle rocce ferite.

venerdì 23 dicembre 2011

Considerazioni libere (265): a proposito di donne che non festeggeranno il Natale...

In questi giorni ci sono due immagini molto forti che si sovrappongono e si confondono nel nostro immaginario - almeno a me succede: da una parte il ritratto di "the protester", the man of the year per la rivista Time, il viso quasi completamente velato, gli occhi che guardano con fierezza il lettore, non si capisce se sia un uomo o una donna, anche se in tanti abbiamo visto - abbiamo idealizzato forse - uno sguardo femminile; dall'altra parte la foto di Reuters/Contrasto in cui alcuni soldati egiziani spogliano e picchiano una donna velata, la ragazza dal reggiseno azzurro, come abbiamo cominciato a chiamarla. Una è un'immagine di fantasia, l'altra è reale, troppo reale, una racconta il mondo come vorremmo che fosse e una racconta come invece è. Nel dramma di queste due foto ci sono tutte le contraddizioni con cui abbiamo vissuto questo convulso 2011, in cui si sono alternate speranze e delusioni. Proprio perché questo mi sembra un elemento decisivo voglio chiudere le "considerazioni" di quest'anno con una riflessione sulle donne in Iraq. L'occasione è la presentazione del rapporto Trafficking in Iraq che studia la situazione delle donne in quel paese prima e dopo la guerra del 2003.
Riconoscere che i primi anni del regime di Saddam Hussein, almeno fino alla guerra Iran-Iraq, hanno rappresentato un momento di crescita delle donne in quella società, non significa affatto sottovalutare la durezza di quella dittatura. E' semplicemente un dato di fatto; come ho già scritto molte volte, la fine della dittatura di Saddam è stato l'unico elemento positivo di quel conflitto, mentre le altre conseguenze sono state tutte negative. Nel 1980 le donne hanno avuto il diritto di voto e nel 1991, prima che cominciasse la guerra del Golfo, l'Iraq era il primo paese arabo per numero di professioniste laureate.
La necessità di rafforzare il "fronte interno", prima contro l'Iran degli ayatollah e soprattutto dopo contro i paesi occidentali, ha spinto Saddam a rinunciare ai tratti più laici del proprio regime, in un processo di progressiva "arabizzazione", che è culminata nella reintroduzione di alcune leggi della sharia. Questa svolta è stata pagata soprattutto dalle donne. Durante la cosiddetta Faith campaign del 2000 pare che siano state uccise dai miliziani di Saddam oltre duemila donne; si è trattato per lo più di intellettuali, professioniste, donne attive nel campo dei diritti umani, femministe, insomma oppositrici del regime. Queste donne sono state decapitate e le loro teste sono state esposte come monito per tutte le altre donne. Evidentemente la condizione delle donne è rapidamente peggiorata, assecondando le spinte più conservatrici e maschiliste della società. In quegli anni un bersaglio del regime erano anche le donne sciite e curde. I miliziani le violentavano e spesso le facevano entrare in un redditizio traffico di prostituzione, più o meno istituzionalizzato, diretto verso l'Egitto, il Sudan e la Turchia. Le donne non trovavano alcuna solidarietà nelle loro famiglie, dal momento che, essendo state violentate, venivano considerate "immorali" e indegne di continuare ad appartenere alla comunità: la tratta quindi, gestita dal regime, era tollerata, se non favorita, dalle stesse famiglie.
Il dato drammatico è che la guerra ha segnato un ulteriore peggioramento della condizione delle donne in Iraq, nonostante una delle ragioni che hanno giustificato l'intervento occidentale e il conflitto fosse quella di difendere i diritti delle donne. C'è prima di tutto un dato economico e sociale di carattere generale: quella guerra - come ogni guerra sotto ogni latitudine - finisce per colpire la parte più debole della società e naturalmente le donne sono le prime a soffrire le conseguenze del conflitto. Nello specifico poi sono rimaste in vigore le leggi che impongono le discriminazioni di genere che erano state introdotte dal regime di Saddam Hussein. La costituzione del 2005 introduce nella legislazione irachena i diritti umani fondamentali, tra cui l'uguaglianza di donne e uomini, ma la decisione di mantenere l'islam come fondamento della legislazione statale finisce per violare de facto questo principio.
Il dato drammatico, che è oggetto appunto del rapporto che prima ho citato, è l'aumento della prostituzione - e della tratta - durante e dopo la guerra. Il conflitto ha fornito molto nuovo "materiale" ai trafficanti: non solo e non più le donne violentate, le oppositrici del regime, le donne curde e cristiane, ma ora anche moltissime vedove e orfane, che, persi i mariti e i padri, non sanno più come mantenere le loro famiglie. Povertà e arretratezza culturale vanno naturalmente di pari passo; non solo le donne violentate vengono considerate "impure", ma in una società arcaica come quella irachena le donne sole, che mantengono se stesse e le loro famiglie, sono viste male. Alcune, o per bisogno o per mantenere la loro reputazione, preferiscono sposarsi con uomini già spostati, visto che la legge prevede la poligamia, mentre molte altre cadono nel racket della prostituzione. Spesso queste donne si fidano di persone che promettono loro di aiutarle, a volte sono le stesse donne che accettano di "reclutare" altre loro compagne di sventura. Poi ci sono le famiglie che, a causa della povertà, decidono di vendere le loro figlie, specialmente le più giovani che, essendo vergini, sono una merce più preziosa.Queste donne vengono fatte prostituire sia all'interno del paese - sono tanti i night club sorti a Baghdad, magari sotto gli occhi conniventi delle truppe di occupazione o dei contractors - oppure sono mandate in altri paesi arabi. Secondo i dati di Amnesty International sono più di 700.000 le profughe irachene in Siria; nei bordelli di Damasco l’80% delle prostitute è di nazionalità irachena.
Mi rendo conto che leggere questa "considerazione" è un modo molto non-convenzionale di passare il Natale, eppure queste donne non hanno nulla da festeggiare e la loro condizione ci riguarda, molto di più di quanto pensiamo e, forse, vorremmo.

mercoledì 21 dicembre 2011

"Insonnia su Duke Ellington boulevard" di Ira Cohen


Se riuscissi a ricordare solo una frazione
di quello che ho detto al telefono
Se lui potesse togliersi i vestiti
e sedersi sulle rive del Ganga
Se lei potesse vedere il profilo di Calibano
nel fumo sui campi petroliferi
Se potessimo prendere e partire per il Madagascar
Se loro la smettessero di uccidersi l'un l’altro
e svegliarsi domani mattina
con una nuova visione
io ficcherei la testa in una macchina tipografica
e sul giornale di domani potreste leggere oggi:
EXTRA! EXTRA!
Leggete i particolari
Dimostratisi utili i cervelli dei poeti!

p.s. A volte quando la prendo la mia penna
fa sgocciolare oro sulla tovaglia.

martedì 20 dicembre 2011

Considerazioni libere (264): a proposito di quelli che si prendono la terra...

Più di un anno fa ho dedicato una di queste "considerazioni" – la nr. 91 per la precisione – a quel fenomeno che adesso gli organismi internazionali cominciano a chiamare land grabbing, ossia l'acquisto o l'affitto per decine di anni di migliaia e migliaia di ettari di terreno in Africa, Asia e America latina da parte di grandi compagnie multinazionali. Naturalmente questa vera e propria "corsa alla terra" è cominciata da tempo, ma la crisi finanziaria vi ha dato un notevole impulso: quando la finanza ha cominciato a vacillare sotto i colpi della speculazione, gli stessi speculatori hanno capito che era meglio rifugiarsi su beni più solidi e la terra è certamente uno di questi. Sono infatti proprio quelli che hanno fatto i soldi con le transazioni finanziarie a essere i protagonisti di questo ritorno alla old economy: in fondo di cibo ci sarà sempre più bisogno, visto che la popolazione mondiale tende a crescere, i prezzi rimarranno alti e quindi il profitto sarà garantito. Anche perché la terra nei paesi poveri del mondo costa poco, a volte pochissimo e rende parecchio. Gli stati petroliferi arabi fanno incetta di terreni per garantire le scorte alimentari necessarie per le loro popolazioni, la Cina – molto attiva in Africa – lo fa anche con l'obiettivo di espandere la propria influenza politica in quel continente strategico, le grandi compagnie multinazionali per impiantare monocolture di biocarburanti, facendo anche finta di farlo per il bene del pianeta e per non sfruttare le risorse energetiche tradizionali: tutti questi ne ricavano guadagni immensi. Ci guadagnano qualcosa, un'inezia rispetto ai guadagni globali, quei governanti corrotti – spesso sostenuti dai governi occidentali – che vendono e svendono le terre dei loro paesi. Se sono pochissimi quelli che ci gudagnano, naturalmente sono moltissimi quelli che ci rimettono, prima di tutto i contadini che in quelle terre vivevano e lavoravano. Ma anche noi ci rimettiamo, perché crescono i prezzi degli alimenti e perché il mondo è sempre più inquinato. Il land grabbing è il nuovo colonialismo e peserà sempre di più sulle fragilissime economie dei paesi in via di sviluppo.
Torno sull'argomento perché alcuni mesi fa la Banca mondiale ha fatto uscire su questo tema il rapporto Rising global interest in farmland; visto che ormai questa istituzione ha un peso così rilevante nella vita pubblica dei nostri paesi, tanto da condizionarne le scelte politiche, mi sembra utile capire cosa pensa di una questione così importante chi effettivamente comanda negli Stati Uniti e in Europa. La Banca mondiale riconosce che il problema esiste e che in seguito alla crisi del cibo del 2008 le grandi compagnie internazionali hanno aumentato in maniera considerevole i propri investimenti per l'acquisto di terreni, menzionando anche il fatto che i governi e le compagnie hanno stretto accordi senza tener conto della volontà delle comunità locali, alle quali non sempre sono stati riconosciuti i risarcimenti dovuti. Il rapporto si conclude con l'indicazione di sette principi per gli investimenti agricoli nei paesi più poveri, che riguardano tutela ambientale, rispetto dei diritti di proprietà, trasparenza eccetera; questi principi rimangono però belle parole dal momento che la Banca mondiale conclude che queste regole non possono essere imposte, ma devono essere recepite volontariamente dalle compagnie. Una pia illusione, nel migliore dei casi, visti gli interessi in ballo.
Quelli della Banca mondiale analizzano di continuo quello che succede nell'economia globale e lo scorso 16 agosto hanno presentato il rapporto Food Price Watch, in cui si spiega che "i prezzi alimentari mondiali hanno raggiunto il culmine. Coniugati a una volatilità persistente, costituiscono una minaccia permanente per i poveri dei Paesi in via di sviluppo". Bene, questo è il problema ed è detto senza infingimenti, ma la Banca mondiale può perdere il pelo, non certo il vizio. Il rapporto presenta molti dati sulle variazioni dei prezzi dei principali prodotti agricoli nei singoli paesi, concentrandosi in particolare sulla situazione del Corno d’Africa e della Somalia, dove la guerra  – come ho di recente raccontato – pesa enormemente sulle condizioni di vita di quei popoli. Ma quando passa dalla descrizione all'analisi cita come cause principali la siccità e i cambiamenti climatici globali e, in second'ordine, l’instabilità politica di quei paesi. Non cita mai le responsabilità dirette di coloro che speculano sulla terra e sul cibo. Probabilmente perché tra questi ci sono le grandi compagnie che quotidianamente lavorano e operano con la stessa Banca mondiale.
Gli economisti che hanno l'onesta intellettuale di riconoscere le leggi fondamentali della loro materia – e non solo Amartya Sen e chi viene dai paesi in via di sviluppo – spiegano che la fame non è una calamità naturale, come un terremoto o uno tsunami, ma un fenomeno che può essere eliminato, se solo ci fosse la volontà di farlo: bisognerebbe da un lato introdurre delle regole efficaci e cogenti nei mercati che operano sui titoli che si basano sulle commodities alimentari, e dall'altro lato sostenere modelli di produzione agroecologici, su piccola scala e basati sul lavoro di chi vive in quei territori. Certo servirebbero risorse, ma servirebbe soprattutto la capacità della politica di imporre le proprie scelte alla Banca mondiale e alle altre istituzioni finanziarie. Invece, come è noto, è la Banca mondiale che impone le proprie scelte alla politica. Dal momento che per gli esperti della Banca mondiale la causa principale dell'attuale crisi alimentare è il cambiamento climatico, la soluzione è quella di favorire chi sta acquistando grandi quantità di terreni. Infatti la Banca mondiale da un lato presta denaro ai grandi investitori affinché possano acquistare nuovi terreni e vi impiantino le monocolture e garantisce le assicurazioni contro le perdite legate alle siccità e agli eventi naturali; dall'altro lato agisce sui governi dei paesi in via di sviluppo affinché modifichino le leggi sulla proprietà della terra, favorendo la creazione dei grandi latifondi. Inoltre i Principi di Investimento Agricolo Responsabile, che ho citato prima, servono a dare una legittimazione etica a chi si accaparra la terra su larga scala.
Quando si parla del controllo che l'1% dei ricchi ha sul governo dell'economia del nostro pianeta si parla concretamente anche di questo. Quelli della Banca mondiale dimenticano – o fanno finta di dimenticare – che è il mercato che non garantisce cibo per tutti e non l'agricoltura. Questa cosa dobbiamo sempre averla in mente, perché è fondamentale. La terra produce e può produrre le risorse per dare da mangiare a tutti noi, è la distribuzione che lo impedisce. Il paradosso è che la Banca mondiale in occasione del G20 di Parigi del giugno scorso ha proposto di aiutare i paesi più poveri a uscire dalla fame, utilizzando prodotti finanziari derivati sul cibo, in sostanza ha proposto di affidare ai mercati la soluzione del problema che essi stessi hanno creato. Loro si stanno comprando tutta la terra, la terra migliore, quella più fertile e la stanno impoverendo con il sistema delle monocolture, ai contadini rimane poca terra, quella più difficile da coltivare e meno redditizia, con il cibo che diminuisce e i prezzi che fatalmente aumentano. Credo ci sia motivo per protestare e per dire che le cose così non possono andare avanti.

domenica 18 dicembre 2011

da "Il potere dei senza potere" di Václav Havel

Il direttore di un negozio di frutta e verdura mette in vetrina, fra le cipolle e le carote, un’insegna con lo slogan “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Perché lo fa? Cosa cerca di comunicare al mondo? È veramente eccitato dall’idea di un’unione tra i lavoratori di tutto il mondo? Il suo entusiasmo è così grande che sente l’insopprimibile impulso di comunicare pubblicamente i suoi ideali? Si è davvero fermato un momento a pensare come una tale unificazione potrebbe verificarsi e che cosa significherebbe?
Penso che si possa tranquillamente presumere che la stragrande maggioranza dei commercianti non pensi mai agli slogan appesi nella loro vetrina, né che li utilizzino per esprimere le loro reali opinioni. Le insegne vengono consegnate al nostro ortolano dall’azienda, insieme alle cipolle e alle carote. Le ha messe tutte in vetrina semplicemente perché è stato fatto in questo modo per anni, perché lo fanno tutti, e perché questo è il modo in cui si deve fare. Se rifiutasse, potrebbe avere dei problemi. Potrebbe essere rimproverato per non aver ottemperato alla decorazione della sua vetrina; qualcuno potrebbe addirittura accusarlo di slealtà. Lo fa perché queste cose devono essere fatte se uno non vuole avere problemi nella vita. Si tratta di una delle migliaia di minuzie che gli garantiscono una vita relativamente tranquilla, “in armonia con la società”, come si suol dire.
L’ortolano ovviamente non mette lo slogan in vetrina perché senta il desiderio di far conoscere al pubblico l’ideale che esprime. Questo, però, non significa che la sua azione non abbia alcun motivo o significato, o che lo slogan non comunichi nulla a nessuno. Lo slogan è veramente un segno e, come tale, esso contiene un messaggio subliminale, ma molto preciso. Verbalmente, potrebbe essere espresso così: “Io, l’ortolano XY, vivo qui e so che cosa devo fare. Mi comporto nella maniera che ci si aspetta da me. Sono affidabile e del tutto irreprensibile. Obbedisco e quindi ho il diritto di essere lasciato in pace”. Questo messaggio, ovviamente, ha un destinatario: esso è diretto in primo luogo ai superiori dell’ortolano, e allo stesso tempo è uno scudo che protegge l’ortolano da parte dei potenziali informatori. Il vero significato dello slogan, quindi, è fermamente radicato nell’esistenza dell’ortolano. Riflette i suoi interessi vitali. Ma quali sono questi interessi vitali?
Prendiamo nota: se l’ortolano fosse stato incaricato di esporre lo slogan “Ho paura e pertanto obbedisco senza fare domande”, non sarebbe quasi indifferente alla sua semantica, nonostante una tale dichiarazione rifletta la pura verità. L’ortolano sarebbe in imbarazzo e si vergognerebbe a mettere una tale dichiarazione inequivocabile del suo degrado in vetrina, e ovviamente è così perché egli è un essere umano e, quindi, ha un senso della propria dignità. Per superare questa complicazione, la sua espressione di lealtà deve assumere la forma di un segno che, almeno sulla sua superficie testuale, indica un livello di convinzione disinteressato. L’ortolano deve poter dire: “Che cosa c’è di sbagliato con i proletari del mondo che si uniscono?” Così il segno aiuta l’ortolano a nascondere a se stesso i bassi fondamenti della sua obbedienza, e nello stesso tempo il basso fondamento del potere al quale obbedisce. Si nasconde dietro la facciata di qualcosa di elevato. E questo qualcosa è l’ideologia.
L’ideologia è un modo falso di rapportarsi al mondo. Offre agli esseri umani l’illusione di una identità, una dignità e una moralità, rendendo più facile al contempo separarsene. In quanto imitazione di qualcosa di sovrapersonale e disinteressato, essa permette alle persone di ingannare la propria coscienza e di nascondere la loro vera posizione, e il loro inglorioso modus vivendi, sia al mondo che a loro stessi. Si tratta di un velo dietro il quale gli esseri umani possono nascondere le loro esistenza fallita, la loro banalità, e il loro adattamento allo status quo. Si tratta di un alibi che tutti possono usare, dall’ortolano, che nasconde la paura di perdere il suo posto di lavoro dietro un presunto interesse per l’unificazione dei lavoratori del mondo, al più alto funzionario, il cui interesse per restare al potere può essere avvolto in frasi circa il servizio alla classe operaia. La funzione primaria dell’ideologia, quindi, è quello di fornire alle persone, sia come vittime che come pilastri del sistema, l’illusione che il sistema è in armonia con l’uomo e con l’ordine dell’universo.
Il sistema tocca le persone ad ogni passo, ma lo fa con i guanti dell’ideologia. Questo è il motivo per cui la vita nel sistema è talmente permeata a fondo con ipocrisia e bugie: la burocrazia di governo è chiamato governo popolare; la classe operaia è schiava in nome della classe operaia; la completa degradazione dei singoli è presentata come la sua definitiva liberazione; celare le informazioni è chiamato divulgazione; la manipolazione autoritaria è chiamata controllo pubblico del potere, l’arbitrarietà e l’abuso di potere sono chiamate stretta osservazione del codice giuridico; la repressione della cultura è chiamata il suo sviluppo; l’espansione dell’influenza imperialistica è presentata come supporto per gli oppressi, la mancanza di libertà di espressione diventa la più alta forma di libertà; le elezioni-farsa diventano la più alta forma di democrazia; il divieto di pensiero indipendente diventa la più scientifica delle visioni del mondo; l’occupazione militare diventa fraterna assistenza. Poiché il regime è vincolato alle proprie menzogne, si deve falsificare tutto. Si falsifica il passato, il presente, e il futuro. Si falsificano le statistiche. Si finge di non possedere un onnipotente apparato di polizia capace di tutto. Si finge di rispettare i diritti umani. Si finge di non perseguitare nessuno. Si finge di non temere niente. Si finge di non fingere.
Perché il nostro ortolano ha dovuto addirittura mettere in vetrina la sua professione di fedeltà? Non lo aveva già fatto sufficientemente in vari modi? Alle riunioni sindacali, dopo tutto, ha sempre votato come dovrebbe. Ha sempre votato alle elezioni come ogni buon cittadino. Perché, dopo tutto questo, deve ancora dichiarare pubblicamente la sua fedeltà? In fondo le persone che oltrepassano a piedi la sua vetrina di certo non si soffermano a leggere che, nel parere dell’ortolano, i lavoratori del mondo dovrebbero unirsi. Il fatto è che non leggono affatto lo slogan, e si può persino assumere non lo vedono neanche. Se si chiedesse a una donna che si è fermata davanti al suo negozio ciò che ha visto in vetrina, potrebbe certamente dire se c’erano o non c’erano pomodori oggi, ma è altamente improbabile che abbia notato la presenza dello slogan, per non parlare di ciò che vi era scritto.
Sembra un’assurdità richiedere all’ortolano di dichiarare pubblicamente la sua fedeltà. Ma ha senso comunque. Le persone ignorano il suo slogan, ma lo fanno perché tali slogan si trovano anche in altre vetrine, su lampioni, bacheche, in finestre d’appartamento e sugli edifici: in effetti sono ovunque. Naturalmente, mentre si ignorano i dettagli, le persone sono molto consapevoli di questo panorama nel suo complesso. E che cos’altro è lo slogan dell’ortolano se non un piccolo componente di questo enorme sfondo alla vita quotidiana?
L’ortolano ha dovuto mettere lo slogan nella sua vetrina, quindi, non nella speranza che qualcuno possa leggerlo ed esserne persuaso, ma per contribuire, insieme con migliaia di altri slogan, al panorama che tutti conoscono bene. Questo panorama, naturalmente, ha un significato subliminale ulteriore: quello di ricordare alle persone dove vivono e che cosa ci si aspetta da loro. Dice loro ciò che tutti gli altri stanno facendo, e indica ciò che devono fare, se non vogliono essere esclusi, isolati, allontanati dalla società, rompere le regole del gioco col rischio della perdita della pace, tranquillità e sicurezza
Ora immaginiamo che un giorno qualcosa nel nostro ortolano scatti e che la smetta di esporre il suo slogan solo perché gli fa comodo. La smette di votare a delle elezioni che riconosce come una farsa. Comincia a dire ciò che pensa veramente alle riunioni politiche. E trova anche la forza dentro di sé per esprimere solidarietà a coloro che la sua coscienza gli comanda di sostenere. In questa rivolta l’ortolano smette di vivere all’interno della menzogna. Egli respinge il rituale e spezza le regole del gioco. Egli scopre nuovamente la sua identità e dignità soppresse. Dà alla sua libertà un concreto significato. La sua rivolta è un tentativo di vivere nella verità.
La resa dei conti non tarderà ad arrivare. Sarà esonerato dal suo posto come direttore del negozio e trasferito al deposito. La sua retribuzione sarà ridotta. Le sue speranze per una vacanza in Bulgaria evaporeranno. L’accesso all’istruzione superiore per i suoi figli sarà minacciato. I suoi superiori lo molesteranno in continuazione e i suoi compagni di lavoro si faranno domande sul suo conto. La maggior parte di coloro che applicano tali sanzioni, tuttavia, non lo farà spinto da qualche interiore convinzione, ma semplicemente sotto la pressione di certe condizioni: le stesse condizioni che una volta spingevano l’ortolano ad esporre gli slogan ufficiali. Essi perseguiteranno l’ortolano perché è quello che ci aspetta da loro, per dimostrare la loro lealtà, o semplicemente come parte del panorama generale, al quale appartiene la consapevolezza che questo è il modo in cui situazioni di questo tipo sono trattate, che questo, di fatto, è come le cose sono sempre state fatte, soprattutto se non vogliono diventare sospetti a loro volta.
Così la struttura del potere, attraverso il comportamento di coloro che effettuano le sanzioni, quelle anonime componenti del sistema, espelle da sé l’ortolano. Sarà lo stesso sistema a punirlo per la sua ribellione, attraverso la sua presenza alienante nelle altre persone. Ed è obbligato a farlo, in modo automatico, per auto-difesa. L’ortolano non ha commesso una semplice, individuale infrazione, isolata nella sua unicità, ma qualcosa di incomparabilmente più grave. Ha infranto le regole del gioco, ha interrotto il gioco in quanto tale. Lo ha esposto come un semplice gioco. Egli ha frantumato il mondo delle apparenze, il pilastro fondamentale del sistema. Egli ha sconvolto la struttura di potere lacerando ciò che lo tiene insieme. Egli ha detto che il re è nudo. E poiché il re in effetti è nudo, qualcosa di estremamente pericoloso è accaduto: con la sua azione, l’ortolano ha affrontato il mondo. Egli ha permesso a tutti di scrutare dietro le quinte. Egli ha dimostrato a tutti che è possibile vivere nella verità. Infatti vivere all’interno della menzogna può fungere da pilastro del sistema solo se la menzogna è universale. Il principio deve permeare e abbracciare tutto.

"La speranza" di Václav Havel


O abbiamo la speranza in noi, o non l'abbiamo;
è una dimensione dell'anima,
e non dipende da una particolare osservazione del mondo
o da una stima della situazione.
La speranza non è una predizione,
ma un orientamento dello spirito e del cuore;
trascende il mondo che viene immediatamente sperimentato,
ed è ancorata da qualche parte al di là dei suoi orizzonti.

sabato 17 dicembre 2011

"Immagina Jean Cocteau" di Ira Cohen


Immagina Jean Cocteau nell’ingresso
con in mano una fiaccola
Immagina un cane ammaestrato che recita,
una Rock and Roll Band
Immagina che io sono Curly dei Tre Stooges
travestito da William Shakespeare
Immagina che sono il cugino del Sindaco
di New York o il Re del Nepal
(non ho detto Napoleone!)
Immagina come sia essere nello splendore
di luci roventi quando desideri solo angoli
bui
Immagina i Ghost Patrol, la Tribal
Orchestra -
Immagina un elefante che suona l’armonica
o qualcuno che soppesa ossa al margine
del deserto in Afghanistan
Immagina che queste poesie sono momenti registrati
di temporanea sanità
Immagina che l’orologio sia appena tornato indietro -
o andato avanti - di cento anni invece che di un’ora
Facciamo finta che non c’è alcun posto in cui andare,
che siamo qui nel Cosmic Hotel,
e le nostre borse sono piene e che abbiamo solo un’ora
prima di dover lasciare l’hotel
Immagina quello che vuoi ma sappi che non è
l’immaginazione ma l’esperienza che fa la poesia,
e che dietro ogni immagine,
dietro ogni parola c’è qualcosa
che sto cercando di dirti,
qualcosa che è accaduta davvero.

dal blog turmoils

mercoledì 14 dicembre 2011

Considerazioni libere (263): a proposito di pazzi e di sani...

Sono momenti drammatici per il nostro paese: quello che è successo in pochi giorni tra Torino e Firenze racconta una società debole, che ha perso troppi punti di riferimento, una società smarrita che cede ai propri impulsi più profondi, che non riesce a controllare la propria violenza. Lo so che c'è la crisi, che ci sono ogni giorno novità che richiedono adeguati approfondimenti, ma credo sia un delitto non parlare di quello che è successo; oggi, a pochissimi giorni dagli omicidi di piazza Dalmazia, la notizia è già relegata nelle pagine di cronaca e di Torino non si parla più, nemmeno una riga - di zingari e di folli la nostra società non parla mai volentieri. Eppure la crisi economica e le violenze di questi giorni non sono argomenti slegati, sono le facce di una stessa medaglia.
Ancora prima di provare a capire, di provare a farmi e farvi delle domande su quello che è successo, c'è una riflessione che voglio fare. In questi anni ci siamo abituati a scaricare su altri le nostre colpe, in particolare su una classe politica incapace e autoreferenziale, abbiamo mitizzato una presunta "società civile" che sarebbe migliore di chi è stato chiamato a guidarla; certo i nostri rappresentanti hanno molti difetti - e io su questo blog ne ho parlato spesso - ma credo sia altrettanto onesto dire che, come spiega appunto il termine, sono persone che ci rappresentano, nel bene - non molto - e nel male - decisamente di più. I fatti di Torino e di Firenze non permettono scappatoie autoassolutorie, ma ci mettono davanti alle nostre responsabilità individuali e collettive, anche quelle che preferiamo considerare come isolati casi di follia. Per questo credo che l'episodio di Torino sia più grave di quello di Firenze, pur nel rispetto per le due persone, Samb Modou e Diop Mor, che in questa città sono morte e per quelle che si trovano ancora in gravi condizioni all'ospedale. Mi rendo conto che è difficile fare una graduatoria nel male, soprattutto quando tocca questi livelli di insensatezza, ma da qualche punto dobbiamo pur partire. E certamente il numero delle persone coinvolte è un elemento importante e nel capoluogo piemontese sono molte le persone che hanno "perso la testa".
A Torino c'è prima di tutto il fallimento pedagogico di una famiglia, di quella famiglia, che ha fatto della verginità violata un tabu tale da costringere una ragazza a mentire e che ha inculcato nei propri figli un pregiudizio così forte contro gli zingari. Su questa ossessione per la verginità - peraltro in un mondo in cui il sesso viene sbandierato, ostentato, sfruttato - e più in generale sull'incapacità di affrontare il tema dell'educazione sessuale dei giovani dovrebbero interrogarsi non solo quei due genitori, ma tutte quelle agenzie educative - compresa naturalmente la chiesa cattolica - che del sesso fanno il loro principale campo di interventismo etico. Per inciso, sarei poi curioso di sapere che conseguenze ci saranno per quel ginecologo che si prestava a quel controllo mensile - dietro compenso naturalmente - uno che dovrebbe essere deferito al proprio ordine, se questo non fosse troppo impegnato a difendere i propri interessi di casta; ma da qui rischiamo davvero di esulare troppo dal discorso iniziale. Naturalmente le responsabilità sono personali e la ragazza e suo fratello hanno commesso un grave errore, di cui spero prima o poi si renderanno conto. Trovare altre colpe non è un pretesto per assolverli, tutt'altro. Ma, per come la vedo io, i genitori hanno colpe maggiori delle loro, perché hanno prima di tutto responsabilità maggiori che derivano dal loro ruolo di educatori, ruolo che con tutta evidenza non sono stati in grado di assolvere, visto il bel risultato.
Poi ci sono le colpe dei "giustizieri", di quelli che hanno deciso che era arrivato il momento di farsi giustizia da soli, di risolvere una volta per tutte il problema degli zingari, cacciandoli dal loro territorio, dalla loro "piccola patria". Anche in questo caso cercare di capire non vuol dire assolvere. Non c'è giustificazione che tenga per quelle persone che si sono dirette armate verso il campo nomadi e lo hanno incendiato, però non è neppure sufficiente esprimere una condanna generica, per quanto vibrante, e poi dimenticare il giorno successivo quello che è successo in quella periferia. Ciascuno di noi porta un pezzo di responsabilità, più o meno grande, di quello che è successo a Torino. Quante volte ci è capitato di controllare il portafoglio o di stringere più forte la borsa quando uno zingaro ci è passato accanto? A me succede regolarmente, direi che è praticamente istintivo o meglio cerco di illudermi che sia un riflesso condizionato, mentre è frutto di un pregiudizio ben radicato. Quante volte abbiamo reagito con fastidio allo zingaro che ci tende la mano chiedendo l'elemosina? Poi magari razionalizziamo, spieghiamo a noi stessi che facciamo bene a non dare loro neppure un centesimo, perché sono parte di un racket che sfrutta il loro accattonaggio, immaginando un cattivo mr. Peachum che li invia in ogni angolo di strada. Se ciascuno di noi non fa i conti con i propri pregiudizi, non è molto credibile quando cerca di trovare argomenti contro quelli degli altri.
Poi ci sono riflessioni che sembrano ormai espunte dalle categorie attraverso cui cerchiamo di interpretare il mondo. Le persone che hanno deciso di assaltare e incendiare un campo rom per vendicare l'offesa fatta a qualcuno del loro gruppo vivono in un contesto sociale e culturale che presenta gravi problemi, degradato si sarebbe detto una volta. Quelle persone vivono in brutte periferie e la bruttezza del loro territorio è sentita con maggior evidenza in parallelo alla rinascita e alla riqualificazione del centro storico o di altre aree della città; vivono in periferie dove non c'è una rete efficiente di servizi; hanno una bassa scolarità e quando vanno a scuola frequentano brutti edifici con insegnanti spesso demotivati e stanchi; soffrono molto più di altri la crisi economica e la fine di un modello industriale consolidato come quello torinese. Pensate come può essere stridente continuare a sentir dire quanto è migliorata Torino, quanto è più bella, quanto è più moderna, quando si è ai margini o addirittura esclusi e non si è goduto neppure un po' di questo miglioramento, di questa bellezza, di questa modernità. Per chi è rimasto indietro la crisi ha anche questo, non secondario, impatto psicologico. La crisi non si misura soltanto dallo spread tra titoli di stato, ma anche da queste condizioni di vita, da questo spread civile, economico, culturale tra chi ha di più, sempre di più, e chi ha di meno, sempre di meno.
Giustamente Time ha messo in copertina nell'ultimo numero del 2011, quella tradizionalmente dedicata all'uomo dell'anno, "the protester", ossia l'uomo e la donna che manifestano, che protestano, che occupano. Abbiamo subito pensato alla "primavera araba", agli indignados di Madrid, ai ragazzi di OccupyWallstreet e di Mosca, ma tra coloro che protestano ci sono anche gli ultrà torinesi che hanno tentato di incendiare il campo rom della Continassa, così come i giovani di Tottenham e delle periferie inglesi. Naturalmente questi non ci piacciono, ma con loro e con i problemi che esprimono dobbiamo fare i conti. In una "considerazione" del 2010 ho scritto:
Per spiegare i fatti di Rosarno si è preferito utilizzare le categorie etniche piuttosto che quelle sociali: a mio avviso, non si è trattato di uno scontro tra bianchi e neri, tra italiani e stranieri, ma di uno scontro tra quelli che un tempo avremmo chiamato proletari e sottoproletari, oppure - per usare espressioni che Adriano Sofri utilizza nel saggio contenuto nel volume Sinistra senza sinistra, edito da Feltrinelli nell'ottobre 2008 - tra i "penultimi" e gli "ultimi". Può sembrare un paradosso, ma proprio quando l'economia è diventata l'elemento centrale delle nostre vite - molto più della politica - è venuta a mancare quell'idea di divisione in classi della società che serve a spiegarne le dinamiche.
L'economia continua a dominare le nostre vite e i "penultimi", in questo caso i "bravi cittadini" di Torino, pronti a scendere in strada per vendicare l'onore di quella ragazza stuprata, stanno per diventare loro stessi gli "ultimi" e di essere trattati dai nuovi "penultimi" che verranno nello stesso modo in cui loro stanno trattando ora gli zingari. Ci si può arrendere a questo destino, oppure si può cercare di invertire un cammino che sembra già segnato. Fare la morale rischia di servire a poco, può forse salvarci la coscienza, ma non migliora la condizione di tutte quelle persone, degli zingari e di chi ha cercato di bruciare il loro campo. Costruire belle case in periferie, investire sulla scuola e sui servizi, garantire stipendi degni a chi fa lavori normali è l'unico mezzo per rispondere alle domande sociali che vengono dagli zingari e da chi li vuole cacciare, bruciare, uccidere.
Naturalmente non voglio tralasciare quello che è successo a Firenze. Certo chi ha commesso quel delitto è un uomo disturbato, un pazzo, una persona che ha varcato un limite che fortunatamente la quasi totalità di tutti coloro che professano apertamente tesi razziste e xenofobe non varcano. Ma il fatto che siano in tanti che, magari protetti dall'anonimato delle rete, danno quotidianamente sfogo ad argomenti di questo tenore, il fatto che persone che hanno ruoli pubblici possano impunemente dire cose molte simili a quelle sostenute da Gianluca Casseri deve farci riflettere. Anche qui non basta dire che gli uomini sono tutti uguali indipendentemente dal colore della pelle; tutti noi sperimentiamo ogni giorno che questa uguaglianza non esiste, perché un povero non è uguale a un ricco, non ha le stesse opportunità, non può sperare che i suoi figli abbiano un futuro migliore. Casseri ha ucciso i due cittadini italiani nati in Senegal non perché era povero, ma perché era un razzista, un razzista convinto e coerente, e su questo non c'è molto da fare, magari si potrebbe fare qualcosa di più per prevenire, visto che lo stesso Casseri pubblicava le sue tesi farneticanti, non le nascondeva in oscure conventicole di adepti. Mi preoccupa il fatto - e credo dovrebbe preoccupare la nostra società - che molti di quelli che hanno scritto commenti contro i senegalesi e a favore di Casseri sui social network sono ignoranti, profondamente poveri di valori. Forse al razzismo non c'è rimedio, ma all'ignoranza c'è; abbiamo da tempo scoperto come si cura, il problema è la volontà di debellarla.

martedì 13 dicembre 2011

"La morte della ragione" di Amiri Baraka


1
La mia rabbia, talvolta,
è talmente brutta, è come se stesse seduta
fuori dalla natura, chiamando anche me
fuori, in qualche freddo vento merdoso
dell’inferno dell’uomo di colore. Le morte preghiere
che mi inaridiscono. Che rifiutano a me
e ai miei simili che camminano
la luce della calma razionale.
I denti del tempo
in una zona temperata. Vento tagliente
che mi strappa il respiro e gli abiti.
Tutta la mia perspicacia se n’è andata, io dissi,
disseccata per fare logica in polvere morbida
di cui ci imbrattiamo il volto per farci trovare
nelle notti quando la luna batte sulle
case, e fantasmi siedono a respirane
il sangue. Queste sono frasi, ordinati
termini logici, capricci del ritmo, perduti
in un bagliore di grazia missionaria.

2
Mio nonno era un omone grosso
che lasciò un cadavere ancor più grosso
quando lo uccisero. Matto
com’era, si aggirava per la città di gesso
di notte, declamando le mie poesie.
Oh, per l’amore di chiunque
da ascoltare per il Dio di chiunque. Io sostengo
che questa non è la condizione generale
dell’uomo. Questa non è
l’agonia e la morte di chiunque.
Mi condussero là nella sua giacchetta accorciata.
Guardavo mentre lo calavano giù. Oh,
dio di Chiunque, faceva un freddo tale, e la pioggia
mi veniva addosso così forte. Ma tirai su la giacca
contro la faccia. E diedi un calcio alla cassa:
e i becchini la lasciarono cadere imprecando.

lunedì 12 dicembre 2011

"Cos'è questo golpe? Io so" di Pier Paolo Pasolini

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

domenica 11 dicembre 2011

Considerazione libere (262): a proposito delle decisioni di un vertice...

Ho provato a seguire con attenzione il vertice europeo dell'8 e del 9 dicembre, che molti commentatori hanno definito storico. Al di là dello spreco che si fa di questo aggettivo – abbiamo già assistito a molti avvenimenti "storici" di cui ci siamo dimenticati dopo poche settimane – mi pare che il vertice di Bruxelles abbia segnato davvero una svolta nella storia recente dell'Europa. Per come l'ho capita io – ma leggendo le varie cronache mi pare che questo sia davvero il nocciolo della questione – la Germania, governata dal centrodestra, ha imposto a tutti gli altri paesi che fanno parte dell'Unione di rispettare, con sanzioni quasi automatiche in caso di infrazione, un tetto massimo al rapporto tra deficit di bilancio – ossia quando le uscite, nel bilancio di un paese, superano le entrate – e il Prodotto interno lordo: questo rapporto non potrà superare il 3%. Il pareggio di bilancio dovrà anche essere inserito nella costituzione degli stati che sottoscriveranno questo nuovo trattato, così come è stato fatto in Germania nel 2009. La Francia di Sarkozy ha seguito l'esempio tedesco nel 2010.
Tra i paesi oggetto di osservazione da parte delle autorità finanziarie internazionali, la Spagna ha già svolto il compito, con una riforma costituzionale approvata nell'estate scorsa con voto bipartisan da parte dei socialisti ormai votati alla sconfitta e dei popolari che si sentivano – come poi è avvenuto – sicuri vincitori. Il 30 novembre, nel clima di generale euforia seguita alle dimissioni di B., la Camera ha approvato in maniera quasi unanime – 464 sì, 11 astenuti e nessun voto contrario – la modifica dell'articolo 81 della Costituzione, per introdurre appunto il pareggio di bilancio nella legge fondamentale della Repubblica. La notizia non ha avuto particolare risalto, ma questa approvazione è stata di fatto la prima prova parlamentare – efficacemente superata – del governo Monti. Il testo, che dovrà ora seguire il complesso iter delle riforme costituzionali, ma che non dovrebbe trovare particolari ostacoli, visto il generale clima di concordia che regna in parlamento, recita:
Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo, al fine di garantire la corretta disciplina di bilancio e attuare i principi previsti dall'ordinamento dell'Unione europea relativamente al raggiungimento e al mantenimento dell'equilibrio economico. I saldi complessivi di bilancio sono definiti dal Governo e non possono essere oggetto di modifiche parlamentari.
L'ultimo comma in particolare segna un passaggio notevole nella prassi costituzionale italiana: di fatto al governo viene assegnato il potere di definire le linee essenziali del bilancio dello stato, ossia i saldi, mentre al parlamento è lasciato un compito residuale. Se poi si considera che saranno di fatto le autorità finanziarie europee a dettare i saldi al governo, per rispettare i vincoli imposti dai trattati internazionali, è chiaro che questa modifica costituzionale incide profondamente sulla costituzione materiale del nostro paese, attraverso una vera e propria cessione di sovranità su un aspetto essenziale della vita pubblica. Penso che una riforma del genere avrebbe meritato una discussione ben più ampia di quella che è stata fatta, nel parlamento e nel paese. Eppure su questo aspetto si sono levate pochissime voci critiche, naturalmente inascoltate. Pesa in particolare il silenzio della sinistra che ha accettato in buon ordine questa modifica costituzionale, ottenendo in cambio solo le dimissioni di B., che, per quanto importanti e benedette, non giustificano una resa di questa portata. Per quanto riguarda il Pd infine questa modifica costituzionale è parsa normale, visto la deriva liberista assunta da quel partito.
Per venire al merito della questione, di fatto la destra tedesca ha vietato all'Italia e a tutti gli altri paesi europei di fare debiti. Sembra una visione di buon senso – soprattutto per un paese come l'Italia in cui il debito pubblico è cresciuto in proporzioni non più sostenibili – ma è una posizione dettata da un'idea ultraliberista dell'economia. Provate a pensare cosa significherebbe questo divieto se imposto ai privati. Io e mia moglie abbiamo contratto un mutuo per acquistare la casa in cui viviamo, così come hanno fatto a suo tempo i nostri genitori e così come hanno fatto e fanno altri milioni di famiglie. Per fare il mutuo e quindi per acquistare la casa abbiamo calcolato le nostre entrate mensili e ci siamo regolati di conseguenza: per questo ora non abitiamo in una villa di 300 mq con giardino sulle colline, ma in un appartamento di 50 mq in via Marzaroli. Il punto è tutto qui: il problema non è fare debiti in sé, ma fare debiti che si sa che non potranno essere onorati; c'è una bella differenza.
Solo pochi anni fa lo stesso Monti – che non può certo essere tacciato di essere uno statalista – sosteneva che il pareggio di bilancio è giustificato per la parte corrente, ma che le istituzioni pubbliche, per le spese d'investimento, possono ricorrere al debito, esattamente come fanno le imprese e le famiglie.
Della possibilità di introdurre il pareggio di bilancio nella costituzione si discute anche negli Stati Uniti. Voglio riportare alcuni passi di una lettera aperta promossa dall'economista e premio Nobel Kenneth Arrow e sottoscritta da molti economisti americani, tra cui altri quattro premi Nobel. Mi sembrano posizioni piuttosto chiare, per essere state scritte da un economista.
Un emendamento sul pareggio di bilancio genererebbe effetti perversi in caso di recessione. Durante le crisi economiche, diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto. Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni.
[...]
Le aziende private e le famiglie ricorrono continuamente al credito per finanziare i loro investimenti. Un emendamento che introducesse il vincolo del pareggio di bilancio impedirebbe al governo federale di ricorrere al credito per finanziare il costo di infrastrutture, istruzione, ricerca e sviluppo, tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro benessere della nazione.
[...]
Un tetto di spesa limiterebbe ulteriormente la capacità del Congresso di contrastare eventuali recessioni sia tramite gli ammortizzatori già previsti che con apposite modifiche delle politiche fiscali. Anche nei periodi di espansione, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica perché un aumento degli investimenti ad elevata remunerazione – anche quelli interamente coperti dall'aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da altrettante riduzioni della spesa. Un tetto vincolante di spesa comporterebbe inoltre la necessità, in caso di spese di emergenza (per esempio in caso di disastri naturali), di altri tagli mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi non emergenziali.
[...]
E’ pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente nell'attuale fase economica. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi delle tasse che sarebbero necessari, danneggerebbero enormemente una ripresa già di per sé debole.
Anche la storia ci fornisce qualche insegnamento sul tema. L'economista John Kenneth Galbraith ha individuato tra le cinque cause della grande crisi del '29 il perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e di conseguenza l'assenza di un qualsivoglia intervento statale, considerato un fattore penalizzante per l'economia. Nella Germania che usciva già stremata dalla prima guerra mondiale le politiche restrittive che il cancelliere Bruning impose al paese portarono a cinque milioni di disoccupati e alla vittoria di Hitler nelle elezioni del gennaio '33.La finanza creativa in cui si sono esercitati il primo ministro Karamanlis in Grecia e il duo Berlusconi-Tremonti in Italia ha rafforzato l'idea tedesca che i governi dei paesi del Mediterraneo siano sostanzialmente incapaci di gestire con ordine e con rigore la finanza pubblica; eppure si dimentica che Portogallo, Irlanda e Spagna nel 2007 avevano un debito più basso di molti altri paesi, ma sono stati travolti comunque dalla crisi. Come diversi analisti ormai sostengono, l'esplodere dei debiti sovrani è la conseguenza dall'avidità e della mancanza di freni della finanza privata e non di quella pubblica. E' giusto pensare a quali possano essere gli strumenti più idonei per bloccare l'aumento del rapporto tra debito e Pil; però agire soltanto sul primo, tagliando il deficit, e non anche sul secondo, è frutto di una precisa visione ideologica, ormai prevalente secondo cui i problemi dell'economia possono venire solo dal pubblico. La diminuzione del rapporto tra debito e Pil è possibile anche con un deficit moderato, compensato da un sufficiente tasso di crescita. Ma dal momento che non ci può essere crescita senza debito, il vertice di Bruxelles condanna i paesi europei a seguire una sola strada: il taglio delle spese.
Leggendo la manovra coerentemente presentata dal governo Monti, come quella di Papademos in Grecia e quelle analoghe che vengono votate negli altri paesi europei, è chiaro che per ottenere questo risultato occorre demolire passo dopo passo l'Europa del welfare, dei diritti sociali, l'Europa che ha conosciuto il progressivo affermarsi dei lavoratori. Non è un caso che il tratto distintivo della politica imposta dalla destra tedesca e dalle autorità internazionali al governo Monti sia stata la riforma della previdenza, anche al di là della necessità della manovra su questo specifico aspetto. La previdenza in Italia era in equilibrio, ma si è voluto intervenire prima di tutto qui, per dare un segnale – questo davvero ideologico – che una stagione è finita per sempre.
Ecco perché è stato importante, al di là di tutti gli arzigogoli di facciata, il vertice di Bruxelles. In quella sede i governi – prevalentemente di destra – e le autorità comunitarie – tutte di destra – hanno deciso di spingere sull'acceleratore del cambiamento. Ne è uscito sconfitto chi ancora pensava che gli stati abbiano l'obbligo di ridurre la povertà e di fare in modo che tutti lavorino. Ha vinto invece – e in qualche modo l'ha imposto nelle costituzioni, facendo sì che sia legge anche per eventuali futuri governi di altro segno politico – chi pensa che gli stati debbano soltanto favorire la concorrenza, perché in questo modo le cose potranno funzionare e tutti potranno giocare con una possibilità di essere vincenti. Il paradosso è che questa è la stessa ideologia che ci portato in questa crisi: si tenta di uscirne percorrendo la stessa strada che ci ha portato dentro.
Temo che questa crisi sia l'ultima spallata che il neoliberalismo sta dando a quel che rimane di stato sociale come l'abbiamo conosciuto fino ad ora. Tutto ciò che continuerà a essere "pubblico" sarà qualcosa di residuale, destinato ai perdenti: scuola pubblica, sanità pubblica, previdenza pubblica, trasporti pubblici, saranno il minimo vitale, e spesso neppure quello, per i più poveri della società. Pagheremo per avere una buona scuola per i nostri figli, pagheremo per avere efficaci cure mediche, pagheremo per poter andare in pensione con un reddito che ci garantisca una vita dignitosa, pagheremo per viaggiare su mezzi di trasporto decenti. E pagherà molto di più la generazione dopo la nostra.

sabato 10 dicembre 2011

"Europa. Seicento parole per capire il millennio" di Hans Magnus Enzenberger

Eurocentrismo: sembra un'imprecazione. Tale termine sta a indicare notoriamente un modo di pensare del tutto riprovevole. La correttezza politica, dal canto suo, forse non proprio più nel suo massimo splendore, non ha lesinato rimproveri nei nostri riguardi. Le persone che tuttora ritengono l'Europa l'ombelico del mondo sono nel frattempo diventate talmente rare da non doverle nemmeno più combattere, anzi si dovrebbe seriamente pensare se considerarle una specie in estinzione. Chi occasionalmente visita altri continenti si imbatterà tuttavia in tracce ed effetti di emulazione che sembrano così ovvii da passare inosservati. Se vengono ricordati in silenzio, svelano un pensiero coloniale o addirittura inclinazioni imperialiste? Non credo proprio. L' elenco che segue non riporta solo il materassino gonfiabile, la camicia da notte e la scuola materna, ma anche l'eroina, i gas tossici e i campi di concentramento. Il criterio principale adottato per includere o meno un termine in questo elenco - che potrebbe naturalmente essere ampliato all'infinito - è la sua diffusione oltre ogni barriera culturale. Quasi nessuno di coloro che si annodano una cravatta in Cina o nel Ghana si ricorderà della sua origine e a noi stessi è da tempo andato perso l'atteggiamento di autore o di inventore. Un fugace ricordo, che può fare a meno della commozione, è forse concesso o addirittura consigliato. L'Europa non ha soltanto portato sventure al mondo, ma anche graditi doni come il costume da bagno e il “brezel”, la famosa ciambella salata. Ma non deve trattarsi di controversie in materia di brevetti. In molti casi è difficile stabilire con esattezza la priorità di un'invenzione - chi ritiene di potersi arrogare il diritto di sapere chi ringraziare per l' invenzione del primo letto? In caso di dubbio io do ragione, sin dall'inizio, a tutti coloro che vogliono aver ragione, piuttosto che battermi a duello con loro. L'elenco eurocentrico non deve servire alla scienza, ma alla riflessione e al divertimento. Permette uno sguardo retrospettivo su qualche secolo, con una prospettiva incerta sul nuovo millennio, che notoriamente - secondo il calendario gregoriano, che a sua volta occupa un posto d'onore nel nostro elenco - è iniziato il primo gennaio 2001: anche questo caso è un caso per coloro che vogliono avere ragione. Introdotto nell'anno 1582, non è stato dappertutto il benvenuto. Glarus, Appenzell e una parte dei Grigioni si sono ostinatamente attenuti al tradizionale calendario giuliano fino al 1798, e i rumeni si sono adeguati solo nel 1924, digrignando i denti, al nuovo computo del tempo. La rivoluzione d'ottobre, anche lei un famoso articolo d'esportazione, a rigore, ha avuto luogo nel novembre del 1917. E così via. Resta il dubbio se prendere questa cosa, come pure le altre, alla lettera. Il bizzarro successo storico della nostra penisola ha certamente a che vedere con il fatto che i suoi abitanti hanno sviluppato una tendenza alla precisione, che a volte, ma certamente non sempre, è stata benefica. Comunque sia, la domanda che viene posta e spesso sollevata, che cosa c'è di europeo nell'Europa, trova forse più facilmente una risposta se si dà uno sguardo dall'esterno a questa parte del globo e poi ci si chiede che cosa gli altri abbiano trovato di utile, per loro fortuna o sfortuna, nelle sue creazioni.

Abito confezionato, abbonamento, abito nuziale, accademie, accendino, acciaio inossidabile, accordo diplomatico, accumulatore, acqua di colonia, aeronautica militare, agenzia di stampa, airbag, alfabeto fonetico, alfabeto latino, algebra booleana, aliante, alimenti per l'infanzia, allibratore, alluminio, alpinismo, altoforno, ambulanza, analisi spettrale, anarchia, anatomia, anestesia, anestesia locale, anfetamina, antibiotici, apparecchio acustico, archeologia, arma da fuoco portatile, armadio guardaroba, armonica a bocca, ascensore, asciugacapelli, asepsi, asfaltatura, aspirina, assegno, assicurazione, assicurazione contro la disoccupazione, assorbente igienico, asta pubblica, atelier, atlante, autobus, automobile, autopsia, autostrada, avvocato, azione.

Baionetta, banca di emissione, banco dei pegni, bandiere nazionali, bar, barbabietola da zucchero, barbiturici, batteria, batteriologia, battitura a macchina, benzina, biancheria intima, bicicletta, biglietto, biglietto non vincente, biglietto da visita, bilancia di precisione, biliardo, biscotto,biscotto per cani, bomba a mano, bordello, borsa valori, botte per il vino, brevetto, brezel, bridge, buca delle lettere, bunker, bussola giroscopica.

Cabaret, cabernet sauvignon, cabina telefonica, caccia alle balene, cacciavite, caffè (inteso come locale), calamita, calcestruzzo, calcolatrice, calcolo delle probabilità, calcolo infinitesimale, caleidoscopio, calendario gregoriano, calzamaglia, calze, cambio, camembert, camicetta, camicia da notte, camicia da uomo, campanello della porta, campo di concentramento, canale di Suez, canalizzazione, candela d'accensione, candela di cera, cannocchiale, carillon, carnevale, carrozzina, carta delle costellazioni, cartella, cartello stradale, cartolina postale, cartone, cartone animato, cartone catramato per copertura tetti, casinò, cassa di risparmio, cassa malattia, cassaforte, catalisi, catasto, catetere, cavo sottomarino, celluloide, cellulosa, cemento d'amianto, censura della stampa, centrifuga, cera per pavimenti, champagne, chardonnay, chiesa cattolica, chimica delle materie plastiche, chimica organica, chiusura a velcro, cinema, cioccolato al latte, circo, circolazione a destra, circolo, cittadinanza, ciuccio, clarinetto, clinica psichiatrica, clonazione di mammiferi, club, cocaina, codice binario, codice HTML, cognac, colonna delle affissioni, colori all'anilina, colori artificiali, commedia, compact disc, compagnia aerea, compasso, completo da uomo, composizione a macchina, comunismo, concime chimico, confessione, consolato, contatore Geiger, conto corrente, contrappunto, copyright, corazzata, corona, corpo vigili del fuoco, corsa di cavalli, costume da bagno, crauti, cravatta, crematorio, cristallo, croce rossa, cucina a gas, custodia preventiva.

Dado per brodo, democrazia, denuncia, detersivo in polvere, differenziale, dinamite, dinamo, dirigibile zeppelin, diritto d' asilo, diritto internazionale, diritto romano, disco, distributore di benzina, distributori a gettone.

Ecologia, economia forestale, economia politica, ecoscandaglio, edicola, editoria, effemeride, elegia, elenco per categorie professionali, elettricità, elettrolisi, elettroshock, elicottero, eliocentrismo, emancipazione femminile, embriologia, equazione, erogazione pubblica di corrente, eroina, escavatrice, esplorazione polare, esposizione mondiale / expo, etimologia, etnologia, eugenetica.

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Gabardine, gara ciclistica, gas tossici, gelatiera, genetica, geologia, geometria analitica, geometria non euclidea, ghigliottina, giardino botanico, giardino pubblico, gioco del calcio, gin, ginnasio, ginnastica, giornata lavorativa di otto ore, giostra, golf, gomma per cancellare, gradi centigradi e gradi Fahrenheit, grado di longitudine e grado di latitudine, graffetta, grand hotel, grande magazzino, grondaia, gru, gruccia per gli abiti.

Hamburger, haute couture.

Illuminazione stradale, immunologia, impermeabile, impianto di depurazione, imposta sul reddito, impronta digitale, incisione all'acquaforte, incisione su rame, incubatrice, inno nazionale, inseminazione artificiale, inserzione, insetticida, ipoteca, irradiazioni con raggi X, istruzione obbligatoria.

Lamiera ondulata, lampada da minatore, lampadario, lancetta dei minuti, laser, lavasecco, lavatrice, lavorazione di merletti a fuselli, leggi della gravitazione, legno compensato, lettera di pegno, libero scambio, libreria, lievito in polvere, linguaggio gestuale dei sordi, linoleum, liquefazione del gas, litografia, lobotomia, logaritmi, logogramma, lotto, lsd, lucido da scarpe, lucido per mobili.

Macchina a vapore, macchina da cucire, macchina da scrivere, macchina di Turing, macchina utensile, maglificio, maionese, mandato di cattura, manganello, mappamondo, marchio di fabbrica, marciapiede, martello pneumatico, marxismo, marzapane, maschera antigas, materassino gonfiabile, matita, matrimonio civile, mattatoio, maturità scolastica, medicina legale, mercato mondiale, merlot, metro, metronomo, metropolitana, miccia, microonde, microscopio, microscopio elettronico, minigonna, ministeri, mitragliatrice, mixer, molla a spirale, moneta, morfina, morsa da banco, mostra d'arte, moto, motore a carburazione, motore a getto, motore diesel, motore elettrico, movimento operaio, museo, museruola, musica da camera, musica dodecafonica, muta da sub.

Nano per ornare il giardino, nastro magnetico, natale, nazionalismo, nettezza urbana, night club, nomenclatura botanica, nomenclatura chimica, nomi dei mesi, nomi dei pianeti, notazione musicale, novella, nudo, numeri complessi, numeri da 0-9, numeri immaginari, numeri irrazionali, numeri negativi.

Obitorio, occhiali, occhiello, olandese volante (giostra al lunapark), olimpiadi, ombrello, omeopatia, orario ferroviario, orchestra sinfonica, ordine (religioso, monastico, cavalleresco), orfanotrofio, organo (strumento musicale), ormoni, orologio da polso, orologio meccanico, orsacchiotto, ostello della gioventù, ostricoltura.

Pace maker, pagina, palcoscenico con boccascena, palcoscenico girevole, paleontologia, pane croccante, panna montata, panpepato, pantaloni, paranco, parlamento, partecipazione di matrimonio, partita doppia, partiti politici, passaporto, passo dell'oca, pasticcio (gastronomico), pastorizzazione, patatine fritte, pattino a rotelle, pattino da ghiaccio, penna stilografica, pentola smaltata, permanente, peschereccio per la pesca a strascico, pessario, pessario intrauterino, petrolchimica, pettinato (tipo di tessuto), pialla, piallaccio, pianoforte, pianta della città, pinot noir, pittura a olio, pittura su vetro, pizza, planisfero, politecnico, polizia, polvere tarmicida, pompa pneumatica, ponte di ferro, portaerei, portafoglio, posta aerea, pozzo d'estrazione, prato, presa di corrente, preservativo, pressa idraulica, pressa rapida, prestito statale, presunzione d'innocenza, produzione di acciaio, proiezione cartografica, proiezione di carte geografiche, prospettiva centrale, protesi dentaria, protezione degli animali, psicanalisi, pubblico ministero, pulizia strade, pullover, puntina da disegno.

Quinte (del teatro), quotidiano (giornale).

Raccoglitore, raccolta di fiabe, raccomandata, racconto radiofonico, radar, raddrizzatori, radioattività, rallentatore, razzismo, recensione, regata, reggiseno, registro anagrafico, ricerca oceanografica, riesling, riforma, riscaldamento centrale, rivista teatrale, rivoluzionario di professione, romanzo, roulette, ruota dentata, ruota panoramica.

Saldatoio, saldatrice, saliera e portapepe, salvagente, sanatorio, sandwich, sassofono, satira, sbiancante, scambio ferroviario, scatola di conserve, sci, scienza economica, sciopero, scrittura Braille, scuola materna, sedia, sedia a rotelle, sega circolare, segale, segheria, segno di interpunzione, semaforo, semiconduttore, serra, serratura a cilindro, servizio di leva, sessuologia, sfilata di moda, shampoo, sherry, sigarette, simboli matematici, sindacato, sipario, siringa per iniezioni, sismografo, sistema metrico, sistema periodico, smoking, socialdemocrazia, sociologia, sommergibile, sonata, spilla da balia, spillo, spoletta a tempo, sport invernale, stampa rotativa, stampa tipografica con caratteri mobili, standardizzazione per l'industria, statistica, stato maggiore generale, stato sociale, stazione ferroviaria, stazione radio, stazione termale, stemma, stereochimica, sterilizzazione forzata, stetoscopio, steward, stewardess, stivali di gomma, storia dell'arte, suffragio universale, suggeritrice, superconduzione, sveglia.

Taglio cesareo, tappezzeria, tartufo, tasca dei calzoni, tassa sui cani, tassonomia, tavola pretoriana, taxi, tecnica di raffreddamento, tecnica molitoria, telaio meccanico, telegrafo, teleselezione, temperino, tenaglia, tennis, tennis da tavolo, teodolite, teoria degli insiemi, teoria dei gruppi, teoria della relatività, teoria dell' evoluzione, terminologia medica, termodinamica, termometro, termos, tintura per capelli, titolo di dottore / laurea, titolo di professore, tomografia, topologia, tornio, tosaerba, tovagliolo, trafileria per fili, tragedia, tram, tranquillante, trapano, trasformatore, trasfusione di sangue, trasmissione a coppia vite-ruota, trattore, trebbiatrice, tubo al neon, tubo catodico, tubo d'irrigazione, turacciolo, turbina, turismo, tutela dei dati, tutela dei monumenti, tv, tweed.

Ufficiale giudiziario, ufficio oggetti smarriti, ufficio postale, ultrasuono, umanesimo, uniforme, unione postale universale, università, urna elettorale, utopia.

Vaccinazione, valigia, valvole, valzer, variété, ventilatore, vetrina, vetro da specchi, vetro della finestra, viaggio all-inclusive, viaggio in mongolfiera, vigili del fuoco, violino, vitamine, vite, vodka.

Wc, whisky, world wide web.

Zoo.

giovedì 8 dicembre 2011

Considerazioni libere (261): a proposito di rivolte e di aspirazioni...

Credo ricorderete anche voi. All'inizio dello scorso mese di agosto, mentre in Italia eravamo impegnati a decifrare la ormai famosa lettera inviata da Draghi e Trichet, che ci imponeva quelle serie misure economiche poi messe in pratica dal professor Monti, precisamente tra il 6 e il 10 agosto, al di là della Manica migliaia di giovani hanno devastato interi quartieri di Londra e di altre città britanniche. Per alcune notti, mentre i governanti inglesi erano in vacanza e la polizia era senza guida - dal momento che il comandante di Scotland Yard e il suo vice erano stati costretti alle dimissioni per lo scandalo legato alle intercettazioni del quotidiano News of the World - i giovani delle periferie inglesi hanno distrutto arredi pubblici, incendiato automobili, assaltato negozi e grandi magazzini, compiuto razzie. Poi, quando le autorità si sono risvegliate, è arrivata una dura repressione: il governo conservatore ha annunciato di aver ristabilito l'ordine e si è data larga enfasi alle persone che, armate di scopa, hanno ripulito quei quartieri, esempio della Big society propugnata da Cameron. Di quell'episodio di violenza di massa non si parla più, come non si parla più delle rivolte nelle banlieues parigine represse dall'allora ministro degli interni Sarkozy: la polvere è opportunamente stata messa sotto il tappeto.
Fortunatamente alcuni sociologi inglesi hanno deciso di fare un'indagine su quel fenomeno per cercare di capire quali cause abbiano portato a episodi di violenza di questa gravità. In questi giorni il quotidiano inglese Guardian, che ha anche collaborato alla ricerca, ha pubblicato i risultati di uno studio realizzato dalla London School of Economics. Per condurre l’analisi sono state intervistate 270 persone che hanno partecipato alle sommosse di Londra, Birmingham, Liverpool, Nottingham, Manchester e Salford; oltre a questi racconti, i ricercatori hanno anche raccolto e analizzato circa 2,5 milioni di messaggi su Twitter legati ai giorni delle violenze, ottenendo una quantità di dati e di informazioni senza precedenti per studiare il fenomeno.
La maggior parte dei giovani ha detto di aver partecipato alle violenze per esprimere la loro forte ostilità nei confronti della polizia; molti si dichiarano esasperati dal modo in cui le autorità si occupano dei loro quartieri. Molti altri hanno ammesso di aver partecipato semplicemente per poter rubare in modo indisturbato oggetti che difficilmente avrebbero potuto permettersi in maniera legale; hanno ammesso di aver approfittato del vuoto di potere per compiere queste razzie.
L'indagine serve anche a sfatare alcuni luoghi comuni che si sono diffusi su queste sommosse. Il primo ministro Cameron disse che le violenze erano state fomentate dalle bande criminali e che di conseguenza il governo avrebbe investito maggiori risorse, in uomini e mezzi, contro questo fenomeno; era evidentemente un modo per allontanare il problema. Dalla ricerca emerge che certamente parteciparono alle sommosse alcuni membri delle gang, ma che il loro apporto all'organizzazione fu del tutto marginale; semplicemente furono tra i tanti che approfittarono della situazione. Trai 270 manifestanti intervistati poco meno della età erano studenti al momento della sommossa. Il 59% erano disoccupati. Circa la metà sono di origini africane, ma nessuno di essi sostiene che le sommosse avessero una particolare connotazione razziale.
In quei giorni si disse anche che le sommosse erano state organizzate attraverso i social network, con la condivisione di informazioni sui profili e le pagine di Facebook; naturalmente fu chiesto anche maggior controllo sulla rete, scambiando il mezzo per il problema. Dopo aver analizzato i dati, i ricercatori non hanno trovato un particolare aumento dell’attività sui social network in quei giorni. Sono stati usati i telefoni cellulari, e i ragazzi si scambiavano sms per informarsi a vicenda su dove stavano avvenendo i saccheggi.
La causa profonda di quello che è successo in quelle poche notti di agosto è la profonda disuguaglianza della società. In Gran Bretagna c'è una separazione di classi ancora fortissima, a cui si lega una condizione di disagio e degrado sociale molto rilevante, acuita, ma non causata, dall'immigrazione. Come ho già avuto modo di dire anche in un'altra "considerazione", non può essere un caso che le sommosse siano partite proprio da Tottenham, un quartiere in cui sono stati chiusi, per problemi di bilancio, diversi centri sociali giovanili, lasciando senza luoghi e attività molti giovani disoccupati del quartiere. Le forti tensioni sociali, che in Gran Bretagna hanno una storia recente che risale almeno agli anni Ottanta, hanno portato a un tasso di illegalità e di criminalità molto alto, a cui si è risposto con interventi di polizia sempre più violenti, in una spirale che non si è avuto la capacità di spezzare; in molte comunità degradate la polizia è un "nemico" dichiarato e la diffidenza è cresciuta a dismisura, coinvolgendo tutte le istituzioni, compresa la scuola. C'è stato però qualcosa di più in queste sommosse, che il dettagliato rapporto pubblicato dal Guardian mette in luce. Il consumismo, il desiderio esasperato di beni di cui non ci sarebbe il bisogno, hanno segnato quelle notti di violenza; questo consumismo ha dominato la cultura dei ribelli, così come è l'elemento dominante del sistema a cui si ribellano: quei giovani non si ribellano a nessun sistema, vogliono soltanto cambiare il proprio ruolo all'interno di quel sistema. Basta leggere come Manzoni racconta la rivolta del pane nella Milano dei Seicento; è la stessa storia: è il concetto del saccheggio, evoluto in società più ricche che non hanno bisogno del pane per cui si facevano i tumulti di una volta.
Io credo che occorra fare un passo in più, anche perché quello che è successo in agosto in Gran Bretagna potrebbe presto ripetersi in qualsiasi altro paese europeo, vista l'attuale situazione di crisi e la sostanziale identità di risposte fornite dalle autorità finanziarie internazionali, con il loro pensiero unico ultraliberista. Bisogna capire qual è la condizione di strati sempre più numerosi delle nostre società, che sono più povere e soprattutto che sentono di avere minori prospettive di quelle avute dalle generazioni prima di loro.
Bisogna partire da un punto preciso. Le aspirazioni delle persone non sono una minaccia per la convivenza civile e per la democrazia, come pensano quelli che intendono quest'ultima semplicemente come il modo di costruire consenso intorno a decisioni già prese altrove e da altri, quelli che considerano i cittadini soltanto come consumatori, il cui desiderio di merci può essere indirizzato verso determinate proposte di mercato. In questo sistema le aspirazioni della maggioranza devono essere ricondotte a una ragionevole compatibilità; per costoro noi dobbiamo sempre desiderare nuove cose e quindi spendere per ottenerle, ma queste cose sono altri a decidere che sono per noi necessarie. I giovani inglesi - come in ogni altra parte del mondo - sono stati spinti a considerare il telefono cellulare, o meglio l'ultimo modello di telefono cellulare, come una necessità, qualcosa di cui non poter fare a meno, tanto da causare delle sommosse per poterlo avere. In quest'ottica è chiaro che le aspirazioni che nascono autonomamente tra gli strati più poveri della società sono vissute come una minaccia per i gruppi dominanti
Le aspirazioni non sono una minaccia, nutrono la democrazia: la capacità di desiderare un'altra condizione di vita - come ci hanno insegnato i nostri padri e le generazioni ancora precedenti - è per i poveri la premessa indispensabile per riconoscere la propria condizione, per prendere parola, per protestare e per farlo insieme, per creare sistemi mutualistici e cooperativi, per cambiare la propria vita.